
Sandro Spinsanti
PAROLE ONESTE PER L'ULTIMO TRATTO DI STRADA
Rivista italiana di cure palliative 2019
Istituto Giano per le Medical Humanities, Roma
Una premessa necessaria: l’onestà di cui vorremmo ornate le parole che accompagnano il percorso di fine vita non è quella contrapposta alla disonestà, bensì alla non onestà. La differenza non è di poco conto.
La disonestà, infatti, è correlata alla malevolenza ed è finalizzata a procurare un danno alla persona che ne è vittima. La non onestà che ci preoccupa è invece quella che ha a cuore il malinteso interesse di qualcuno, usa inganni e reticenze, non escluse vere e proprie menzogne; ma – appunto – “a fin di bene”!
La disonestà, nella prima accezione, può essere riscontrata nella pratica della medicina, così come in qualsiasi altro ambito della coesistenza umana. Si tratta però di eventi molto rari, clamorosi proprio perché eccezionali. Per limitarci a un solo esempio letterario, evochiamo Il dottor Glas dello scrittore svedese Hjalmar Soederberg(1). Il protagonista è insofferente delle regole etiche, nonché della stessa ricerca della verità (la sua filosofia è riconducibile al principio che non dobbiamo avvicinarci troppo ad essa, né allontanarcene in modo eccessivo; come la terra rispetto al sole: “Noi benediciamo il sole, proprio perché viviamo alla distanza da esso che ci è vantaggiosa.
Qualche milione di miglia più vicino o più lontano, e bruceremmo o geleremmo”). Il dilemma del dottor Glas si affaccia il giorno in cui una giovane signora, sposata a un anziano e odioso ministro del culto, confida al medico di non poter più sopportare l’intimità coniugale a cui il marito la costringe. Per liberarla dal peso, il medico non esiterà a ingannare il pastore: grazie
a una visita medica descritta come un capolavoro di manipolazione – parole, silenzi, manovre diagnostiche ingannevoli… – convince il paziente di essere gravemente malato di cuore e lo induce a rinunciare ai rapporti con la moglie. E quando queste manovre si dimostreranno insufficienti, non esiterà a ricorrere a inganni più radicali, con esito fatale per lo sventurato
paziente.
Fuori dall’ambito della letteratura, venendo ai nostri giorni, menzionare la disonestà di qualche medico ci rimanda a processi clamorosi e a pesanti condanne penali inflitte per avere ingannato pazienti, con interventi truffaldini, fino a procurare la morte.
La molla della disonestà non è per lo più un coinvolgimento affettivo, come per il cinico dottor Glas, ma pura ricerca di guadagno. Si tratta comunque di fatti criminali molto rari e marginali. Non è a questi che stiamo facendo riferimento. Abbiamo in mente non i professionisti disonesti – dai quali ci aspettiamo parole disoneste e ingannevoli – bensì quelli onesti. È sulla loro bocca che ci sorprendono le “parole non oneste”. Sono gli espedienti verbali con i quali si nasconde al malato la realtà della sua diagnosi e il percorso che la malattia gli riserva. È qui che si colloca la menzogna a fin di bene. Non solo ritenuta legittima, ma addirittura doverosa. Addirittura, richiesta dall’etica.
Ci aiuta a dar forma a questo atteggiamento la secca risposta del medico al figlio del paziente che incontriamo in una scena clou nel film La gatta sul tetto che scotta (1958). Quando il medico gli riferisce che al padre è stata data una diagnosi benevola e rassicurante, nascondendogli che è affetto da un carcinoma maligno e inoperabile, a propria giustificazione dichiara: “A lui ho mentito. Etica professionale”. Non solo, dunque, i professionisti della cura si ritenevano autorizzati a mentire al paziente, ma ritenevano che questo comportamento riflettesse i valori più alti di umanità e filantropia; proprio quelli promossi dall’etica.
