Sandro Spinsanti
Oltre la vita, al di qua della morte: sullo scomodo confine
Editoriale Janus 29 - Primavera 2008
“Io in certi momenti non riesco a capire bene [...] se facciamo del bene”: è l’affermazione di un medico, intervistato nel corso di una ricerca svolta tra medici e infermieri di reparti di terapia intensiva sulle decisioni che devono prendere relative alla fine della vita (Guido Bertolini: Scelte sulla vita, Milano 2007, p. 133). L’incertezza confessata è duplice: di ordine pratico (“Facciamo del bene?”; ovvero, è un bene – per il malato – l’impiego di tutto il potenziale di intervento di cui oggi la medicina intensiva dispone? Facendo “tutto il possibile”, non rischiano i medici di infrangere l’imperativo ippocratico fondamentale: “Primum non nocere”?) e di ordine cognitivo: “Non riesco a capire bene”. Si tratta infatti di tracciare il confine tra le azioni moralmente giustificabili e quelle censurabili, nonché il confine tra il lecito e l’illecito dal punto di vista giuridico. Ancor più: è n discussione la stessa linea di confine tra la vita e la morte.
Molti sperimentano l’acuto disagio di trovarsi sullo scomodo confine. Si trovano in posizione scomoda i medici e tutti i professionisti sanitari coinvolti nelle decisioni di fine vita. Perché il quando e il come della morte dipende in misura crescente dalla scelta di attivare o di sospendere procedure mediche: ormai un decesso su quattro – è la conclusione dello studio Itaeld, promosso dalla Fnomceo – si può dire condizionato da decisioni di fine vita (cfr. Eugenio Paci, Guido Miccinesi: “Come si muore in Italia”, in La Professione, 1/2008, pp. 107-127). Ciò vuol dire che la morte sta inarrestabilmente traslocando: non può essere più collocata tra gli eventi che dipendono dalla natura, ma è legata alle nostre decisioni.
A cavallo tra il XIX e il XX secolo troviamo già testimonianze di una nostalgia di un morire che era tipico “dei nostri vecchi”. Forse la più tipica è la lapide ideale che Edgar Lee Masters nella sua Spoon River Anthology costruisce per Lucinda Matlock. Per la cronaca, questo è il solo nome vero di tutta la celebre antologia, ed è quello della nonna del poeta. Tipica donna della frontiera, canta la vita rude ed essenziale del suo tempo.
Ci sposammo e vivemmo insieme settant’anni,
stando allegri, lavorando, allevando i dodici figli,
otto dei quali morirono
prima che avessi sessant’anni (...)
A novantasei anni avevo vissuto abbastanza, ecco tutto,
e passai a un dolce riposo.
Dalla lirica evocazione del passaggio “naturale” dalla vita alla morte, nonna Lucinda trae motivo per rimproverare la generazione dei nipoti:
che cos’è che si sente di dolori e stanchezza,
e ira, scontento e speranze fallite?
Figli e figlie degeneri,
la vita è troppo forte per voi –
ci vuole vita per amare la Vita.
Molte cose sono cambiate nel passaggio dal XX al XXI secolo. Sempre attuali, però, sono i ruvidi predicatori che rimproverano i perplessi di non amare a sufficienza la vita (meglio detta Life...). Sempre in voga, inoltre, è la proposta di tagliare il nodo gordiano delle complesse decisioni di fine vita con la formula della “morte naturale”, quasi che la saggezza possa consistere nel “lasciar fare la natura”... Se la morte è una conseguente della natura, la nostra è però una natura umanizzata, e quindi rivestita di cultura e valori, di significati e di etica, di qualità e quindi di libere decisioni. Vuol dire che, sullo scomodo confine tra la vita e la morte, per orizzontarci abbiamo più che mai bisogno di ricorrere alle medical humanities.
