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- Ecumenismo
- Ecumenismo spirituale
- Una sfida alla vita religiosa: l'ecumenismo
- Bioetica laica e bioetica religiosa
Sandro Spinsanti
BIOETICA LAICA E BIOETICA RELIGIOSA SULLO SFONDO DEL DIALOGO ECUMENICO
in Notizie di Politeia
anno 12, n. 41/42, 1996, pp. 67-71
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Man mano che l’impatto che il Manifesto di bioetica laica ha avuto tra studiosi di bioetica e intellettuali italiani si rivelava come il classico sasso nello stagno, che suscita onde di riflessione sempre più ampie, l’osservatore esterno non poteva sottrarsi all’impressione che il dibattito in corso avrebbe potuto ricavare un sostanziale beneficio da un punto di vista totalmente diverso da quello formalmente evocato. Consapevoli di voler deliberatamente produrre un effetto di “estraniamento”, proponiamo di leggere le vicende relative al rapporto tra bioetica laica e bioetica religiosa in parallelo con un’esperienza, allo stesso tempo intellettuale e spirituale, che si è sviluppata in tutt’altro contesto: il dialogo ecumenico tra le chiese cristiane. L’accostamento, per quanto inusuale, non è inappropriato. Le posizioni discordanti sulle questioni fondamentali della bioetica (sia quella del metodo o della fondazione stessa della disciplina, sollevata dal Manifesto di bioetica laica, sia quelle relative alle tematiche concrete, come la questione degli inizi della vita umana che il documento Identità e statuto dell’embrione del Comitato nazionale per la bioetica proponeva nello stesso periodo di tempo) sono almeno altrettanto irriducibili quanto quelle che per secoli hanno contrapposto tra di loro i fedeli di varie chiese (con l’“odium theologicum” in meno...!).
Nel dibattito teologico l’inflessibilità nella difesa di capisaldi dottrinali aveva, come aggravante, il riferimento non a un’opinione filosofica, ma a una rivelazione divina. Fatte salve tutte le differenze, le analogie con il dibattito bioetico non mancano. Anche in questo è circolata, per esempio, l’accusa di considerare la personalità dell’embrione come un “dogma”. È chiaro che in questo caso l’imputazione ha solo un significato polemico, essendo chiaro a chiunque che in bioetica non può essere questione di “dogmi” in senso stretto; tuttavia sembra stabilire un parallelo con quanto avveniva nelle dispute secolari tra cristiani, nelle quali verità di fede si contrapponevano a verità di fede, con praticamente nessuna possibilità di far avanzare l’intesa. Ed è effettivamente l’impressione che si ricava da molti dibattiti sulla bioetica, relativi sia al metodo che ai contenuti; si risolvono in uno schieramento di posizioni contrapposte, in cui ogni concessione fatta all’avversario sembra equivalere a una debolezza. Il presentarsi statico di fronti irremovibili ci autorizza a proporre il parallelo tra il dibattito bioetico e la lunga guerra di posizione tra le chiese e confessioni cristiane.
Un’aggravante ulteriore per i conflitti teologici è stata la lunga tradizione di sopraffazioni e di intolleranza, che ha dato esito perfino a “guerre di religione”. E quando le spade e le bombarde sono diventate impresentabili agli occhi della società civile,
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sono state sostituite con le armi più raffinate della polemica (che, non per caso, ha la parola “guerra” nel suo etimo) e dell’apologetica. Generazioni di intellettuali organici ― leggi: teologi ― sono stati educati a praticare l’apologetica, che consisteva essenzialmente nell'individuare i punti deboli dell’avversario e nel presentare la propria posizione come l’unica intellettualmente e moralmente difendibile. In pratica, la macchina dell’argomentazione apologetica doveva costringere l’avversario ad ammettere o di essere intellettualmente incoerente , o di mancare dell’onestà morale necessaria per arrendersi alla verità, abbandonando il proprio errore. L’apologetica mirava alla conversione dell’avversario, così come in precedenza la spada tendeva al suo sterminio. In pratica, l’apologetica svolgeva la funzione che von Clausewitz attribuiva alla politica: essere una prosecuzione delle guerre, con altri mezzi...
