Bioetica nella professione infermieristica

Book Cover: Bioetica nella professione infermieristica

Sandro Spinsanti

BIOETICA nella professione infermieristica

EdiSES, Napoli 1995

pp. 297

BIOETICA

nella professione infermieristica

Hanno collaborato alla stesura dell'opera:

Fulvia Balboni

Capp. 1,2

Barbara Caselli

Capp. 5,9, 11

Laura D'Addio

Capp. 6, 7, 8

Moreno Lirutti

Capp. 12, 14

Paola Lucianer

Capp. 4, 10, 16

Gabriella Voersio

Capp. 3, 13, 15

Revisione a cura di Sandro Spinsanti

VII

INDICE

IX Presentazione

X Tavole

1 Introduzione

25 1 Una professione d'aiuto

41 2 Organizzazione dei servizi sanitari

61 3 Nursing transculturale

75 4 Le informazioni confidenziali

89 5 La prevenzione delle malattie

101 6 La sessualità e le sue manifestazioni

115 7 Le scelte procreative

133 8 Infermiere del bambino

151 9 L'anziano come cittadino

163 10 La gestione della cronicità

181 11 Terapia e controllo sociale

195 12 Dolore e sofferenza

215 13 L'assistenza in area critica

231 14 Le cure palliative e l'assistenza al morente

263 15 Donare e ricevere organi

279 16 Ricerca e terapie sperimentali

VIII

IX

PRESENTAZIONE

L'infermiere, che ogni giorno deve attingere esclusivamente a risorse personali per affrontare i mille dilemmi che sorgono nello svolgimento della sua attività professionale, troverà questo libro prezioso e avvincente.

Dovrà comunque frenare la tentazione di leggerlo tutto d'un fiato, alla ricerca di analogie col proprio vissuto e riconoscendosi nelle situazioni descritte. Il pregio maggiore di queste pagine è infatti la capacità di sistematizzare gli articolati tasselli di una realtà complessa, fornendo al lettore gli strumenti per interpretarla.

Alla Bioetica è necessario accostarsi con una visione multiculturale. L'Autore rispetta questa esigenza presentando in ogni capitolo problemi e fatti e declinando le molte idee umane e professionali che essi sollecitano. Passa poi all'analisi degli strumenti normativi di cui la società si dota per governarli. Il percorso si conclude con l'esame dei comportamenti, sintesi ultima e concreta delle risposte dell'uomo, del professionista, della professione.

Per sfruttare appieno il potenziale pedagogico del testo è necessario darsi tempo. Tempo per accogliere in sé ed elaborare il pathos provocato dalla lettura di tante storie cosi umane e vere da provocare una reazione emotiva, una compartecipazione culturale. Ma anche tempo necessario a scoprire la professione infermieristica e gli infermieri. Operatori sempre presenti, ma oscuri al punto che non è mai stata valutata neanche la possibilità che le loro idee e i loro comportamenti influiscano sulle scelte dei singoli e della collettività in tema di salute.

Personale subalterno, dipendente, "ausiliario", da sempre. Ma queste pagine restituiscono finalmente un volto agli infermieri. Li ritroviamo al fianco della persona, capaci di dialogare con il suo gruppo di riferimento, di partecipare attivamente al processo attraverso cui la vita, la morte, la guarigione evolvono. Spesso soli, un vero avamposto della sanità. Il bambino, l'anziano, il cronico, il morente sono per gli infermieri prepotentemente vivi; come vivo è il paziente in attesa di trapianto o il donatore mantenuto artificialmente in vita in attesa di una fine non sempre biologicamente accettabile come tappa di un processo ciclico.

Un poco per volta emergono i comportamenti dettati dalla cultura infermieristica. Una cultura per cui la vocazione all'aiuto competente diventa un imperativo e lo strumento della realizzazione professionale; una missione che al cittadino propone un'alleanza basata sul rispetto dei suoi bisogni di salute e sulla certezza che nulla di ciò che per lui non è accettabile gli verrà imposto. Una scelta professionale, quella dell'infermiere, vissuta come impegno con e verso la società.

Emma Carli

Presidente della Federazione

nazionale dei Collegi Ipasvi

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TAVOLE

Pablo Picasso (Malaga 1881 - Mougins 1973)

Scienza e Carità

1897, Barcelona, Museo Picasso

Fr. Gaspare De Palmer

Clemente XI inaugura la corsia per degenti detta "Sala Assunta"

(1 marzo 1702), all'ospedale Fatebenefratelli, Isola Tiberina, Roma

Wolfang Heimbaeh (Ovelgone, 1620 ca. - 1679?)

Il malato

1669, Hamburg, Kunsthalle

Angelo Morbelli (Alessandria 1853 - Milano 1919)

Natale al Pio Albergo Trivulzio

1909, Torino, Museo Civico

Telemaco Signorini (Firenze 1835 - 1901)

La sala delle agitate a San Bonifacio

1865, Venezia, Museo d'Arte Moderna di Ca' Pesaro

Maestro Von Kleve

Scena di morte

dal Libro d'ore di Katharina von Kleve (van Cleef, de Clèves)

New York, Pierpont Morgan Librarv

Le immagini e le didascalie

sono tratte dalla rivista di Medical humanities "L'Arco di Giano", nr. 2-3, 1993.

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Pablo Picasso (Malaga 1881 - Mougins 1973)

Scienza e Carità

1897, Barcelona, Museo Picasso

Il sedicenne Picasso (allora ancora Fabio Ruiz: solo più tardi avrebbe assunto il cognome materno) è ancora in tutto condizionato dai modi del padre, artista modesto e professore di pittura all'accademia di Malaga. Il dipinto si inserisce nell'ambito di quella pittura di tono "sociale" in qualche modo originata dal realismo di Courbet, che trovava le proprie motivazioni nelle contraddizioni della nascente civiltà industriale, ma presto imprigionata negli schemi accademici ed edulcorata tramite l'esclusione di ogni accento di polemica e di denuncia.

Una pittura di "buoni sentimenti" che invita alla carità più che alla giustizia; ma che attinge suo malgrado un'intensità dolorosa in virtù di alcuni aspetti formali, in primis la scelta di colori sobri.

Il quadro di Picasso suscita un ulteriore interesse per la sua determinazione cronologica. Si colloca, infatti, sul finire del XIX secolo, l'epoca che ha fondato la medicina stille scienze naturali, senza tuttavia rinunciare alla dimensione umanistica. A cavaliere tra Ottocento e Novecento, nelle temperie ideologiche dello scientismo e umanitarismo positivista, il binomio scienza-umanità è stato la parola d'ordine della classe medica (G. Cosmacini). La riduzione antropologica, che oggi è sottoposta a critica e a cui si cerca di porre rimedio ricorrendo alle medical humanities, ha avuto luogo soprattutto nel corso del XX secolo, quando la tecnologia applicata alle scienze biomediche ha assumo un vistoso primato.

"Scienza e carità", indipendentemente dalla valutazione estetica, visualizza il compito che in ogni epoca spetta alla medicina: unire la scienza naturale e l'umanità nel rapporto con il malato e il sofferente. Oggi come ieri, la medicina deve cercar di rispondere ai bisogni umani nella loro globalità.

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Fr. Gaspare De Palmer

Clemente XI inaugura la corsia per degenti detta "Sala Assunta"

(1 marzo 1702), all'ospedale Fatebenefratelli, Isola Tiberina, Roma

Un'ininterrotta tradizione medica caratterizza l'isola Tiberina a Roma a partire dalla costruzione del tempio dedicato ad Esculapio, a seguito della prodigiosa scomparsa di un'epidemia nel 292 a.C. L'asclepeio prosperò e tutta l'isola divenne tuia specie di città-ospedale, col tempio al centro e le dipendenze intorno. Una aedes Aesculapii, come si disse, e non soltanto un templum.

Nel 1584 i Fatebenefratelli (religiosi dell'ordine ospedaliero fondato da S. Giovanni di Dio) trasferirono nell'isola l'ospedale che inizialmente aveva sede a Piazza di Pietra. Già nel 1590 risulta che all'isola dovettero apprestarsi altri locali per ricevere i malati in numero sempre crescente. La fine del XVII secolo e l'inizio del successivo videro un notevole miglioramento dell'ospedale. L'alta considerazione papale, documentata dal dipinto, esprimeva l'apprezzamento per la qualità dell'assistenza che ricevevano i malati.

Il quadro, distrutto in Milano dai bombardamenti aerei del 1943, ha come soggetto la nuova corsia, la Sala Assunta, cui si accedeva direttamente dalla piazza S. Bartolomeo. Essa appare arieggiata da finestre poste in alto e da finestroni sul davanti; è arredata con grandi e comodi letti.

I letti dell'ospedale dell'isola Tiberina erano destinati ciascuno a un malato e avevano il baldacchino, cui a volte si annettevano le cortine. Solo nel 1772 con il documento di indirizzo per i criteri da seguire nelle costruzioni ospedaliere, prodotto dalla commissione incaricata di progettare la ricostruzione dell'Hotel Dieu, il più importante ospedale di Parigi, venne definita in modo chiaro la necessità di destinare tm solo paziente per letto. Fino ad allora era comune il riscontro di 2, 3 e persino 4 pazienti in un unico letto.

Innumerevoli sono i cambiamenti che l'ospedale ha subito nel tempo, fino a diventare ai nostri giorni una cittadella dove si incontra il massimo della tecnologia per la lotta contro le malattie. Ma nell'evoluzione non è andata smarrita la vocazione originaria che l'ospedale ha iscritta nel nome: essere un "hospitium", un luogo ospitale per la persona malata.

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Wolfang Heimbach (Ovelgone, 1620 ca. - 1679?):

Il malato

1669, Hamburg, Kunslhalle

Il piccolo dipinto (olio su rame, cm 23,5 x 19,1) è un significativo prodotto di quell'interesse per gli aspetti quotidiani della realtà che caratterizza la pittura olandese e fiamminga del secolo XVII, e che trova in Vermeer e in Pieter de Hooch i suoi più alti interpreti.

Il tema del "medico che cura il malato" si inserisce nel genere dei "mestieri", con in più qualche ricordo della rappresentazione delle opere di misericordia. Richiesti anche dall'aristocrazia, i dipinti di questo soggetto incontrarono il favore soprattutto delle classi medie e conobbero una grande diffusione.

Un accenno contenuto nel quadro di Heimbach travalica i tempi e condizionamenti storico-artistici: quello alla dimensione familiare della malattia. L'immagine lascia trasparire la dimensione intima e spirituale in cui viene a trovarsi il malato e il molo centrale che spetta alla famiglia. Questa può sostenere il malato od opprimerlo; può offrirgli aiuto per superare la malattia acuta e convivere con il dolore cronico, oppure costituire un ostacolo al processo di coping che il malato deve affrontare. L'etica richiede comportamenti appropriati non solo da parte dei sanitari, ma anche del malato, dei suoi familiari e di tutto il suo ambiente vitale.

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Angelo Morbelli (Alessandria 1853 - Milano 1919)

Natale al Pio Albergo Trivulzio

1909, Torino, Museo Civico

Il Pio Albergo Trivulzio deve l'origine e il nome al principe Antonio Tolomeo Gallio Trivulzio, morto nel 1767. Uomo dai gusti raffinati, aderì alle nuove concezioni illuministiche. Profondamente toccato dallo spettacolo di miseria che quotidianamente offrivano le vie cittadine, dove storpi, vecchi malati, soldati mutilati erano abbandonati alla carità dei passanti, volle offrire un sollievo alla plebe derelitta, fondando un "ospitale" dove essa potesse avere un ricovero, cibo e vestiario sufficienti, assistenza medica e spirituale. La fondazione di un "Albergo de' Poveri" diventava realtà nel 1771, a quattro anni dalla morte del principe. All'inaugurazione il Pio Albergo accoglieva i primi cento ricoverati; un ventennio più tardi il numero dei ricoverati era già aumentato a oltre quattrocento unità.

Se già all'inizio del nostro secolo la condizione umana degli ospiti del Trivulzio appariva, attraverso il pennello di Morbelli, di desolante deprivazione, ai nostri giorni la denuncia della situazione di abbandono dei vecchi non ha perso di attualità. Le recenti vicende di "Tangentopoli" ― che hanno avuto inizio dagli scandali dell'amministrazione del Pio Albergo Trivulzio ― offrono oggi una chiave di lettura ancora più amara al già struggente soggetto del dipinto.

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Telemaco Signorini (Firenze 1835 - 1901)

La sala delle agitate a San Bonifacio

1865, Venezia, Museo d'Arte Moderna di Ca' Pesaro

Il quadro raffigura un ambiente del manicomio di Firenze; è una delle opere più celebri di Telemaco Signorini. Al suo apparire suscitò vivaci polemiche e sconcertò anche gli estimatori del pittore, noto fino a quel momento soprattutto per paesaggi di gusto "macchiaiolo". Fu esposto per la prima volta a Torino nel 1870. Giuseppe Giacosa, recensendo la mostra, con la sua sensibilità di scrittore "verista" osservava: «È un quadro che non lui piace, ma che esercita le spaventose attrazioni dell'abisso».

La scelta del soggetto riflette quell'interesse per i temi sociali che in Francia si manifesta, ad esempio, nell'opera letteraria di Zola. Del resto, Sìgnorini era stato a Parigi nel 1861; dal 1855 era seguace del materialismo di Proudlron e proprio a partire dalla "Sala delle agitate" impresse una svolta di sempre maggior impegno alla sua pittura. Nel dipinto, volutamente sgradevole, il principale protagonista è lo stanzone disadorno. Sulle pareti violentemente illuminate risaltano le figure in contro luce delle "agitate". Le pazze, le cui grida sembrano rimbombare nell'ampio spazio vuoto, sono definite con una linea convulsa che deriva certamente dal realismo spietato di Daumier.

Lo spazio per il demente e per il malato psichiatrico continua ad essere un problema presente non solo nel nostro immaginario sociale, ma anche nella progettazione degli ambienti costruiti per i malati mentali, ivi compresi gli accorgimenti per rendere l'abitazione "amichevole" all'utente anziano con deprivazioni sensoriali e intellettive.

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Maestro Von Kleve

Scena di morte

Dal Libro d'ore di Katharina von Kleve (van Cleef, de Clèves)

New York, Pierpont Morgan Library

Si tratta dell'opera di un anonimo maestro fiammingo, attivo all'Aja e a Utrecht, cui sono riferite miniature eseguite per il vescovo di Egmont e la cui impresa principale è il Libro d'ore o Breviario (in questo caso un volume di soggetto religioso e non profano), commissionato, presumibilmente intorno al 1440, da Katharina von Kleve. L’anonimo miniatore, pur trattando il tema della "buona morte" secondo i canoni d'obbligo in un contesto di devozione, manifesta l'irresistibile vocazione al realismo della cultura fiamminga. Il monaco e la figura femminile in primo piano, intenti alla preghiera con l'ausilio di un libro di devozione, sono separati da un tavolino sul quale poggiano oggetti d'uso quotidiano (una vera "natura morta"); i gesti delle donne al capezzale del defunto ― una gli chiude gli occhi, l'altra gli pone in mano un cero ― hanno un'intonazione feriale che spoglia di ogni accento drammatico o sacrale il momento della morte, che viene così interpretata come esito quieto e naturale.

La scena raffigurata dalla miniatura rimanda alle dimensioni sociali e psichico-spirituali del morire e rievoca tempi nei quali l'arte del morire (ars moriendi) faceva parte dell'arte del vivere (ars vivendi). La malattia e la morte non venivano giudicate solo negativamente, ma avevano anche un significato positivo, sullo sfondo della storia della salvezza (escatologica). Il medico attraverso la diagnosi dell'urina (figura sullo sfondo, con il recipiente dell'urina) ha riconosciuto che la medicina non può più offrire alcun aiuto; i familiari e il clero sono vicini al morente con la loro presenza, le parole e gli sguardi, il contatto fisico e la lettura. Il morente muore a casa. Sa che la sua fine è giunta, è stato informato; nella fede si volge con fiducia verso la vita celeste. Queste coordinate di riferimento non sono più quelle della nostra cultura, che ― secondo la ricostruzione dello storico della medicina Philippe Ariès ― ha rinunciato all'"addomesticamento" della morte operato delle epoche precedenti e ha medicalizzato la morte e il morire.

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DI CHE COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI BIOETICA?

Una disciplina poco più che ventenne

Ci sono persone che, di fronte a una parola nuova o di uso non comune, tirano a indovinare. Se invece appartenete al gruppo di coloro che preferiscono andare sul sicuro, è probabile che, come prima cosa, andiate a consultare un buon dizionario. Per stabilire il significato della parola "bioetica", possiamo fare questo primo passo insieme. Andiamo ad aprire il Vocabolario della lingua italiana, edito dall'istituto della Enciclopledia Italiana, un'opera poderosa in cinque tomi che fotografa storia e novità delle parole. Sotto la voce che a noi interessa troviamo le seguenti informazioni:

"BIOETICA [dall’ingl. bioethics (1971), composto di bio ― e ethics 'etica'] ― Disciplina, costituitasi recentemente nell'ambito delle scienze umane integrando temi ed esigenze dell'etica, individuale e sociale, e nuove conoscenze medico-biologiche, che ha, come particolare oggetto di interesse, il comportamento dell'individuo, del medico e della società nei confronti di problemi essenziali che riguardano: la vita intrauterina (manipolazione genetica, eugenetica, aborto preventivo e terapeutico), la morte (casi di senilità grave e irreversibile, sopravvivenza vegetativa di soggetti cerebrolesi, eutanasia), la sperimentazione e l'intervento chirurgico sull'uomo e sugli animali (sperimentazione di farmaci, psicochirurgia, vivisezione), l'aumento demografico (controllo delle nascite, sterilizzazione), la tutela degli equilibri ecologici e dell'ambiente naturale".

È una definizione accurata e completa, come sono soliti darne per l'appunto i dizionari. Descrive i contenuti principali della disciplina. A qualcuno sarà già tornato in mente che la parola bioetica è capitato di sentirla associata ai fatti della medicina e della biologia che colpiscono l'opinione pubblica: una nuova prodezza nell'ambito dei trapianti di organo o di ingegneria genetica, un altro traguardo raggiunto nella fecondazione artificiale, un discusso comportamento

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medico sulla frontiera tra la vita e la morte, oppure su quella che segna l'inizio della vita embrionale. Di questi progressi della scienza biologica da qualche tempo si discute in pubblico, non solo nella cerchia ristretta degli esperti.

Il dizionario, oltre a una elencazione delle tematiche che costituiscono l'oggetto della bioetica, offre alcune informazioni utili per definire i contorni della disciplina. Afferma che la parola "bioetica", adottata per indicare globalmente questo genere di dibattiti, è stata coniata nel 1971. Si tratta quindi di una disciplina molto recente, tanto da poter dire che è tutt'ora in costruzione. Più precisamente, è il germoglio più recente di una pianta più volte secolare, che è la filosofia morale o etica. È di origine americana. Non solo perché la parola "bioetica" è una traduzione del neologismo inglese "bioethics", ma soprattutto in quanto l'interesse si è acceso dapprima negli Stati Uniti, a cavallo tra gli anni '60 e '70.

A nessuno è venuto in mente di celebrare nel 1991 i vent'anni della bioetica. Forse perché, più che la parola in quanto tale ― l'ha creata Van Renselaer Potter, un biochimico ricercatore nell'ambito dell'oncologia di base, mettendola come titolo a un suo libro: Bioetica. Ponte verso il futuro ― interessavano i problemi ai quali la parola è stata riferita. Il 1992 è sembrato un anno migliore per festeggiare i vent'anni della bioetica. L'iniziativa è stata presa da Albert Jonsen, direttore del dipartimento di storia ed etica della medicina dell'Università di Washington. Nel 1992 ha organizzato a Seattle, capitale dello stato americano di Washington, un convegno per festeggiare la ricorrenza ventennale.

Lo spunto per promuovere il 1972 ad anno di nascita della bioetica è stato offerto da un articolo apparso sulla rivista Life il 9 novembre di quell'anno. Vi si raccontava la storia di un comitato costituito a Seattle per selezionare ì candidati alla dialisi. Da un decennio la dialisi per le persone affette da insufficienza renale cronica era stata resa possibile, proprio a Seattle per la prima volta. Ben presto era apparso chiaro che i pazienti che avevano bisogno della dialisi per sopravvivere erano in numero superiore alle apparecchiature disponibili. La soluzione a cui si fece ricorso a Seattle fu quella di costituire un comitato, formato per lo più da non-medici, che prendesse in considerazione le cartelle di tutti ì possibili candidati e scegliesse quelli a cui riservare la tecnologia salvavita.

La giornalista Shana Alexander, indagando sul comitato, scoprì che i criteri adottati per stabilire la lista e assegnare le priorità tenevano in considerazione elementi non solo clinici, ma anche di valutazione sociale: contributi passati o futuri alla comunità (la vita di uno scienziato era considerata da preferire a quella di un disoccupato), la composizione della famiglia (in particolare, se il malato avesse figli piccoli a carico), l'accettabilità della persona secondo i criteri morali prevalenti nella società (il comitato di Seattle considerava anche il criterio preferenziale costituito all'essere affiliato a una chiesa...). L'articolo del popolare settimanale aveva il tono dell'indignazione morale. Già il titolo era polemico: "Decidono chi deve vivere, chi deve morire"; l'accusa rivolta al comitato era quella d'usurpare un compito di Dio. A seguito dell'articolo ci fu in America un animatissimo dibattito sul problema delle scelte in medicina.

Secondo Albert Jonsen, la commemorazione del 1972 come anno di nascita della bioetica è giustificata dal fatto che per la prima volta la società prendeva coscienza dei problemi creati dal progresso medico e decideva di farne oggetto di un esame pubblico, alla luce del sole, invece di lasciarne la soluzione alla "scienza e coscienza" dei sanitari. I medici, che in passato hanno esercitato l'autorità più assoluta nell'ambito delle decisioni cliniche, apparivano inadeguati a sciogliere i nodi etici posti dalla nuova medicina; niente, ad esempio, nella formazione ricevuta, metteva i medici in grado di elaborare criteri ispirati a correttezza ed equità per selezionare i candidati a un trattamento, quando le risorse erano insufficienti per tutti.

Al letto del malato si affacciavano degli "estranei" ― giuristi, economisti, filosofi ― che in

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passato non erano mai stati convocati per le decisioni che il medico avocava a sé. Secondo l'articolo provocatorio di Life, non è che i criteri verso i quali inclinavano i non-medici fossero immuni da critiche; ma quanto meno i criteri non erano coperti dal potere quasi sacrale di una professione. Erano criteri discutibili, anche nel senso che su di essi si poteva aprire un dibattito pubblico. E la società si dichiarava disposta a esaminare criticamente il dossier che si formava a ridosso dei progressi della biologia e della medicina. Questo passaggio dalla competenza totalizzante attribuita ai medici a un coinvolgimento di tutti gli attori sociali delle scelte mediche, investendo di responsabilità la società nel suo insieme e in particolare alcuni specialisti ― quelli che in seguito cominceranno a essere chiamati "bioeticisti" ― è giudicato da Albert Jonsen il cambiamento sociale decisivo per la nascita della bioetica.

Un modo nuovo di affrontare i problemi delle scienze bio-mediche

Da queste considerazioni sulla bioetica e la sua giovane storia ricaviamo qualche elemento che arricchisce la definizione data dal dizionario. Ci rendiamo conto che la bioetica non interviene solo a regolare quei casi estremi ― tra il folklore e lo scoop giornalistico ― che si verificano sulla frontiera delle applicazioni tecnologiche alla biologia e alla medicina. Anche la pratica quotidiana della medicina e le scelte cliniche (chi curare e in che modo curare) devono essere affrontate in modo nuovo. La bioetica non è solo un insieme di problemi, ma un approccio diverso degli stessi.

