Percorso intellettuale
BIOETICA: UN BILANCIO PERSONALE
Gli inizi, sotto il segno dell’ambiguità
Sono entrato nella bioetica per la porta di servizio. Come tutti i cultori della prima ora, del resto. Per la buona ragione che non esisteva un ingresso ufficiale, sotto la targa “Bioetica”. Me ne sono reso conto collaborando a un progetto realizzato in Piemonte, non molto tempo fa. L’obiettivo del progetto, denominato “Etica nella mission dell’Azienda Sanitaria”, era quello di favorire un confronto tra coloro che nell’ambito della sanità regionale avevano l’etica come specifica attività professionale: come docenti nei corsi universitari per medici, infermieri e altri professionisti sanitari, come componenti di comitati etici, come insegnanti nella formazione continua degli operatori sanitari. In breve, chiunque venisse pagato per fare etica. L’inventario di persone con questo profilo di competenza forniva una ottantina di nominativi nella Regione. Mediante un questionario è stato chiesto loro attraverso quale itinerario si fossero formati. I percorsi risultavano molto vari: corsi universitari, master, seminari specialistici… Tutti potevano addurre un curriculum che, pur differenziato nei percorsi, si era svolto all’insegna esplicita della bioetica. Erano in grado dire, a chi li interrogava, che in futuro avrebbero fatto i bioeticisti, ovvero avrebbero avuto la bioetica come lavoro.
I cultori della disciplina della prima generazione, invece, si sono dovuti inventare la qualifica, prima ancora del lavoro. Nessuno ha conferito loro ufficialmente il titolo di bioeticisti, ma si sono da soli proclamati tali: non era richiesto un curriculum, non esisteva una formazione standard. Questa era la situazione a livello internazionale. L’avvio imprevedibile del movimento della bioetica risalta dalle biografie di coloro che sarebbero diventati i bioeticisti di riferimento. Agli inizi degli anni ’90 ho intrapreso una ricognizione per ricostruire il percorso culturale di 25 bioeticisti riconosciuti come tali in ambito internazionale. In pratica, i fondatori della disciplina: da Van Rensselaer Potter a Daniel Callahan, da Warren Reich a Diego Gracia, da Edmund Pellegrino a Peter Singer, da Albert Jonsen a Tristam Engelhardt… 1. I pionieri della bioetica non hanno trovato la disciplina bell’e fatta, ma hanno dovuto crearla. Non dal nulla, s’intende. Gli studiosi degli inizi hanno trasformato l’etica medica tradizionale, la deontologia delle professioni sanitarie, la base fornita dalle costruzioni concettuali delle morali religiose e dai sistemi etici teorizzati dalla filosofia morale. I primi bioeticisti erano all’origine inquadrati in discipline come la filosofia, la teologia, il diritto, la storia della medicina, la medicina legale, la psicologia, l’antropologia culturale. Alcuni esercitavano la professione di medico o di infermiere. La bioetica si è formata perché gli studiosi si sono mossi dalla loro nicchia culturale e sono diventati altra cosa rispetto a ciò che erano per formazione e per collocazione accademica.
Fatte tutte le debite proporzioni, mi riconosco in questo schema. Il mio cammino nella bioetica è cominciato con l’insegnamento dell’“Etica medica” nella Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica del S. Cuore (Roma). Per un decennio, dal 1976 al 1985, ho avuto l’incarico di insegnare l’etica agli studenti del terzo anno di corso e dal 1979 al 1985, contemporaneamente, ho offerto un corso di “Antropologia cristiana” agli studenti del secondo anno. I corsi facevano parte obbligatoriamente del curriculum formativo dei futuri medici ed erano coerenti con l’impianto confessionale di quella Università. L’intento dei corsi ― completati da una “Introduzione al cristianesimo” nel primo anno ― era quello di fornire una visione compatta e coerente della professione medica dal punto di vista religioso-confessionale: dal ruolo della religione nella vita personale e nella società alle categorie antropologiche con cui pensare l’esistenza umana (corpo/anima, vita/morte, malattia/guarigione…); e naturalmente trasmettere i parametri che delimitano ciò che è moralmente accettabile per un medico cattolico. Come contestualizzazione sociale, ricordiamo che erano gli anni del dibattito in Italia sulla legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza, dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e della riforma delle istituzioni psichiatriche: tutti temi caldi, che portavano il mondo cattolico a schierarsi in difesa della propria visione antropologica ed etica. L’Università si proponeva di formare non solo buoni medici, ma buoni medici cattolici.
La mia formazione era quella teologica, con specializzazione in teologia morale. Si era conclusa con una tesi di laurea sull’etica cristiana della malattia 2, che raccoglieva e dava voce al malessere nei confronti di una concezione oppressiva che si può sintetizzare nel termine “dolorismo”, ovvero l’esaltazione del dolore come via di salvezza e di progresso spirituale (in ambito ecclesiale prevaleva la concezione della malattia diffusa dall’associazione “Volontari della sofferenza”). Mediante l’insegnamento dell’antropologia cristiana e dell’etica medica l’Università Cattolica si aspettava che ai medici in formazione venissero offerti contenuti culturali in assoluta coerenza con l’ideologia iscritta sul frontone dell’Università. Quando, dalla fine degli anni ’70, cominciò a circolare il neologismo “bioetica”, dall’ufficio pastorale della Facoltà di Medicina non tardarono a giungere ammonimenti: ciò che si doveva promuovere era la “pastorale sanitaria”, evitando prospettive destabilizzanti rispetto a quanto un cattolico doveva pensare e praticare nella professione medica! Il seguito della storia dimostra che la pastorale sanitaria poteva anche essere promossa sotto l’etichetta della bioetica…
I volumi “Bioetica” e “Antropologia cristiana” 3 4, che raccolgono i contenuti delle lezioni tenute nei due corsi, documentano la divaricazione tra le attese istituzionali e le piste di riflessione che mi sentivo in obbligo di offrire agli studenti. Era chiaro che le strade non potevano che divaricare. A mio avviso, non solo l’approccio confessionale non poteva essere compresso in un corso di etica medica, ma ciò che il movimento internazionale della bioetica aveva colto e messo in agenda era precisamente la rimessa in discussione dell’approccio tradizionale. Il cambiamento auspicato non era un semplice aggiornamento dell’etica medica: la categoria fondamentale era quella della rivoluzione, non dell’evoluzione 5.