L’atteggiamento reticente, o francamente ingannevole, ha una lunga storia nella pratica della medicina. Troviamo una sorprendente conferma là dove mai l’andremmo a cercare: un episodio riportato nelle Memorie di Giacomo Casanova(2). La vicenda riguarda le ultime fasi della vita del principe Federico e della comunicazione che ha con l’illustre paziente il dottor Algardi, medico di corte.
Il dottor Algardi era il medico che si era preso cura di lui durante la sua malattia. Il giorno precedente quello della morte di quel bello e coraggioso principe ero a cena da Veraci, poeta dell’Elettore, quando Algardi arrivò.
“Come sta il principe?” gli chiesi.
“Al povero principe restano tutt’al più ventiquattr’ore da vivere”.
“Lo sa?”.
“No, spera ancora. Ha appena causato al mio cuore un dolore atroce. Poco fa m’intimò di dirgli la verità senza la minima falsificazione e mi costrinse a dargli la mia parola d’onore che gliel’avrei detta. Mi chiese se era in assoluto pericolo di morte”.
“E voi gli avete detto la verità”.
“Nient’affatto. Non sono stato così stupido. Gli ho risposto che era verissimo che la sua malattia era mortale, ma che la natura e l’arte potevano fare ciò che volgarmente si chiama un prodigio”.
“Dunque l’avete ingannato? Avete mentito”.
“Non l’ho ingannato, perché la sua guarigione rientra tra le cose possibili. Non ho voluto togliergli la speranza. Il dovere di un medico saggio è di non ridurre mai alla disperazione il malato, poiché la disperazione non può che accelerarne la morte”.
“Eppure ammettete di aver mentito, malgrado la parola d’onore sotto la quale vi ha intimato di dirgli la verità”.
“Non ho nemmeno mentito, perché so che può guarire”.
“Allora mentite adesso?”.
“Neanche, perché morrà domani”.
“Perdio! Non c’è niente di più gesuita di tutto questo”.
“Ma quale gesuitismo? Mio primo dovere è quello di prolungare la vita al malato, per questo ho dovuto risparmiargli una notizia che non poteva che abbreviargliela, quand’anche potesse essere anche solo di poche ore; e senza menzogna gli ho detto che in fin dei conti non era impossibile. Dunque, non ho mentito, e non mento adesso, perché in forza dell’esperienza vi do il pronostico di ciò che secondo la mia previsione deve succedere. Così non mento, perché effettivamente scommetterei un milione che non se la caverà, ma non scommetterei la mia vita”.
“Avete ragione”.
Questa sofisticata apologia della menzogna che accompagna la tappa finale del percorso vitale ci colpisce perché dà per scontato che il medico possa, o addirittura debba, nascondere al malato che sta percorrendo l’ultimo tratto di strada. Emerge in un contesto non medico: nasce nell’ambito della vita di corte. La cultura del tempo giustificava questo atteggiamento
riferendosi implicitamente alla filosofia illuminista, in antitesi con le richieste religiose di un accompagnamento del morente con appropriate ritualità, che implicavano il passaggio dalla competenza del medico a quella del pastore d’anime. Nello sviluppo culturale successivo la professione medica avrebbe fatto proprio l’imperativo di protezione del morente mediante
la bugia pietosa. Relegando sullo sfondo le esigenze di consapevolezza rivendicate dalla religione, il comportamento dei sanitari si sarebbe modellato sull’imperativo di nascondere al malato le cattive notizie, in particolare quelle relative alla morte incombente. Un atteggiamento destinato a durare a lungo. Come documenta il sociologo Marzio Barbagli: Alla fine della vita.
Morire in Italia(3), il silenzio dei medici è ancora tenace. Benché si disquisisse differenziando la menzogna utile da quella dannosa, il modello paternalistico di protezione del malato è arrivato fino ai nostri giorni.