Un altro tratto caratteristico della riflessione bioetica è il "pathos". Quando dibattiamo sui criteri per scegliere i candidati alla dialisi, diventando consapevoli di esercitare un potere di vita e di morte, ci troviamo di fronte a problemi coinvolgenti, "appassionanti" in senso letterale. È probabile che ci sentiamo indotti a difendere una posizione, mescolando insieme argomenti razionali e punti di vista soggettivi, emozioni e pregiudizi, nonché la nostra propria "filosofia" della vita. Questo è appunto il "pathos" che accompagna la bioetica. Di fronte agli stessi fatti, persone diverse vedono cose differenti. La "psicologia della forma" ― una scuola di psicologia sperimentale nata nella prima metà del nostro secolo ― ha divulgato questa verità mediante le figure ambigue. Ci sono delle configurazioni in cui il gioco dei rapporti tra "figura" e "sfondo" può produrre nell'occhio di colui che percepisce immagini diverse. Una della figure ambigue più note è quella che ci permette di vedere, senza aggiungere o togliere nulla, o l'immagine di una vecchia strega, o il profilo di una fanciulla.

Questa figura ambigua, più e meglio di altre, è appropriata a illustrare ciò che succede nel

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dibattito pubblico sui temi della bioetica. Quando si tratta di dare una forma a quell'insieme confuso di segni provocato dall'impatto della scienza più progredita e della tecnologia più sofisticata sull'antica arte della guarigione, qualcuno può vedervi un'immagine minacciosa (la strega, che insidia e stravolge i modi tradizionali di concepire la vita e la morte, la salute e la malattia, il bene e il male nel rapporto di cura), altri invece una figura più rassicurante (la fanciulla: una nuova alba per l'umanità, che grazie alla tecnologia bio-medica acquista maggiore potere sulla natura e può affrontare la patologia con un insperato grado di libertà).

Rispondendo alla domanda: "Di che cosa parliamo, quando parliamo di bioetica?", non trascuriamo che stiamo parlando non solo di problemi oggettivi, che nascono nell'interfaccia tra il sistema delle cure sanitarie e la medicina di punta, ma anche di noi stessi: del nostro modo di riferirci alla tecnica e alla "natura", di concepire il progresso, di immaginare la convivenza tra diversi modelli di etica nella società complessa. La bioetica, in altre parole, è un forte invito a diventare consapevoli di noi stessi in quanto soggetti morali, con i nostri timori e le nostre speranze.

La bioetica e i suoi parenti prossimi

In questa prima approssimazione alla bioetica dobbiamo delimitarla dalle discipline che più le assomigliano, tanto da dare spesso l'impressione che si possono sovrapporre: l'etica medica e la morale religiosa.

La bioetica ha dovuto confrontarsi con una forte tradizione dell'etica medica. Questa è stata per lo più intesa come etica della professione medica. I medici l'hanno sviluppata e difesa come loro esclusiva proprietà. Le rivendicazioni dei professionisti sanitari sull'etica medica hanno prodotto risultati ambivalenti. In linea di principio, l'autonomia dell'etica medica offre alla professione una protezione dalle pressioni che le ideologie totalitarie esercitano sui medici, affinché conformino il loro comportamento ai valori imposti dal regime.

L'Europa ha conosciuto due principali eclissi dell'etica universale: sotto i regimi fascisti-nazisti (Italia e Germania) e nei paesi sottoposti al comunismo. In questi casi all'etica medica è stato negato il carattere professionale indipendente, per subordinarla a visioni ideologiche particolari (comprendenti il razzismo, l'eugenetica, la lotta di classe e la dittatura del proletariato). Nelle situazioni storiche totalitarie l'indipendenza dell'etica medica dai valori che regolano la società crea uno spazio di libertà per un'etica legata a ideali filantropici e universalistici.

Tuttavia l'etica medica elaborata dai professionisti medici può anche costituire un ostacolo al sorgere di formulazioni nuove, più adatte alla situazione culturale in cambiamento. Lo dimostra il fatto che in molti paesi europei i medici ricorrono all'etica medica tradizionale ― ispirata agli ideali della medicina ippocratica e fortemente ancorata a un atteggiamento paternalista nei confronti del malato ― per contrastare i modelli medici centrati sul valore dell'autonomia individuale e sulla pratica dell'informazione e del consenso, favoriti dalla bioetica attuale.

La spinta verso la bioetica è caratterizzata, se si confronta con la forte tradizione di un'etica sviluppata in proprio dalla professione medica, dal bisogno di un'etica civile o di un'etica della vita quotidiana elaborata a più voci. La bioetica si differenzia dall'etica medica in quanto è una riformulazione consensuale dei diritti e doveri nell'ambito della pratica medica e della cura della salute. Essa include gli obblighi professionali dei medici, ma non deriva solo da questi. Un altro tratto caratteristico della bioetica in rapporto all'etica civile o generale è il consenso etico sul minimo, che obbliga tutti i cittadini, contrapposto al consenso etico sul massimo, centrato sulle preferenze personali.

Un secondo nodo che la bioetica deve affrontare è quello del suo rapporto con l'etica religiosa.

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Le grandi religioni storiche hanno tradizionalmente portato un vivo interesse ai problemi connessi con l'arte del guarire e si sono intensamente impegnate a elevare in senso morale e spirituale la motivazione dei sanitari. Erano perciò spontaneamente orientate a sintonizzarsi sulle tematiche proposte dal nuovo movimento della bioetica. Questa, da parte sua, non ha solo un legame storico con le regole morali che le religioni dell'Occidente hanno prodotto nell'ambito della corporeità (sessualità, procreazione, malattia, cura della salute, morte). Sia nel più recente passato che nel presente esistono delle interconnessioni profonde tra la riflessione filosofica nata all'interno delle scienze della vita e l'impegno umanistico a migliorare le pratiche di cure sanitarie in nome della fede religiosa. Tuttavia, quando la bioetica si è sviluppata come disciplina coltivata da un gruppo ben individuato di pubblici esperti nei problemi posti dalla biologia e dalla medicina, ha assunto la forma di un discorso secolare. La bioetica è andata sempre più sviluppandosi all'insegna della filosofia morale, mentre l'articolazione religiosa del discorso è stata relegata nell'ambito privato dell'esperienza morale.

Là dove le religioni sono belligeranti contro la modernità ― fino a contestare la possibilità di elaborare un progetto secolare nell'ambito delle problematiche bioetiche che possa essere considerato veramente morale ― nasce come reazione la belligeranza delle etiche laiche contro le religioni. Il laicismo arriva a mettere in discussione la pretesa delle religioni di determinare le condotte umane come buone per una via diversa da quella puramente razionale. Lo scontro tra fondamentalisti non è una soluzione accettabile, così come non lo è il compromesso.

La via di soluzione passa per lo scrupoloso rispetto della libertà religiosa di tutte le persone, da una parte, e per l'accettazione, da parte delle religioni, dei minimi etici che lo Stato deve esigere coercitivamente da tutti. Questa è l'etica civile, da stabilire mediante procedimenti partecipativi e democratici. L'etica civile deve rispettare il parere di tutti, secondo i meccanismi che portano alla formazione della maggioranza.

È vero che le opinioni morali ― anche quelle della maggioranza ― possono essere sbagliate, o può sembrare ad alcuni che lo siano. Ma questa convinzione legittima solo a iniziare un dibattito o processo di educazione morale della società, nel quale esercitare la propria capacità di convincere gli altri, con argomenti razionali, a far proprie le ragioni addotte. Ogni altro procedimento, che invece di proporre ed educare cerchi di imporre, deve considerarsi, in linea di principio, inaccettabile nella nostra epoca. Soprattutto la bioetica è il luogo ideale in cui la società pluralista può imparare la pratica della tolleranza e del dialogo.

ETICA E QUALITÀ DEL SISTEMA DELLE CURE

Un luogo accogliente per l'uomo fragile

Per dare una fisionomia alla bioetica, finora ci siamo fatti guidare dalla parola stessa, seguendo le associazioni mentali ed emotive che essa suscita. Un altro percorso, indiretto ma non meno efficace, è quello che si crea quando ci domandiamo che cosa ci aspettiamo da un buon sistema di cure. Se siamo seriamente malati, è molto probabile che ci metteremo anzitutto alla ricerca di un buon ospedale dove farci curare. Ma come riconosciamo un buon ospedale rispetto a uno che non lo è? Se soffermiamo la nostra attenzione su questa domanda, ci rendiamo conto che non è semplice definire che cosa costituisca la buona qualità di un ospedale rispetto a un altro.

Di fatto le attese sono diverse. Per qualcuno gli aspetti alberghieri e umanitari vengono in primo luogo: camere gradevoli, servizi moderni, personale medico e infermieristico educato e

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attento a tutti i bisogni è quanto si aspettano da un ospedale di buona qualità. Qualcun altro ― oppure anche la stessa persona, ma in un altro momento della malattia ― considererà buono l'ospedale dove può fidarsi della bravura e competenza del personale sanitario: purché risolvano il suo problema di salute, è disposto a sorvolare anche su eventuali sgradevolezze. Per altri ancora la qualità dell'ospedale è soprattutto la facilità d'accesso: non l’ospedale dove non si trova posto, dove bisogna fare file interminabili per prenotazioni e pagamento dei ticket, dove le precedenze non vengono rispettate perché funziona il sistema delle raccomandazioni. La qualità dell'ospedale, in altre parole, è valutata in rapporto ai nostri bisogni.

Non ci sono però solo i nostri bisogni soggettivi, messi in moto da ciò che minaccia lo stato di salute. Anche la società ha sviluppato nel corso del tempo bisogni diversi rispetto alle istituzioni e ai sistemi che garantiscono le cure sanitarie. Per fissare la nostra attenzione sull'ospedale, possiamo immaginare che in ogni struttura ospedaliera siano contemporaneamente presentati almeno quattro ospedali, che siano succeduti nello sviluppo storico dell'istituzione.

All'inizio troviamo l'ospedale "hospitium", il luogo dell'ospitalità. L'ospedale, quale primitiva realizzazione storica dell'Occidente, è nato come una casa di accoglienza per tutti i disgraziati, quale spazio per l'uomo fragile. L'obiettivo di questa istituzione era di esercitare la "pietas" verso le persone diseredate. Per illustrare questa concezione possiamo riferirci a un ospedale concreto: quello sorto sull'isola Tiberina, a Roma, fondato nella seconda metà del XVI secolo dall'ordine religioso di san Giovanni di Dio, noto come "Fatebenefratelli". I religiosi esercitavano la "pietas" del servizio ai malati ispirandosi al modello della carità fraterna predicata dal cristianesimo. Nei regolamenti di allora, ad esempio, era previsto che ogni derelitto che entrava nell'ospedale ― perché l'istituzione dell'ospedale non era pensata unicamente in funzione dei malati, ma degli emarginati in genere ― venisse accolto dal priore, il quale gli lavava i piedi. A mezzogiorno, dopo la preghiera comune, i frati infermieri ricevevano il vitto dal priore insieme ai malati. Era la concezione alta dell'ospedale come "hospitium".

L'idea basilare dell'"hospitium" come luogo dove si è bene accolti perché si è sofferenti, o perché in un modo o nell'altro si è andati a finire sotto le ruote del carro della vita, è stata rinnegata dalla rivoluzione francese. Non solo perché era collegata con l'idea della carità cristiana, che l'anticlericalismo rivoluzionario rifiutava, ma perché le realizzazioni pratiche spesso si allontanavano in modo stridente dall'ideale. L'ospedale premoderno era un luogo indifferenziato in cui si trovava il bambino abbandonato accanto al vecchio, lo storpio accanto al demente, la partoriente accanto al morente. Non solo la realtà dell'ospedale non rispondeva alle più elementari condizioni igieniche, ma spesso era in contrasto con il rispetto dovuto alle persone. La critica della rivoluzione francese a quel modello d'ospedale fu così radicale che il Direttorio cambiò perfino il nome: invece di "hôpital", propose di chiamarlo "hospice".

Nel corso del secolo XIX è avvenuta, in realtà, un'evoluzione che ha portato a differenziare due tipi di istituzioni: l'"hospice" è diventato il luogo deputato a raccogliere i derelitti ― vecchi, trovatelli, malati inguaribili e affetti da malattie contagiose ― mentre l'"hôpital" ha assunto la funzione di luogo dove si dispensano le cure finalizzate alla guarigione. La stessa evoluzione semantica è avvenuta anche in Italia. L'ospedale è stato sempre più identificato come il luogo della guarigione, mentre l’ospizio è diventato il luogo della cronicità (anche se una venatura di diffidenza nei confronti dell'ospedale è rimasta nella cultura popolare; la risentiamo in un sonetto del Belli: "Ma nun sai c'a lo spedale ce se more?", risponde risentito un personaggio, al quale propongono di andarsi a curare in ospedale. È rimasta a lungo l'idea che andare all'ospedale significava esser avviato su un binario morto).

È molto interessante che alla fine del nostro secolo ricompaia, in modo del tutto inatteso, il

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bisogno di "hospice”, inteso come luogo di accoglienza per quelli che non possono essere guariti. Il riferimento è al "movimento degli hospices", nato nei paesi anglosassoni una ventina di anni fa. Noi abbiamo una difficoltà quasi insormontabile ad adottare questo termine, in quanto connota l'"ospizio" nel suo significato più deteriore di emarginazione e discriminazione. Nel significato che ha assunto all'interno delle cure palliative, l’"hospice" è piuttosto il luogo in cui assistere i malati che non possono più essere avviati per la via della guarigione. In particolare, ai malati in fase terminale viene offerto un ambiente dove è possibile esercitare la "pietas" e l'accoglienza, dove la palliazione e le attenzioni all'intero nucleo familiare hanno la precedenza sugli sforzi terapeutici.

Anche le R.S.A. (le Residenze Sanitarie Assistenziali) per anziani sono una variante moderna del concetto originario di "hospitium". Dobbiamo reinventarci oggi il luogo dell'accoglienza per i più fragili, proprio quando ci accorgiamo che l'ospedale non è fatto per i lungodegenti. Siamo assediati da una marea crescente di persone anziane che l'allungamento della vita ― felice, ma anche tremendo risultato della medicina moderna ― rende inadatte a vivere nella propria casa, mentre l'ospedale si rivela, a sua volta, inappropriato, per motivi economici e umani, a ospitare un declino che diventa sempre più lungo. Questi anziani ci pongono una sfida: dobbiamo riscoprire l'ospedale ― nelle sue varianti moderne ― come luogo accogliente per l’uomo fragile, un luogo dove sta di casa la "pietas".

La cittadella della scienza medica

Passiamo ora a considerare un secondo modello di ospedale: l'ospedale come cittadella della scienza medica. Questo passaggio è avvenuto nel corso del XIX secolo. L'opera di Michel Foucault ― La nascita della clinica ― l'ha spiegato in modo ineccepibile. Per la prima volta nella lunga storia della medicina questa ha acquisito la capacità, non episodica o casuale, di modificare il corso naturale della malattia. L'ospedale è diventato cosi il luogo dove la medicina come scienza dispensa cure efficaci, miranti alla guarigione.

Il modello dell'ospedale come cittadella fortificata della scienza medica, dove ha luogo la lotta organizzata ed efficace contro tutte le forme di malattia, continua a essere più che mai attuale. Non potremmo mai considerare "ospitali" gli ospedali che fossero al di sotto dello standard di cure efficaci che la medicina oggi è in grado di fornire (quand'anche il direttore sanitario in persona lavasse i piedi ai malati e portasse loro il cappuccino alla mattina su un vassoio d’argento...!). Qualunque sia il livello di gradevolezza dell'ambiente e di attenzione alla persona, se l'infarto, ad esempio, non viene trattato in modo efficace, secondo le acquisizioni consolidate del sapere medico, non potremmo mai considerare quell'ospedale come un "buon" ospedale.

In questo modello del luogo di cura come cittadella della scienza l'umanizzazione equivale sostanzialmente a una richiesta di efficacia. L'attualità di questa problematica può essere collegata al dibattito relativo alla permanenza di piccoli ospedali decentrati. Il piccolo ospedale di pochi letti è magari ideale dal punto di vista dell'ospitalità: i malati possono essere trattati in modo personale e non burocratico, i medici e gli infermieri stabiliscono rapporti molto familiari tra di loro e con i malati. Ma dal punto di vista dell'efficacia il piccolo ospedale può costituire un vero e proprio pericolo per la salute e per la vista stessa del malato.

Per quanto si possa essere affezionati al proprio piccolo ospedale di provincia, di fronte alla patologia sena la preferenza va naturalmente all'ospedale che garantisca sicurezza ed efficacia. È un'esigenza imprescindibile di ciò che ci aspettiamo oggi da un buon ospedale: deve avere le conoscenze e le tecnologie per dare una risposta efficace alla patologia. La qualità medica che l’ospedale deve garantire comprende essenzialmente l’efficacia delle cure. È molto probabile

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che ciascuno di noi, dovendo scegliere tra un ospedale dove ci trattano bene ma non ci sanno curare e uno dove invece ci sanno curare, sceglierebbe il secondo, anche se il comfort e l'attenzione alla persona lasciassero a desiderare.

Il modello dell'ospedale come luogo della scienza medica continua a essere quanto mai attuale. Non potremmo mai più rinunciare all'esigenza che il nostro curare sia basato su un sapere scientifico. Semmai dobbiamo chiedere alla medicina che si riferisca alla scienza in modo più rigoroso e più ampio. Le carenze della medicina attuale derivano dal fatto che molta parte della scienza medica non sa e non vuole integrare il sapere che deriva dalle scienze dell'uomo. Continua a trattare le patologie come se queste riguardassero solo il corpo, e non l'insieme della persona. Anche se, per ipotesi, la pratica di questa medicina fosse ineccepibile dal punto vista filantropico, del rispetto dei diritti umani e della correttezza gestionale, sarebbe però sempre carente se non tenesse conto di quanto dell'uomo malato ci dicono la psicologia, la sociologia, l'antropologia culturale.

Le patologie più diffuse nella nostra società non riescono a essere curate efficacemente con una medicina che ignora sistematicamente queste dimensioni dell'essere umano. Per fare solo qualche esempio, pensiamo al problema della cura delle tossicodipendenze; oppure al crescente diffondersi di disturbi del comportamento alimentare, come la bulimia e l'anoressia: l'incapacità della medicina di trattare queste patologie, galoppanti nella nostra società, illustra le carenze intrinseche di risultati efficaci di una scienza medica che ignora le componenti psicologiche, relazionali, antropologiche e simboliche dei fatti patologici. Ci possiamo anche riferire al dolore cronico: i fallimenti medici nel tenerlo sotto controllo, malgrado il sofisticato arsenale terapeutico a disposizione della medicina contemporanea, dipendono dalla negligenza nel considerare il ruolo che esso gioca nella rete dei rapporti che lega il malato alla famiglia e alla società. È la prospettiva che ha indotto l'antropologo medico di Harvard Arthur Kleinman a parlare di malattie "sociosomatiche" (una prospettiva, dunque, che presuppone la "psicosomatica", anzi la allarga integrandovi anche la società come costitutivo della malattia: Kleinman, 1993).

La carenza dell'ospedale concepito come cittadella del sapere medico dipende dal fatto che questo sapere è un sapere dimidiato: conosce solo una parte dell'uomo. Un ospedale "umano" è quello che sa integrare questo sapere completo sull'uomo non solo in modo teorico, ma pratico. Ciò implica il ricorso a professioni che si basano appunto su queste conoscenze umanistiche, come lo psicologo, l'assistente sociale, il cappellano o assistente spirituale, non visti come professionisti di secondo livello, che si occupano delle piccole cose, ma come parte integrante di un unico progetto terapeutico. Ma soprattutto richiede un ruolo il più attivo possibile della professione infermieristica, che per definizione è sensibile alla totalità dei bisogni del malato. L'ospedale umano, secondo questo modello, è quello che sa dare risposte efficaci alle patologie. A tutte, comprese quelle tipiche della società moderna, che non possono essere modificate senza un ricorso sistematico alle scienze dell'uomo, oltre che a quelle della natura.

La solidarietà dello stato sociale

Il terzo modello di ospedale è quello del welfare state. Dagli anni '40 del nostro secolo in poi, molti paesi dell'area occidentale, a cominciare dall'Inghilterra, hanno socializzato la medicina, come pilone portante del welfare state. Per welfare state intendiamo «un insieme di interventi pubblici connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale, introducendo fra l'altro specifici diritti sociali nel caso di eventi prestabiliti, nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria» (Ferrara, 1993). In questo quadro generale l'ospedale diventa il luogo dove si concentra l'impegno dello stato a

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fornire a tutti i cittadini l'assistenza sanitaria. Non per motivi di filantropia, ma di giustizia. L'assistenza sanitaria diventa uno dei diritti civili e sociali esigibili da ogni cittadino. Assicurare a tutti l'assistenza sanitaria in caso di malattia, indipendentemente dalla capacità economica di pagarsela, diventa l'impegno prioritario dello stato sociale.

Nell'ospedale tutti i cittadini hanno uguale diritto di accesso, tutti possono pretendere considerazione e rispetto, e soprattutto una cura adeguata alle loro necessità. La cura della salute promossa dallo stato sociale si è tradotta in una modalità che, di per sé, poteva essere evitata: l'ospedale ha preso il posto centrale e quasi unico di tutto il sistema delle cure. In quel progetto generoso, con venature di utopia, in cui lo stato si impegnava a promuovere il benessere di tutti i cittadini occupandosi di loro "dalla culla alla tomba", l'ospedale era il luogo deputato a questa assistenza totale.

Attualmente ci troviamo nella necessità di ridisegnare lo stato sociale. Sappiamo che le risorse di cui disponiamo non sono sufficienti ― e mai lo saranno, per quante risorse siamo disposti ad allocare a favore della sanità ― per dare tutto a tutti. Siamo perciò costretti a stabilire una scala di priorità: a chi dare, cosa dare, con quali criteri. Nell'attuale fase di transizione, in cui dobbiamo correggere le disfunzioni dello stato sociale senza tuttavia rinnegare la solidarietà allargata che esso presuppone, l'ospedale è sottoposto a un forte cambiamento, che rimette in discussione l'"ospedalocentrismo" a cui siamo abituati.

In questo nuovo stato sociale, verso il quale ci stiamo incamminando, la priorità numero uno è l'efficienza. Mentre nell'ospedale come cittadella della scienza l'imperativo dominante era e rimane l'efficacia (all'ospedale chiediamo in primo luogo che guarisca le malattie!), nel nuovo stato sociale l'ospedale deve mirare a distribuire le risorse scarse in modo che con esse si ottenga il più e il meglio. In altre parole, l'ospedale deve essere efficiente.

L'efficienza è importante come valore economico, ma esprime anche un'esigenza etica. Possiamo illustrare l'assunto con un esempio. Se l'imperatore del Giappone si ammala ― come è successo con il vecchio Hirohito ― per curarlo si può spostare un ospedale nel suo palazzo, compresa la Tac e tutta la tecnologia più sofisticata. L'efficacia sarà la stessa, ma non si può dire che questa organizzazione delle risorse sia efficiente. Possiamo dare tutto a una persona e ottenere risultati brillanti in termini di efficacia, mandando però deluse le legittime aspettative di tanti altri che avevano diritto di contare su quelle stesse risorse. Come corollario del nuovo stato sociale, dobbiamo esigere che l'organizzazione delle cure in ospedale tenga in debita considerazione il criterio dell'efficienza. Se manca, l'ospedale non può qualificarsi come un ospedale di qualità, per quanto alto sia il livello di efficacia delle prestazioni sanitarie che eroga.

I sanitari non possono più accontentarsi di guarire le persone: nel curarle e guarirle, devono anche evitare gli sprechi e fare il miglior uso delle risorse. Ciò implica anche una limitazione nell'uso stesso dell'ospedale. Se viene utilizzato per motivi impropri, facendo in ospedale trattamenti che possono essere fatti altrove o in regime di Day hospital, si realizza uno spreco di risorse, e quindi una medicina inefficiente (oltre che, molto spesso, una medicina che calpesta le attese di chi vorrebbe che l'ospedale fosse anche "ospitale").