Fino alle ultime decadi del XX secolo l’etica medica era ancora sostanzialmente uguale a quella che era stata tramandata dai secoli precedenti. La transizione è stata vissuta in presa diretta dalla maggior parte dei professionisti e dei cittadini che erano adulti allo spirare del XX sec.: dall’etica medica, veicolata dalla tradizione ippocratica, siamo passati a un altro sistema di regole con cui valutare la qualità morale dei comportamenti messi in atto nelle relazioni di cura. Il cambiamento del nome ― dall’etica medica alla bioetica, appunto ― era pienamente giustificato dal rivoluzionamento delle regole.
La dissonanza con il mandato che l’Università affidava a chi fosse incaricato di insegnare l’etica medica non poteva portare che a una risoluzione del rapporto: non ero più né un teologo che trasmette i valori religiosi dell’istituzione di appartenenza, né un docente di etica medica in senso tradizionale.
La bioetica in Toscana
Il mio distacco dall’Università Cattolica è stato favorito dall’apertura verso la bioetica da parte della Facoltà di Medicina dell’Università di Firenze. Dal 1983 ho avuto un insegnamento a contratto denominato esplicitamente “Bioetica”, incarico che ho ricoperto fino al 1991. Il Preside della Facoltà, prof. Ugo Teodori, aveva individuato le possibilità di innovazione dell’etica medica tradizionale promosse dal movimento internazionale della bioetica e aveva voluto proporla, come corso facoltativo, agli studenti della sua Università. Allo stesso tempo si impegnò perché fosse creata una cattedra con questo titolo anche nel sistema universitario statale, dove era assente.
La Toscana si è rivelata un terreno di elezione per la bioetica. Dalle aule universitarie, dove si formano i professionisti del futuro, la disciplina è passata in mano ai professionisti che già praticano la medicina, come strumento privilegiato per la formazione continua. Nel gennaio 1990 partiva un corso pilota di bioetica per il personale del SSN, promosso dalla Regione, dall’Ordine dei Medici di Firenze e dalla Facoltà di Medicina. Nei due volumi che raccolgono i materiali prodotti dalle iniziative formative sponsorizzate dalla Regione 6 7 si ritrovano le voci dei principali studiosi che, da ambiti disciplinari diversi, si sono tempestivamente resi disponibili a dialogare con la bioetica: Luigi Lombardi Vallauri, Mauro Barni, Alberto Malliani, Felice Mondella, Renato Boeri…
Sempre per iniziativa della Regione Toscana, negli anni ’90 la bioetica ha potuto tradursi in istituzioni esemplari, come la creazione della Commissione regionale di bioetica. È stata istituita nel 1992, quale “organo consultivo multidisciplinare per le tematiche deontologiche, giuridiche ed etiche inerenti le attività sanitarie e la ricerca biomedica applicata alla persona umana”. Il primo documento proposto dalla Commissione riguardava le procedure di consenso informato nei trattamenti sanitari (1994). Il documento è stato portato alla conoscenza dei professionisti attraverso una serie di incontri mirati, focalizzati sul cambiamento delle regole tradizionali dell’etica medica. Successivamente,oltre a pareri su tematiche socialmente delicate ― come le mutilazioni genitali femminili e le medicine non convenzionali ― la Commissione ha licenziato nel 2002 delle “Linee guida per l’informazione e il consenso agli interventi di procreazione medicalmente assistita”, prima quindi che i comportamenti in questo ambito fossero regolati a livello nazionale con la legge 40/2004. La sequenza temporale dimostra che lo slogan del “far west della procreazione assistita” con cui è stata promossa, come rimedio, la legge fosse inappropriato. Per tacere delle regole presenti nel Codice deontologico dei medici già fin dalla versione del 1995, organismi sensibili come la Commissione toscana avevano già sensibilizzato gli operatori e proposto dei paletti etici.
Un altro ambito in cui la Toscana ha svolto un ruolo pilota è stata la creazione di una rete capillare di comitati etici locali. Il mandato affidato loro dalla Regione era di “fornire alle Aziende, agli operatori e ai cittadini pareri motivati sugli aspetti etici, deontologici e giuridici delle diverse pratiche cliniche”. Gli organismi regionali raccoglievano così il bisogno di un approccio diverso alle questioni etiche rispetto sia a quello autoreferenziale proprio dei professionisti medici, sia a quello ideologico caratteristico delle istituzioni religiose. I comitati etici costituivano una novità nel metodo, prima che nel contenuto dell’etica.
L’Italia non conosceva questi organismi. Lo ha messo bene in evidenza uno dei primi incontri di ampiezza internazionale sul tema svoltosi a Milano nel maggio 1986, per iniziativa dell’ordine religioso ospedaliero dei Fatebenefratelli e del Centro Internazionale Studi Famiglia 8. Come osservava il senatore Adriano Bompiani nel corso del convegno, la disattenzione in Italia verso questi organismi era da attribuire all’atteggiamento di fondo dei medici: ”Gran parte della tematica considerata dai comitati di etica è ritenuta strettamente legata alla deontologia professionale, insegnata agli studenti nei corsi di medicina legale e tradotta in ‘codici deontologici’ resi vincolanti per gli iscritti ai vari albi professionali: per questo motivo i più non ritengono necessaria l’attivazione di comitati di etica, ma piuttosto sostengono l’ossequio alle norme proposte dai codici deontologici”. La pratica assenza in Italia di tali istituzioni è stata supplita dalla presenza di studiosi americani ed europei, chiamati a confrontare le loro esperienze. Si profilava così la possibilità di organismi diversi sia rispetto alle commissioni alle quali era affidata la regolamentazione delle ricerca clinica, sia dai comitati nazionali, come quelli americani ― la National Commission (1974-1978) e la Presidential Commission (1980-1983) ― chiamate a dar voce alla “coscienza etica” del proprio Paese. I comitati che si andavano formando negli ospedali avevano finalità di consulenza nelle situazioni conflittuali dal punto di vista etico che si originano nella pratica clinica. Presuppongono la crisi della “ragione medica pratica”, che era solita affrontare le perplessità “in scienza e coscienza”. Lo scopo della riflessione che si svolge in questo tipo di comitati è di introdurre il giudizio etico nel giudizio clinico. Ma senza “fare la morale” ai sanitari: ogni progetto di moralizzazione suscita nei professionisti, come reazione, un atteggiamento di rifiuto o di banalizzazione dell’istanza etica. Come concludeva il simposio di Milano, i comitati etici si sarebbero affermati se fossero stati concepiti con i medici, non contro di loro.
