
Sandro Spinsanti
CONVERSAZIONI IN FAMIGLIA
Commento sulla legge 219/2017
La medicina e la famiglia sono due grandi sistemi che tendono a funzionare autonomamente; fanno ricorso l’una all’altra solo quando si scontrano con i propri limiti. È vero che, in misura crescente, l’organizzazione sociale delle cure sanitarie ha sottratto alla famiglia questo compito, affidandolo a istituzioni a ciò deputate (ben lo avvertono i familiari dei malati ricoverati in ospedale, che sentono di essere una presenza estranea, solo tollerata entro ambiti di tempo e di spazio ben delimitati). Ma la famiglia espropriata rischia di essere investita di nuovo, e in modo pesante, del compito di cura e assistenza quando la medicina pubblica istituzionale non è più in grado di far fronte ai suoi impegni. La famiglia viene allora coinvolta per la cura dei malati cronici e per l’assistenza di malati in fase terminale.
Alla famiglia dobbiamo riconoscere solo un valore strumentale, oppure le spetta un ruolo di soggetto, con valori propri e preferenze che vanno considerate nelle decisioni cliniche? Nella pratica della medicina l’attenzione va abitualmente agli interessi del paziente interpretati in modo rigidamente individuale: la sua vita e la sua salute in primo luogo; eventualmente anche le scelte dipendenti dalla sua concezione di qualità della vita. L’individuo è per lo più considerato in uno splendido isolamento e i legami con coloro che condividono la sua vita e le sue scelte sono passati sotto silenzio, come irrilevanti. Ora, nelle altre scelte che costituiscono il tessuto quotidiano dell’esistenza non è così: non si sceglie un lavoro, e neppure una semplice vacanza, indipendentemente dal “sistema famiglia”, che ne subisce i contraccolpi. Non si capisce perché dovrebbe essere altrimenti nelle scelte che riguardano la salute e le decisioni cliniche.
Gli interessi della famiglia che richiedono di essere presi in considerazione in un processo decisionale sono solo marginalmente quelli economici. Almeno così avviene in sistemi sanitari a copertura sociale, come il nostro Ssn; è diverso il caso dei Paesi dove la copertura assicurativa è solo parziale, per cui i malati sono obbligati a tener presente le ripercussioni che una spesa sanitaria avrà sul bilancio della famiglia. I legittimi interessi della famiglia sono anche di altro profilo. Anche problemi emotivi - come l’elaborazione del distacco e la sensazione di “aver fatto tutto il possibile” - non sono irrilevanti in medicina; si deve prestar loro attenzione e tenere queste preoccupazioni nella debita considerazione.
I problemi che nascono dall’informazione e dal coinvolgimento della famiglia nelle decisioni cliniche non possono essere risolti da una formula che abbia validità universale. Non possiamo dire, semplicisticamente, che la partecipazione della famiglia e il suo consenso nelle decisioni cliniche sia un “di più” facoltativo, come lascia intendere la bioetica centrata sull’autonomia dell’individuo. Ma non si può neppure affermare che la considerazione primaria della famiglia e dei suoi interessi salvaguardi sempre le esigenze dell’etica: potrebbe essere, al contrario, uno strumento di prevaricazione del gruppo sull’individuo. Possiamo solo immaginare che i comportamenti dei sanitari, pur assimilando la cultura dei diritti individuali, non dimentichino di tenere nel debito conto il posto che hanno i legami interpersonali e le relazioni familiari. Per questo la famiglia non può esser esclusa dalla conversazione che è il cuore pulsante della moderna medicina.
Anche all’interno della famiglia o dei rapporti di intimità la mancanza di conversazione può creare malessere. Se qualcuno si sente autorizzato a mentire - anche a fin di bene – o a nascondere le informazioni, la fiducia reciproca si incrina. In questo senso riteniamo proficuo concludere le nostre considerazioni con una scena d’ospedale, dove si svolge la vicenda romanzata (ma non troppo…: alla base sta un’esperienza autobiografica) del libro di Mattia Torre: La linea verticale (Baldini Castoldi 2017). Assistiamo a una conversazione che ha il carattere dell’esemplarità, rispetto a quel modello di comunicazione tra tutti i partecipanti al processo di cura – malati, professionisti sanitari, familiari – auspicato dalla legge 219 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento.
Il protagonista, Luigi, è ricoverato. Ha avuto una diagnosi di cancro e sta attendendo di essere sottoposto a un intervento chirurgico. I medici hanno parlato anche la moglie di Luigi. Avranno detto a lei qualcosa che a lui hanno taciuto? Avranno coinvolto la moglie per mettere in scena una congiura del silenzio? Il sospetto rischia di incrinare il legame di fiducia reciproca. Ma una conversazione, essenziale e diretta, caccia via ogni nube:
Luigi apre gli occhi e vede Elena. E’ seduta, al suo fianco, e gli tiene la mano. I due si guardano un po’ senza dire nulla. Luigi tocca la mano e guarda la pancia della moglie [che è incinta], si fa forza e arriva al punto. “C’è qualcosa che tu sai e io non so?”.
“Perché me lo chiedi?”
“Me lo diresti se sapessi qualcosa che non so?”
“Tu vuoi sapere tutto? Me lo devi dire se vuoi sapere”. Elena è serena ma è un momento cruciale che aspettava da tempo, perché non è detto che un paziente voglia sapere tutto, e non è detto che non voglia; per questo, su questo, il paziente sigla un patto con chi gli sta vicino.
“Sì, credo di sì”, dice Luigi, senza guardarla.
“Io penso che sia giusto, penso che sia importante, d’ora in poi, sapere contro cosa combatti”, dice d’un tratto Elena. E gli sorride.
Luigi si fa coraggio: “Sai qualcosa che non so?”
“Non c’è niente che non sai”, dice d’un fiato Elena. E gli sorride.
“Davvero?”
“Sì”
Luigi respira. Guarda fuori dalla finestra. Elena gli prende la mano e gli fa una carezza.
Proprio così, senza enfasi, vorremmo che la conversazione aprisse gli orizzonti, coinvolgendo tutti i protagonisti sulla scena della cura.