Abbiamo tutti i motivi per stupirci che la contrapposizione tra concezioni teologiche che è stata praticata per secoli abbia ceduto il posto a qualcosa di radicalmente nuovo. Le religioni ― si sa ― sono resistenti ai cambiamenti. Eppure il cambiamento è avvenuto, grazie al movimento ecumenico. È nato per iniziativa di alcuni pionieri, all’inizio del secolo; progressivamente ha coinvolto le stesse istituzioni ecclesiastiche. Anche la chiesa cattolica, dopo il doloroso confronto interno avvenuto nel concilio Vaticano II, vi ha aderito. Persone aperte alla teoria e alla pratica del dialogo, da Socrate in poi, sono sempre esistite; ma l’ecumenismo è stato nella storia dell’Occidente il primo esempio di dialogo per grandi numeri, tra istituzioni forti come sono le chiese. È stata una scuola molto faticosa. L’ipotesi che vogliamo proporre è che le sue acquisizioni possono essere utili per altre controversie di tipo ideologico, come sono quelle che, sul finire del secolo, si stanno addensando intorno alla bioetica. In modo estremamente sintetico, ci si presentano tre lezioni possibili.
In primo luogo praticando il dialogo ecumenico si è dovuto riconoscere che esistono i cosiddetti “fattori non teologici” delle divisioni. Là dove il dibattito teologico registrava posizioni dottrinali inconciliabili, fonti di diatribe infinite ― basti pensare alla questione del “Filioque”, o al primato papale, o alla dottrina della transustanziazione ― la pratica dell’ecumenismo faceva scoprire che i dissensi teologici erano sostenuti e alimentati da situazioni di carattere culturale e sociale, riconducibili sostanzialmente a prevaricazioni nell’esercizio del potere. Possiamo esemplificare riferendoci al peso che hanno avuto legislazioni discriminatorie nei confronti dei protestanti in Italia o dei cattolici in Inghilterra (per non parlare dei “fattori non teologici”, ma di natura sociale, dello scontro tra cattolici e protestanti nell’Ulster). Per fare un altro esempio, la pratica confluenza di interessi tra Democrazia Cristiana e chiesa cattolica ha impedito ai protestanti italiani di riconoscersi in quel partito, dando alle scelte politiche un carattere “teologico” del tutto indebito.
Potrebbe essere utile domandarsi quanto, in modo analogo, la contrapposizione ideologica tra bioetica laica e bioetica religiosa non possa essere alimentata da “fattori non ideologici”, ovvero da questioni che risalgono alla gestione del potere. Non è un segreto che nel nostro paese intorno alla bioetica si sia sviluppata una occupazione di posti strategici nelle cattedre universitarie e nei comitati ― a cominciare dal Comitato nazionale, con la vicenda delle sostituzioni di carattere politico avvenute nel dicembre 1994 ― che ha tutto il sapore della discriminazione nei confronti dei cultori della disciplina non “organici” alla difesa di una linea di assoluta fedeltà ai
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dettami del magistero papale. Anche la stessa vibrata difesa del perimetro della bioetica laica ― un fatto culturale tipicamente italiano, che potremmo considerare idiosincratico di una tradizionale contrapposizione tra guelfi e ghibellini, se non volessimo addirittura svalutarlo come un fatto provinciale, incomprensibile in altri contesti culturali ― può essere ricondotto a una comprensibile reazione al controllo stretto che le strutture della Chiesa cattolica esercitano in Italia su tutto ciò che ha attinenza alla bioetica. Se così è, un ravvicinamento reale tra posizioni diverse non dovremo aspettarcelo dal raffinamento delle argomentazioni rispettive, ma qualche cambiamento nei rapporti di potere.
Una seconda acquisizione importante che proviene dall’esperienza del movimento ecumenico è quella relativa alla necessità di una “rivoluzione copernicana” per sbloccare situazioni di contrapposizione dottrinale congelata. Per le chiese questo ha voluto dire abbandonare l’idea del “ritorno” quale via per ricostruire l’unità della chiesa, sollecitando la conversione dei “fratelli separati”. Nell’ecumenismo concepito come un ritorno ogni confessione si considerava al centro, allo stesso modo della terra nel sistema tolemaico; gli altri raggruppamenti cristiani giravano attorno al perno costituito dalla propria struttura dottrinale e istituzionale, a distanza più o meno ravvicinata. La difesa della propria integrità dottrinale equivaleva a una lotta per la sopravvivenza. Per questo le chiese si sono a lungo opposte all’ecumenismo: temevano che, aderendo a una pratica del dialogo che rimetteva in discussione proprio la centralità del proprio sistema dottrinale, sul quale misurare gli altri, avrebbero perso la propria identità. Nella chiesa cattolica le forze ostili all’ecumenismo proponevano un “ecumenismo cattolico”, come contrapposto a quello protestante od ortodosso: i tradizionalisti erano disposti a entrare solo in un dialogo che accettasse le proprie condizioni.