Questa è stata, in sintesi, la sfida raccolta dalla Toscana. Fin dall’inizio degli anni ’90 una rete di comitati etici, denominati “Comitati di etica professionale”, ha coperto il tessuto regionale, promuovendo la partecipazione attiva di professionisti con competenze diverse. L’iniziativa della Regione era stata anticipata, fin dal 1987, dal progetto di quattro pediatrie di costituire un “Comitato di etica per gli ospedali pediatrici dell’area fiorentina”. Il Comitato ha lavorato per anni,sviluppando una metodologia per l’analisi di casi clinici problematici che determinano gravi conflitti morali all’operatore, tra gruppi di operatori e tra operatori e famiglia del bambino.
Questo, almeno, è stato il percorso fino al 1998, quando il decreto legislativo che istituiva i comitati etici per la sperimentazione dei farmaci ha sconvolto la rete esistente e ha modificato lamission dei comitati etici. Qualcuno ha proposto, come bilancio, la fine di un’esperienza promettente: i comitati etici in Toscana sarebbero morti per intossicazione da farmaci…!
Bioetica e formazione continua
La maggior parte della mia vita professionale nella bioetica è stata dedicata all’attività di formazione, in particolare nella formazione continua. Anche in questo ambito la regione Toscana è stata un’apripista. Dopo un corso pilota tenuto a Montecatini (gennaio-giugno 1990), la Regione ha deliberato una seconda fase del progetto, nella convinzione che non si potessero istituire dei comitati per l’etica senza previa formazione delle persone che avrebbero dovuto costituirli. Negli anni 1991-1993 un totale di circa 350 operatori sanitari hanno partecipati ai 10 corsi programmati. Tra i docenti di questi corsi mi è caro segnalare il contributo prezioso dello storico della scienza Paolo Rossi, anch’egli tempestivo nel cogliere la portata innovativa della bioetica. La partecipazione era su base volontaristica, non obbligatoria. Tuttavia, anche se in forma ridotta, l’apporto di questi corsi è stato determinante per far circolare nelle realtà sanitarie della Regione la percezione del necessario cambiamento di regole comportamentali proposto dalla bioetica.
Una ricerca interessante, condotta nel contesto di tali corsi, ha permesso di vedere, con gli strumenti offerti dall’antropologia, il cambiamento culturale in corso e l’apporto della nuova disciplina per orientare i comportamenti. La ricerca, condotta da un’antropologa culturale e da un epidemiologo intervistando i sanitari che partecipavano ai corsi 9, portava a concludere che nel territorio regionale erano presenti due diverse “narrazioni culturali” relative a ciò che va comunicato ai pazienti oncologici: la narrazione di “protezione sociale” prescriveva la non comunicazione al malato, il coinvolgimento sostitutivo dei familiari, la tutela del malato da informazioni potenzialmente dannose, ritenute crudeli e non necessarie; la narrazione “autonomia-controllo”, invece, privilegiava il diritto del soggetto a conoscere la diagnosi e le alternative terapeutiche, nonché ad affrontare il pericolo attraverso l’azione preventiva e il trasferimento di informazioni, piuttosto che attraverso l’affidamento passivo. La ricerca faceva così emergere che la linea di divisione tra le diverse prospettive etiche era trasversale agli orientamenti confessionali: la necessità di rimettere in discussione i comportamenti promossi dall’etica medica tradizionale era ormai inevitabile. La polarizzazione su due diversi modelli di gestione delle informazioni poteva a buon diritto eccedere la diagnosi di cancro ed essere generalizzata a tutta la pratica medica.
L’accento sui diritti della persona anche in ambito sanitario ha costituito la spina dorsale del movimento della bioetica, fortemente orientato a promuovere il principio dell’autodeterminazione. Nel mio percorso intellettuale sono stato sensibilizzato al tema del soggetto dalla “Medicina antropologica” di Viktor von Weizsaecker 10.Neurologo, psicanalista e filosofo, von Weizsaecker (1886–1957) ha sintetizzato la sua proposta di correggere il riduzionismo della medicina scientifica della prima metà del XX sec. mediante l’“introduzione del soggetto” in medicina. Illuminata dal soggetto, a suo avviso la malattia rivela un significato più profondo che sfugge all’occhio del medico: “La malattia dell’uomo non è il guasto di una macchina, bensì lui stesso; o meglio, la sua possibilità di diventare se stesso”. Questo progetto portava von Weizsaecker a tentare di estendere l’approccio di Freud e della psicanalisi oltre la malattie psichiche, fino a quelle somatiche, gettando un ponte tra le scienze della natura e le scienze dell’uomo.