Anzitutto per capire che la morte, più che un atto è un processo. Le serie televisive ambientate negli ospedali ci hanno reso familiare il clima drammatico in cui il medico dichiara il decesso: togliendosi la mascherina e i guanti, distacca i macchinari e declama: “Ora del decesso...”; seguono l’ora e i minuti primi del trapasso. Si tratta di una convenzione, rispettabile soprattutto per le ricadute medico-legali; ma è pur sempre una convenzione. Quanto rischi, poi, di diventare una caricatura, lo dimostrano i macabri archivi nazisti conservati a Bad Arolsen, che ora cominciano a essere accessibili a giornalisti e studiosi. Vi si trova, tra gli altri cimeli, il “Totenbuch”, il libro dei morti di Buchenwald: un interminabile elenco compilato in modo preciso, giorno per giorno, con gli orari dei decessi, annotati persino nei minuti: h 0.55, 1.45, 4.10... Suona come irrisione l’ora della morte di uomini, donne e bambini di cui si era già decretata da tempo la fine come persone, addirittura l’esclusione dal consorzio degli esseri umani.
La definizione biologica della morte è già di per sé problematica. Lo dimostrano i dibattiti intorno a quale criterio privilegiare (cardiaco, cerebrale, corticale). Ma ancor più inafferrabile diventa la linea di confine se, consapevoli che stiamo parlando della morte umana, assumiamo un approccio narrativo. La percezione della propria morte è una variabile molto soggettiva: persone in condizioni fisiche ancora buone si sentono già morte, mentre altri si sentono vivi in corpi già ampiamente attaccati dalla putrefazione.
In un romanzo segnato da un carattere biografico estremo – lo scrittore stesso parla di questo suo esporsi come di un’ “indecenza” – Philip Roth racconta la morte del padre. Colpito da un cancro al cervello, il robusto vegliardo subisce in pochi mesi gli attacchi più devastanti della malattia: “Lui si trovava completamente isolato dentro un corpo che era diventato una terribile prigione, dalla quale era impossibile evadere, il recinto di un mattatoio” (Philip Roth: Patrimonio, Einaudi 2007, p. 137). Il figlio scrittore segue con un coinvolgimento emotivo profondo il passaggio del padre dalla vita alla morte: “Morire è un lavoro e lui era un gran lavoratore”. La percezione della fine non è legata a nessuno dei sintomi della malattia o degli accurati interventi diagnostici dei medici, ma a un evento banale: una improvvisa incontinenza fecale spalanca davanti al padre e al figlio il baratro della morte. Da quel momento inizia la discesa inarrestabile verso la morte, resasi presente attraverso l’incidente catastrofico: clinicamente irrilevante, ma per i protagonisti coinvolti segno eloquente della svolta, che rende l’arrendersi alla morte inevitabile.
“Perché bisogna morire?”, chiede il vecchio al figlio scrittore. Frequentemente le questioni metafisiche – e religiose – attendono al varco chi percepisce di essere ormai sulla linea di confine. Philip Roth non conosce la risposta. Lascia intendere, piuttosto, che la risposta non ci sia. “Perché?” chiede il prigioniero Primo Levi alla guardia del lager;, “Non c’è un perché”, risponde questi. Nessuna delle generazioni precedenti sembra aver trovato la risposta definitiva al perché della morte, pur avendone prodotte molte. Né la nostra cultura dà mostra di essere meglio attrezzata di quelle passate. Oggi, comunque, l’interrogarsi sembra essersi spostato su un altro fronte. Il centro di gravità dei nodi che si stringono intorno alla morte non è la metafisica (perché si muore), ma l’etica: come stare su questo scomodo confine.