Questa preoccupazione si traduce in progetti molto concreti. Uno di questi può essere la promozione del Day hospital o della Day surgery. Organizzare gli interventi diagnostici e terapeutici in un giorno solo, evitando il ricovero, porta al risparmio su tutti i piani: da quello economico a quello del disagio inflitto ai malati. Anche molte operazioni chirurgiche possono essere fatte in ciclo giornaliero, se ben programmate e organizzate.

Anche le cure domiciliari diventano un programma essenziale di un ospedale che mira all'efficienza. Naturalmente queste vanno programmate: non sono tali quelle improvvisate, magari perché i sanitari, diventati sensibili ai costi, decidono di mettere il malato, con la sua

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valigetta degli effetti personali, fuori dalla porta dell'ospedale. Per quanto riguarda la programmazione delle cure domiciliari, in un grande ospedale degli Stati Uniti ― la Cleveland Clinic ― si può vedere una realizzazione ideale: tra l'ospedale e il domicilio c'è un momento istituzionale intermedio, chiamato The Bridge (il ponte). Serve a favorire la transizione, istruendo il malato e i suoi familiari affinché la cura possa essere condotta a casa, senza perdere nulla dell'efficacia. Le cure domiciliari non si improvvisano.

Lo stile "azienda" in sanità

I tre modelli di ospedale che abbiamo analizzato, presenti sotto forma di eredità del passato, devono essere completati da un quarto: l'ospedale del futuro. Il quale non è solo un pio desiderio, in qualche modo presente come esigenza e potenzialità che domanda di essere realizzata: è o, sarà, l'ospedale azienda. È già previsto dal decreto legislativo n.517/93, che propone in chiave operativa la formula dell’azienda per la gestione delle Usi e degli ospedali, quale correttivo per le disfunzioni del Servizio sanitario nazionale introdotto in Italia nel 1978. Se poi l'ospedale azienda rispetterà le esigenze di qualità che la lunga evoluzione dell'organizzazione delle cure ci ha permesso di evidenziare, dipende da quello che saremo capaci di realizzare.

Qualcuno ha visto in questo modello di ospedale un tradimento della sua natura e vocazione originaria. Bisogna anzitutto chiarire un equivoco: non si tratta solo di trasporre nell'ospedale che cura le malattie la filosofia del profitto che caratterizza l'azienda nata per produrre e commercializzare beni e servizi. Così inteso, l'ospedale azienda sarebbe davvero un tradimento degli ideali etici del sistema delle cure.

Il riferimento è invece a quella filosofia dell'azienda che è stata sviluppata in questi ultimi anni a partire dal concetto di "qualità totale". L’hanno inventata i giapponesi, che grazie ad essa sono giunti a una posizione di leadership in molti ambiti del mercato mondiale. Le aziende occidentali, se vogliono sopravvivere e non essere escluse dalla competizione, sono costrette ad abbandonare la vecchia mentalità aziendalistica e ad adottare anch’esse la filosofia della "qualità totale". In questa prospettiva l'obiettivo prioritario non è quello di aumentare il fatturato, ma di avere "clienti consolidati", perché soddisfatti. Questa filosofia è risultata vincente nel settore delle automobili; tanto più, quindi, se si tratta di un servizio personalizzato come la cura della salute.

Un cambiamento di questo genere richiede molto di più di un "lifting" superficiale dell'azienda: implica un ripensamento totale, che si traduce in un atteggiamento diverso di coloro che producono beni o servizi nei confronti del cliente. Quello che si domanda alla "azienda" ospedale è di mettere al proprio centro il paziente-cliente, imparando un modo diverso di lavorare. È una rivoluzione che non produce soltanto migliori servizi, ma fa sì che gli operatori siano più soddisfatti del loro lavoro.

Nella filosofia della "qualità totale" non si può fornire un prodotto eccellente se coloro che lo producono non sono attivamente coinvolti: non come piccole ruote di un ingranaggio, ma come protagonisti attivi che pensano le soluzioni e le propongono, fanno progetti e li realizzano, cercando piccoli miglioramenti costanti. Il cliente soddisfatto presuppone un fornitore dei servizi soddisfatto. Con delle persone frustrate e demotivate non si può fare un'azienda che abbia l'"eccellenza" come obiettivo.

Nell'ospedale azienda il criterio di valutazione non è più solo l'efficacia o l'efficienza, ma diventa l'eccellenza. Il paziente-cliente dovrà uscire da questa istituzione non solo curato, ma soddisfatto. Altrimenti preferirà, nel regime concorrenziale che si andrà stabilendo, un'altra azienda fornitrice di servizi alla salute. La scommessa per il futuro è il passaggio a quell'ospedale

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azienda che realizzi tutta la potenzialità di umanizzazione che ha in sé, quasi una sintesi delle esigenze implicite nei tre modelli di ospedale che si sono succeduti nel tempo: ospedale-"hospitium", ospedale-cittadella della scienza e ospedale presidio del welfare state.

STAGIONI DELL'ETICA IN MEDICINA

L'etica medica come etica dei medici

Noi oggi, alla fine del XX secolo, cerchiamo una "buona" medicina per rispondere ai nostri problemi di salute, non meno di quanto abbiano fatto i nostri antenati o i nostri padri, soltanto una generazione fa. Ma la nostra idea di ciò che corrisponde a buona o cattiva medicina è cambiata, così come sono cambiate le nostre attese nei confronti di un ospedale o del servizio sanitario pubblico. Più precisamente, possiamo dire che ci troviamo presi in un processo storico che ha visto il susseguirsi di almeno tre grandi modelli di buona medicina, ognuno dei quali prospetta in modo coerente come si devono comportare i diversi protagonisti del sistema delle cure: i medici, i malati, le varie professioni sanitarie, la società del suo insieme. Ogni modello che si sussegue nel tempo ci obbliga a ripensare ogni volta la medicina intera sotto una diversa luce di qualità. In modo sintetico, possiamo dire che i tre modelli rappresentano tre diverse stagioni dell'etica in medicina.

Per illustrare i cambiamenti di tutto ciò che associamo all'idea di "buona" medicina, ci serviremo dello schema A.1. Come ogni schema, introduce una certa semplificazione nella realtà delle cose, ma ha il vantaggio di concentrare l'attenzione sui punti nevralgici del cambiamento.

Il primo modello presentato dallo schema può essere chiamato pre-moderno. Ha caratteristiche di grande antichità e di forte tenuta nel tempo. La sua antichità è indiscussa, in quanto in Occidente risale almeno a Ippocrate, vale a dire al 5° secolo a.C. Ma anche la sua forza è notevole, in quanto non esiste in tutta la tradizione occidentale un modello culturale che abbia resistito tanto a lungo.

L'Occidente ha cambiato una quantità di cose nell'organizzazione sociale ― l'economia, la famiglia, la religione, il diritto, la politica ― dall'antichità greco-romana a oggi. La medicina stessa si è profondamente modificata nel corso del tempo, sia nei modelli teorici che nel modo di fornire aiuto ai malati. Tra il medico seguace di Galeno ― che interpreta le malattie secondo la teoria degli umori ― il medico scienziato dell'Ottocento ― che ricorre al metodo della scienza sperimentale per spiegare come funziona l'organismo sano o malato ― e il medico della nostra epoca ― che è capace di ricondurre le malattie a un difetto del corredo genetico ed è in grado di prevederne l'insorgenza con anni di anticipo ― le differenze sono enormi. La stessa cosa si può dire riguardo al ricorso di salassi, ai vaccini e all'ingegneria genetica.

Per l'etica, invece, non è avvenuto così. Le convinzioni su ciò che è bene o male fare in medicina, sui comportamenti giusti o ingiusti nei confronti del malato, sono rimaste relativamente stabili per secoli. Praticamente si tratta di una tradizione ininterrotta che in Occidente è durata per più di 25 secoli, dall'epoca di Ippocrate fino ai nostri giorni: in tutto questo tempo non abbiamo mai sentito il bisogno di modificare il concetto, condiviso dai medici e dai pazienti, di quelle pratiche di cura della salute a cui attribuire un valore morale positivo.

Ci possiamo riferire a quest'epoca come alla stagione premoderna dell'etica in medicina. Sinteticamente la denominiamo etica medica. L'aggettivo è giustificato. L'etica a cui ci riferiamo, infatti, è sostanzialmente l'etica "del medico". È il medico che la determina e la professione

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Epoca

Premoderna

Etica medica

Epoca

moderna

Bioetica

Epoca

Postmoderna

Etica

dell'organizzazione

La buona

medicina

Quale trattamento

porta maggior

beneficio al paziente?

Quale trattamento

rispetta il malato nei

suoi valori e

nell’autonomia

delle sue scelte

Quale trattamento

ottimizza l’uso delle

risorse e produce un

paziente/cliente

soddisfatto?

L’ideale

medico

Paternalismo benevolo

(scienza e coscienza)

Autorità

democraticamente condivisa

Leadership morale,

scientifica,

organizzativa

Il buon

paziente

Obbediente

(compliance)

Partecipante

(consenso informato)

Cliente giustamente

soddisfatto e consolidato

Il buon

rapporto

Alleanza terapeutica

(il dottore

con il suo paziente)

Partnership

(professionista-

utente)

Stewardship

(fornitore di servizi-cliente)

Contratto di assistenza:

Azienda/popolazione

Il buon

infermiere

Paramedico”

Esecutore delle decisioni

mediche.

Supporto emotivo

del paziente

Facilitatore della

comunicazione,

a beneficio di un

paziente autonomo

Manager

responsabile della qualità

dei servizi forniti

Schema A.1 - Stagioni dell'etica in medicina.

medica se ne fa garante. In questa etica sono prescritti comportamenti per i malati, per i familiari, per le professioni che collaborano con il medico; tutti svolgono, tuttavia, funzioni subordinate e sono chiamati a modellarsi sulle richieste che provengono dai medici, i quali hanno un ruolo decisivo nello stabilire che cosa sia "buona" medicina. La qualifica di "paramedici" data a coloro che esercitano professioni sanitarie non mediche rispecchia bene questa situazione di centralità del medico. Anche l'etica dei non medici in questa stagione è un'etica "paramedica".

La domanda fondamentale a cui risponde la medicina di qualità dell'epoca pre-moderna è: «Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?». Troviamo questa preoccupazione già nel giuramento di Ippocrate, nella cosiddetta clausola terapeutica: "Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa". Tutta l'azione del medico è diretta a procurare il bene del paziente, identificato con la soluzione della patologia.

Le risorse che il medico utilizzerà sono ovviamente quelle che la scienza del tempo gli mette a disposizione: per il medico dell'antichità era la "dieta" (cioè il regime terapeutico che tendeva

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a ristabilire nella vita del malato l'equilibrio turbato); per il medico dei nostri giorni i trattamenti appropriati saranno gli' antibiotici o i trapianti di organo. Qualunque sia la scienza di riferimento, il modello rimane tuttavia lo stesso: il medico si impegna a fare il bene del paziente.

Questa accentuazione è presente anche in altre tradizioni mediche che afferiscono al filone ippocratico. Pensiamo, ad esempio, alla medicina omeopatica. Il libro fondamentale di Samuel Hahnemann, l'Organon dell'arte di guarire, inizia con una frase programmatica, che circoscrive il dovere del medico in un perimetro molto preciso: «L'unico compito del medico è guarire presto, dolcemente, durevolmente» (Hahnemann, 1993). Tutto il resto dell'opera è dedicato al "come" ottenere la guarigione, vale a dire ai rimedi appropriati alle patologie. La prima frase compendia il fondamento etico di tutta l'impresa terapeutica, ricondotta alla volontà di procurare la guarigione del paziente.

I principi fondamentali di questa etica, riconducibili all'imperativo di fare il bene del paziente, presuppongono un modello ideale del medico fondamentalmente paternalista: il medico è colui che sa qual è il bene del paziente e vuole realizzarlo, mettendovi tutto il suo impegno e tutta la dedizione. È la scienza in continuo progresso che lo guida nel percorso della terapia, mentre la coscienza gli impedisce di trarre profitto dalla debolezza del paziente (per esempio, strumentalizzandolo ai fini di ingiusto lucro o di fama). Questa duplice guida è riassunta da una formuletta, molto amata e citata dai medici, quando rivendicano a se stessi l'obbligo di prendere le decisioni "in scienza e coscienza". Nel linguaggio della bioetica americana, si parla a questo proposito di una medicina ispirata al principio della "beneficence", ovvero di "beneficità".

Il malato contribuisce alla buona medicina impegnandosi a essere docile e osservante delle prescrizioni, in un rapporto di affidamento fiduciale. Egli non ha, di per sé, nulla da dire in merito all'atto terapeutico, che rimane affidato a quanto il medico stabilisce per il suo bene. Tutto quello che il malato ha da fare, è di diventare "paziente", in tutti i significati del termine. Il buon paziente è il paziente "osservante". A lui si richiede di entrare nel trattamento mediante la "compliance". Come affermava l'illustre spagnolo Gregorio Marañón, che ha rappresentato nella prima metà del secolo il permanere dell'ideale ippocratico: «Il malato che non sa essere paziente diminuisce le sue possibilità di guarire. Obbedire al medico è incominciare a guarire».

In questo modello il buon rapporto è l'alleanza terapeutica tra colui che si dedica all'opera della guarigione e chi riceve questo servizio. Il termine "alleanza" fa parte della tradizione religiosa. Il rapporto medico-paziente ha, di fatto, una connotazione fortemente religiosa in senso ampio, in quanto, allo stesso modo dell'alleanza che è il pilastro centrale della religione ebraico-cristiana, mette in relazione due fondamentali diseguaglianze. Nell'alleanza religiosa si tratta del legame che si instaura tra la potenza della divinità, in quanto fonte di forza e di salvezza, e la situazione di necessità propria del popolo di Israele. L'unione dei due mediante l'alleanza fa salvezza. Analogamente, la guarigione in medicina, nel modello tradizionale, si ottiene mediante l'unione tra la scienza-coscienza del medico (che include il suo sapere, la filantropia, la volontà di fare il bene del paziente) e la volontà del paziente di mantenersi dentro questo rapporto di alleanza.

Il seguire la prescrizione medica è la condizione essenziale perché l'alleanza possa esplicare i suoi effetti benefici, e quindi procurare la guarigione. Il contraente dell'alleanza, che è il malato, si deve affidare e accettare le condizioni che gli vengono poste per la guarigione; il medico, che concede l'alleanza, lo guida verso il suo proprio bene. Dai collaboratori del medico, in quanto "paramedici", ci si attende che collaborino anche a indurre i malati a essere "osservanti". Qualche decennio fa, essere "paramedici" sembrava essere un momento di crescita culturale

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per la categoria degli infermieri. Oggi la qualifica è diventata irritante, in quanto si percepisce che, secondo questo modello, la qualità della prestazione sanitaria è interamente determinata dal sapere e dal potere del medico.

Questo modello continua ancora a strutturare i nostri comportamenti sociali, sia come medici che come pazienti. Soltanto quando diventiamo "moderni" il modello entra in crisi.

La stagione della bioetica

Quando comincia l'epoca moderna? I manuali di filosofia e di storia generalmente fanno iniziare la modernità con l'Illuminismo, nel XVIII secolo. Ci dicono che nella storia è avvenuto un cambiamento profondo, una di quelle fratture che hanno ripercussioni generalizzate su tutta la struttura dell'esistenza. L'Illuminismo ha modificato l'insieme della vita politica e sociale; solo in un ambito non è entrato: in medicina. Nei rapporti sociali che si stringono attorno a chi somministra e a chi riceve le cure sanitarie, l'epoca moderna non è incominciata fino a pochissimo tempo fa. Soltanto da una ventina di anni sono diventati visibili i segni di una frattura che indica che la medicina è entrata nell'epoca moderna. Di conseguenza, cambiano tutti i parametri che costituiscono il modello di "buona medicina" che era proprio dell'epoca premoderna.

Rinunciando a una descrizione approfondita, ci limitiamo, seguendo lo schema, a mettere delle parole chiave attorno a questi cambiamenti. Il fine generale della medicina non è più soltanto quello di portare il maggior beneficio al paziente: perché un trattamento medico abbia un carattere di qualità, ci dobbiamo anche domandare se rispetta il malato nei suoi valori e nell'autonomia delle sue scelte. Nell'epoca moderna, infatti, il malato va fondamentalmente considerato come una persona autonoma, capace di autodeterminare le proprie scelte.

L'autonomia della persona è fondamentale nell'epoca moderna. Così lo ha espresso Immanuel Kant nel famoso saggio Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo? L'Illuminismo comincia quando si decide di uscire dallo stato di minorità dovuta all'uomo stesso, intendendo per minorità "l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro". Il primo paragrafo dello scritto, che sintetizza il programma di vita dell'uomo moderno, termina con l'esortazione: "Sapere aude": abbi il coraggio di servirti dell'intelletto come guida.

Il malato dell'epoca moderna è quello che ha la capacità e il coraggio di non farsi trattare come una persona eterodeterminata, ma assume il peso e la responsabilità delle decisioni che lo riguardano. Ciò mette in crisi il modello secondo cui nella medicina tradizionale il malato è per definizione uno che non si può determinare. Riconosciamo l'influenza di concezioni antiche, come quelle che ha espresso Aristotele quando ha affermato che il malato, proprio per la sua condizione, non è capace di dare giudizi razionali, in quanto è turbato dalle passioni, come ad esempio la paura per la propria vita; nello stato di malattia deve quindi subentrare la struttura paternalistica di contenimento: qualcun altro prende le decisioni per il bene del malato, dal momento che questi non lo può fare. Dire che la medicina entra nell'epoca moderna significa prima di tutto rimettere in discussione questo paradigma profondo, che presuppone una fondamentale diseguaglianza tra le persone autonome e quelle che non lo sono (le scelte di queste ultime essendo determinate dalle prime).

Nell'epoca moderna i valori del malato, intesi come quadro di riferimento che guida l'autonomia delle sue scelte, diventano un momento fondamentale del fare "buona" medicina. La potente ed efficace medicina che la scienza, abbinata alla tecnologia, ci mette oggi a disposizione si apre su scenari diversi. L'arsenale medico è potente e vario, e ci mette di fronte ad alternative create dai valori soggettivi. A seconda del concetto soggettivo di buona vita, ovvero di

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ciò che vogliamo fare della nostra vita, un intervento medico può essere appropriato o no.

Perché si abbia buona medicina non ci si può limitare a rispondere alla domanda: «Questo intervento porta oggettivamente un beneficio al paziente?». Non basta stabilire ― per esempio ― che l'atto medico di fatto prolunga la vita del paziente. Se quanto il medico intraprende va contro i suoi valori e le sue decisioni, non possiamo parlare di buona medicina. L'autodeterminazione del paziente, in quanto articolazione fondamentale dei suoi diritti (per capire la differenza del paradigma, basti pensare che nel modello tradizionale si parla solo di doveri del medico e non di diritti del paziente) diventa un criterio di qualità. L'intervento sanitario non può essere più deciso unilateralmente dal medico che si basa sul sapere della sua professione, ma deve essere individuato insieme al paziente, spesso con un faticoso processo di contrattazione.

Superato il paternalismo benevolo, l'ideale medico in questo modello diventa un'autorità democraticamente condivisa; il buon paziente è un paziente partecipante alla decisione. Il cardine di questa strutturazione concettuale è il "consenso informato". L'idea di qualità dell'atto medico si arricchisce di una nuova componente: è buono l'intervento sanitario che ha anche una correttezza formale, vale a dire il rispetto delle procedure volte a far partecipare il paziente alle scelte diagnostiche e terapeutiche che lo riguardano. Questa specificazione ci permette di dissociarsi dall'uso del consenso informato che si va diffondendo anche in Italia, concepito per lo più in funzione difensiva del medico, non finalizzato a promuovere l'autonomia del paziente.

Nella prospettiva che abbiamo adottato, il paziente non ha più solo diritti ma anche dei doveri. La sua posizione non è solo di privilegio, ma anche di scomoda responsabilità, in quanto deve partecipare al processo decisionale. Non possiamo escludere che talvolta il paziente potrebbe preferire piuttosto di delegare la decisione e di demandarla al medico («Faccia quello che è necessario: il dottore è lei, non io!»). Il paziente partecipante nelle scelte ha il compito di diventare un buon paziente. Per diventarlo non basta che si limiti a non far storie, non porre troppe domande, essere docile e seguire le prescrizioni mediche; il buon paziente ha anche un compito etico: deve realizzare tutto quello che è necessario per essere un buon paziente. Il buon rapporto è una partnership, che si instaura tra professionista e utente.

Il termine "utente" può suscitare delle associazioni che sembrano fuori luogo in sanità. Per ricondurlo entro l'ambito appropriato, basta pensare al senso etimologico della parola. L'utente è colui che "usa" la competenza del medico; in quanto utente, ha il dovere di usarla bene, responsabilmente, per fare insieme al professionista le scelte appropriate.

L'idea di qualità, dunque, include il concetto di partecipazione. Il termine bioetica, usato per designare questo modello di qualità dell'atto medico, è un neologismo, appropriato per un modello di qualità in medicina veramente inedito. È la buona medicina appropriata per la stagione dell'etica in medicina che abbiamo chiamato "moderna". Sentiamo il bisogno di cambiare etichetta anche perché non ci troviamo più nell'ambito dell'etica medica, cioè del medico, concentrata sul medico, elaborata dalla professione medica a beneficio anche del malato. La bioetica implica uno spostamento dell'accento, per cui la qualità non è più determinata in maniera unica ed esclusiva dal sapere e dal potere del medico, ma viene stabilita in modo dialogico, insieme al paziente, il quale deve partecipare alle decisioni con i suoi valori, nell'ambito del consenso sociale. Quindi nella bioetica entra la società, l'etica civile, l'accordo ottenuto trasversalmente alle diverse comunità morali di appartenenza, includendo anche gli "stranieri morali".

In questo quadro cambia anche ciò che ci attendiamo dal buon infermiere. Nell’orizzonte della bioetica diventa un professionista più qualificato. L'infermiere ha una funzione importante

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nella medicina del dialogo, in quanto facilitatore della comunicazione, a beneficio di un paziente autonomo. Infatti l'autonomia della persona non è un punto di partenza, ma di arrivo; favorire l'autonomia del paziente diventa un obiettivo da raggiungere. Poiché quello che diceva Aristotele è sacrosanta verità: quando siamo malati, profondamente malati, precipitiamo in una condizione di non autonomia, in quanto siamo sopraffatti dalle passioni. Facilitare la comunicazione è una funzione importante in questo modello di qualità, tanto da mobilitare tutta la professionafità dell'infermiere.

Questo modello di qualità, che nella nostra cultura non abbiamo nemmeno ben cominciato ad articolare, si diffonde con estrema difficoltà. Lo contrasta una profonda resistenza, sia da parte del mondo medico, sia da parte dei cittadini. Si avverte che è necessario accrescere le conoscenze e mobilitare tutte le energie concettuali e morali, al fine di entrare in questo modello. Tanto i professionisti della sanità quanto i pazienti sono obbligati a cambiare modelli di riferimento che hanno una lunghissima tradizione. È un passaggio epocale, che sposta l'accento della qualità da un modello a un altro, inaugurando un'altra epoca della qualità e dell'etica nella medicina.

Quando l'ospedale si organizza come un'azienda di servizi

Mentre proviamo ancora tanta difficoltà a entrare nella stagione della medicina moderna, forti spinte ci stanno già indirizzando verso l'epoca post-moderna. Ci stiamo muovendo, infatti, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, verso l'introduzione dello "stile azienda" in sanità. Il modello di qualità comporta un rapporto nuovo con il paziente. Sommariamente possiamo dire che non solo il malato deve essere informato e responsabilizzato per partecipare in modo autonomo alle decisioni terapeutiche, ma deve essere considerato come un "cliente". Oltre ad avere diritti da rivendicare, vuole anche essere soddisfatto.

Questa prospettiva caratterizza quel tipo di organizzazione sanitaria che è stata messa in moto con la riforma della riforma e che si sintetizza nel concetto di azienda sanitaria. Soddisfare i pazienti diventa un'esigenza strategica per la sopravvivenza dell'azienda stessa. Il paziente, infatti, spostandosi da una struttura all'altra, porta dietro la sua capacità di spesa, rappresentata dalla sua quota capitana. Quindi è importante una gestione oculata dell’azienda: se perde i pazienti, perché questi preferiscono un'altra struttura, l'azienda esce dal mercato. Se i sanitari non trattano bene i pazienti per motivi ideali (carità cristiana o filantropia) oppure per la ragione che è loro diritto in quanto cittadini avere una buona assistenza, devono farlo almeno per interesse dell'azienda.