Grazie alla bioetica, l’introduzione del soggetto in medicina mi è apparso progressivamente sotto altra luce. Riconosco che è stato determinante l’adesione al progetto culturale del Movimento Federativo Democratico, che si batteva per i diritti del malato. Il Movimento si è affacciato sulla ribalta pubblica con la creazione del Tribunale per i diritti del malato e la proclamazione dei “33 diritti del cittadino” in Campidoglio, a Roma, il 29 giugno 1980, con il titolo programmatico: ”Da malato a cittadino: contro l’emarginazione, per la gestione popolare delle strutture sanitarie”. Da paziente a cittadino: lo slogan condensa l’attività del movimento civile che si schierava polemicamente contro le procedure terapeutiche (a cominciare dalla “pigiamizzazione”…) alle quali viene sottoposto il malato e che si risolvono in un’opera di devastazione della sua identità. La bioetica era remotamente all’orizzonte, ma l’agenda del Tribunale per i diritti del malato non aveva colto il rivoluzionamento implicato dal principio dell’autodeterminazione del soggetto.
È interessante notare che nel lungo elenco dei diritti rivendicati dal manifesto del 1980 (diritto a essere assistiti da personale sanitario identificabile, munito di cartellino leggibile; a usufruire durante la degenza di lenzuola, cuscini, posate; di disporre di servizi igienici puliti; di vivere la giornata di degenza secondo gli orari medi della vita civile…) un’attenzione relativamente modesta veniva riservata alla partecipazione attiva della persona malata alle decisioni cliniche. L’art. 28 si limitava a parlare di un diritto ad avere inserita nella cartella clinica “una scheda dove siano illustrati in termini chiari e comprensibili, e con testo obbligatoriamente dattiloscritto, la diagnosi e la terapia in corso, nonché la previsioni circa la durata del ricovero e le eventuali possibilità di guarigione”.
Il confronto con movimenti che andavano prendendo consistenza in quegli stessi anni in altri ambiti culturali rivela che ovunque l’informazione veniva identificata come lo strumento principale per promuovere l’empowerment del cittadino malato. Per esempio, l’Associazione dei pazienti della Svizzera italiana presentava la propria attività non sotto l’immagine di un tribunale che tutela chi è costretto a subire maltrattamenti, ma come una struttura che può fornire consigli quando sorgono interrogativi, quali:”Ho diritto di vedere la mia cartella medica? A chi appartengono i risultati delle analisi e le radiografie? Quali informazioni devono essere date al paziente sul suo stato di salute e sulla cura che deve seguire? E ai suoi familiari? C’è libertà di scelta della terapia?”.
Era proprio questo il contenuto dei corsi di formazione continua che era necessario introdurre per i professionisti sanitari già in attività. Si trattava di spostare il centro di gravità dal medico ― le sue conoscenze, la sua competenza, la sua autorità, e anche il suo orientamento morale a fare per il malato ciò che riteneva possibile e necessario per il suo bene ― a una relazione, in cui il malato era autorizzato a intervenire con i suoi valori e la sua concezione della qualità della cura 11. L’“introduzione del soggetto in medicina” non aveva connotazioni metafisiche, ma concretamente operative. Implicava ascolto, informazione, negoziazione, acquisizione del consenso.
La riflessione bioetica ha avuto l’indubbio merito di focalizzare l’introduzione del soggetto in medicina sui diritti di informazione e sull’obbligo da parte del sanitario di ottenere il consenso. Se poi tutto questo è stato tradotto in formali procedure burocratiche, che hanno ulteriormente impoverito il rapporto tra medico e paziente, non è imputabile alla bioetica. È piuttosto l’indicatore del fallimento di uno dei principali obiettivi del movimento.
L’impegno principale nell’ambito della formazione continua è stato dedicato a individuare un metodo efficace, che suscitasse il consenso dei professionisti coinvolti. L’approccio che privilegiato è stato quello basato sull’analisi di casi clinici. Rispetto a considerazioni di tipo teorico o filosofico-storico, risulta più valorizzata la prassi degli operatori sanitari, che possono riconoscersi nelle loro perplessità decisionali quotidiane. L’analisi utilizza tre modelli etici (e ideal-tipici) che caratterizzanotre stagioni dell’etica in medicina: una premoderna (praticamente identificata con la tradizione ippocratica), una moderna (promossa dal movimento della bioetica) e una post-moderna (che in Italia ha preso l’avvio con i progetti di riforma del Servizio Sanitario Nazionale). Nella bimillenariaepoca pre-moderna tutto quello che il malato aveva da fare era di diventare paziente in tutti i significati del termine. Il principio di beneficio da procurare al paziente era considerato il criterio unico per valutare la qualità della prestazione sanitaria. Nell’epoca moderna, promossa dalla bioetica, il criterio del beneficio procurato al malato non basta: questi va considerato come soggetto da coinvolgere attivamente mediante l’informazione, il consenso e la partecipazione attiva nel determinare la qualità della vita che ritiene auspicabile. Il cittadino è quindi, in definitiva, convocato a decidere insieme al medico i limiti della medicina. L’etica che nasce nell’epoca postmoderna dell’organizzazione sanitaria sposta ulteriormente il proprio centro di gravità. Il paziente non è più un malato obbediente, non è solo un partecipante informato, ma è unutilizzatore di risorse, tecniche e umane, che deve essere soddisfatto nei suoi bisogni e nelle sue giuste esigenze. Il principio-guida del rapporto di cura non è più la beneficialità, non è solo l’autonomia, ma è anche la giustizia.
La riflessione sulle stagioni dell’etica in medicina introduce a una metodologia di cura finalizzata all’applicazione di uno schema innovativo di elaborazione delle osservazioni cliniche e assistenziali, al fine di valutare e prendere decisioni tali da configurare un comportamento obbligato (per legge, per deontologia professionale, per regolamenti e normative aziendali, ecc.), un comportamento eticamente giustificabile (allineato sulla difesa del “minimo morale”, evitando ciò che nuoce o danneggia il paziente: principio di non maleficità; o opponendosi a discriminazioni ed ingiustizie: principio di giustizia e orientato verso la promozione di un “massimo morale”, valutato con i criteri della beneficità e dell’autonomia). L’etica dell’organizzazione fa emergere anche la necessità di confrontarsi con il comportamento eccellente. Questo è il risultato di coordinate che possono essere raggiunte attraverso il ricorso a quello che Spinsanti ha ideato e definito come “quadrilatero della soddisfazione”, in modo che tutte le persone coinvolte nel trattamento (professionisti, pazienti, familiari, autorità sanitarie) raggiungano la situazione della “giusta soddisfazione”, evitando tanto l’”ingiusta soddisfazione” quanto la “giusta insoddisfazione”12.