La svolta copernicana può essere esemplificata dal ruolo che gioca l’aggettivo riferito all’ecumenismo: la chiesa cattolica è entrata ufficialmente e istituzionalmente nell’ecumenismo solo quando ha accettato, nel decreto conciliare sull’unità delle chiese ― “Nostra aetate”, del 1965 ― di rinunciare ad aggettivare l’ecumenismo (e quindi a proporre un “ecumenismo cattolico” contrapposto ad altri), a favore di un ecumenismo tout court, al quale ci si avvicina a partire da “principi cattolici”. Le implicazioni dello spostamento dell’aggettivo sono enormi. La rivoluzione copernicana nell’ecumenismo ha comportato l’abbandono del posto centrale in cui ogni chiesa metteva se stessa, rapportando gli altri ai propri parametri di riferimento. Quando si entra in un ecumenismo senza aggettivo (cattolico, protestante ecc.), tutti sono invitati a considerarsi pianeti che ricevono luce da Colui a cui, come al sole nel sistema copernicano, viene riconosciuta la funzione di “Lumen Gentium”. La posizione eccentrica permette a ognuno di modificarsi e crescere, interiorizzando quella parte di verità che viene meglio riflessa da altri. Allo stesso tempo lo spostamento permette che si realizzi quella dialogicità che è l’espressione originaria del pensiero etico.
Condizione essenziale per il dialogo è la fiducia tra gli interlocutori. La fiducia naufraga là dove si ritiene che gli altri giochino in modo sleale, oppure si partecipa al confronto con la presunzione di avere la risposta giusta già pronta, cercando solo il modo per imporla. Perché si realizzi un dialogo secondo le esigenze già teorizzate da Socrate, gli interlocutori devono essere tutti
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disponibili ad essere guidati da un “daimon”, sottraendosi all’influsso del “diabolos” (la radice greca “dia-ballo” contiene in sé i germi della separazione, dello scetticismo, della posizione difensiva). Senza la fiducia reciproca e la convinzione dell’eccedenza della verità rispetto a tutte le diverse posizioni, anche le più solidamente argomentate, non si ha etica del dialogo. E nemmeno una bioetica compatibile con quell’acquisizione filosofica e culturale che sta al cuore dell’esperienza dell’Occidente.
La bioetica ha come una vocazione innata a realizzare la sua propria “rivoluzione copernicana”, costringendo i sistemi filosofici e le diverse ideologie morali a smettere di considerarsi come l’unità di misura. La bioetica nasce, infatti, dalla percezione del pericolo in cui versa la vita nel suo insieme. Prendendo in prestito un’immagine da Paul Kennedy ― sviluppata nel libro Preparing for the Twenty-First Century, di cui riferisce Daniel Maguire in un articolo sulla rivista «Bioetica» ― possiamo considerare la diversità della terra rispetto agli altri pianeti vicini costituita dall’essere ricoperta da una pellicola di materia chiamata “vita”. È una pellicola estremamente sottile; pesa non più di un miliardesimo del peso del pianeta che la sostiene. Entro quella delicata pellicola stanno le piante, gli animali, le terre coltivate e la stessa specie umana. Per via dell’attività dell’uomo, il delicato fenomeno della vita, che rende il nostro pianeta unico e prezioso, ora è in pericolo. La crisi della vita, che giustifica la bioetica, è la situazione di emergenza in cui si trova la vita ― sia nella sua qualità che nella sopravvivenza del suo stesso essere ― a causa di quella epidemia che è l’uomo stesso. Se concediamo all’etica della responsabilità per la vita di occupare il posto centrale attorno a cui girano i sistemi di pensiero, laici e religiosi, non è più giustificata nessuna forma di monopolio della preoccupazione per la vita. Cade così anche quell’arroganza intellettuale che porta a giudicare tutti coloro che difendono posizioni differenti dalla propria come se non avessero a cuore l’uomo e i suoi migliori interessi, erigendosi a unici paladini della vita e della sua qualità.