Il modello di qualità postmoderno comporta delle variazioni anche in tutte le altre articolazioni fondamentali del sistema di rapporti entro cui si svolge l'azione sanitaria. Innanzi tutto l'interrogativo fondamentale che dovrà porsi chiunque abbia delle responsabilità nelle scelte ruoterà intorno a elementi della qualità di carattere gestionale: quale trattamento ottimizzerà l'uso delle risorse e produrrà un paziente-cliente soddisfatto? La fisionomia stessa dell'interrogativo etico viene modificata.

Nell'etica medica il registro per valutare la qualità è quello della bontà (l'azione è buona in quanto porta il beneficio della guarigione); la bioetica si colloca entro la tradizione etica coltivata nel mondo anglosassone, che valuta se l'azione sia giusta o ingiusta, in rapporto ai diritti e nel rispetto delle procedure; la nuova stagione che si è aperta ci obbliga a interrogarci se l'azione sia appropriata rispetto ai fini da conseguire, che comportano sia una più acuta sensibilità per il bene comune e l'equità sociale, sia un'attenzione agli interessi dell'azienda.

La qualità, ovvero il valore etico di un intervento sanitario, oggi è molto più complessa. I criteri

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più recenti non devono sostituire quelli precedenti, ma integrarsi con essi. La "buona" medicina continua a essere quella che, come diceva Flahnemann, deve mirare a guarire in maniera rapida, dolce e duratura. Ma questo non basta: deve anche preoccuparsi di essere "giusta", rispettando i diritti del malato e promuovendo la sua autonomia. La seconda dimensione si è aggiunta con la "modernizzazione" (in senso culturale) della medicina. Queste considerazioni si accrescono ora anche con quelle relative a ciò che si dimostra appropriato nell'orizzonte della giustizia, in considerazione dell'accesso ai servizi e dell'equa distribuzione delle risorse.

La buona medicina, quella dotata di qualità, è quella che nasce dall'integrazione delle esigenze che nascono dall'etica medica, da quelle della bioetica, e delle esigenze, infine di quella nuova stagione dell'etica in medicina che sentiamo incombere, sotto la spinta delle nuove condizioni sociali e della pressione dell'economia, e che possiamo chiamare etica dell'organizzazione. Per la precisione, da tutt'e tre contemporaneamente. Le stagioni dell'etica in medicina, con le rispettive esigenze riguardo a ciò che è giusto e appropriato nell'assistenza sanitaria, non vanno viste come modelli conclusi che si succedono nel tempo, ma come esigenze contemporanee e contestuali.

Lo schema seguente, che pone le scelte in uno spazio tridimensionale, può visualizzare la complessità della situazione attuale:

Spazio della contrattazione beneficio-preferenze-appropriatezza

Idea grafica di Patrizio Pasqualetti

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Finché la qualità dell'intervento sanitario sul paziente si misurava esclusivamente con il metro del beneficio del paziente (epoca premoderna), maggiore era il beneficio ― nello schema viene indicato simbolicamente con una retta numerata da 0 a 15 ― che il malato riceveva da quello che si poteva fare per lui, maggiore era la qualità, anche etica, dell'atto medico. La modernità, con l'introduzione dell'autonomia del paziente, ha introdotto un altro parametro, indicato nello schema come asse delle preferenze. La buona scelta medica dovrà tener conto contemporaneamente di due fattori: il beneficio da procurare al paziente e il suo consenso a ciò che il malato ha individuato e scelto come suo bene. La scelta si realizza sul piano orizzontale di una contrattazione, che spesso produce un compromesso (non è detto, infatti, che ciò che costituisce dal punto di vista clinico il maggior beneficio per il paziente corrisponda alle sue preferenze, o inversamente: ciò che il paziente informato vuole per sé può non coincidere con quanto la medicina sarebbe in grado di fare per lui).

A queste due dimensioni oggi dobbiamo aggiungere una terza, così che la decisone clinica ci appare collocata in uno spazio tridimensionale. Dobbiamo considerare, infatti, anche l'appropriatezza sociale degli interventi sanitari, in una prospettiva di uso ottimale di risorse limitate, solidarietà con i più fragili ed equità. Quello che possiamo fare per un malato, anche se valutabile con un punteggio alto sul parametro dell'appropriatezza clinica e su quello delle preferenze personali, potrebbe collocarsi molto in basso rispetto al criterio del buon uso delle risorse (anche questo parametro viene simbolicamente rappresentato nel modello con valori crescenti da 1 a 15).

La buona medicina ci appare così come il frutto di una "contrattazione" molteplice, che deve tener conto di tre diversi parametri: l'indicazione clinica (il "bene” del paziente), le preferenze e i valori soggettivi del paziente (il "consenso informato") e infine l’appropriatezza sociale. L'assistenza sanitaria, dovendo conciliare nelle sue scelte esigenze diverse e talvolta contrastanti, senza minimamente rinunciare alle esigenze della scienza, ci appare più che mai un'arte.

L’ideale medico dell’epoca post-moderna è una leadership morale, che include anche una competenza organizzativa, oltre che scientifica e clinica. Il modello paternalista non funziona più là dove si assume lo stile dell'azienda post-moderna: è necessario di dotarlo di autorevolezza. Non ci possiamo più basare su una divisione dei compiti di tipo burocratico. Soltanto chi ha quella che la cultura del management chiama la "vision", cioè la visione strategica degli obiettivi e dei mezzi, sviluppa una forza morale capace di trascinare gli altri membri dell'équipe.

Il buon paziente è il cliente soddisfatto e consolidato; ma bisogna subito aggiungere che il nostro obiettivo non è il cliente in qualsiasi modo soddisfatto e consolidato, bensì il cliente giustamente soddisfatto. Il buon rapporto è la stewardship, che implica un atteggiamento non centrato sul professionista, ma sugli standard di qualità del servizio. È il presupposto che sta alla base della "Carta dei servizi pubblici sanitari", predisposta recentemente dai ministri della Funzione pubblica e della Sanità. La Carta ― leggiamo nella presentazione ― intende assegnare «un ruolo forte sia agli enti erogatori dei servizi, sia ai cittadini nell'orientare l'attività sui servizi pubblici verso la loro "missione": fornire un servizio di buona qualità ai cittadini-utenti».

Per quanto riguarda l'infermiere, in questo quadro lo possiamo considerare come il manager responsabile della qualità dei servizi offerti. È un compito nuovo, che affida all'infermiere non soltanto le funzioni puramente esecutive del primo modello e quelle umanistiche-interpersonali del secondo, ma anche un compito veramente promozionale della qualità. La qualità percepita dal paziente può essere monitorata molto meglio da un caposala che da un medico (il quale, oltre tutto, è vincolato dal rapporto particolare che si crea con il paziente).

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I problemi etici della soddisfazione del paziente

Il terzo modello, quello che abbiamo chiamato "aziendale" o post-moderno, è particolarmente insidioso. Quando portiamo nella sanità lo stile azienda e consideriamo il rapporto con il paziente come cliente dobbiamo essere consapevoli che abbiamo anche messo le premesse per affossare valori importantissimi che ci sono stati trasmessi in 25 secoli di medicina, come l'orientamento al bene del paziente. Promuovendo il paziente-cliente, non dobbiamo dimenticare che la soddisfazione del paziente non è un imperativo assoluto, sciolto cioè da vincoli morali. Qualsiasi azienda, ma soprattutto l'azienda sanitaria, deve essere sottoposta alle esigenze dell'etica. Il paziente non va soddisfatto in qualsiasi modo, ma solo in modo giusto. Un supporto sistematico per visualizzare i problemi della soddisfazione in rapporto con le esigenze dell’etica può essere fornito da uno schema:

IL QUADRILATERO DELLA SODDISFAZIONE

Giustamente soddisfatto

Giustamente insoddisfatto

Ingiustamente soddisfatto

Ingiustamente insoddisfatto

Le ragioni dell'insoddisfazione sono diverse. È ovviamente insoddisfatto il paziente a cui, per incuria o incompetenza, non sia stato diagnosticato e trattato il suo male: egli ha diritto che, secondo il modello dell'etica medica, sia messo in atto tutto ciò che gli procura il beneficio che è autorizzato ad aspettarsi. Ma sarà insoddisfatto anche il paziente diabetico ― per fare un esempio ― che venga "messo a insulina” d'autorità, senza che gli sia spiegato il significato e la necessità della decisione terapeutica, i vantaggi che ne ricava e le esigenze di "compliance". La soddisfazione del paziente non può diventare un assoluto, ma va confrontata con alcune esigenze imprescindibili, in base alle quali possiamo dire che il paziente è giustamente soddisfatto. Per portare un esempio tratto dal "nursing": come sanno gli infermieri che lavorano in ambito geriatrico, gli anziani spesso non sentono lo stimolo della sete e rifiutano di bere. Sarebbe soddisfatto, ma ingiustamente, l'anziano che fosse lasciato semplicemente alle sue preferenze e non trattato secondo le esigenze della scienza infermieristica. In questo caso ciò che determina se la soddisfazione soggettiva del paziente sia giusta o ingiusta è il sapere che è proprio del professionista.

I modi di ottenere una soddisfazione ingiusta possono essere molti. Alcuni a danno del paziente (si può arrivare anche a dargli delle informazioni inesatte, fino al vero e proprio imbroglio), altri a danno di terzi (è chiaro che il paziente a cui faccio, per un privilegio, saltare la lista d'attesa è soddisfatto; ma è ingiustamente soddisfatto se considero le esigenze di equità).

Se la soddisfazione non è l'ultimo criterio di qualità, ma va piuttosto misurata con le esigenze dell'etica, la stessa cosa possiamo dire dell'insoddisfazione. Ci sono casi in cui il paziente è ingiustamente insoddisfatto. Questo è il caso del paziente che va dal medico di medicina generale con la sua richiesta di un farmaco (magari quello che ha fatto tanto bene al vicino o di cui si parla di più...), oppure vuole un trattamento di compiacenza, come un certificato falso di malattia. Se questo paziente non viene soddisfatto, cioè gli si nega ciò che richiede in modo illegittimo, allora è ingiustamente insoddisfatto.

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La prospettiva interessante che apre il "quadrilatero della soddisfazione" è quella di proporre una visione dinamica dell'etica. Troppo spesso identifichiamo l'etica con una istanza che giudica i comportamenti ― buono o cattivo, giusto o ingiusto, appropriato o non appropriato ― ma meno adatta a ottenere delle trasformazioni significative dei comportamenti. La prospettiva cambia se, tenendo a mente il quadrilatero della soddisfazione, ci domandiamo: quale intervento dobbiamo mettere in atto affinché un paziente, che nel grafico si trova in un quadrante inferiore, passi in uno superiore? L'obiettivo ideale è che si collochi nel primo a sinistra, tra coloro che sono giustamente soddisfatti; ma se ciò non è possibile, almeno nel secondo, vale a dire che il paziente sia giustamente insoddisfatto (questa possibilità di una insoddisfazione insanabile ci libera da un complesso di onnipotenza: non possiamo far sì che tutti siano soddisfatti, ma possiamo evitare almeno che lo siano ingiustamente...).

L'etica ci appare così uno strumento operativo: ci stimola a fare qualcosa per modificare una situazione. L'etica è essenzialmente un insieme di interventi dinamici, tesi a un risultato. La qualità dell'intervento sanitario, infine, sta nella sua capacità di integrare i diversi elementi: ciò che la scienza medica ritiene asso dato e raccomandabile (da questo punto di vista non si potrà mai accettare in medicina una logica del "cliente" che ha sempre ragione ... ), ciò che è conciliabile con le esigenze dei diritti umani e con l'autodeterminazione del paziente, e infine ciò che promana dall'orizzonte dell'ottimizzazione delle risorse che inaugura l'era delle aziende sanitarie.

QUESTO MANUALE: DAGLI INFERMIERI AGLI INFERMIERI

Gli infermieri prendono la parola

Gli infermieri possono scrivere la storia della loro professione come un cammino di emancipazione. Qualche paese dell'area dello sviluppo ha camminato a passo più spedito, altri meno; ma il movimento è chiaro e inarrestabile. L'Italia non fa eccezione. V. Dimonte (1993) ha potuto riassumere la storia dell'assistenza infermieristica in Italia con un'immagine: "da servente a infermiere". Dopo un lungo dibattito, il profilo professionale dell'infermiere, che secondo il regio decreto 1265 del 1934 era quello di una professione ausiliaria, è stato riconosciuto dal decreto del ministero della Sanità del luglio 1994 come un operatore sanitario, di cui si riconoscono le specifiche funzioni e le aree di specializzazione In sessant'anni di sanità pubblica l'infermiere ha modificato radicalmente la propria fisionomia. È giunto anche il momento di cambiare la formazione etica degli infermieri.

Bisogna riconoscere che l'etica è stata tradizionalmente considerata una parte integrante di ciò che è necessario per fare un buon infermiere. A differenza dei medici, gli infermieri hanno inserito questa disciplina nel loro curriculum. Ben prima che l'etica ― e ancor più la bio etica ― diventasse un discorso di grande attualità, addirittura da prima pagina nei giornali, gli infermieri si sono confrontati con l'etica nel processo di formazione. I modi di intenderla sono stati diversi. Sia le denominazioni che i metodi e i contenuti della disciplina hanno creato qualche perplessità, come cerca di illustrare spiritosamente la seguente vignetta:

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foto

Nell'insieme, tuttavia, si può sostenere che gli infermieri hanno rivolto attenzione all'etica nella formazione professionale più di altri operatori sanitari. Non mancano neppure strumenti qualificati per l'insegnamento. Diversi manuali, scritti appositamente per le scuole infermieristiche, presentano tutte le garanzie dì esperienza nei contenuti e di abilità didattica. Quello di cui si sentiva la mancanza era un libro di etica che facesse sentire la voce stessa degli infermieri, filtrando la loro esperienza diretta.

Non che l'etica degli infermieri sia diversa da quella che ispira il comportamento responsabile dei medici e degli altri operatori sanitari. L'etica che vige nell'ambito delle cure sanitarie è una. Lo sottolinea anche il ricorso, che si va generalizzando, al termine "bioetica", che scioglie gli equivoci legati alla denominazione "etica medica" (come se fosse l'etica dei medici, che si imponeva anche alle altre professioni "ausiliarie"). All'orizzonte della bioetica tutti si affacciano con uguale diritti e doveri di parola, senza pretese di monopolio da parte di nessuna professione. Tuttavia è anche vero che il contributo che all'etica dell'assistenza sanitaria può dare l'infermiere è diverso da quello di altri professionisti. Per questo è necessario un suo contributo attivo nell'articolare l'etica in medicina.

Le decisioni conflittuali nella cura della salute non sono solo confinate a casi estremi ed eccezionali. Il professionista formato e consapevole sa riconoscere la rilevanza etica della maggior parte delle sue azioni, anche di routine (Giovanni Berlinguer ha introdotto, a questo proposito, l'espressione "bioetica del quotidiano": 1991). L'infermiere è in prima linea. Egli passa con il malato la maggior parte delle ore del giorno. E della notte: quelle lunghe ore che sono per il malato il tempo privilegiato per i rimurginamenti, gli interrogativi angosciosi, le domande pressanti. Chi c'è alle tre del mattino, quando il malato vuole parlare delle decisioni che possono essere di vita o di morte? In quelle ore c'è l'infermiere accanto al malato.

Data la quantità di tempo che gli infermieri passano con i pazienti, non sorprende che i problemi etici siano spesso indicati come l'aspetto più difficile del loro lavoro. Gli infermieri sono spesso interpellati per informazioni, anche perché il medico è frequentemente visto come una figura autorevole lontana e di difficile accesso. L'infermiere è vicino, parla un linguaggio più vicino a quello del malato. E nelle pieghe delle informazioni che si chiedono all'infermiere

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sono annidati i presupposti delle decisioni che il paziente ― più o meno modellato sull'ideale del "consenso informato" ― dovrà prendere.

Per la specificità che è propria all’infermiere, questi porta nel processo della decisione una prospettiva più ampia di quella degli altri clinici. È quella dimensione "olistica" che gli infermieri apprezzano sempre più come la caratteristica che contraddistingue il "nursing". La frequentazione quotidiana dà all'infermiere una percezione più acuta dei valori a cui il paziente orienta la sua vita, dei suoi desideri e dei sottili cambiamenti che possono intervenire da un giorno all'altro. Ad esempio: i codici deontologici affermano che al paziente va detta la verità; ma quando la verità è adeguata? Qual è la verità che non ferisce il paziente, fino a provocargli un danno irreparabile? Senza il prezioso apporto dell’infermiere difficilmente ci si potrà avvicinare a quella giusta misura, che si colloca tra il "troppo’’ e il "troppo poco".

I medici pensano a curare, gli infermieri concepiscono il loro lavoro come un prendersi cura. Per questo tendono a vedere i problemi in un contesto. Sono due punti di vista ugualmente importanti. Le decisioni che si prendono in medicina hanno bisogno di tutt'e due le prospettive per potersi dire etiche. I medici sono, ovviamente, coloro che forniscono l'informazione sulla diagnosi del paziente e suggeriscono il corso del trattamento. Ma sono gli infermieri che sono accanto quando il paziente ha sperimentato la realtà del trattamento: i disagi o gli effetti collaterali della chemioterapia, per esempio. I pazienti sono disposti a condividere con l'infermiere i problemi relativi alla "qualità della vita" e l’infermiere è spesso nella migliore posizione per valutare il modo assolutamente individuale in cui il singolo paziente pensa che la propria vita abbia o no qualità (ovvero meriti o non meriti di essere vissuta). Non è superfluo ricordare, infine, che raramente i medici sono presenti alla morte del paziente. Gli infermieri, che assistono i morenti, sono più in grado di vedere la morte come la fine di un processo che richiede tutta una serie di decisioni in cui la dimensione etica predomina spesso su quella strettamente clinica.

Un’altra dimensione dell'attività quotidiana dell'infermiere dalle forti connotazioni etiche è quella educativa. Oltre a essere l'avvocato del paziente, l'infermiere è molto spesso l'educatore del paziente. Per esempio, un paziente che ha bisogno di un trapianto di organo è tutto concentrato sul trapianto in sé (la lista di attesa, la compatibilità dell'organo...); per lo più non si pone interrogativi sulla sua vita futura. Spesso sarà compito dell'infermiere fargli presente che cosa gli spetta, permettendogli così di fare una scelta ponderata. Non solo perché il "consenso informato" non sia una procedura puramente formale, ma perché il malato possa essere veramente ''osservante" e collaborativo.

In questi e in diversi altri modi, l'etica è intessuta nella vita quotidiana dell'infermiere. È un bene che egli "produce", e non solo "consuma” (come qualcosa da imparare e da mettere diligentemente in pratica...). Questo volume si propone precisamente di dar voce all'etica filtrata attraverso il vissuto quotidiano degli infermieri. Vuol presentarla alle nuove generazioni che si affacciano alla professione, come una opportunità di formazione.

Percorsi, non ricette

La caratteristica più saliente di questo manuale di bioetica è di essere stato scritto da infermieri per infermieri. Sei infermieri, con molti anni di esperienza professionale alle spalle (c'è anche chi ha tagliato il traguardo della pensione...), hanno costituito un'équipe di lavoro. Con il sostegno dell'editore, che ha avuto fiducia al progetto, si sono ritrovati a cadenze regolari, nell'arco di un paio di anni, per ripensare la formazione etica dell'infermiere. Il punto di partenza era costituito dal loro vissuto in ospedale e sul territorio, tenendo conto anche di quanto avevano imparato insegnando agli allievi.

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Il punto di arrivo doveva essere un manuale nuovo nell'impianto, facile da usare e soprattutto che trasmettesse una visione positiva e coinvolgente dell'etica (perché mai a questa disciplina deve essere associato un senso di costrizione, se non addirittura di oppressione, quando invece è sinonimo di ciò che dà sapore alla vita umana, con il suo inconfondibile gusto dolce-amaro?). Ognuno degli Autori ha redatto un paio di capitoli. Tutti hanno, tuttavia, rivisto i contributi dei colleghi, dato suggerimenti, apportato correzioni. Grazie a questo lavoro il manuale è diventato una vera e propria opera di équipe.

All'ordine sistematico che solitamente caratterizza i manuali di etica è stato preferito un approccio più movimentato. Ognuna delle tematiche o situazioni tipiche che presentano aspetti etici salienti è costruita allo stesso modo. Si parte da Fatti. Sono per lo più esperienze dirette di reparto, raccontate senza filtri letterari, con il linguaggio diretto di chi le ha vissute. Da questi fatti sono nati gli interrogativi e le perplessità che danno il tono inconfondibile al discorso etico: con il malato in questione ci siamo comportati bene o male? La nostra risposta ai suoi bisogni è stata giusta, appropriata, condivisibile? Come si sarebbe potuto fare diversamente? Che cosa uno sguardo più acuto o più addestrato avrebbe potuto vedere, mentre a noi è sfuggito?

Questi e analoghi interrogativi, che nascono spontaneamente dall'ascolto dei fatti, ci conducono alla sezione Idee. Queste servono a equipaggiarci per una risposta appropriata. Idee non sono solo teorie etiche elaborate dai filosofi morali. Occasionalmente vengono riportate anche queste; ma sono offerti anche numerosi altri contributi attinti dalle scienze umane: dalla storia e dalla sociologia, dalla psicologia e dall'antropologia, dalla religione e dalla letteratura. Perché l'etica, in quanto disciplina filosofica, può e deve arricchirsi dallo scambio con quel vasto ventaglio di saperi che nell'ambito linguistico anglosassone vengono chiamati medical humanities.

La terza sezione è costituita dalle Norme. Queste sono di diversa natura. Possono essere leggi (è regola di prudenza, oltre che segno di responsabilità, domandarsi quali conseguenze le nostre azioni possono avere sul versante del Codice civile o del Codice penale...). Oppure norme deontologiche, che vincolano ai comportamenti prescritti dalla professione. Anche gli infermieri hanno propri codici deontologici, che guidano con autorevolezza verso l'azione professionalmente corretta. Norme etiche, infine, quale sedimentazione della riflessione che nasce dalla filosofia morale.

Dopo il confronto con le norme, il percorso previsto riconduce, attraverso la sezione Comportamenti, a ciò che l'infermiere sperimenta concretamente nel vissuto quotidiano del suo lavoro. La considerazione dei fatti assunti come punto di partenza si è andata arricchendo attraverso il percorso. Forse non tutte le ambivalenze dei comportamenti si sono risolte nel frattempo, ma c'è più evidenza su ciò che è richiesto da una "buona" medicina e qual è l'apporto possibile del nursing. Rischia di essere deluso chi dall'etica si attende solo ricette da applicare; non invece chi ricerca nell'etica stimoli per vedere più e meglio nella complessa realtà delle cure sanitarie e orientamenti condivisi dalle persone più ragionevoli e meglio intenzionate.

Questa prospettiva è la più adatta a farci intendere l'etica come un compito mai completamente realizzato. Anche questo manuale si colloca in un orizzonte di perfettibilità. Proprio perché è nato dall'esperienza condivisa di un gruppo di infermieri, sa quanto arricchimento può venire dall'apporto di un numero crescente di professionisti. Quanto più sarà sperimentato, modificato, perfezionato, diventando un'opera collettiva in cui non si può più distinguere chi ha apportato e che cosa ha apportato, tanto più assomiglierà al manuale che gli Autori avevano in mente. Fino a diventare il manuale di etica degli infermieri italiani.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Dimonte V., Da servente a infermiere. Una storia dell'assistenza infermieristica in Italia, Cespi Editore, Torino, 1993.

Ferrara M., Modelli di solidarietà, Il Mulino, Bologna, 1993.

Foucault M., La nascita della clinica, tr. it. Einaudi, Torino, 1969.