La bioetica: da movimento a istituzione
Passando il testimone a una nuova generazione di bioeticisti, siamo consapevoli che dobbiamo affrontare una transizione importante. È necessario dichiarare concluso il periodo selvaggio degli inizi ― o, se si preferisce, il periodo dello spontaneismo creativo ― durante il quale gli studiosi si sono autoproclamati bioeticisti. Ci troviamo ora nella tipica fase di transizione, quando un movimento diventa istituzione. Questa comporta, a mio avviso quattro cambiamenti molto rilevanti, che combinati insieme ci portano a proclamare una “emergenza” dell’etica in sanità.
La prima “emergenza”, in senso letterale, è il passaggio dall’implicito all’esplicito. Ovvero: fino a non molto tempo fa, l’etica ovviamente era presente nella pratica della medicina, ma era implicita nella formazione del professionista, tanto che i medici ― e in modo analogo gli infermieri ― non avevano degli insegnamenti formali in questo ambito: imparavano le regole etiche all’interno del processo con cui venivano socializzati nella professione stessa. L’esperto di etica, insieme ai giuristi e agli avvocati, figurava tra gli “estranei” al letto del malato, perché l’etica era presente, ma non in maniera esplicita: era una dimensione della professionalità di coloro che esercitavano la medicina. Il primo movimento è quindi il passaggio dall’implicito all’esplicito. Il sapere relativo all’etica non è incluso in altre competenze professionali: può e deve essere nominato in quanto tale. Non ci si può limitare a veicolarlo attraverso il processo generale di professionalizzazione.
Un secondo elemento del cambiamento in corso è quello che potremmo chiamare il passaggio dalla vocazione alla professione. Sullo sfondo di questa transizione abbiamo le due celebri conferenze tenute da Max Weber nell’anno 1919: “La scienza come professione” e “La politica come professione”. Ai nostri giorni dovremmo aggiornare la prospettiva, parlando dell’ “etica come professione”. Noi abbiamo lo svantaggio di non poter giocare su due termini che in tedesco invece sono molto chiari e ci aiutano a capire il cambiamento, in quanto due parole con la stessa radice designano due diversi scenari. Perché la vocazione (per esempio, la vocazione religiosa) in tedesco è la “Berufung” mentre la professione è il “Beruf”. Quindi, dalla “Berufung” al“Beruf”. Cioè dalla vocazione intesa come una inclinazione personale, come un orientamento interore a un’attività intellettuale, identificandosi con quella attività, a un “Beruf”, cioè un esercizio professionale. Alla base della professione sta una divisione di compiti che Max Weber, come sappiamo, ha identificato come caratteristica della modernità, ovvero la divisione razionale del lavoro.
Il terzo scenario dell’emergenza dell’etica in sanità può essere descritto come il passaggio della facoltatività e dall’autodesignazione all’obbligatorietà. Chi ha partecipato alla formazione in etica che si è svolta nel periodo eroico degli inizi? Coloro che sentivano una personale inclinazione per scelta personale. Oggi, invece, ci rendiamo conto che l’etica deve essere obbligatoria nella formazione: non può più essere considerato un optional. Deve essere prevista sia nella formazione di base, sia nella educazione continua. Una buona Azienda sanitaria, una volta che assume dei nuovi professionisti, dovrebbe confrontarli, formalmente ed esplicitamente, con le regole etiche che costituiscono il profilo distintivo dell’Azienda stessa.
Un quarto elemento costitutivo del cambiamento è il passaggio dalla “missionarietà” allamission. Non è un gioco di parole: se per missionarietà indichiamo quelle scelte con cui le persone si identificano per preferenze personali, la mission è un’altra cosa. La mission di una Azienda è la sua stessa ragione di essere, ciò che è chiamata a realizzare. Ora, le Aziende Sanitarie, il cui obiettivo è di erogare servizi alla salute, sono tenute a esplicitare le regole alle quali i professionisti si attengono, e che quindi definiscono ciò che intendiamo oggi per “buona medicina”. Queste regole non vigono soltanto nei casi estremi, quando si procede a una fecondazione medicalmente assistita, o quando si deve decidere se attivare o non attivare un presidio salva-vita. Le “regole del gioco” sono fondamentali anche nella più elementare quotidianità.
Per andare sul concreto: l’informazione del paziente, il consenso, il coinvolgimento della persona nelle scelte: queste regole che riguardano come si deve fare oggi buona medicina non possono essere un optional. Non possiamo accettare che un medico rianimi tutti i pazienti, anche quelli che stanno morendo, perché così si sente più tranquillo dal punto di vista medico-legale, anche se risulta che il paziente aveva precedentemente escluso quell’intervento rianimativo, mentre altri medici si ritengono obbligati a rispettare la volontà del paziente. Né possiamo avallare comportamenti difformi tra i sanitari, così che qualcuno informa i pazienti su diagnosi e prognosi, mentre altri si sentono autorizzati a mentire al paziente e a informare invece i familiari. Qualche sanitario si preoccupa di raccogliere in precedenza le volontà del paziente, in funzione di decisioni future, qualche altro invece non ritiene suo dovere prevedere e accompagnare il percorso del paziente nella malattia. Ci devono essere regole comuni e condivise.
Quando parliamo di etica nella mission dell’azienda sanitaria, parliamo precisamente di questo. Il sistema delle regole non può più essere lasciato all’improvvisazione o alle preferenze personali, ma deve entrare esplicitamente nell’erogazione dei servizi sanitari. Quindi l’etica non è più marginale, non è più scelta soltanto per personale vocazione, non è più missionarietà, ma è compito istituzionale.