La svolta copernicana in bioetica può tradursi anch’essa in uno spostamento di aggettivi. Se diamo alla bioetica quale responsabilità per la vita il posto centrale, non ha più senso difendere una “bioetica laica” o una “bioetica religiosa” quali sistemi chiusi in competizione fra di loro. Possiamo invece proporre che i principi ― o approcci filosofici, o concezioni antropologiche ― con i quali si affrontano i problemi della bioetica siano legittimamente e utilmente diversi. L’aggettivo va a qualificare l’approccio, non il prodotto del dialogo, il quale si pone in una posizione superiore rispetto a quella di partenza dei dialoganti. Nessuno è autorizzato a sentirsi minacciato da un approccio laico o da un approccio religioso alla bioetica; al contrario, il pluralismo si traduce in un arricchimento di tutti.
Una terza lezione, infine, che possiamo mutuare dal movimento ecumenico è il rapporto organico che esiste tra l’ortodossia e l’ortoprassi. L’unità tra i cristiani ha trovato una via di accelerazione quando la preoccupazione per la corretta interpretazione della dottrina si è sposata all’impegno per risolvere insieme i problemi degli uomini. Dalla comune testimonianza di fede alla cooperazione nel campo sociale, per i cristiani coinvolti nel movimento ecumenico si è aperto davanti un campo di “ortoprassi” che non presupponeva una preliminare soluzione di tutte le divergenze dottrinali. “Se la teologia intende svolgere il suo compito al
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servizio degli uomini e delle chiese ― affermava Hans Küng negli anni in cui anche la chiesa cattolica cominciava ad aprirsi all’ecumenismo ― deve impegnarsi a indicare, come conseguenza delle sue motivazioni teoretiche, delle soluzioni responsabili nel campo dell’azione”. Anche i teologi dovevano scoprire che l’impegno comune risolve questioni che dal punto di vista dottrinale potrebbero essere discusse all’infinito. L’etica della responsabilità e l’etica dei principi, nella classica distinzione proposta da Max Weber, non sono proprietà esclusive dell’approccio laico o dell’approccio religioso, ma si devono compenetrare.
L’accento spostato sulla prassi è tanto più rilevante per la bioetica, in quanto questa nasce come guida all’azione, piuttosto che come attività accademica. Le differenze non sono di poco conto. Nel mondo universitario la modalità di rapporto dominante è la sfida. È nelle regole del gioco accademico cercare di trovare il punto debole dell’avversario, distruggere le sue argomentazioni e produrne di migliori. Nella bioetica invece gli uomini di pensiero sono sollecitati a incontrarsi con gli uomini d’azione: non per dettare loro le proprie regole, frutto di speculazione teorica, ma per imparare da loro. O meglio, per imparare insieme, in quanto gli uomini di pensiero e gli uomini di azione dipendono gli uni dagli altri. L’etica, che in quanto disciplina appartiene alla filosofia pratica, non può essere pratica se non include le complicazioni della sfera operativa nelle riflessioni con cui si giustifica una norma. “Fare” l’etica, e non solo pensarla, è il punto di vista innovativo che è stato introdotto dalla bioetica. Per chi “fa” l’etica deve essere chiaro che le sue idee valgono soltanto se adeguate ai presupposti sociali e istituzionali. Il peggio che si possa dire di un esperto di bioetica è: «Egli aveva una soluzione..., ma non era adatta al problema!».
Scoperta dei fattori non ideologici ma riferiti all’esercizio del potere nelle divisioni; ricerca di un punto di convergenza esterno e più alto rispetto ai sistemi di pensiero; rilevanza della prassi per un pensiero responsabile: altrettanti insegnamenti che la bioetica può mutuare dall’ecumenismo. A meno che non si preferisca deliberatamente la contrapposizione frontale. Questa sembra la via che è deciso a percorrere il bioeticista americano Tristram Engelhardt, paladino di un’etica concepita in funzione di mediazioni contrattualistiche tra cittadini intesi come irriducibili “stranieri morali”. Engelhardt ha da poco fondato una «Rivista di Etica cristiana» per promuovere il suo progetto. A scanso di equivoci, ha messo esplicitamente nel sottotitolo: “Rivista non ecumenica”.