Hahnemann S., Organon dell'arte di guarire, ed. Simoh, Roma, 1993 (I ed. 1810)

Kant I., Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? in Bobbio N. (a cura di), Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino, 1975, pp. 141-149.

Kleinman A., "Il contesto umano del dolore: un approccio antropologico", in L'Arco di Giano, n. 3, 1993, pp. 19-27.

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BIBLIOGRAFIA GENERALE

A) Per conoscere il malato e i suoi rapporti con le istituzioni sanitarie

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Illich I., Nemesi medica, tr. it. Mondadori, Milano, 1978.

Laín Entralgo P., Antropologia medica, tr. it. Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1988.

Shorter E., La tormentata storia del rapporto medico-paziente, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1986.

Spinsanti S. (a cura di), Bioetica e antropologia medica, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1991.

B) Opere di riferimento in etica medica e bioetica

Bompiani A., Bioetica in Italia. Orientamenti e tendenze, Ed. Dehoniane, Bologna, 1992.

Engelhardt H.T., Manuale di bioetica, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1991.

Gracia D., Fondamenti di bioetica. Sviluppo storico e metodo, tr. it. Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1993.

Malherbe J.F., Per un'etica della medicina, tr. it. Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1992.

Pellegrino E., Thomasma D., Per il bene del paziente. Tradizione e innovazione nell'etica medica, tr. it. Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1992.

Rodotà S. (a cura di), Questioni di bioetica, Laterza, Bari, 1993.

Sgreccia E., Bioetica, 2 voll., Vita e Pensiero, Milano, 1991.

Spinsanti S. (a cura di), Documenti di deontologia e etica medica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1985.

Spinsanti S., Bioetica in sanità, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993.

Spinsanti S., La bioetica. Biografie per una disciplina, Franco Angeli, Milano, 1995.

Verspieren P. (a cura di), Biologia, medicina ed etica, tr. it. Queriniana, Brescia, 1990.

Viafora C. (a cura di), Vent'anni di bioetica, Gregoriana Libreria Editrice, Padova, 1990.

C) Etica e Nursing

AA.VV., Lineamenti di etica professionale, EDI OFTES, Palermo, 1988.

Cortese C., Fedrigotti D., Etica infermieristica: sviluppo morale e professionalità, La Sorbona, Milano, 1988.

Davanzo G., Commento al Codice deontologico dell'infermiere professionale, Ancora, Milano, 1990.

Furlan M., Etica professionale per infermieri, Piccin, Padova, 1995 (III ed.)

Iandolo C., L'etica al letto del malato, Armando, Roma, 1990.

Leone S., Etica, McGraw-Hill Libri Italia, Milano, 1993.

Viafora C., Etica infermieristica, Ambrosiana, Milano, 1986.

D) Riviste

Arco di Giano. Rivista di "Medical humanities" (quadrimestrale), ed. Franco Angeli, Milano.

Bioetica. Rivista interdisciplinare (quadrimestrale), ed. Franco Angeli, Milano.

Kos. Rivista di medicina, cultura e scienze umane (mensile), Ospedale San Raffaele, Milano.

Medicina e Morale. (trimestrale), Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.

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UNA PROFESSIONE D'AIUTO

FATTI

Vi voglio bene come ai miei fratelli

Quando non c'è una risposta per una domanda di aiuto

IDEE

La morale del dovere

L’autorità del professionista

Il servizio pubblico: un servizio non per qualcuno, ma per chiunque

Il momento della verità

Norme e professione

NORME

● Norme Giuridiche

D.P.R. 28 nov. 1990, n. 384

D.L. 30 dic. 1992, n. 502

D.L. 3 febb. 1993, n. 29

D.M. 739, 14 sett. 1994

Norme deontologiche

Codice Fed. Naz. Collegi IP.AS.VI.

COMPORTAMENTI

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FATTI

«VI VOGLIO BENE COME AI MIEI FRATELLI»

Da molti mesi è seguita, qui in day-hospital; ci vediamo tutti i giorni, tutto l'anno esclusi i festivi. E quando vado in ferie o sto poco bene (già, la paziente è più assidua di me), lei viene a "lavorare" comunque con la costanza della disperazione. Per sopravvivere.

Oggi le è stato proposto dai medici che la curano di eseguire la terapia più vicino a casa, per evitarle il tragitto in macchina, il freddo, il caldo, lo stress. Ma lei piange, si dispera, mentre io cerco di stare calma per riuscire a trovarle "quella" vena...

Tento di instaurare una discussione serena sull'eventualità da parte sua di accettare la proposta. Le elenco, con tutta la dolcezza che mi è possibile, solo alcuni dei vantaggi che ne potrebbe trarre. Niente da fare, non ne vuole sapere.

«Ma stai scherzando, cosa credi che me ne importi di andare vicino a casa; io vengo qui perché mi sento sicura, tu sai quanto tempo mi ci vorrebbe per guadagnare la fiducia in altri operatori. E quanto tempo credi mi sia rimasto? Può avere davvero senso per me un nuovo adattamento, ora? E poi la gente parla e io non ho nessuna intenzione di informare chi non desidero informare. E la mia famiglia? Io la voglio proteggere. Voi sapete sempre cosa farmi e so che fate tutto quello che è nelle vostre possibilità».

«Io qui mi trovo bene con i medici, con gli infermieri, con gli ammalati, insomma con tutti. Io vengo a curarmi qui perché per me siete diventati come i miei famigliari, te lo giuro sai, io vi voglio bene come se foste i miei fratelli».

Riferisco al medico le mie perplessità. Razionalizziamo insieme sull'evidente dipendenza dalla struttura e dal ... tutto. Un caso estremo: «Si è convinta che solo noi possiamo salvare la vita». E allora faccio il possibile perché la paziente sia ospitata ancora per qualche tempo in day-hospital e venga rispettato questo suo desiderio.

Poi mi interrogo: «Ho fatto bene? Ho agito professionalmente?». Mi consolo pensando che forse si convincerà tra qualche giorno. Il medico mi fa notare che già domani altri pazienti hanno bisogno di quella poltrona. Torno a casa. È sera, poco prima di dormire mi ritorna alla mente la mia giornata lavorativa e senza che me ne accorga anche la sua disperata motivazione: «Io vi voglio bene come ai miei fratelli».

Quello che ho fatto oggi forse esula dalle mie competenze. L'ho fatto perché mi è sembrato importante esprimere ciò che lei sente giusto per sé in questo momento e perché non sono un'infermiera-robot; posso usare le difese necessarie di fronte a relazioni significative con i pazienti, ma non sempre bastano.

L’ultimo pensiero prima di dormire è un pensiero sereno: «Anch'io ti voglio bene, ne sono consapevole e sono anche cosciente di quanto dolore mi procura il sapere che dovrai morire; vorrei che il mio operare nei tuoi confronti fosse per vederti vivere, ma tu lo sai già, anzi ti sono grata perché sei tu che oggi hai detto a noi "vi voglio bene"».

AIDS - Storie umane, troppo umane

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QUANDO NON C'È RISPOSTA PER UNA DOMANDA DI AIUTO

La signora Giulia, ricoverata nel reparto geriatrico da circa diciotto mesi, era da altrettanto tempo a letto per una frattura al femore giudicata inoperabile. La prolungata e forzata immobilità, unita alla scarsezza di movimento per via della frattura, avevano causato l'insorgere di ulcere da decubito e da una di queste fuoriusciva il grande trocantere del femore fratturato.

La malata aveva dei dolori terribili e li esprimeva con invocazioni d'aiuto ripetute in continuazione a chiunque le passava accanto. Nessun parente la veniva mai a visitare; oltre al personale infermieristico che doveva occuparsi anche di altri pazienti, non c'era nessuna assistenza privata, neppure qualche volontario per aiutarla a mangiare. Una mia collega aveva mandato informazioni sui suoi congiunti e le era stato risposto che aveva un unico figlio alcolista che aveva speso per sé tutti i soldi della madre, lasciandola poverissima e sola.

In quel periodo lo stato fisico della signora Giulia si era aggravato ulteriormente (morirà dopo pochi giorni); i suoi lamenti erano ora accompagnati da sguardi spaventati, ma pur sempre intelligenti e pronti. Quel giorno ero nella sua camera, uno stanzone dal soffitto alto, con altri sette letti nella parte del reparto dove erano state riunite le degenti più gravi.

La signora Giulia lanciava delle invocazioni d'aiuto così strazianti che tralasciai il mio lavoro e, non appena mi avvicinai a lei, mi disse: «Signora ― si rivolgeva così a tutti ― signora, mi aiuti a vestirmi e ad andare a casa!». Sapevo che la sua era una speranza impossibile e cercai di distoglierla da questo pensiero: «Signora Giulia, perché vuole andare a casa, non sta bene qui con noi? Qui tutte le vogliono bene...».

«È vero, ma cosa vuole, a casa propria si sta sempre meglio. Mi aiuti ad alzarmi, la prego». Guardai quel povero corpo straziato, pensando a quel figlio disgraziato e alla solitudine di quella donna. Per me, giovane e sana, la vita è sempre bella e trovo gioia anche solo nel vedere il volo di un passerotto. Quella donna non si sarebbe mai più alzata dal letto. Tutto ciò mi passò nella mente in un attimo.

Rimasi lì in silenzio, tenendo nella mia la mano della signora Giulia. Non riuscivo a trovare parole giuste da dirle e quella preghiera che aveva ripreso a ripetere mi pesava come un macigno. Spero che la signora Giulia abbia interpretato il mio silenzio per quello che l'emozione mi ha impedito di esprimerle, perché io, in quel momento, soffrivo con lei.

Forse ancora oggi non avrei parole appropriate di risposta, perché spesso le parole sono troppo poco in certe occasioni. Ma se le dovessi cercare ancora mi guarderei dentro, perché penso che dovrebbero essere parole d'amore.

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IDEE

LA MORALE DEL DOVERE

La tesi sviluppata del libro di Alberoni e Veca ― un sociologo e un filosofo morale ― è che la morale razionale ha un ruolo fondamentale nel mondo contemporaneo. La morale, però, ha due radici o componenti, della stessa importanza e dello stesso peso: l'altruismo e la razionalità. Le due componenti non devono essere divise, ma unite, dando loro uguale importanza.

La morale non esiste senza l’altruismo e non esiste nemmeno senza la ragione. Il puro altruismo, da solo, non è morale, come non è morale la pura ragione da sola. La riflessione morale deve alimentarsi di questa duplicità. Richiede un doppio sguardo. Per studiare in concreto questa duplicità, questa indipendenza dell’altruismo e della ragione e, nello stesso tempo, il loro parallelismo e la loro complementarietà, dobbiamo considerare il rapporto tra dovere e amore. Noi non possiamo obbligarci ad amare qualcuno. Non possiamo imporci di avere dei sentimenti e, perciò, non possiamo porci un comandamento come quello dell'amore. La nostra ragione, invece, è capace di concepire, come necessario, il dovere. Se manca la spontaneità dello slancio d'amore, la morale resta ancora possibile perché c’è il dovere. Il dovere subentra, per così dire, al vuoto lasciato dall'amore. Se io non posso amare il mio prossimo, potrò ugualmente impormi di fare il suo bene, di agire a suo favore, di essere imparziale nei suoi riguardi. Quello introdotto da Kant è un mutamento profondo di prospettiva. Poiché non posso contare sull'amore, che è un sentimento spontaneo, prenderò il suo equivalente volontario, ciò che ha le stesse conseguenze pratiche. La morale ci impone di agire come se amassimo. Il dovere è un come se dell’amore.

In mancanza del sentimento, la ragione può ereditarne l'intenzione altruistica e realizzarla ugualmente. L’intenzione continua ad essere buona anche se non è più alimentata dall'amore. L’atto morale, in questo modo, viene desoggettivizzato. Può essere trasferito nell'organizzazione sociale, negli uffici, nello Stato. Non è più necessario che ci sia un soggetto che ama, che desidera. Basta l'intenzione altruistica e, poi, il processo organizzativo che la realizza.

La morale razionale ha sostituito il dovere all'amore. Ordinarci di amare qualcuno è impossibile. Noi, invece, possiamo ordinarci di studiare i bisogni, le esigenze, ciò che serve agli altri e, soddisfacendoli, fare il loro bene. Per fare il bene degli altri non è necessario l'amore. Basta la conoscenza e la volontà. È questo il fondamento di tutta la morale professionale moderna. Il professionista, l’impiegato, il funzionario statale non devono amare, devono studiare ciò di cui la gente ha bisogno e realizzarlo. In questo modo sono state trasferite nel comportamento morale la scientificità e l’imparzialità della professione. Questa ha ricevuto dalla morale il suo fine, cioè fare il bene degli altri. Così, la morale ha influenzato tanto il funzionamento degli uffici e della pubblica amministrazione come quello del mercato.

Il merito della morale del dovere è stato immenso. La società è migliorata non perché la gente si è abbandonata a slanci emozionali, ma perché ha edificato organizzazioni impersonali giuste. L'impiegato dietro lo sportello non ha bisogno di amare il suo cliente. Deve soddisfarne i bisogni. Tutti i beni di consumo moderni, tutti i servizi pubblici sono nati dalla riflessione razionale sui bisogni degli altri m modo che la prescrizione potesse essere inserita in un ruolo, in un ordine di servizio, in un regolamento impersonale.

Francesco Alberoni e Salvatore VecaL’altruismo e la morale

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L'AUTORITÀ DEL PROFESSIONISTA

La figura del "professionista" ha un profilo ben riconoscibile nelle società complesse. La comunità conferisce alle professioni un'autorità sulle prestazioni che vengono erogate. A questa autorità è sottomesso il "cliente", che fa ricorso ai servizi del professionista. Queste categorie descrivono anche i servizi infermieristici, nella misura in cui il nursing è diventato una professione.

L'ampia preparazione sulla teoria sistematica della propria attività conferisce al professionista un tipo di conoscenza che sottolinea la relativa ignoranza del profano. Ciò sta alla base dell’autorità del professionista e ha alcune interessanti caratteristiche. Qual è la differenza tra gli acquirenti (customers) di un non professionista e i clienti (clients) di un professionista? L’acquirente decide quali servizi e/o beni desidera e fa il giro dei negozi finché li trova. La sua libertà di decidere si basa sulla premessa che egli ha la capacità di valutare i propri bisogni e di giudicare la possibilità che il servizio o il bene li soddisfi.

Nel rapporto professionale, invece, è il professionista che stabilisce ciò che è bene o male per il cliente e quest’ultimo non ha altra scelta che quella di rimettersi al suo giudizio professionale. In questo caso la premessa è che, poiché manca del bagaglio teorico necessario, il cliente non può diagnosticare i propri bisogni o distinguere fra tutta una serie di possibilità per soddisfarli. La subordinazione del cliente all'autorità professionale conferisce al professionista un monopolio di giudizio. Quando un'occupazione cerca di raggiungere la professionalizzazione, una delle sue aspirazioni pnncipali è quella di acquisire questo monopolio. Al cliente deriva un senso di sicurezza dall'ostentazione di autorità da parte del professionista. L'atteggiamento autorevole del professionista suscita nel cliente la fiducia che il rapporto che sta per iniziare contiene tutte le potenzialità capaci di soddisfare i suoi bisogni. L'autorità del professionista non è però senza limiti; la sua funzione è limitata alle sfere specifiche entro le quali il professionista è stato istruito. Questa qualità viene chiamata da Parsons specificità funzionale. Tale qualità comporta le seguenti implicazioni per il rapporto cliente-professionista.

Il professionista non può dare consigli su aspetti della vita del cliente ai quali la propria competenza teorica non si riferisce. Arrischiarsi in tali consigli significa invadere un campo in cui egli stesso è profano e, quindi, violare l'autorità di un altro gruppo professionale. Il professionista non deve assolutamente usare la sua posizione di autorità per sfruttare il cliente con propositi di gratificazione personale. In qualsiasi relazione di superordinazione-subordinazione, di cui il rapporto professionista-cliente è un perfetto esempio, l'elemento subordinato ― in questo caso il cliente ― può essere posto in un ruolo di dipendenza. Il vantaggio psicologico che ne deriva per il professionista potrebbe costituire una tentazione. Il professionista deve assolutamente inibire il proprio impulso di usare il rapporto professionale per soddisfare il proprio bisogno di manovrare gli altri.

Ernest GreenwoodChe cos'è una professione

IL SERVIZIO PUBBLICO: UN SERVIZIO NON PER QUALCUNO, MA PER CHIUNQUE

Il brano seguente analizza l'inefficienza dei servizi pubblici in Italia. Quando l'accusa cade sul servizio pubblico sanitario, si parla a questo proposito di "malasanità". L'incapacità di fornire risposte ai bisogni dei cittadini viene qui attribuita alla mancanza di una sufficiente elaborazione della morale razionale e del concetto correlato del servizio pubblico come servizio per "chiunque".

In Italia vi sono fortissime solidarietà collettive a livello di città, di partito. Vi è anche una notevole

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solidarietà nazionale. Vi sono poi movimenti universalistici di grande rilievo. Quello che manca è il comportamento razionalmente coerente con questa solidarietà. È come se, fra l'entità collettiva e l'individuo, mancasse il termine intermedio che, invece, è fondamentale nella morale razionale, il concetto di chiunque. Il chiunque è tutti gli altri singolarmente presi e, quindi, anch’io nello stesso modo. Il chiunque abbraccia il sé e qualsiasi altro oggetto sul piede di assoluta parità. Il chiunque è il prodotto della ragione. Il sentimento, l'affetto si rivolgono sempre ad una persona concreta o ad una entità collettiva particolare come la mia famiglia, la mia patria, la mia fede, il mio partito. Non sono le solidarietà collettive che mancano in Italia. Manca quel particolare prodotto della ragione morale che è l'individuo chiunque.

In Italia, quando una cosa è di tutti, la "res pubblica", non è di nessuno. Se non c'è un referente concreto, individuale o collettivo, l'italiano non pensa a nulla. È questo il motivo per cui gli italiani buttano il biglietto della metropolitana per terra, la lattina di Coca-Cola sul ciglio della strada e le immondizie in un luogo dove nessuno li vede. Perché dove non c'è qualcuno in concreto, non c'è nessuno del tutto. Perché, se un posto non è di qualcuno in concreto, non è di nessuno del tutto.

L'abitudine di non curarsi di ciò che è di chiunque produce, di riflesso, dei servizi privati o pubblici che non sono stati ideati pensando al chiunque. La struttura dell'amministrazione pubblica in Italia sembra essere modellata per strani fini, indipendenti dal bisogno concreto della gente. E tutti gli sforzi di riforma sembrano scontrarsi con una incapacità a mettere al primo posto lo studio meticoloso e accurato dei bisogni dei cittadini. Per non essere troppo astratti, partiremo dall'esempio concreto di una nostra biblioteca confrontata con una qualsiasi biblioteca moderna. L'esempio che facciamo potrebbe essere immediatamente trasferito su qualsiasi altro servizio pubblico e, spesso, anche privato. Per esempio sulla sanità o sull'amministrazione della giustizia (...).

Nei Paesi con una tradizione di morale razionale chi ha organizzato il servizio, in questo caso la biblioteca, è partito dai bisogni di chiunque potesse utilizzarlo. Ha studiato quali erano i bisogni degli studenti, dei ricercatori, dei grandi specialisti. Si è posto nei loro panni immaginando tutti i problemi che avrebbero incontrato. Ha domandato la loro opinione, ha chiesto i loro consigli. Ha studiato altre biblioteche, ma sempre tenendo presenti i problemi concreti dei suoi utilizzatori reali. Per capire la nostra biblioteca, invece, dobbiamo immaginare che esista già. È la biblioteca di un nobile, di un principe, di un gran signore che se l'è costruita per sé. Poi, per sua magnanimità, oppure dopo la sua morte, è stata aperta al pubblico, come concessione, come elargizione munifica, alcune ore al giorno, alcuni giorni della settimana. Il servizio pubblico, da noi, è ancora oggi concepito come elargizione, beneficienza, donazione. Il responsabile della biblioteca pensa di aver già fatto molto a conservare i libri, a far sì che il pubblico li possa consultare. Gli sembra assurdo che poi pretenda di metterci sopra le mani, di prenderne venti alla volta, insomma di fare i suoi comodi come se fosse a casa propria, come se i libri fossero suoi. E si offende se l'altro protesta e gli spiega come dovrebbero essere fatte le cose.

Esattamente il contrario del modello razionale. A noi non viene in mente che gli unici giudici su come dovrebbe funzionare un servizio sono i suoi utilizzatori. Che l'unico modo di migliorarlo è di domandare loro che cosa vogliano. Che il mecenate, l'organizzatore, l'esperto, lo specialista, devono agire soltanto a loro favore, unicamente preoccupati del loro benessere e delle loro comodità. Se lasciamo la biblioteca e passiamo ad un ospedale troviamo la stessa indifferenza al problema reale del "chiunque’'. Già all'ingresso la gente è in imbarazzo perché non sa a chi rivolgersi, dove aspettare, dove andare. Nessuno ha previsto che le persone abbiano bisogno di informazione. Chi vuol raggiungere un malato, parlare con un medico, deve trovare, all’interno dell'ospedale, un conoscente, un "amico" che lo accompagni nella giungla dei regolamenti e dei corridoi. Ciascuno fa qualcosa per qualcun altro, non per lutti.

Francesco Alberoni e Salvatore VecaL'altruismo e la morale

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IL MOMENTO DELLA VERITÀ

Un esperto di management aziendale ha proposto il concetto di "momento della verità" per indicare l'incontro tra colui che eroga un servizio e chi ne fruisce. L'ospedale può essere visto come una grande azienda di servizi, con una quantità di "momenti della verità" che decidono se l'utente percepisce o no la qualità di ciò che gli viene offerto. Lo spirito di servizio è sinonimo di "essere con l'altro per aiutarlo nella soluzione di un problema di salute".

La maggior parte dei servizi è il risultato di atti sociali che prendono vita nel contatto diretto fra il cliente e chi opera nell'azienda erogatrice del servizio. Per prendere a prestito una metafora dalla tauromachia, potremmo dire che la percezione della qualità è realizzata nel momento della verità, quando cioè l'erogatore del servizio e il consumatore si affrontano nell'arena. In quel momento essi dipendono in larga misura solo da se stessi. Quello che accade in quell'attimo non può più essere direttamente influenzato dall’azienda. Sono l'abilità, la motivazione e gli strumenti impiegati da chi rappresenta l'azienda, le aspettative e il comportamento del cliente che creeranno il processo di erogazione del servizio.

Una grande azienda di servizi può facilmente sperimentare migliaia di "momenti della verità” ogni giorno.

Questa particolare caratteristica sta all'origine di molti altri elementi che devono essere attentamente ponderati quando vengono progettati i sistemi di erogazione dei servizi.

Richard NormanLa gestione strategica dei servizi

NORME E PROFESSIONE

Una buona regolamentazione è importante per lo sviluppo della professione infermieristica: è la tesi svolta da Fadwa Affara, esperta di nursing e per anni direttore del progetto sulla regolamentazione del Consiglio Internazionale delle infermiere (ICN).

La regolamentazione (o la de-regolamentazione, per quelle nazioni in cui le regole esistenti non sono applicate) è un argomento che sta assumendo crescente importanza. L’assistenza sanitaria è al centro della discussione poiché si tratta di determinare la natura, la quantità e la distribuzione delle forme di controllo necessarie per garantire servizi sicuri alla società. Le infermiere, professioniste responsabili di una parte essenziale dell'assistenza, sono naturalmente interessate a ciò.

La regolamentazione professionale consente di dare ordine, coerenza e controllo a una professione e alla sua pratica. Per darvi un'idea del funzionamento della regolamentazione della professione infermieristica, prenderò in considerazione alcuni esempi dei processi di regolamentazione vigenti.