La missionarietà, poi, può diventare pericolosa quando l’orientamento missionario produce argomenti per svalutare coloro dei quali non si condivide l’orientamento e il dibattito bioetico degenera in bio-rissa. Un esempio è la qualifica di “assassine” riservata alle donne che interrompono una gravidanza. Dietro questa violenza verbale intravediamo una forma di “missionarietà” che non si limita a vivere certi valori, ma vuol farli prevalere contro altre persone, offendendole. Si può lapidare con le pietre, ma anche con le parole.
La missionarietà, che di per sé è sacrosanta in quanto ci autorizza a militare per le cause in cui crediamo, diventa pericolosa. Il percorso che ha portato la bioetica ad assumere un ruolo centrale nella pratica della medicina non è lineare: incombe sempre il pericolo di regredire, cedendo alla tentazione di utilizzare l’etica come arma impropria.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
1 Sandro Spinsanti, Bioetica. Biografie per una disciplina, ed. Francoangeli, Milano 1995.
2 Sandro Spinsanti, Etica cristiana della malattia, ed. Paoline, Roma 1971.
3 Sandro Spinsanti, Bioetica, Pubblicazioni Università Cattolica, Roma 1985.
4 Sandro Spinsanti Antropologia cristiana, Pubblicazioni Università Cattolica, Roma 1985.
5 Sandro Spinsanti “Etica medica e bioetica in cento anni di professione”, in AA.VV., Centenario dell’istituzione degli Ordini dei Medici, ed. Fnomceo, Roma pp. 223-235.
6 Sandro Spinsanti (a cura di): Bioetica e antropologia medica, Nuova Italia Scientifica, Roma 1991.
7 Sandro Spinsanti, Bioetica in sanità, Nuova Italia Scientifica, Roma 1993.
8 AA.VV., I comitati di etica in ospedale, Ed. Paoline, Milano 1988.
9 Deborah Gordon, Eugenio Paci: “Parlare o tacere? Narrazioni culturali e cancro”, in L’Arco di Giano, n.14, 1997, pp.83-99.
10 Sandro Spinsanti, Guarire tutto l’uomo. La medicina antropologica di Viktor von Weizsaecker,ed. Paoline, Milano 1988.
11 Sandro Spinsanti, “La bioetica nella formazione del personale sanitario”, in Bioetica e antropologia medica, cit., pp. 27-35.
12 Sandro Spinsanti, Bioetica e nursing. Pensare, riflettere, agire, McGraw-Hill, Milano, 2001.
CONTRIBUTO ALLA SOCIOLOGIA DELLA SALUTE
di Roberto Bucci
Sandro Spinsanti (Ancona, 1942), ha insegnato etica medica nella Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Roma e bioetica all’Università di Firenze. È stato direttore del Centro Internazionale Studi Famiglia (Milano). Ha fondato e dirige l’Istituto Giano per le Medical Humanities e il management in sanità (Roma). Ha fondato e diretto, successivamente, le riviste diMedical Humanities: L’Arco di Giano (1993-2000) e Janus. Medicina, cultura, culture (2001-2012).
Il suo contributo a ripensare la pratica della medicina e la cultura della salute si articola intorno a tre fondamentali tematiche.
La prima è costituita dal problema del soggetto in medicina, sviluppato sullo sfondo argomentativo fornito dalle opere di Viktor von Weizsaecker. Fisiologo, medico, psicanalista, filosofo, Viktor von Weizsaecker (1886-1957) ha diagnosticato in modo approfondito i mali della medicina del suo tempo, suggerendo come terapia l’”introduzione del soggetto” nella pratica terapeutica. Il movimento che a lui si ispira ha preso il nome di Medicina Antropologica.
Il contesto della proposta di von Weizsaecker è costituito dalla reazione alla concezioneprevalente di una medicina intesa semplicemente come scienza naturale, così come si è andata imponendo nelle prime decadi del ‘900. Il nuovo orizzonte propone di considerare sia la salute sia la malattia non solo come eventi biologico-organici, ma anche come indicatori di un equilibrio o di una disarmonia della persona nel suo rapporto con il mondo, includendo così elementi psicologici, sociali, ecologici e spirituali. Spinsanti ha dato voce in Italia agli impulsi culturali provenienti dalla “Medicina Antropologica” o “medicina della persona” e dai suoi maggiori autori: Viktor von Weiszaecker in Germania, Paul Tournier in Francia, Pedro Luis Laín Entralgo negli ambienti di lingua e cultura spagnola.
Il movimento, peraltro non unitario, si trova concorde nella necessità di introdurre in medicina il soggetto, in aperta contrapposizione con un naturalismo riduzionista che considera l’uomo come un essere vivente concluso nella sua dimensione biologica e che si attiene a una neutralità metodologica nei confronti degli aspetti psichici, spirituali, storico-biografici e sociali dell’esistenza umana. In accordo con l’asse portante della Medicina Antropologica ― “La malattia dell’uomo non è il guasto di una macchina, bensì lui stesso; o meglio, la sua possibilità di diventare se stesso”: Viktor von Weizsaecker ― Spinsanti ricorda che dietro ogni malattia c’è la presenza di un soggetto umano che struttura la “sua” malattia, facendone un elemento della “sua” biografia. Occorre, quindi, avvicinarsi all’uomo in una maniera globale, che non lo depauperi nella sua esperienza concreta e che non elimini o disconosca l’ambito della soggettività (5,6).
La vicinanza di Spinsanti a Viktor von Weizsaecker è rafforzata da alcune analogie nelle rispettive biografie intellettuali. Entrambi hanno in comune il dialogo fecondo con la teologia e la psicologia. Von Weizsacker è stato infatti interlocutore frequente di teologi nella prima metà del ‘900 nel contesto di un dialogo approfondito con teologi evangelici, mentre Spinsanti è egli stesso laureato in teologia. Per quanto attiene alla frequentazione degli ambienti culturali della psicologia, von Weizsaecker è stato interlocutore di Freud, con il progetto di importare nell’ambito della medicina somatica principi e metodi che la psicoanalisi ha applicato esclusivamente alle patologie psichiche. Spinsanti, a sua volta, è laureato in psicologia e ha avuto una formazione psicoterapeutica in Analisi Transazionale e in Gestalt Therapy, attingendo profondamente a quel bagaglio culturale nell’elaborazione del proprio pensiero. Per entrambi l’itinerario culturale caratterizzato dalla duplice attenzione alla spiritualità e alla psicologia trova un approdo naturale nell’antropologia. Entrambi riconoscono alla malattia una significativa portata etica, in quanto esperienza di identificazione e di potenziale sviluppo della persona.