La data che simbolicamente delimita la legittimità del modello è il 1995. La nuova versione del Codice deontologico, proposta in quell’anno, stabiliva per la prima volta una regola esplicita: ogni trattamento diagnostico o terapeutico richiede un consenso, preceduto da un’informazione, del paziente stesso. La regola non escludeva i trattamenti di fine vita, anche se evidentemente in questo ambito impattava i comportamenti più restii al cambiamento. Ed è proprio in questo tratto di strada che invochiamo le parole oneste, come condizione per poter dar forma al valore dell’autodeterminazione.
Le parole oneste nell’ambito delle relazioni familiari
Lo scenario è più ampio di quello clinico in senso stretto. Una comunicazione trasparente comincia nell’ambito delle relazioni familiari. Non possiamo dimenticare che il passato prossimo delle regole deontologiche prevedeva esplicitamente la possibilità di una duplice comunicazione: una al malato e un’altra alla famiglia.
Il codice deontologico del 1978 ipotizzava che una prognosi grave o infausta potesse essere tenuta nascosta al malato, ma non alla famiglia. Lievemente diverse, ma sempre in linea, erano le norme comportamentali previste dal codice del 1989: “Il medico può valutare l’opportunità di tener nascosta al malato o di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere
comunque comunicata ai congiunti”.
Ciò fino al cambio di rotta del 1995, con un’inversione di 180 gradi. Dalla famiglia come interlocutore privilegiato del medico si è passati ai familiari completamente delegittimati a gestire le informazioni a beneficio del proprio caro. Diagnosi e prognosi, nonché scelta dell’iter terapeutico ed eventuale desistenza, sono di competenza della persona malata. Le informazioni possono essere date solo ai familiari preventivamente autorizzati dal malato stesso. Queste le regole. Ma la prassi quotidiana si è allineata ad esse? Il cambiamento culturale è molto più lento di quello delle norme, deontologiche o giuridiche che siano. Avviene che la doppia informazione sia richiesta dalla famiglia stessa, che si sente in dovere di proteggere il proprio caro da ciò che ritiene sia per lui troppo traumatizzante. I familiari possono essere intimamente convinti che il comportamento più umano da tenere nei confronti del proprio caro che sta morendo sia proprio di nascondergli la fine.
Nel regime di intimità aleggia il fantasma della bugia pietosa. Questa espropria il malato incamminato verso la morte della consapevolezza e del legittimo protagonismo nelle scelte. Una pagina molto eloquente che dà forma al sospetto che affligge il malato è quella contenuta nel racconto realistico di Mattia Torre: La linea verticale(4). Il protagonista, che deve essere sottoposto a un intervento demolitivo per un carcinoma, è stato debitamente informato dai clinici. Ma sa che la moglie ha parlato con il primario, non in sua presenza. Teme che le notizie che ha ricevuto lei siano diverse da ciò che è stato comunicato a lui, secondo la prassi della doppia verità. Avranno coinvolto la moglie per mettere in scena una congiura del silenzio? Il sospetto rischia di incrinare il legame di fiducia reciproca. Alla vigilia dell’intervento ha luogo tra la coppia il seguente scambio.
Luigi apre gli occhi e vede Elena. È seduta, al suo fianco, e gli tiene la mano. I due si guardano un po’ senza dire nulla. Luigi tocca la mano e guarda la pancia della moglie [che è incinta], si fa forza e arriva al punto. “C’è qualcosa che tu sai e io non so?”.
“Perché me lo chiedi?”.
“Me lo diresti se sapessi qualcosa che non so?”.
“Tu vuoi sapere tutto? Me lo devi dire se vuoi sapere”.
Elena è serena ma è un momento cruciale che aspettava da tempo, perché non è detto che un paziente voglia sapere tutto, e non è detto che non voglia; per questo, su questo, il paziente sigla un patto con chi gli sta vicino.
“Sì, credo di sì”, dice Luigi, senza guardarla.