La regolamentazione determina chi può accedere alla formazione infermieristica. Le scuole infermieristiche necessitano, in molte nazioni, dell'approvazione di un'autorità esterna e i programmi di formazione offerti dalle scuole devono soddisfare alcuni criteri prescritti dalle autorità. La regolamentazione stabilisce chi ha il diritto di praticare la professione. La regolamentazione stabilisce i limiti della pratica infermieristica. Infine, la regolamentazione sotto forma di politiche governative o istituzionali (il finanziamento dei servizi sanitari, la scala dei salari, le opportunità di carriera, la classificazione dei compiti professionali) controlla i riconoscimenti e lo status della professione.

La regolamentazione svolge un ruolo di primo piano nel definire le caratteristiche generali e la natura dell'assistenza infermieristica. La politica di regolamentazione adottata può aumentare o diminuire

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la capacità degli infermieri di agire utilizzando il loro massimo potenziale, oltre ad influenzare la capacità della professione di aumentare la propria conoscenza, la capacità di utilizzare le nuove tecnologie e la capacità di rispondere con prontezza e adeguatezza alle mutevoli esigenze sanitarie della società. Poiché ri modo in cui la professione è regolata è fondamentale per lo sviluppo dell'assistenza infermieristica, non sorprende che il Consiglio Internazionale delle Infermiere consideri con particolare attenzione questo fattore. Nel 1985 il Consiglio ha formulato e adottato un documento programmatico sulla regolamentazione, per fornire delle linee guida alle organizzazioni infermieristiche nazionali ed alla professione in genere (...).

La questione principale che dobbiamo porci è se la regolamentazione deve mirare al bene del pubblico o della professione. Chi deve trarre giovamento dalla regolamentazione? Il Consiglio Internazionale delle Infermiere nel documento programmatico ha assunto una posizione chiara al riguardo. Lo scopo primo della regolamentazione deve essere la protezione del pubblico, attraverso un'assistenza infermieristica competente e accessibile: i benefici della professione sono secondari. Il Consiglio sancisce in questo modo l'obbligo che la professione ha nei confronti della società di fornire servizi sicuri e di qualità. Tale obbligo può essere soddisfatto in parte grazie alla regolamentazione, stabilendo ad esempio chi ha il diritto di praticare l'assistenza infermieristica, quali scuole possono operare e quale tipo di assistenza può essere prestata dagli infermieri. Questi sono gli strumenti che consentono di garantire al pubblico un'assistenza sicura.

"Chi deve regolamentare?". È necessario fare intanto alcune osservazioni fondamentali:

A. Ogni infermiere ha la responsabilità di aderire a regole. Per esempio, farà ciò rispettando il Codice deontologico, adottando provvedimenti per mantenere aggiornate le proprie conoscenze e abilità, svolgendo l'esercizio professionale coerentemente con gli standards vigenti. Questo tipo di regolamentazione è spesso definito come "regolamentazione interna", "autoregolamentazione" o "regolamentazione volontaria".

B. Il governo agisce nell'ambito della regolamentazione emettendo provvedimenti legislativi. Il governo può provvedere al riconoscimento e alla registrazione dei titoli di abilitazione professionale, stabilire un sistema per il riconoscimento delle specializzazioni oppure può istituire un ufficio, una commissione responsabili dell'amministrazione del processo di regolamentazione. In questo caso si può parlare di regolamentazione esterna, poiché avviene all'esterno della professione.

C. Gli organi professionali hanno anch'essi responsabilità dal punto di vista della regolamentazione; a loro spetta di redigere il Codice deontologico, gli standards professionali di formazione ed esercizio. Il Consiglio internazionale a tale riguardo ha assunto una posizione molto chiara: gli standards devono essere stabiliti dalla professione. È questa un'altra forma di regolamentazione interna.

D. I datori di lavoro sono l'ultimo gruppo di persone interessate alla regolamentazione. Essi hanno la responsabilità dell'assistenza prestata dall'istituzione sanitaria che fa loro capo, il loro ruolo dal punto di vista della regolamentazione è legittimo in relazione alle caratteristiche dell'impiego. Essi possono, ad esempio, partecipare insieme agli operatori sanitari alla definizione di standards lavorativi validi all'interno della loro istituzione. Naturalmente, nessun datore di lavoro può stabilire degli standards in violazione delle leggi vigenti. Ecco un'altra ragione per disporre di buone leggi.

Questi sono i quattro diversi gruppi interessati solitamente alle attività di regolamentazione; nella maggior parte degli stati tutti i quattro gruppi partecipano al processo con maggiore o minore coinvolgimento. In alcune nazioni la regolamentazione è definita principalmente dal governo, in altre ha

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un ruolo principale la professione: così avviene in Canada, dove il governo ha delegato la regolamentazione alle Associazioni professionali infermieristiche.

Consideriamo ora la questione relativa a come avviene la regolamentazione. Quali sono i metodi e gli strumenti utilizzati per esaminare, valutare, approvare, registrare o dotare di licenza gli operatori della sanità. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un problema di terminologia: alcuni Stati registrano le infermiere, altri forniscono una licenza, alcuni approvano le scuole, altri le accreditano. È importante notare, comunque, che tali attività richiedono l'adozione di criteri, di standards per la valutazione. I Codici Deontologici sono anch'essi uno strumento di regolamentazione e così le regole del settore del pubblico impiego, le procedure disciplinari. Vi sono poi diversi strumenti che rientrano nella definizione di "sistema di convalida": esami, registri scolastici, colloqui, ispezioni delle strutture. Ho, dunque, presentato gli elementi fondamentali della regolamentazione: si riatta ora di vedere come sia possibile unire tutti questi aspetti in modo da considerare la regolamentazione come un sistema organico all'interno di un contesto sociale. Sarà così possibile identificare i punti deboli o i punti di forza di tale sistema.

A questo punto dobbiamo considerare anche i fattori esterni che possono assumere importanza rilevante sui meccanismi di regolamentazione. Si tratta di fattori socio-politici (la qualità e gli obiettivi dei servizi, l'accessibilità e il costo degli stessi, le politiche pubbliche) e di fattori direttamente legali all'ambito professionale (gli obiettivi della professione e lo status). Tutti questi elementi possono, dunque, influenzare la regolamentazione o esserne influenzati.

La regolamentazione stabilisce:

chi ha il diritto di partecipare alla formazione

chi può praticare la professione

i limiti della pratica infermieristica

il riconoscimento e lo status dell'infermiere

Gli elementi della regolamentazione:

perché stabiliamo le regole

cosa regoliamo

chi regola

come regoliamo

Perché regoliamo:

per proteggere il pubblico

per garantire la qualità dei servizi

per accelerare lo sviluppo dell'assistenza infermieristica

per conferire responsabilità, identità e status

per promuovere la tutela socio-economica

Cosa regoliamo:

l'attività degli operatori

i programmi e le istituzioni di formazione

le strutture sanitarie

Chi regola:

il singolo operatore

il governo

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la professione

il datore di lavoro

Come regoliamo:

standard e criteri

codici deontologici-etici

pubblico impiego-requisiti per accedere impiego

procedure disciplinari

strumenti di convalida, es: esami, registri scolastici, colloqui, ispezioni di strutture

Fattori esterni che influenzano e sono influenzati dalla regolamentazione:

la qualità e gli obiettivi dei servizi sanitari

l'accessibilità e i costi dei servizi

le politiche pubbliche

gli obiettivi della professione infermieristica

lo status e la tutela dell'infermiere

Fadwa AffaraUna struttura per l'analisi dei sistemi di regolamentazione

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NORME

NORME GIURIDICHE

D.P.R. 28 NOVEMBRE 1990, N. 384

Contratto di lavoro del comparto sanità

Art. 2 - Rapporti amministrazione-cittadino

Comma 1. Nell'intento di perseguire l'ottimizzazione dell'erogazione dei servizi, le parti assumono come obiettivo fondamentale dell'azione amministrativa il miglioramento delle relazioni con l'utenza, da realizzarsi nel modo più congruo, tempestivo ed efficace da parte delle strutture operative in cui si articolano gli Enti.

Comma 2. A tale scopo, gli Enti approntano adeguati strumenti per la tutela degli interessi degli utenti e per una più agevole utilizzazione dei servizi anche attraverso l'individuazione di appositi Uffici di Pubbliche Relazioni, se necessario decentrati, con il compito di fornire agli utenti ogni utile informazione anche documentale sui servizi erogati dall'Ente e sulla loro dislocazione nel territorio, sugli orari di apertura e sul tipo di prestazione nonché di ricevere eventuali reclami e suggerimenti da parte degli utenti stessi al fine del miglioramento dei servizi.

D.L. 30 DICEMBRE 1992, N. 502

Art. 14 - Diritti dei cittadini

1. Al fine di garantire il costante adeguamento delle strutture e delle prestazioni sanitarie alle esigenze dei cittadini utenti del Servizio sanitario nazionale il Ministro della sanità definisce con proprio decreto, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, un sistema di indicatori di qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie relativamente alla personalizzazione ed umanizzazione dell'assistenza, al diritto all'informazione, alle prestazioni alberghiere, nonché dell'andamento delle attività di prevenzione delle malattie.

2. Le regioni utilizzano il suddetto sistema di indicatori per la verifica, anche sotto il profilo sociologico, dello stato di attuazione dei diritti dei cittadini, per la programmazione regionale, per la definizione degli investimenti di risorse umane, tecniche e finanziarie. Le regioni promuovono inoltre consultazioni con i cittadini e le loro organizzazioni anche sindacali ed in particolare con gli organismi di volontariato e di tutela dei diritti al fine di fornire e raccogliere informazioni sull'organizzazione dei servizi.

D.L. 3 FEBBRAIO 1993, N. 29

Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della Legge 23 ottobre 1992, n. 421

Art. 12 - Ufficio relazioni con il pubblico

Comma 1. Le amministrazioni pubbliche, al fine di garantire la piena attuazione della Legge n. 241/90, individuano, nell'ambito della propria struttura e nel contesto della ridefinizione degli uffici di cui all'art. 31, uffici per le relazioni con il pubblico.

Comma 2. Gli uffici per le relazioni con il pubblico provvedono, anche mediante l'utilizzo di tecnologie informatiche:

a. al servizio all'utenza per i diritti di partecipazione di cui al capo III della legge n. 241/90;

b. all'informazione all'utenza relativa agli atti e allo stato dei procedimenti;

c. alla ricerca ed analisi finalizzate alla formulazione di proposte alla propria amministrazione sugli aspetti organizzativi e logistici del rapporto con l'utenza.

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D.M. 14 SETTEMBRE 1994 N. 739

Profilo professionale infermieristico

Art. 1

1. È individuata la figura professionale dell'infermiere con il seguente profilo: l'infermiere è l'operatore sanitario che in possesso del diploma universitario abilitante e dell'iscrizione all'albo professionale è responsabile dell’assistenza generale infermieristica.

2. L’assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa è di natura tecnica, relazionale. educativa. Le principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l’assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e l’educazione sanitaria.

3. L’infermiere:

a. partecipa alla identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività;

b. identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi;

c. pianifica, gestisce e valuta l’intervento assistenziale infermieristico;

d. garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche;

e. agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli operatori sanitari e sociali;

f. per l’espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell’opera del personale di supporto;

g. svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e nell’assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero professionale.

4. L’infermiere contribuisce alla formazione del personale di supporto e concorre direttamente all’aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e alla ricerca.

5. La formazione infermieristica post-base per la pratica specialistica è intesa a fornire agli infermieri di assistenza generale delle conoscenze cliniche avanzate e delle capacità che permettano loro di fornire specifiche prestazioni infermieristiche nelle seguenti aree:

a. sanità pubblica: infermiere di sanità pubblica;

b. pediatria: infermiere pediatrico;

c. salute mentale ― psichiatria: infermiere psichiatrico;

d. geriatria: infermiere geriatrico;

e. area critica: infermiere di area critica.

6. In relazione a motivate esigenze emergenti dal Servizio Sanitario Nazionale, potranno essere individuate, con decreto del Ministero della Sanità, ulteriori aree richiedenti una formazione complementare specifica.

7. Il percorso formativo viene definito con decreto del Ministero della Sanità e si conclude con il rilascio di un attestato di formazione specialistica che costituisce titolo preferenziale per l’esercizio delle funzioni specifiche nelle diverse aree, dopo il superamento di apposite prove valutative. La natura preferenziale del titolo è strettamente legata alla sussistenza di obiettive necessità del servizio e recede in presenza di mutate condizioni di fatto.

Art. 2

1. Il diploma universitario di infermiere, conseguito ai sensi dell’art. 6, comma 3, del Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, abilita all’esercizio della professione, previa iscrizione al relativo Albo professionale.

Art. 3

1. Con decreto del Ministro della Sanità di concerto con il Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica sono individuati i diplomi e gli attestati, conseguiti in base al precedente ordinamento, che sono equipollenti al diploma universitario di cui all'art. 2 ai fini dell'esercizio della relativa

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attività professionale e dell'accesso ai pubblici uffici.

Il presente decreto, munito del sigillo di Stato, sarà inserito nella raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

NORME DEONTOLOGICHE

Codice della Federazione Nazionale Collegi IP.AS.VI

Premessa

L'infermiere svolge una professione al servizio della salute e della vita. È chiamato non solo ad assicurare una qualificata assistenza infermieristica, ma anche a dare risposte professionali sempre nuove per favorire, con la collaborazione di tutto il personale sanitario, il progresso della salute del Paese.

La professione dell'infermiere, nella sua dimensione umana, sociale e tecnica, potrà essere meglio interpretata e vissuta, se costantemente ispirata ad alcune precise norme comuni.

A. Dimensione umana

1. L'infermiere è al servizio della vita dell'uomo; lo aiuta ad amare la vita, a superare la malattia, a sopportare la sofferenza e ad affrontare l'idea della morte.

2. L'infermiere rispetta la libertà, la religione, l'ideologia, la razza, la condizione sociale della persona.

3. L’infermiere rispetta il segreto professionale non soltanto per obbligo giuridico, ma per intima convenzione e come risposta concreta alla fiducia che l'assistito ripone in lui.

4. L'infermiere promuove la salute del singolo e della collettività operando contemporaneamente per la prevenzione, la cura e la riabilitazione.

B. I rapporti sociali

5. L'infermiere facilita, nelle dovute forme, i rapporti umani e sociali dell’assistito (con la famiglia, il suo ambiente di lavoro, la comunità cui appartiene) al fine di stimolare e promuovere le sue capacità personali, i suoi interessi culturali, il suo produttivo inserimento nel mondo del lavoro.

6. L'infermiere, nella sua autonoma responsabilità e nel rispetto delle diverse competenze, collabora attivamente con i medici e con gli altri operatori socio-sanitari per la migliore tutela della salute dei cittadini, sia nella programmazione e nel funzionamento delle strutture, sia nella gestione democratica dei servizi, tenendo sempre presenti i bisogni reali della popolazione nell’ambito del territorio.

7. L'infermiere, nel pieno rispetto dei diritti del malato, si avvale dei propri diritti sindacali per contribuire ad instaurare condizioni di lavoro equo sul piano sociale ed economico.

8. L'infermiere contribuisce, con un comportamento corretto, a tutelare la dignità ed il prestigio della professione.

C. L'impegno tecnico-operativo

9. L'infermiere ha il dovere di qualificare ed aggiornare la sua formazione in rapporto allo sviluppo scientifico-tecnologico ed alle nuove esigenze derivanti dal progresso sociale. Egli si impegna a partecipare alle attività di educazione ricorrente ed a sostenere collegialmente il diritto.

10. L'infermiere non abbandona mai il posto di lavoro senza averne la certezza della sostituzione. Ha il dovere di prestare la sua opera professionale nei casi di emergenza. In caso di calamità pubblica è tenuto a mettersi a disposizione delle Autorità competenti.

11. L'infermiere afferma e difende il suo diritto all'obiezione di coscienza di fronte alla richiesta di particolari interventi contrastanti i contenuti etici della sua professione.

12. L'infermiere, iscrivendosi all’Albo, manifesta la sua volontà di partecipare attivamente e collegialmente non solo alla difesa della professione, ma anche al suo sviluppo culturale e sociale, in spirito di servizio alla persona ed alla comunità.

(anno 1977)

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COMPORTAMENTI

Può avvenire che la professione dell'infermiere venga esercitata in un clima generale che ha l'amore come ispirazione e come risultato condiviso. Il racconto "Vi voglio bene come ai miei fratelli" ne è una illustrazione eloquente. In quel caso l'esercizio della professione si modella su un sentimento d'amore, più che su un impersonale senso del dovere. La serenità con cui l'infermiera della storia ripercorre, la sera, la giornata di lavoro trascorsa la percepire come risorsa la capacità del professionista di non lasciarsi turbare, allorché le circostanze lo richiedono, dalle convenzioni e regole che usualmente governano l'esercizio della professione.

Tuttavia il punto di riferimento abituale sarà un'etica istituzionale, costituita da principi normativi generali cui i professionisti devono uniformarsi quando agiscono come membri di un gruppo. Da tali norme discendono i criteri che rendono più equo il servizio offerto alla comunità, ovvero criteri che stabiliscono il modo imparziale con cui le strutture devono essere organizzate, amministrate e con cui le prestazioni devono essere offerte ai cittadini (cfr. "Il servizio pubblico: un servizio non per qualcuno ma per chiunque").

Le "regole giuste" non sempre coincidono con le aspettative dell'utente del servizio e il concetto di aiuto, di essere con, acquista un significato immediatamente negativo, nonostante lo sforzo del professionista. Giunge per tutti, prima o poi, il momento di dover decidere se far prevalere la difesa di piccoli vantaggi della persona assistita oppure qualcosa d'altro. In momenti come questi, come vogliamo che si esprima il comportamento di aiuto dell'infermiere nei confronti della persona che ha in cura? (cfr. "La morale del dovere").

L'impegno etico fondamentale dell'infermiere si gioca intorno alla questione se egli sappia leggere e decifrare lo stato d'animo dell'uomo nel momento in cui questi sta sperimentando l'esperienza della malattia e se sa aiutarlo nella misura in cui serve per lui (cfr. "Il momento della verità"). È intuitivo come non sia facile riuscire in tale impresa, anche perché spesso lo stato d'animo resta inespresso e quindi inafferrabile.

Il corpo di teoria sul quale si è fondata negli ultimi anni la professione ha tentato di fornire agli infermieri le logiche di pensiero adatte a renderli più abili nelle interazioni con l'utente dei servizi. Sono diventati ormai patrimonio di molte strutture operative alcuni sistemi di riferimento, come quello classico della teoria dei bisogni. Esso serve da guida all'infermiere già da qualche anno e contribuisce, attraverso un gioco di analogie e inferenze, ad aiutarlo a cogliere con sempre maggior sicurezza i problemi delle persone.

L'infermiere di oggi non può più accontentarsi di essere colui che descrive lo stato in cui versano gli assistiti, ma deve dimostrare di possedere la capacità e il potere per valutare e predire ciò che è meglio per loro. Un esperto abilitato che la comunità ha investito di un mandato con il quale gli conferisce il diritto-dovere di decisione su tutto ciò che è specifico della professione che esercita (cfr. "L'autorità del professionista"). In virtù di tale mandato, l'infermiere deve sentirsi impegnato a esercitare la sua professione non in modo intuitivo o in risposta all'imperativo dell'amore, ma con razionalità e metodo. A tal fine l'infermiere deve:

● valutare sempre le conseguenze delle azioni che si intendono attuare sull'utente (cfr. "Norme e professione"); esse devono ispirarsi alla tutela dei suoi diritti e bisogni fondamentali;

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● dedicarsi allo studio sistematico dei bisogni delle persone che devono usufruire del servizio. Quando si tratta di utenti con patologia cronica, come la protagonista della storia di apertura (cfr. «Vi voglio bene come ai miei fratelli»), è buona cosa valutare la necessità che nella stragrande maggioranza dei casi essi hanno di vedersi affidati nel tempo sempre agli stessi professionisti; ciò trova giustificazione (1) nel fatto che gli operatori già conoscono la storia sanitaria dell'utente il quale, proprio per questo motivo, non si trova costretto a ripeterla ogni volta e (2) nel rapporto di fiducia che l'utente ha riposto, dopo più contatti, negli operatori che lo curano. Tutti i professionisti della salute sanno che il rapporto fiduciario è il primo requisito per un programma terapeutico di successo;

● studiare ogni elemento del servizio che, anche in relazione alle risorse disponibili, si è in grado di offrire a chiunque si presenti con un problema di salute. Nel fare questo, ricordare che anche l'aspetto all'apparenza meno significativo può assumere rilevanza per l'utente;

● comparare gli elementi che il servizio è nelle condizioni di garantire con i bisogni dei probabili fruitori, allo scopo di riconoscere lo scarto tra gli uni e gli altri (cfr. "Quando non c'è una risposta per una domanda di aiuto");

● sorvegliare costantemente il rapporto prestazioni-aspettative-bisogni dell'utente : esso gioca un ruolo determinante nella "client satisfaction" ed è un buon indicatore della qualità del servizio offerto nel suo significato più ampio (cfr. "Il momento della verità");

● studiare le strategie per rispondere alle aspettative degli utenti all'insegna delle prestazioni che il servizio è in grado di garantire;

● confrontare le possibilità del servizio con quanto previsto dalle normative che tutelano i fruitori dello stesso e con quanto previsto dai Codici di deontologia professionale;

● vigilare che le prestazioni non scadano mai al di sotto degli standards che le norme giuridico-professionali prescrivono;

● fornire all'utente tutte le informazioni che servono perché comprenda cosa può aspettarsi dal servizio;

● trattare ogni utente come un soggetto unico (cfr. "Il momento della verità"); ogni circostanza che lo riguarda deve essere avvertita come un impegno per il servizio, soprattutto quando questo non è in grado di fornire soddisfazione alla richiesta avanzata. Quello appena descritto è il primo passo per il sistematico sviluppo di un'azienda di servizi, che può verificarsi solo se a guidare i cambiamenti e la richiesta di risorse sono i bisogni delle persone per le quali essa è nata;

● non tramutare delle semplici proposte, come quelle di questo elenco, in verità assolute.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

AIDS - Storie umane troppo umane, da Aggiornamenti Professionali, inserto de L'infermiere, Anno XXVIII n. 5, Settembre-Ottobre 1994, p. 29.

Affara F., Relazione alla Conferenza nazionale, Torino 14-1-1992, in Infermieristica e salute per tutti - Documenti fondamentali, Cespi-Editore, Torino, 1993 , pp. 277-281.

Alberoni F. e Veca S., L'altruismo e la morale, Garzanti, Milano, 1992, pp. 8-9; 63; 66-67.

Greenwood E., "Che cos'è una professione?", da Comunicazione & Management, Gennaio-Marzo 1994, pp 28-29.

Normann R., La gestione strategica dei servizi, Etas libri, Milano 1992

PER APPROFONDIRE

Fromm E., La rivoluzione della speranzaPer costruire una società più umana, Bompiani, Milano, 1992.

Normann R., La gestione strategica dei servizi, Etas Libri, Milano, 1992.

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ORGANIZZAZIONE DEI SERVIZI SANITARI

FATTI

Leggendo i giornali...

La speranza è dura a morire

IDEE

Dalle mutue al Servizio Sanitario Nazionale per garantire l'equità

Interventi sanitari e ideologie: liberalismo o solidarietà?

La società ha bisogno di solidarietà per sopravvivere

La giustizia è la virtù più importante?

NORME

● Diritti Umani

Dichiarazione universale sui diritti dell'uomo

Patti internazionali sui diritti dell'uomo

● Legislazione sanitaria

D.L. 30 dicembre 1992, n. 502

D.P.R. 1 marzo 1994

COMPORTAMENTI

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FATTI

Leggendo i giornali

La piccola B*

B starà per Beatrice? Barbara? Bessie? È quella ragazzina inglese di 10 anni, senza volto, senza nome, probabilmente senza futuro, che ci ha strizzato il cuore e spezzato in due la testa, separando come acqua e olio la ragione e la coscienza. La conosciamo come Child B: un modo per tenere i fotografi lontani dalla sua stanzetta d'ospedale, per tenere lei lontana dallo scontro che c'è stato e c'è sulla sua pelle sottile di bambina.