Sandro Spinsanti si è rivolto in particolare alla corrente della psicologia umanistica e transpersonale, che si riconosce nel progetto di fare della psicologia lo strumento dell’integrazione umana. Sotto la sua egida, dalla metà degli anni ’80 ha promosso incontri presso la Cittadella di Assisi, con lo scopo di favorire un dialogo tra operatori della salute di diverse professionalità su temi di interesse e di operatività comuni: come il senso di colpa, le separazioni nella vita, il vissuto di malattia, l’ascolto come pratica professionale. Nell’ottica della matrice fondante della psicologia transpersonale, gli incontri si proponevano di far interagire professionisti che nella pratica abituale hanno perso ogni contatto con la globalità dell’essere umano che curano. Si tratta di operatori che, pur esercitando abitualmente la cura in settori paralleli, si ignorano tra di loro (nei casi peggiori si guardano con altera sufficienza…).
Filo conduttore di queste iniziative e delle opere che ne sono scaturite ― si segnalano i volumi che raccolgono gli atti degli incontri alla Cittadella: 1, 2, 3, 4 ― è stato l’intento di riportare professionisti sanitari, psicoterapeuti e operatori pastorali alla loro matrice originariamente e comunemente orientata alla salute in senso ampio e inclusivo. Le diverse categorie professionali si sono costituite infatti grazie alla successiva divaricazione e specializzazione della funzione terapeutica, originariamente indifferenziata. Il senso degli incontri era quello di favorire una visione a tutto tondo, che facesse emergere le dimensioni fisiche, psichiche e spirituali della salute. A questo stesso obiettivo Spinsanti ha contribuito dirigendo presso la casa editrice Cittadella la collana “Psicologia/Strumenti”, che ha divulgato voci importanti della psicologia umanistica e trans personale, come Ken Wilber, Stanislav Grof, Roberto Assagioli, Carl Rogers.
Gli spunti concettuali assunti dalla Medicina Antropologica e dalla psicologia transpersonale sono stati ulteriormente fecondati dal movimento della bioetica, proveniente dal mondo anglosassone, di cui Spinsanti è stato tra i primi in Italia a cogliere la portata innovativa rispetto all’etica medica tradizionale. Il soggetto/paziente non è più solo colui il quale struttura la propria malattia nei suoi significati e persino nella sua patogenesi, ma è piuttosto il titolare di diritti (secondo il principio dell’autodeterminazione) che devono essere posti al centro del rapporto tra professionista della salute e paziente stesso. Il distacco di Spinsanti dalla matrice di pensiero weizsäckeriana, che vede la soggettività del paziente costituita dalla sua capacità di strutturare il sintomo psicotico o nevrotico e la stessa patologia somatica, si sviluppa quindi proprio in questo spostamento del focus della soggettività: dalla strutturazione della malattia alla configurazione dell’edificio culturale e normativo in grado di consentire l’esazione dei diritti correlati alla propria autonomia. Si delinea così il passaggio del focus degli interessi di Spinsanti dalla filosofia della medicina alla bioetica (6).
La seconda tematica che caratterizza il contributo di Spinsanti a una nuova pratica della medicina si identifica con la riflessione etica sull’autonomia del paziente e sul superamento dell’approccio proprio dell’etica medica tradizionale. Dal punto di vista metodologico si segnala il ricorso, rispetto al modello dell’etica dei principi, a un approccio innovativo basato sull’analisi di casi clinici. Rispetto a considerazioni di tipo teorico o filosofico-storico, risulta più valorizzata la prassi degli operatori sanitari, che possono riconoscersi nelle loro perplessità decisionali quotidiane (7). L’analisi utilizza tre modelli etici (e ideal-tipici) che caratterizzano tre stagioni dell’etica in medicina: una premoderna (praticamente identificata con la tradizione ippocratica), una moderna (promossa dal movimento della bioetica) e una post-moderna (che in Italia ha preso l’avvio con i progetti di riforma del Servizio Sanitario Nazionale). Nella bimilleranaria epoca pre-moderna “tutto quello che il malato aveva da fare era di diventare paziente in tutti i significati del termine” (8). Pazientemente aspettava che il medico, da buon osservante del “giuramento d’Ippocrate”, prestasse la sua opera diretta a «procurargli un beneficio». Era l’epoca in cui gli ospedali erano “pie opere” di assistenza e beneficenza, in cui i medici erano visti come benefattori dell’umanità, in cui ― più recentemente ― il principio di beneficio da procurare al paziente era considerato il criterio unico per valutare la qualità della prestazione sanitaria.
La bioetica è la disciplina che ha governato il passaggio ai valori propri della modernità. La nuova area concettuale e comportamentale che la bioetica disegna per i problemi morali e normativi delle scienze della vita dà per scontato che ogni presente o futura conquista scientifico-tecnica nel campo della biologia, della medicina, della sanità deve essere utilizzata per contrastare la patologia e apportare benefici al malato. Ma il criterio del beneficio procurato al malato non basta: questi va considerato come soggetto da coinvolgere attivamente mediante l’informazione, il consenso e la partecipazione attiva nel determinare la qualità della vita che ritiene auspicabile. Il cittadino è quindi, in definitiva, convocato a decidere insieme al medico i limiti della medicina.