“Io penso che sia giusto, penso che sia importante, d’ora
in poi, sapere contro cosa combatti”, dice d’un tratto Elena. E gli sorride.
Luigi si fa coraggio: “Sai qualcosa che non so?”.
“Non c’è niente che non sai”, dice d’un fiato Elena. E gli sorride.
“Davvero?”.
“Sì”.
Luigi respira. Guarda fuori dalla finestra. Elena gli prende la mano e gli fa una carezza.
La conversazione mette a fuoco perfettamente il bisogno di parole oneste nell’ambito dell’intimità. L’onda lunga dei comportamenti di protezione inquina ancora i rapporti con l’ombra del sospetto. Non sempre si arriva alla situazione paradossale del film Good bye Lenin (2003), in cui a una signora di Berlino est, fervente comunista, viene tenuto nascosto dai figli che nel periodo in cui lei era in coma è caduto il muro di Berlino. Le strategie di nascondimento, animate dalle migliori intenzioni, sono tuttavia ancora frequenti. Ce lo ricorda il recentissimo film di Valeria Golino: Euforia (2018), nel quale il protagonista fa di tutto per nascondere al fratello, affetto da una malattia mortale, che la sua vita sta correndo verso la fine. Non mancano familiari che riferiscono, come motivo di vanto, che il proprio caro non ha saputo fino alla fine che la sua vita si stava spegnendo. Nei racconti dei medici che assistono i morenti ricorre in modo persistente l’aneddoto di situazioni da commedia degli equivoci: i familiari raccomandano al medico di non dare al malato la diagnosi corretta, perché lui è convinto di avere una patologia curabile e sotto controllo, mentre il malato stesso, consapevole che sta andando verso la fine, chiede al medico di nascondere la cosa ai propri familiari, che a suo avviso sono convinti che la prognosi sia benevola… L’esito non è una commedia, ma un dramma, che ha nome solitudine. Per dirlo con le parole di Kathryn Mannix, tanto il morente quanto i familiari rimangono prigionieri nella “Gabbia dei Segreti Solitori”. Per non parlare dei pesanti strascichi nell’elaborazione del lutto da parte dei congiunti, per le parole non dette e il congedo non celebrato.
L’ambito clinico: il “perché” e il “come” dell’informazione
Un secondo scenario in cui sono necessarie parole oneste è quello clinico. Le parole oneste che invochiamo sono quelle che circolano tra i professionisti che erogano le cure e la persona che le riceve; nel caso specifico, il malato che viene accompagnato nell’ultimo tratto di strada. L’informazione si deve misurare con una duplice pietra di paragone: il “perché” e il “come” viene erogata. È vero che, per lo più, la menzogna paternalistica è sempre di più un raro comportamento residuale. Oggi diagnosi e prognosi vengono routinariamente comunicate; ma a che scopo? Ecco, dunque, la questione del “perché”. L’informazione ha una differente fisionomia se è fornita per permettere al malato di accedere alla consapevolezza e co-decidere il percorso
curativo/palliativo con il terapeuta (in una parola: al fine di favorire il suo empowerment), oppure per garantire al medico una posizione di sicurezza, nel caso di un eventuale contenzioso, nello spirito della medicina difensiva (ovvero: paziente informato, medico salvato).
La finalità dell’informazione incide sul “come”. Una comunicazione burocratica (per posta, al telefono, di passaggio in un corridoio dell’ospedale, ecc.), senza attenzione alle emozioni della persona malata, può costituire una vera e propria violenza. È questa la misura dell’onestà delle parole che circolano nelle cure di fine vita. Anche informazioni accurate dal punto di vista della scienza medica – soprattutto se ridotte a statistiche di sopravvivenza, percentuali di effetti indesiderati, ecc. – possono essere vistosamente carenti dal punto di vista dell’onestà auspicata. Se ne allontana tanto la benevola pacca sulle spalle, assicurando che andrà tutto bene, quanto una malintesa informazione esauriente, che ha la connotazione della brutalità. Sia l’una che l’altra si collocano in antitesi alle parole oneste in ambito clinico.