B ha appena terminato un ciclo di chemioterapia, quel trattamento doloroso che fa cadere tutti i capelli, fa stare malissimo e, ad alcuni, restituisce la vita. Se su di lei avrà avuto effetto, le sue possibilità di sopravvivere saliranno da due e mezzo al 20 per cento. Il suo male si chiama leucemia mieloide. Un anno fa ha subito due cicli di chemioterapia e il trapianto del midollo osseo. Sembrava guarita ed invece durante le feste di Natale la malattia si è ripresentata. Statisticamente, a una ricaduta dopo il trapianto del midollo sopravvive una persona su quaranta e, per acciuffare l'esile speranza di essere quella, si deve passare per una nuova chemioterapia e per un secondo trapianto.

B è stata ricoverata a Cambridge, in un ospedale noto per la qualità dei suoi sanitari. I medici, dopo aver esanimato il caso e dopo aver ascoltato il parere dei colleghi dell'ospedale dove B lo scorso anno aveva subito il primo trapianto, hanno pensato che quella bambina meritasse otto settimane di pace, le sue ultime, piuttosto che percorrere per la seconda volta una via crucis dall'esito improbabile.

Il padre di B non ha accettato questa decisione; si è rivolto al tribunale ed ha chiesto al giudice di affermare il diritto di sua figlia a essere curata. Il giudice gli ha dato ragione. La direzione dell'ospedale ha fatto appello e solo sei ore dopo la Corte ha cancellato la decisione di primo grado e confermato la scelta dei medici. nel corso del dibattito la vicenda di B è esplosa: l'autorità sanitaria, motivando la decisione dei medici, ha argomentato che il costo del trattamento chemioterapico e del trapianto del midollo sarebbe stato di 210 milioni di lire e, disponendo di risorse limitate, utilizzarle per questo tentativo disperato equivaleva a sottrarle ad altri malati con più alte possibilità di sopravvivenza. La notte successiva, un anonimo donatore ha messo a disposizione della famiglia i 210 milioni di lire e Child B è stata sottoposta al trattamento in una clinica privata.

Quanto vale la vita di una bambina? Qualcuno ha fatto questo ragionamento: sottoponendo a terapia 40 persone che si trovano nelle stesse condizioni di Child B al costo di 210 milioni di lire ciascuna, si impiegherebbero complessivamente 8.400.000.000 di lire; statisticamente, solo una avrebbe la possibilità di sopravvivere. Tenendo conto del fatto che con quella cifra, impiegata in campagne di vaccinazione, si potrebbero salvare migliaia di bambini nel Terzo Mondo e, impiegata in incubatrici e personale specializzato, quantomeno qualche decina di bambini, i contribuenti ritengono giusto destinare tale somma, da loro versata all'erario, per salvare una sola vita?

Chi la fa l'aspetti*

Harry Elphick è morto. Un pomeriggio di agosto del 1993 stava pazientemente aspettando nell'anticamera del suo medico di famiglia quando un attacco cardiaco, il secondo, gli è stato fatale. Il primo lo aveva subito il febbraio precedente ed è probabile che il colpo mortale non sarebbe

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arrivato se in febbraio il signor Elphick avesse ricevuto le cure necessarie. Elphick subito dopo il primo attacco cardiaco aveva preso appuntamento con gli specialisti del Wythenshawe Hospital di Manchester per un'angiografia. Elphick si presentò puntuale, ma il cardiologo di turno rifiutò di fargli l'esame previsto, con la motivazione che la politica del Wythenshawe era di non utilizzare il denaro dei contribuenti per sottoporre ad esami del genere i fumatori. Elphick, che aveva 47 anni e fumava 25 sigarette al giorno, decise di smettere. Sei mesi dopo, convinto di aver conquistato lo status di ex fumatore e quindi il diritto a ricevere il test, si era presentato nello studio del suo medico per avviare la procedura.

L'atteggiamento del Wythenshawe è condiviso anche da altri ospedali. I cardiologi di queste strutture ritengono che i fumatori sottoposti a interventi cardiochirurgici hanno degenze più lunghe rispetto ai non fumatori ed hanno la metà delle possibilità di ottenere una piena guarigione. Sempre nel 1993 il prestigioso Dritish Medical Journal ha pubblicato una lettera nella quale i sei cardiochirughi del Wythenshawe Hospital sostengono che sottoporre i fumatori a terapie contro affezioni cardiovascolari è inutile e che anche i test diagnostici come le angiografie, nel caso di pazienti fumatori, sono uno spreco di denaro dei contribuenti.

Fantasia o realtà?*

È scoppiato un putiferio quando si è venuto a sapere che David Biliari, direttore del Centro di Terapia Intensiva del Guy's Hospital di Londra, usava regolarmente il Rip (Rivadh Intensive Care Programme). Il Rip è un programma per computer che funziona così: si inseriscono tutti i dati di ciascun paziente per il quale viene richiesta la terapia intensiva, si pigia un tasto e dopo un paio di secondi arriva la risposta. C'è un rettangolino scuro che simboleggia una bara: se su quel rettangolino comincia a lampeggiare una piccola croce bianca vuol dire che quel paziente morirà entro 90 giorni successivi. Il sistema è stato regolarmente utilizzato dal 1990 ad oggi e, secondo Bihari, ha sbagliato solo nel 4% dei casi.

Biliari afferma che non ha mai tenuto in considerazione il responso del Rip nel decidere se ammettere o no i pazienti nel reparto di terapia intensiva da lui diretto. E se invece lo avesse fatto? E se questi anni di sperimentazione del Rip servissero a valutare se utilizzarlo in futuro?

*Da "La Repubblica", maggio 1995

La speranza è dura a morire

Il dramma vissuto da una giovane affetta da sclerosi multipla, malattia praticamente incurabile e di cui sono sconosciute le cause, e da chi le sta accanto, la madre innanzitutto; l'accendersi di una speranza in una clinica vicentina. L'insorgere di nuovi problemi. Questa, in sintesi, l'odissea di una signora sarda e della figlia (le chiameremo convenzionalmente Maria e Ilaria). Lasciamo raccontare l’accaduto ai protagonisti. «Ilaria ora ha 34 anni ed è affetta da sclerosi multipla da 11, durante i quali è peggiorata progressivamente ― racconta Maria ―. Soltanto negli ultimi due anni sembra che la malattia si sia arrestata in seguito alle cure del prof. Millefiorini di Roma, a base di Coleston e Sinacaten (farmaci cortisonici). Dalla risonanza magnetica le placche sono risultate calcificate. Ilaria è un po' ingrassata e si è ripresa fisicamente. Tuttavia vive sulla sedia a rotelle da cinque anni e il suo grosso problema è la muscolatura. Non ha neppure la forza di portare la forchetta alla bocca. Finora non era mai stata sottoposta a cure fisioterapiche».

«Tramite amici e parenti, ― continua la signora ― sono venuta a conoscenza di un Centro di neuroriabilitazione vicino a Vicenza, Villa Margherita nel paese di Arcugnano. Sono andata di persona a vederlo. Qui in Sardegna non esistono né i macchinari né i fisioterapisti idonei a curare il male. Sono rimaste sorpresa molto positivamente dal Centro. Ilaria è stata sottoposta ad analisi e ad un

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test computerizzato per valutare l’idoneità alla terapia, soprattutto il suo stato muscolare, e per non farmi spendere i soldi inutilmente, dato che il costo della cura è molto alto: 18 milioni per sei settimane, più duecentomilalire al giorno per l'accompagnatore. Abbiamo deciso di far ricoverare Ilaria perché ci è stato assicurato che il tronco è recuperabile al 75%».

Contemporaneamente alla decisione di far ricoverare la figlia, per la signora Rossi è iniziata una difficile lotta con l'Usl di appartenenza per il rimborso dell'alto costo della cura. «I medici con cui ho parlato non credono vi possano essere miglioramenti con la sclerosi multipla» ― dichiara la signora Maria ―. E poi mi è stato anche detto: "Se sua figlia si riprende ci saranno altre persone che, dalla Sardegna, ci chiederanno di andare in quella clinica. E allora i costi non saranno più di milioni, ma di miliardi". Ma io non mi sono scoraggiata e sono andata avanti. Mi chiedevo perché il Piemonte rimborsasse l'80% del costo della terapia, la Sicilia il 100% e la Sardegna niente». La lotta della signora Maria sembra che alla fine abbia avuto i suoi frutti: a rimborsare l'alto costo della terapia sarà la Regione Sardegna, in base ad una legge regionale che prevede il rimborso delle spese per la cura di malattie quando nella Regione mancano le strutture sanitarie idonee.

Arianna RibesSclerosi multipla: un centro batte vie nuove.

La terapia costa ma pare funzioni

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IDEE

DALLE MUTUE AL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE, PER GARANTIRE L'EQUITÀ

I sistemi di finanziamento nella sanità pubblica non hanno solo aspetti tecnici, che interessano i politici e gli amministrativi, ma anche una dimensione etica. Ad essi, infatti, è demandato il compito di rendere concreto il principio dell'equità, che regge le scelte relative all'allocazione delle risorse.

Si giunge alla creazione di un servizio sanitario nazionale quando il sistema mutualistico diventa generalizzato a tutti i cittadini, quando cioè le prestazioni vengono rese uguali per tutti e il finanziamento tende ad essere fiscalizzato: con quest'ultimo termine s'intende il superamento del sistema delle contribuzioni "gli oneri assicurativi" diversificati per categoria, versati in parte dal lavoratore dipendente ed ancora dalle categorie dei lavoratori autonomi iscritti alle mutue volontarie od obbligatorie. Con la fiscalizzazione, al sistema contributivo si sostituisce quello della raccolta dei fondi necessari mediante la fiscalità ordinaria generale (imposte e tasse) o mediante prelievi fiscali finalizzati a scopi specifici.

La fiscalizzazione del finanziamento del servizio sanitario nazionale significa che tutti i cittadini hanno il dovere di contribuire, in proporzione ai loro redditi, alle spese dello Stato, fra le quali si comprende la sanità, insieme agli altri settori più tradizionali, come la difesa, la giustizia, l'istruzione.

La fiscalizzazione del finanziamento è un elemento di primaria importanza per la realizzazione del servizio sanitario nazionale, in quanto sancisce il principio che tutti i malati hanno uguale diritto di accesso alle cure, indipendentemente dal censo e dalla capacità di spesa. Pertanto si realizza, almeno tendenzialmente, il principio di "equità forte": a ciascuno secondo le sue necessità; da ciascuno secondo le sue possibilità.

In un sistema fiscalizzato non ha senso parlare di deficit del bilancio sanitario pubblico come se si trattasse di un'azienda privata; già la sanità spende la sua dotazione di bilancio per acquisire risorse umane e materiali su di un mercato molto poco libero ed inoltre non vende le proprie prestazioni sanitarie, ma le fornisce senza la corresponsione di un prezzo; pertanto non si può applicare la formula elementare:

ricavo - spesa = profitto (se il risultato è positivo) oppure = perdita (se negativo)

Il legislatore decide l'ammontare delle risorse da prelevare col fisco per il funzionamento dell'intera macchina statale e la quantità di risorse da impegnare nei diversi settori di intervento. Fra questi settori, anche la sanità pubblica, alla quale viene destinata una somma per le spese correnti (il Fondo sanitario nazionale), in concorrenza con le richieste dell'assistenza sociale, del ministero dei trasporti e dei lavori pubblici, dell'agricoltura e degli altri ministeri che possono concorrere al benessere dei singoli e della collettività. Nell'approvazione della legge finanziaria generale emergono le "scelte di valore" della collettività nazionale che attraverso i suoi rappresentanti decide l’ampiezza della "torta" pubblica ottenuta mediante il prelievo fiscale e la fetta di torta da destinare alla sanità pubblica, considerando che ampliare questa significa togliere un'uguale somma alle altre esigenze collettive. Gli organi di governo centrali e periferici devono amministrare questi fondi, nell'ambito degli indirizzi legislativi e programmatici loro imposti.

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La scarsità delle risorse si concretizza, quindi, in tale vincolo di bilancio, per cui, ad esempio, una regione o un presidio sanitario possono vedersi limitate le entrate, le possibilità di spesa e infine quelle di intervento.

Costantino Iandolo-Carlo Hanau, Etica ed economia nell'"azienda" sanità

INTERVENTI SANITARI E IDEOLOGIE: LIBERALISMO O SOLIDARIETÀ?

Liberalismo e solidarietà sono due concetti di filosofia politica che esprimono due diversi modi di organizzare il sistema pubblico delle cure. Ognuno dei due esprime una differente concezione dell'uomo e della società. Un dibattito di questo genere non può non coinvolgere direttamente ogni cittadino, che con il suo voto politico è chiamato a dar forza all'uno o all'altro sistema.

Secondo Williams e Donabedian, autorevoli rappresentanti della scienza della finanza inglese, che si sono interessati più volle al settore sanitario, i problemi ideologici relativi all'offerta di assistenza sanitaria si possono sintetizzare in due punti di vista fondamentali che, in modo approssimativo, possono essere definiti come la prospettiva "libertaristica o libertaria" e quella "solidaristica o egualitaria".

Nella prospettiva libertaria, la disponibilità economica del singolo gli rende possibile scegliere la quantità e qualità delle cure: ciò rappresenta un incentivo per l'individuo a produrre ed accumulare ricchezza al fine di poter acquistare le cure mediche migliori, allo stesso modo di come egli può acquistare l'automobile lussuosa.

Nella prospettiva egualitaria, l'accesso all'assistenza sanitaria rappresenta un diritto di tutti i cittadini (proprio come l'accesso ai seggi elettorali o alle corti di giustizia) e tale diritto non deve essere influenzato dal reddito o dalla ricchezza individuali.

Ciascuna di queste due prospettive generali è associata e contraddistinta da una sua caratteristica configurazione di punti di vista in merito alla responsabilità personale, ai problemi sociali, alla libertà e all'uguaglianza sociale.

Le implicazioni di ciascuna di queste due ideologie per quanto riguarda l'assegnazione delle priorità nel campo dell'assistenza sanitaria sono molto evidenti. La volontà di pagare e la capacità di spesa dovrebbero costituire l'etica dominante nel sistema libertario di erogazione dell'assistenza e ciò si potrebbe realizzare nel migliore dei modi in un sistema "privato" orientato verso il mercato.

Nella teoria liberista la scelta di valori dell'individuo va a formare insieme a quella di tutti gli altri individui una domanda aggregata di servizi, m grado di modificare l'offerta dei servizi esistenti e la loro produzione: se molti individui sono disposti ad impiegare il loro denaro nell'acquisto dei servizi sanitari, è probabile che i prezzi e le retribuzioni nella Sanità aumentino, attirando nuove risorse umane e materiali nel comparto sanitario; in questo modo le scelte di valore dei singoli vanno a risolvere il problema economico fondamentale di ogni società: stabilire cosa produrre, come e per chi. Se, ad esempio, molti privilegiano le spese sanitarie, rispetto a quelle per il divertimento e le vacanze, ne dovrebbe conseguire che un albergo si trasformi in una casa di cura.

Chi è troppo povero rispetto al costo delle cure, non può ottenerle; se questa esclusione porta all'invalidità totale o alla morte, ciò significa che il reddito atteso per il futuro da quella persona guarita, valutato dal mercato stesso in termini monetari, doveva essere inferiore al valore delle cure necessarie per risanarlo (se l’automobile è vecchia e fuori moda e ripararla costa molto, la riparazione non è più conveniente).

La prospettiva ugualitaria consiste invece essenzialmente nell'offrire uguali opportunità di accesso alle cure per tutti gli individui che presentano uguali condizioni di bisogno, indipendentemente dalla

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loro possibilità e volontà di spesa e quindi dal loro reddito. In mancanza del meccanismo automatico del mercato, devono essere imposte regole sociali che applicano alla realtà il principio etico dell'eguaglianza, determinando, ad esempio, che tutti i malati in pericolo di vita hanno la priorità nell'accesso alle cure rispetto a tutti i malati di raffreddore; viene perciò stabilita una gerarchia di bisogni alla quale corrispondono diverse priorità. Il pubblico potere e, in particolare, la pubblica amministrazione regola, perciò, l'accesso alle cure, che vengono distribuite in via amministrativa.

Non è tuttavia necessario che la produzione delle cure sia gestita direttamente dalla stessa pubblica amministrazione, ma è possibile che la produzione sia affidata a privati. In questo caso, però, l'unico compratore è la pubblica amministrazione e la situazione è ben lontana da quella del libero mercato, che presuppone una pluralità di compratori ed una pluralità di venditori fra loro in concorrenza.

Costantino Iandolo-Carlo Hanau, Etica ed economia nell'"azienda" sanità

LA SOCIETÀ HA BISOGNO DI SOLIDARIETÀ PER SOPRAVVIVERE

La concezione sociale solidaristica riceve un forte impulso dalla ispirazione religiosa, in particolare da quella cristiana. Da un documento di una Commissione ecclesiale un invito a considerare la solidarietà come il frutto di un'opera educativa. In questo senso il discorso travalica l'ambito di una comunità di credenti e investe la società nel suo complesso.

La crescita del senso della legalità nel nostro Paese ha come necessario presupposto un rinnovato sviluppo dell'etica della socialità e della solidarietà.

Fa parte di una giusta pratica dell'eticità della convivenza umana anche l'impegno per una buona efficienza dei servizi pubblici, della loro qualità in termini di accessibilità, rapidità, competenza, mentre il loro scadimento determina disaffezione dei cittadini verso lo Stato democratico e quindi nei riguardi delle sue norme. Al contrario, sono lontane dall'autentica legalità, sia la logica mafiosa dei comportamenti che si fanno legge nel momento stesso in cui si attuano, sia la dinamica contrattualistica che pretende di risolvere tutto nella logica dello scambio.

Si comprende così come il principio della legalità si intrecci con quello della solidarietà e quanto sia pericolosa l'illusione di ritenere chiuso il capitolo solidaristico, per rimettere il futuro interamente alla capacità dei singoli individui.

Oggi è ancor più necessario di un tempo un profondo senso di solidarietà, che abbracci tanto le forme "corte" di solidarietà, come quelle incentrate sui legami familiari e sui rapporti privati, quanto quelle "lunghe" che fanno riferimento a realtà vaste e complesse, e perciò esigono interventi di lungo periodo con un'attenta valutazione dei bisogni e delle risorse disponibili. La solidarietà deve collegare i gruppi politicamente, culturalmente ed economicamente più forti con quelli più deboli, gli anziani con i giovani, il Nord con il Sud, i cittadini con gli immigrati. Una simile solidarietà si può affermare solo con la collaborazione attiva di tutti, in ordine a far sì che le strutture della società siano sempre più corrispondenti alle esigenze fondamentali di libertà, di giustizia, di eguaglianza della persona umana. Per questa via potrà svilupparsi un autentico senso dello stato e, con esso, della moralità civica.

Commissione ecclesiale "Giustizia e Pace", Educare alla legalità

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LA GIUSTIZIA È LA VIRTÙ PIÙ IMPORTANTE?

L'organizzazione della vita pubblica è affidata alla politica, che regola i rapporti tra i cittadini mediante le leggi. Ma neppure le leggi migliori potrebbero garantire un livello di vita civile se venissero a mancare le virtù. Le quattro virtù fondamentali (dette per questo "cardinali") sono la giustizia, la prudenza, la fortezza e la temperanza. Ce lo ricorda la predicazione di un cardinale, arcivescovo di Milano.

Quando si parla di "etica pubblica", si fa per lo più riferimento alla giustizia. Tuttavia spesso ci si dimentica che essa è una delle virtù della quadriga classica, delle quattro grandi virtù umane, giustizia, prudenza, fortezza, temperanza.

Con questo gli antichi volevano sottolineare che non c'è vera giustizia se non nasce dalla prudenza, se non sa usare quando è necessario anche la forza, se non sa moderarsi come deve.

Dunque la giustizia è se stessa in un insieme più vasto, pur se è certamente una virtù determinante per tutto il rapporto sodale ed è stata studiata, discussa nelle sue radici.

Il significato del termine giustizia nel mondo biblico e nel mondo classico è un po' diverso.

Riferendoci al secondo, notiamo che alla base della parola "giustizia" c'è la parola giusto; giustizia è quel valore per cui ciascuno ha ciò che gli compete e dà agli altri ciò che compete loro. Giustizia è dunque quel valore sociale per cui si riconoscono i diritti altrui così come si vorrebbero rispettati i propri.

Le conseguenze di tale definizione sono tante, sia nei rapporti sociali che in quelli pubblici.

E la Bibbia che cosa intende per giustizia?

Certamente quello che abbiamo detto fin qui, ma anche qualcosa di più. Quando, ad esempio, parla della giustizia di Dio, Paolo allude alla qualità per cui Dio salva tutti gli uomini, anche se indegni. Dunque, la giustizia non è solo la virtù che conserva i rapporti giusti, ma è un valore costruttivo, che crea dignità e, nella nostra tradizione, non va mai disgiunta dall'amore. Giustizia e insieme amore sono realtà necessarie per la felicità dell'uomo.

Carlo Maria MartiniViaggio nel vocabolario dell'etica

È VERO CHE IL CLIENTE HA SEMPRE RAGIONE?

La riforma introdotta nel Servizio sanitario nazionale, a partire dal 1 gennaio 1995, vuol contenere i costi della sanità, assicurare più efficienza al sistema e garantire l'accesso ai servizi essenziali a tutti i cittadini. La proposta ha come centro il concetto di "aziendalizzazione" degli ospedali e delle Usi. Chi lavora in ospedale deve, come chiunque sia impegnato in una azienda, riflettere sul concetto di "servizio".

Quando si imbarca su un volo charter con la sua famiglia, l'uomo d'affari accetta senza protestare gli spazi più ristretti e i tempi d'attesa più lunghi che sarebbero assolutamente inaccettabili nei suoi viaggi d'affari. Protestiamo soltanto quando il pacchetto di servizi non contiene quello che siamo stati indotti ad attenderci dall'esperienza precedente o dalle promesse.

I clienti sono in effetti talmente guidati dalle abitudini o dalle aspettative che quasi non notano un servizio normale, buono ed efficiente. Se andiamo in un buon ristorante, ci aspettiamo che il vitto sia eccellente e il servizio cortese; ci aspettiamo che una linea aerea limiti ragionevolmente l'attesa al banco di registrazione. Quando viene offerto un servizio normalmente buono, lo accettiamo senza fare speciali riflessioni. Notiamo la mancanza di un buon servizio o un livello di servizio inferiore alle

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attese molto più di quanto percepiamo un servizio normale e soddisfacente. È però vero che un servizio eccezionale può impressionarci. Accettiamo di essere trattati meglio di quanto ci aspettavamo, ma se il servizio è sotto alcuni aspetti inferiore alle nostre aspettative, registriamo immediatamente il fatto e abbiamo tendenza a reagire.

È molto significativo compiere un breve esercizio mentale, attribuendo un più ad ogni aspetto di un pacchetto di servizi che sia al di sopra dello standard atteso e un meno a qualsiasi servizio (periferico o centrale) che sia inferiore allo standard. Qualcuno (non so bene chi) ha detto, colpendo esattamente nel segno, che, dal punto di vista psicologico, «ci vogliono dodici voti positivi per compensare un solo volo negativo». Quando viene fornito un servizio, sono sempre i "meno" quelli che noi notiamo, mentre tendiamo a dimenticare i "più".

Significa questo che il buon servizio consiste sempre nel soddisfare le aspettative dei clienti?

No. Penso che questa sarebbe una conclusione ingenua e pericolosa. «Il cliente ha sempre ragione» è un errore. In effetti, spesso i clienti non sono ragionevoli o non sanno quello che si aspettano.

E potremo anche andare oltre: spesso non sanno quello di cui hanno bisogno e cosa sarebbe meglio per loro. Non è infrequente che i clienti formulino richieste e abbiano aspettative che in realtà sono pregiudizievoli ai loro stessi interessi.

Quindi, la buona azienda di servizi deve trovare un modo per risolvere il dilemma di soddisfare i suoi clienti per sopravvivere, senza però accettare senza discutere quello che i clienti dicono e pensano (sebbene essa debba certamente ascoltare e gestire le opinioni formulate dai clienti).