A diverso titolo, e in diverso modo, tutti i soggetti coinvolti nelle scelte si pongono interrogativi ai quali non è facile dare una risposta. “Facciamo del bene” alle persone che teniamo in terapia intensiva? si chiedeva il medico della ricerca che abbiamo menzionato in apertura (ricerca promossa, oltre all’”Istituto Mario Negri”, dal Gruppo italiano per la valutazione degli interventi in terapia intensiva). Il richiamo all’etica medica tradizionale non è di aiuto: la medicina del passato non era in grado, anche volendo, di cadere nella hybris dell’eccesso. Le due categorie alle quali ai nostri giorni abbiamo fatto ricorso per fornire un criterio per le decisioni si sono mostrate ambedue insufficienti: sia il criterio della “futilità” dei trattamenti (cfr. Daniela Tarquini, “L’insostenibile leggerezza della futilità”, Janus n. 27, pp. 109-113), sia quello dell’ “accanimento” (cfr. Carlo Alberto Defanti, “L’accanimento terapeutico”, Janus n. 25, pp. 103-108) sono stati incapaci di assorbire in misurazioni oggettive la valutazione soggettiva, che varia da persona a persona (e non di rado nella stessa persona cambia col tempo).
La maggiore o minore estensione nel tempo del confine tra la vita e la morte dipende da scelte personali: c’è chi si aggrappa alla vita con una determinazione assoluta, disposto a pagare qualsiasi prezzo per un minimo scampolo di sopravvivenza; e c’è chi stabilisce con chiarezza dei limiti, oltre i quali la vita si deforma in una caricatura. I lettori di Janus che seguono la rubrica “Pazienti particolari” hanno già avuto la possibilità di confrontarsi con scelte totalmente diverse: a fronte di una Susan Sontag, che si attacca alla vita con disperata determinazione, affrontando trattamenti sperimentali pesanti e rifiutando quelli palliativi (Janus n. 21, 2006, pp. 155-157) troviamo un Tiziano Terzani che rifiuta un trattamento aggressivo di una recidiva, privilegiando una fase terminale della sua vita da trascorrere in una condizione contemplativa (Janus n. 22, 2006, pp.153-157); accanto a Peter Noll che, in nome della libertà, rinuncia a consegnarsi a una routine medica che gliela avrebbe tolta pezzo a pezzo (Janus n. 23, pp. 125-128), incontriamo Rosanna Benzi, che accetta di rimanere immobile in un polmone d’acciaio per trent’anni, senza perdere il gusto per la vita (Janus n. 28, 2007, pp. 123-125). Possiamo affermare con tranquillità che, quando le scelte diventano davvero personali, nessuna assomiglia a un’altra.
La formula stereotipata – né eutanasia, né accanimento terapeutico – è tranquillizzante, senza tuttavia riuscire a fornire ai medici una indicazione di percorso nelle scelte di fine vita. Sembra più coerente la decisione del nuovo codice di deontologia degli infermieri, nella bozza che circola per essere discussa prima dell’approvazione finale, di rinunciare alle ingannevoli rassicurazioni fornite dalla rinuncia all’accanimento terapeutico, per optare a favore del criterio della proporzionalità: l’infermiere “tutelerà la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi non proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità della vita”.
Il tema caldo in Italia del riconoscimento giuridico della validità delle direttive anticipate può trarre beneficio dall’esplicita valorizzazione del punto di vista della persona, che ci viene suggerita dal mondo infermieristico. I professionisti coinvolti con l’assistenza sanno che i problemi che sorgono sullo scomodo confine tra la vita e la morte non potranno ricevere una risposta positiva se non rinsaldano i legami tra tutti i soggetti coinvolti: i sanitari, i malati e i loro familiari. I conflitti sono possibili e devono essere affrontati come tutte le situazioni nelle quali i diversi (legittimi) interessi si scontrano. Ma non può essere una soluzione quella di togliere la voce a qualcuno dei protagonisti. Soprattutto bisognerà riaffermare che il contesto nel quale questo tipo di conflitti vanno risolti è il letto del malato, non l’aula del tribunale. Quando le decisioni procedono con il passo pesante della legge, dobbiamo già tutti, in partenza, registrare una sconfitta.