L’etica che nasce nell’epoca postmoderna dell’organizzazione sanitaria sposta ulteriormente il proprio centro di gravità. Gli ospedali non sono più “pie opere”, ma aziende. Il medico non è più un buon padre o un franco alleato, ma un organizzatore di tecniche e di pratiche che debbono ispirarsi a una filosofia della cura dove etica ed economia sono due facce di una stessa pregiata moneta da investire nella cura dell’uomo. Il paziente non è più un malato obbediente, non è solo un partecipante informato, ma è un utilizzatore di risorse, tecniche e umane, che deve essere soddisfatto nei suoi bisogni e nelle sue giuste esigenze. Il principio-guida del rapporto di cura non è più la beneficialità, non è solo l’autonomia, ma è anche la giustizia.
La riflessione sulle stagioni dell’etica in medicina introduce a una metodologia di cura finalizzata all’applicazione di uno schema fortemente innovativo di elaborazione delle osservazioni cliniche e assistenziali al fine di valutare e prendere decisioni tali da configurare un comportamento obbligato (per legge, per deontologia professionale, per regolamenti e normative aziendali, ecc.), un comportamento eticamente giustificabile (allineato sulla difesa del “minimo morale”, evitando ciò che nuoce o danneggia il paziente: principio di non maleficità; o opponendosi a discriminazioni ed ingiustizie: principio di giustizia e orientato verso la promozione di un “massimo morale”, valutato con i criteri della beneficità e dell’autonomia). L’etica dell’organizzazione fa emergere anche la necessità di confrontarsi con il comportamento eccellente. Questo è il risultato di coordinate che possono essere raggiunte attraverso il ricorso a quello che Spinsanti ha ideato e definito come “quadrilatero della soddisfazione”, in modo che tutte le persone coinvolte nel trattamento (professionisti, pazienti, familiari, autorità sanitarie) raggiungano la situazione della “giusta soddisfazione”, evitando tanto l’”ingiusta soddisfazione” quanto la “giusta insoddisfazione”.
La terza tematica sviluppata da Spinsanti nel periodo che stiamo considerando è quella che vede il passaggio dalla categoria dell’umanizzazione della medicina a quella delle Medical Humanities. Pur avendo contribuito a portare l’attenzione sulla necessità di “umanizzare” la medicina (9), Spinsanti ha avvertito per tempo la possibile deriva retorica di termini quali “disumanità” e “umanizzazion”. Anche la tematica dei diritti del malato ― Spinsanti ha fatto parte del gruppo promotore del “Tribunale dei diritti del malato”, che ha tenuto la sua prima seduta pubblica a Roma, in Campidoglio, il 29 giugno 1980, proclamando i “33 diritti del cittadino” ― è stata occasione di alimento della conflittualità tra professionisti sanitari e malati, piuttosto che stimolo positivo a un cambiamento di rapporti. Quale correttivo per i mali della medicina contemporanea, Spinsanti ha preferito ripiegare sulle Medical Humanities . Attraverso il recupero di ciò che la medicina ha perduto (quella componente umanistica che per lunghi secoli ha fatto della medicina la più umanistica delle discipline scientifiche), le Medical Humanities nella prospettiva illustrata in numerose opere da Sandro Spinsanti possono restituire slancio all’incontro tra cultura umanistica e cultura scientifica, liberando la bioetica dalle strettoie dei dibattiti ideologici che la paralizzano, soprattutto in Italia.
Rispetto al progetto della bioetica di delimitare i confini tra il lecito e l’illecito nell’ambito dei progressi della medicina e delle scienze biologiche, le humanities coltivano un sogno di più ampio respiro: assicurare la felice sinergia tra le scienze naturali e le scienze umane, in vista di una medicina che sappia curare e prendersi cura; che sia in grado di assicurare cure efficaci dal punto di vista biologico, ma anche rispettose di tutta la molteplicità dei bisogni umani. Le Medical Humanities, inoltre, non si limitano a quanto la medicina può offrire per la guarigione, ma sono rilevanti rispetto a ogni forma di servizio alla salute: dalla psicoterapia al servizio sociale, dalla prevenzione alla medicina di comunità. Non si rivolgono, quindi, solo ai medici, ma a tutti gli operatori della salute.
Le singole discipline che hanno portato un contributo significativo a questo progetto globale non sono intese, nella visione di Spinsanti, come serbatoi distinti da cui la Medicina attinga settorialmente il flusso del sapere umanistico. La proposta è quella di tenere insieme e lasciar dialogare l’insieme dei saperi e delle discipline, nella convinzione che il tutto è più della somma delle parti. Inoltre non bisogna trascurare che nelle Medical Humanities non sono incluse solo le scienze umane, in quanto contrapposte alle scienze della natura, ma anche il contributo che a una pratica più completa della medicina può venire dalla letteratura e dalle arti espressive (pittura, musica, ecc). Le riviste di Medical Humanities promosse e dirette da Spinsanti, dagli anni ‘90 in poi, hanno dato corpo a questo progetto culturale.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
1. In cammino oltre il senso di colpa. S. Spinsanti et al. A cura di Sandro Spinsanti. Assisi: Cittadella, 1984.
2. Le separazioni nella vita: aspetti psicologici e spirituali. S. Spinsanti et al. A cura di Sandro Spinsanti. Assisi: Cittadella, 1985.
3. La malattia, follia e saggezza del corpo. S. Spinsanti et al. A cura di Sandro Spinsanti. Assisi: Cittadella, 1987.
4. L’ascolto che guarisce. S. Spinsanti et al. A cura di Sandro Spinsanti. II ed. Assisi: Cittadella, 1992.
5. Guarire tutto l’uomo. La medicina antropologica di Viktor von Weizsaecker, S. Spinsanti. Milano: ed. Paoline, 1988.
6. Bioetica e antropologia medica. S. Spinsanti. Roma: ed. Nuova Italia Scientifica, 1991,
7. Bioetica in sanità. S. Spinsanti. Roma: ed. Nuova Italia Scientifica, 1993.
8. Chi ha potere sul mio corpo? Nuovi rapporti tra medico e paziente. S. Spinsanti Milano: Edizioni Paoline, 1999.
9. Per un ospedale più umano, S. Spinsanti et al. Cinisello Balsamo: ed. Paoline,1985.