In primo luogo, l’informazione deve essere commisurata alla domanda della persona malata e alla sua capacità di metabolizzarla. È quanto dire che le parole oneste sono quelle che presuppongono un ascolto, prima di un’informazione, e nascono nel contesto di una conversazione. Il modello di “medicina narrativa” fatto proprio dalla conferenza di consenso promossa dall’Istituto Superiore di Sanità – “La narrazione è lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura. Il fine è la costruzione di un percorso di cura personalizzato”(6) – si applica a ogni aspetto della cura, ma soprattutto alle cure di fine vita. Senza parole oneste, è utopistico poter morire in braccio alle Grazie!
L’ambito del rapporto tra cittadini e servizi sanitari
C’è un terzo ambito in cui abbiamo bisogno di parole oneste per accompagnare le cure di fine vita: quello del rapporto tra i cittadini e i gestori dei servizi sanitari. La mancanza di onestà qui si nasconde dietro le parole che millantano servizi che di fatto latitano. Sono le promesse contenute implicitamente nell’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Anche se la rassicurazione con cui è stato reclamizzato alle origini il National Health Service inglese, antesignano del nostro, “Dalla culla alla tomba ci pensa lo Stato”, non è stata presa alla lettera in casa nostra, la sostanza è la stessa. Siamo invitati ad affidarci aiservizi sanitari pubblici nelle nostre necessità di cura e assistenza, perché la solidarietà organizzata è l’espressione di un diritto riconosciuto. La recente celebrazione di 40 anni del SSN ha enfatizzato primati ed eccellenze; ma è realmente così? Davvero chi deve affrontare un percorso di cura, specialmente quello gravosissimo collegato con la perdita di autonomia e il carico ingente che viene riversato sulle spalle delle famiglie, può contare su risorse messe a disposizione dallo Stato mediante i suoi servizi, in base al bisogno e non al reddito?
Qualche provocazione arriva, di tanto in tanto, a rimettere in discussione certezze illusorie. A Napoli è andata in scena in piazza una dimostrazione organizzata da disabili che si sentono abbandonati dai servizi pubblici. Proclamando: “la politica ci condanna a morte”, hanno esibito spettacolari esecuzioni con una simbolica ghigliottina. La provocazione più estrema è di natura letteraria. L’ha immaginata lo scrittore Petros Markaris nel romanzo: L’esattore(7). È ambientato al tempo della crisi finanziaria greca, che si è abbattuta pesantemente sulla parte più povera e meno tutelata del paese. Immagina che l’ispettore di polizia protagonista sia chiamato a risolvere un caso singolare: quattro donne anziane si sono uccise in unappartamento, lasciando il seguente biglietto:
Siamo quattro pensionate, sole. Non abbiamo figli, né cani. Prima ci hanno ridotto le pensioni, la nostra unica entrata. Poi avevamo bisogno di un dottore per farci prescrivere le medicine, ma i dottori erano in sciopero. Quando, finalmente, siamo riuscite ad avere la prescrizione, in farmacia ci hanno detto che non danno le medicine perché la mutua è in debito e quindi avremmo dovuto pagarcele con le nostre pensioni ridotte. Allora abbiamo capito che siamo di peso allo Stato, ai medici, ai farmacisti e a tutta la società. Quindi ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Risparmierete sulle nostre quattro pensioni e vivrete meglio.
Senza giungere agli estremi di queste provocazioni, sentiamo però aleggiare sui servizi teoreticamente garantiti dall’organizzazione pubblica le parole false di un’assistenza universale senza fondamento. Lo stato di salute del nostro welfare state in epoca di “spending review” è molto precario, tanto da farci dubitare che esista ancora un SSN unico e universalistico. Il sistema pubblico è di fatto affiancato da una rete di servizi sanitari privati, che si pagano “out of pocket”: quindi disponibili solo a chi ha un reddito più elevato.
La conoscenza attendibile e onesta delle risorse realmente disponibili è indispensabile per permettere alle persone di fare scelte responsabili, decidendo il proprio percorso di fine vita. Pensiamo – per essere concreti – alle scelte che si trova ad affrontare una persona con una patologia neurodegenerativa, per esempio una SLA. Ha davanti un cammino problematico:
può sopravvivere, anche a lungo, con interventi appropriati, come la tracheotomia e la ventilazione meccanica, quando il progredire della patologia compromette le facoltà respiratorie. Ma una decisione consapevole e ponderata ha bisogno di fondarsi non solo su un bilanciamento tra quantità e qualità della vita (sappiamo che ci sono persone non disposte a una sopravvivenza in condizioni che ritengono inconciliabili con la propria considerazione di una vita accettabile), ma anche su una valutazione dell’impatto che il percorso di cura avrà sul proprio sistema familiare.
È un fatto: le risorse a disposizione – servizi domiciliari, intesi in numero di accessi di operatori e di ore di servizio, presidi tecnologici garantiti, ecc. – non sono omogenee nel territorio nazionale: variano da regione e regione, e non di rado da un’azienda sanitaria all’altra. Il rischio concreto è che il peso dell’assistenza ricada sulla famiglia, sconvolgendo equilibri e monopolizzando risorse, sia economiche che di energie vitali. Non è inconcepibile che qualche persona rinunci a misure che pur prolungherebbero la propria vita, quando questo avvenisse drenando risorse, non solo economiche ma di vita stessa, dalla propria famiglia. Per prendere le nostre decisioni abbiamo bisogno di sapere, in modo trasparente e affidabile, se le cure palliative – che la legge 38/2010 ci assicura essere un nostro diritto – ci verranno effettivamente assicurate dal SSN. Sono un diritto solo proclamato o concretamente rivendicabile?
Le parole oneste che invochiamo sono quelle che mettono in grado le persone di decidere il percorso di fine vita in modo responsabile. I tre ambiti che abbiamo evocato non sono separati: si sovrappongono e si condizionano reciprocamente. È necessaria una conversazione aperta nell’ambito dell’intimità affettiva e dei rapporti familiari: che cosa è compatibile con il progetto di vita personale e che cosa non lo è, quante e quali energie sono disponibili nell’accompagnamento, a chi ci affidiamo in caso di incapacità di decidere, affinché scelga per noi. È ugualmente richiesta una conversazione onesta in ambito clinico: con professionisti sanitari che si sintonizzino con la biografia della persona malata, che raccolgano le preferenze che illustrino vantaggi e rischi delle terapie proponibili, che garantiscano l’accompagnamento che nasce dal progetto di cure palliative. Senza dimenticare un’informazione esplicita e attendibile riguardo
alle risorse che provengono dalla solidarietà organizzata e dei percorsi di fine vita che ci garantiscono. Per essere protagonisti consapevoli e responsabili del profilo che assumerà la nostra vita nella sua fase conclusiva la principale risorsa di cui abbiamo bisogno sono parole oneste da parte di tutti coloro che avranno il compito di accompagnarci.
Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.
Bibliografia
1. Soederberg H. Il dottor Glas. tr. it. Milano: Giano ed., 2004.
2. Casanova G. Storia della mia vita. Roma: Newton Compton,
1999.
3. Barbagli M. Alla fine della vita. Morire in Italia. Bologna:
Il Mulino, 2018.
4. Torre M. La linea verticale. Milano: Baldini Castoldi, 2017.
5. Mannix K. La notte non fa paura. Riflessioni sulla morte
come parte della vita. Milano: Corbaccio, 2018.
6. ISS. Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa
in ambito clinico-assistenziale, 2014.
7. Markaris P. L’esattore. tr. it. Milano: Bompiani, 2011.