Richard NormanLa gestione strategica dei servizi

GLI INFERMIERI SENSIBILI ALL'ECONOMIA (MA SENZA DIVENTARE ECONOMISTI!)

Una forte e autorevole perorazione a inserire anche l'economia sanitaria nel bagaglio di conoscenze che dovrebbero avere gli infermieri di oggi. E ancor più quelli del futuro. La sfida riguarda tutti i professionisti della sanità, a cominciare dai medici. La restrizione delle risorse obbliga tutti a considerare quale migliore uso si possa fare delle risorse esistenti, senza rinunciare alla qualità dei servizi. L'economia aiuta a razionalizzare, prevenendo il ricorso al razionamento.

Probabilmente le infermiere sono prevenute nei confronti dell'economia, poiché essa è spesso erroneamente associata al taglio e al contenimento delle spese. Una volta accettato il fatto che l'economia si riferisce al miglior uso possibile delle risorse per la comunità intera, le infermiere e gli altri professionisti della salute potranno comprendere più facilmente la sua rilevanza nella pianificazione sanitaria.

I concetti economici che ci possono interessare sono: a) la spesa di opportunità; b) il margine. La spesa di opportunità si riferisce al vantaggio a cui si rinuncia nel caso in cui vengano sfruttati i finanziamenti. Ciò significa che quando gli economisti parlano di spesa, essi si riferiscono ad un "sacrificio": ciò a cui io devo rinunciare per ottenere qualcosa che desidero. Il fatto che i finanziamenti siano limitati e le esigenze apparentemente insaziabili, significa che l’uso delle risorse in una direzione porta, inevitabilmente, a lasciare da parte o a sacrificare alcune opportunità in un'altra direzione. Ne consegue che, confrontando le spese e i benefici, l'intenzione principale deve essere di assicurare che i benefici a cui si rinuncia siano minori di quelli che si ottengono; un principio, questo, con il quale tutti possono concordare.

Il margine, invece, si riferisce ad un'unità di incremento. È un concetto particolarmente importante quando si devono stabilire delle priorità e di conseguenza delle strategie, poiché sono le spese marginali

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e i benefici marginali che dovrebbero determinare le priorità. Per esempio, i benefici marginali prodotti dall'impiego di più infermiere generiche nelle comunità per l'assistenza degli anziani sono maggiori dei benefici marginali ottenuti spostando le infermiere geriatriche dal settore ospedaliero? Se la risposta è sì, è opportuno seguire questa politica ed essa ha la priorità in qualsiasi pianificazione di assistenza sanitaria. In questo semplice esempio sta la chiave dell'economia riguardo alla pianificazione sanitaria: se usando i finanziamenti si ottiene un beneficio maggiore di quello a cui si rinuncia, noi dobbiamo usare tali fondi. È un concetto semplice troppo spesso trascurato.

L'economia è un’attitudine mentale: è un’attitudine razionale, istintiva, che si pone dei problemi e li valuta. Essa può offrire così tanto alle infermiere se solo loro rivolgessero l’attenzione a tutto ciò che vi è a disposizione. Vedo ancora troppo scarsa questa attitudine tra le infermiere. Essa è latente. Ho insegnato a molte infermiere l'economia sanitaria e le ho trovate ricettive nei confronti di questa disciplina. Ho fatto ricerche insieme alle infermiere e le ho trovate pronte ad apprendere i metodi razionali di ricerca dell'economia. Ho visto colleghi economisti fare delle ricerche sul nursing e ho visto le infermiere accoglierli molto bene.

Le mie esperienze sono buone ma atipiche. Non voglio che le infermiere diventino economisti, ma credo che il modo di pensare razionale ed esplicito degli economisti possa avere effetti positivi sulle decisioni che le infermiere prendono. Vorrei vedere più infermiere educate all'economia sanitaria, che facciano ricerche sull'economia del nursing e che prendano più spesso decisioni sull’uso dei fondi. Quando si sarà cominciato, non sarà più difficile mantenere tutto ciò.

L'economia da sola non costituisce una soluzione ai problemi della sanità, ma essa può aiutare a fornire l’assicurazione che le risorse vengono utilizzate efficacemente ed equamente. E ciò deve essere vero anche per quanto riguarda i Servizi infermieristici, a cui spetta la pianificazione e la direzione delle risorse di infermieri.

La professione infermieristica non dovrebbe rimanere ignorata per quanto riguarda l'analisi economica; altrimenti le infermiere si troveranno sorpassate nel ruolo di presa delle decisioni. Le infermiere europee hanno un importante ruolo da giocare nei processi decisionali che riguardano la promozione della salute per le popolazioni. Esse potrebbero svolgere questo ruolo molto meglio se applicassero l’analisi economica.

Gavin MooneyL'economia come atteggiamento. Economia sanitaria e nursing in Europa

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NORME

DIRITTI UMANI

Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948)

Art. 25. Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.

Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966)

Art. 12.

1. Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale che sia in grado di conseguire.

2. Le misure che gli Stati parti del presente Patto dovranno prendere per assicurare la piena attuazione di tale diritto comprenderanno quelle necessarie ai seguenti fini:

a. la diminuzione del numero dei nati morti e della mortalità infantile, nonché il sano sviluppo dei fanciulli;

b. il miglioramento di tutti gli aspetti dell'igiene ambientale e industriale;

c. la profilassi, la cura e il controllo delle malattie epidemiche, endemiche, professionali e d'altro genere;

d. la creazione di condizioni che assicurino a "tutti" servizi medici e assistenza medica in caso di malattia.

LEGISLAZIONE SANITARIA

Decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502

Art. 1. Gli obiettivi fondamentali di prevenzione, cura e riabilitazione e le linee generali di indirizzo del Servizio sanitario nazionale, nonché i livelli di assistenza da assicurare in condizioni di uniformità sul territorio nazionale sono stabiliti con il Piano sanitario nazionale, nel rispetto degli obiettivi della programmazione socio-economica nazionale e di tutela della salute individuati a livello internazionale e in coerenza con l'entità del finanziamento assicurato al Servizio sanitario nazionale.

Art. 2. Il Piano sanitario nazionale indica:

a. le aree prioritarie di intervento anche ai fini del riequilibrio territoriale delle condizioni sanitarie della popolazione;

b. i livelli uniformi di assistenza sanitaria da individuare sulla base anche di dati epidemiologici e clinici, con la specificazione delle prestazioni da garantire a tutti i cittadini, rapportati al volume delle risorse a disposizione;

c. i progetti-obiettivo da realizzare anche mediante l'integrazione funzionale e operativa dei servizi sanitari degli enti locali;

d. le esigenze prioritarie in materia di ricerca biomedica e di ricerca sanitaria applicata, orientata anche alla sanità pubblica veterinaria, alle funzioni gestionali e alla valutazione dei servizi e delle attività svolte;

e. gli indirizzi relativi alla formazione di base del personale.

Art. 12. Comma 1. Il Fondo sanitario nazionale di parte corrente e in conto capitale è alimentato interamente da stanziamenti a carico del bilancio dello Stato e il suo importo è annualmente determinato dalla

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legge finanziaria tenendo conto, limitatamente alla parte corrente, dell'importo complessivo presunto dai contributi di malattia attribuiti direttamente alle regioni.

Decreto del Presidente della Repubblica 1 marzo 1994

Approvazione del Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-1996

1 - La programmazione sanitaria

Il Piano sanitario nazionale 1994-96 è caratterizzato da una logica di trasformazione, sia in generale per le modificazioni epocali che stanno vivendo i sistemi sanitari in tutto il mondo, sia, in particolare, per la trasformazione legislativa ed organizzativa in corso di attuazione nell'ambito del Servizio sanitario nazionale italiano. Il governo della transizione richiede flessibilità, accompagnata da una ricerca continua degli obiettivi che si collocano nel tempo e che devono essere raggiunti attraverso le alleanze sociali più ampie possibili. Un sistema sanitario davvero pluralistico, che veda coinvolti soggetti diversi al fine di costruire una rete di supporto ai più deboli, deve essere in continua evoluzione, in una dinamica di sperimentazioni e di verifica dei risultati, di coinvolgimenti di soggetti sociali, di risposte sempre più adeguate ai bisogni di chi soffre.

Il Piano sanitario nazionale deve quindi essere letto nella prospettiva di una civiltà della trasformazione, nella quale le certezze sono rappresentate solo dal metodo, che è soprattutto rispetto della persona e tensione verso il raggiungimento del massimo livello di compatibilità tra una domanda crescente ― ma più matura ― ed un'offerta che diviene sempre più razionale. La struttura legislativa e regolamentare su cui poggia il sistema deve quindi essere collocata nella prospettiva di valorizzare al massimo l'autonomia di tutti i livelli decisionali, nel tentativo di creare la solidarietà che caratterizza i sistemi maturi, flessibili e mirati al raggiungimento di specifici obiettivi.

Il nuovo modello richiede la rapida e non invadente definizione di un quadro programmatorio centrale entro il quale trovino collocazione non più formulazioni standard di dimensionamento dell'offerta sradicate dalle peculiarità e contingenze specifiche dei singoli ambiti regionali, ma l’indicazione di "obiettivi di civiltà" da perseguire in tutto il Paese, accompagnata dalla strumentazione necessaria per verificare il grado di avanzamento, misurato nel tempo, raggiungibile con l'impiego di determinati livelli di risorse.

La responsabilizzazione dei cittadini nei confronti dei benefici e dei costi che i sistemi sanitari comportano richiede che la diffusione delle conoscenze relative alla promozione di stili di vita sani, alla efficacia dei trattamenti sanitari e all'adeguato consumo delle risorse, sia realizzata attraverso un processo sistematico e permanente di educazione alla salute.

2. - Il modello di civiltà sanitaria a cui si ispira il piano sanitario nazionale 1994-1996

2A. Obiettivi

I nuovi scenari sociali, in cui si collocano la difesa e la promozione della salute, obbligano a ripensare l’orientamento di fondo della politica sanitaria. La prima caratteristica di una prospettiva "contemporanea" è quella di presentarsi come un orizzonte di risorse limitate. Non esiste più il sogno utopistico di uno Stato che si proponga di rispondere a tutti i bisogni di salute dei cittadini; in sanità sarà sempre più pesante la divaricazione fra domanda e offerta, perché la società invecchia ed è sempre più affetta da malattie degenerative. Questi cambiamenti di scenario impongono la dura necessità di fare delle scelte, sia a livello macro sia a livello microeconomico, al fine di riuscire a massimizzare i benefici ottenibili dalle risorse disponibili.

La necessità di ripensare a fondo il profilo stesso di un programma sanitario per il Paese si presenta come una straordinaria opportunità per ridefinire il progetto di civiltà, che è l'obiettivo di una politica della salute. Per anni si è pensato che la promozione della salute richiedesse solo nuovi investimenti in tecnologie, strutture e personale sanitario, nella fiducia di ottenere solo da tale impegno un migliore livello di salute. L'inversione di rotta cui il momento attuale costringe, punta a un miglioramento che si sviluppa

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sotto il segno della qualità, più che della quantità. La pressione della scarsità delle risorse orienta a immaginare un servizio alla salute che accetti in senso positivo la sfida dell'autolimitazione.

Per questo fine, è necessario indicare delle priorità, senza irrigidimenti ideologici, alla ricerca di un consenso il più ampio possibile. La razionalizzazione da introdurre nella progettazione sanitaria può diventare una scuola di democrazia partecipativa.

Le esigenze di equità inducono maggiore attenzione per i soggetti che hanno bisogno di maggiore tutela. Tra questi vanno considerate anche le generazioni future.

La legittima preoccupazione di contenere i costi ― che dovrà riguardare soprattutto gli sprechi e le irrazionalità, non potendo il sistema sanitario beneficiare di significative riduzioni dei costi associate al progresso tecnologico, che notoriamente tende piuttosto a farli crescere ― pur essendo un problema nuovo e potenzialmente capace di trasformare la pratica della medicina, non costituisce ancora il "cambiamento di paradigma" di cui i sistemi sanitari moderni hanno bisogno. La grande innovazione è data piuttosto dalla partecipazione del paziente al processo decisionale. Un filo diretto lega le strategie di riduzione del costo della salute e l'esigenza che tra operatori della salute e cittadini si instauri una vera comunicazione finalizzata a raggiungere una composizione soddisfacente di interessi divergenti.

In questa prospettiva logica "il più" ― nel senso di interventismo terapeutico, di innovazione tecnologica e di investimento economico ― non coincide sempre con "il meglio". Anzi i problemi più acuti dei nostri giorni sembrano provenire più dall'eccesso che dalla carenza (si vedano le situazioni etichettate come "accanimento terapeutico" e le richieste di limiti all'interventismo medico, in nome della volontà soggettiva di conservare la dignità umana anche nella fase terminale della vita). Se "il più" non equivale al meglio, analogamente, "il meno" non corrisponde necessariamente al peggio: molti pazienti riceveranno benefici se la pressione esercitata dal contenimento dei costi limiterà gli interventi non necessari, ridurrà i danni iatrogeni e punterà più sulla qualità della cura, che equivale spesso a un prezzo minore.

La civiltà sanitaria di un paese si misura anche dalla capacità di comprendere questi dilemmi e queste incertezze; il superamento della medicina trionfante ― falsamente risolutiva del dolore umano ― costituisce un grande progresso, purché i sistemi sanitari sappiano cogliere il contenuto di sfida che può derivare da un cambiamento che comporta meno certezze o leggi indiscutibili, mentre richiede maggiore partecipazione, attenzione alle modalità operative e alle debolezze non rimediabili degli assistiti. In quest'ottica di attenzione ai bisogni nascosti, gli indicatori di civiltà suggeriscono un'attenzione particolare agli aspetti preventivi e riabilitativi, che rappresentano due momenti di particolare protezione verso le fragilità umane.

2B. - Individuazione dei bisogni di salute e della domanda di prestazioni sanitarie

Negli anni recenti in Italia l’organizzazione dei servizi si è fondamentalmente basata sulle scelte operate da chi governava l'offerta, ritenendo di essere in grado di interpretare autonomamente la domanda. È ben noto, d’altra parte, quanto sia complesso nella moderna struttura dei comportamenti individuali e collettivi identificare i bisogni reali, mettendo in luce anche quelli inespressi e sapendo cogliere tra i molti quelli realmente legati alle dinamiche di salute.

In questo scenario si è assistito a un inseguimento irrazionale tra offerta e domanda, determinato da spinte non controllate, che alla fine hanno provocato un aumento dei costì complessivi del sistema sanitario. Partendo da questa realtà, si ritiene opportuno indicare alle regioni l'esigenza di istituire, nel corso del triennio 1994-96, gli osservatori epidemiologici regionali. Questi dovranno costruire, per ogni area e per ogni settore della popolazione, quadri completi del bisogno sanitario, al fine di offrire un punto di partenza sul quale fondare le scelte per l'impiego delle risorse disponibili.

2C. - Impiego razionale delle risorse

Un utilizzo inefficiente delle risorse costituisce una diminuzione della possibilità di dare risposta a una

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quota del bisogno sanitario, tanto più consistente quanto più ampia è l'area di inefficienza. Considerato l'ormai consolidato orientamento a contenere il volume di risorse pubbliche destinate all'assistenza sanitaria, la razionalizzazione della spesa assume rilievo di obiettivo strategico del Servizio sanitario nazionale.

La natura aziendale delle strutture responsabili della produzione ed erogazione dei servizi sanitari e il nuovo stato giuridico de) personale del Servizio sanitario nazionale rappresentano condizioni ormai acquisite, tali da consentire agli organi delle Unità sanitarie locali e delle Aziende ospedaliere di scommettere sul proprio ruolo, disponendo degli stessi poteri e strumenti consentiti alle analoghe figure del settore privato.

Non si dispone di un'aggiornata mappa delle aree di diseconomia e di spreco redatta con criteri scientifici; tuttavia, è possibile individuarne con buona approssimazione alcune che frequentemente si riscontrano nell'ambito del Servizio sanitario nazionale;

● abuso delle esenzioni dal sistema di compartecipazione alla spesa;

● tendenziale iperconsumo di farmaci;

● eccessiva facilità di prescrizione e ripetizione di prestazioni diagnostiche;

● frequente ricorso improprio al ricovero ospedaliero, per patologie più efficacemente trattabili secondo altre modalità;

● tendenziale sotto-utilizzo di strutture diagnostiche e di strutture operatorie di alta specializzazione, cui sono associati elevati costi fissi;

● tendenza ad ampliare tecnologie ad alto costo, sia per attività diagnostiche sia per attività terapeutiche, in maniera non sempre appropriata dal punto di vista del rapporto costi-benefici e dello sfruttamento delle economie di scala;

● sotto-utilizzo delle risorse pubbliche, con conseguente oneroso trasferimento delle risposte al settore privato convenzionato;

● sovrapposizioni non integrate di iniziative sanitarie e socio-assistenziali a disabili ed anziani;

● approvvigionamento di beni e servizi non sempre conforme a criteri di economicità ed efficacia;

● impiego irrazionale del personale di tutte le professionalità, non opportunamente utilizzato e non collocato nelle aree di effettivo bisogno, come conseguenza di carente programmazione o di anacronistiche rigidità operative.

Appare necessaria, al riguardo, l'individuazione degli interventi correttivi da adottare a livello locale e regionale, con il conseguente monitoraggio dell'applicazione e dell'efficacia, anche tramite l'analisi di appropriati indicatori.

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COMPORTAMENTI

La spesa per la sanità è correlata con il reddito annuo pro capite, che rappresenta la ricchezza prodotta e goduta da un paese; pertanto, quanto più i paesi sono ricchi, tanto maggiori sono le disponibilità finanziarie da poter dedicare alla salute (cfr. "Dalle mutue al servizio sanitario nazionale per garantire l'equità"). Tuttavia, anche nei paesi dove i fondi destinati alla sanità sono una buona percentuale del prodotto interno lordo il divario tra l'offerta e la domanda è elevato. In altre parole, i cittadini americani manifestano la stessa insoddisfazione degli italiani in fatto di servizi sanitari, anche se negli Stati Uniti la percentuale messa a disposizione della sanità è quasi il doppio di quella italiana. Dove sono da ricercare i motivi di tutto ciò?

Iandolo ed Hanau nel loro testo Etica ed economia nell'"azienda" sanità paragonano metaforicamente la medicina a uno sgabello a tre gambe; una gamba corrisponde all'efficacia delle cure, un'altra è l'efficienza economica del sistema sanitario e la terza è la rettitudine di coloro che offrono le cure a coloro che le chiedono. L'efficacia, intesa come l'identità di un atto medico a modificare il corso naturale di una malattia, dipende dalla competenza tecnico-professionale degli infermieri, dei medici e di ogni altro operatore sanitario. L'efficienza, ovvero l'utilizzazione razionale delle risorse, la quale permette di eliminare gli sprechi e di estendere il beneficio delle cure al maggior numero di malati, deve essere l'obiettivo fondamentale del personale sanitario, amministrativo e tecnico, collocato a qualunque livello del sistema sanitario. La rettitudine, intesa come l'obbedienza alle norme morali in generale e deontologiche in particolare, dipende dalla coscienza di ciascuno e dalla formazione etica di tutti coloro che operano nel settore della salute, ivi compresi i fruitori delle cure. Ebbene, se una delle tre gambe è poco solida o è più corta, o addirittura manca del tutto, lo sgabello non regge. Purtroppo ciò è quello che spesso accade nel sistema sanitario.

Gli specialisti sono per lo più preoccupati di verificare l'efficacia delle prestazioni che forniscono agli assistiti, senza nessuna considerazione del costo delle stesse. I politici e gli amministratori, al contrario, sono tutti protesi all'osservanza della spesa e reputano gli specialisti i maggiori responsabili della scarsità delle risorse. Gli esperti di etica, dal canto loro, sono troppo spesso distanti dalle necessità reali dell'esperienza clinica, per cui non sono in grado di persuadere specialisti, politici e amministratori circa l'opportunità di adeguarsi a talune regole di condotta consone al rispetto dei valori che la società ritiene imprescindibili. Lo scenario, appare, pertanto, poco confortante.

Ciononostante, non vi è operatore sanitario o cittadino che non concordi con l'affermazione che è necessario porre un limite a ciò che la società spende per la sanità e che è dovere di tutti coloro che hanno una responsabilità circa l'uso delle risorse ― siano essi infermieri, amministratori, medici, politici ― cercare di contribuire affinché esse vengano usate in modo efficiente, così da procurare il maggior beneficio possibile. Lo stesso obbligo è dato a ogni cittadino, contribuente e nel contempo fruitore delle cure del servizio sanitario.

Per gli infermieri, come per altri operatori coinvolti nel processo di cura, ciò significa esaminare sistematicamente la propria organizzazione e le prestazioni che in essa vi si svolgono.

In altre parole, gli infermieri potrebbero partire dal fornire risposte a interrogativi del tipo:

● le risorse a disposizione dell'organizzazione esistente sono utilizzate al massimo della loro

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potenzialità e secondo un criterio di equità?

● qual è il tipo di relazione interprofessionale più efficace per l'organizzazione?

● i professionisti sono posti nella condizione di fornire il miglior contributo possibile?

● è noto il giudizio del fruitore del servizio sui tempi e modi di assistenza fornita?

Non si contano le normative nazionali e regionali che negli ultimi tempi hanno concorso a far riflettere gli operatori della salute sulla qualità della loro attività. Gli strumenti proposti consistono in massima parte nella valutazione sistematica da parte dei professionisti delle procedure e dei risultati delle loro prestazioni. Un ampio spazio è dedicato alla utilizzazione delle sperimentazioni gestionali.

Riguardo alla valutazione e al controllo delle attività, il DPR 1 marzo 1994 ― Approvazione del Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-96 ― riporta:

«La rilevanza sociale delle attività erogate dal Servizio sanitario nazionale e l'entità delle risorse occorrenti comportano la necessità di valutare in maniera sistematica l'attività svolta, al fine di verificare se i benefici conseguiti siano congruenti con i costi sostenuti e, quindi, se gli sforzi volti a migliorare l'efficienza e l'efficacia del servizio offerto all'utente abbiano raggiunto i risultati desiderati.

Al fine di ottenere un sistema di valutazione in grado di soddisfare questa esigenza, è necessario costituire un insieme di indicatori in grado di rilevare i diversi fenomeni da tenere sotto osservazione. Questo sistema deve fornire contestualmente ai diversi livelli decisionali in cui si articola il Servizio sanitario nazionale la possibilità di autovalutazione rispetto agli obiettivi da conseguire e rispetto alle risorse consumate, tenendo conto dell'autonomia regionale e rispettando le specificità locali.

Gli indicatori rappresentano delle informazioni selezionate in modo accurato che aiutano a misurare, in relazione a determinati criteri prioritari, i cambiamenti avvenuti nei fenomeni osservati e quindi permettono di monitorare aspetti specifici della politica sanitaria. Il sistema di indicatori quindi deve essere finalizzato ad assistere i processi decisionali:

― a livello locale, evidenziando le aree critiche, da sottoporre ad ulteriori analisi specifiche e orientando l'identificazione e l'attuazione di eventuali provvedimenti correttivi;

― a livello regionale e centrale, consentendo la verifica dei criteri adottati per orientare la programmazione sanitaria e l'allocazione delle risorse».

Circa il contributo atteso dalle sperimentazioni gestionali, la stessa normativa invece prevede:

«All'interno del quadro normativo nazionale, diventa rilevante che le diverse regioni e le singole Usi, in virtù delle loro specificità, esprimano capacità di proposta, attivando momenti di riformulazione degli interventi in modelli organizzativi sino ad oggi non sperimentati.

Le maggiori sollecitazioni che discendono dal "cambiamento" dell'assetto istituzionale ed organizzativo coinvolgono, da un lato, i comportamenti professionali degli operatori del servizio sanitario nazionale e, dall'altro, i modelli organizzativi adottabili, attualmente in genere orientati prevalentemente all’adempimento di compiti piuttosto che al perseguimento di obiettivi e al raggiungimento di risultati.

Per garantire il raggiungimento dei risultati previsti è necessario investire risorse nella formazione e l'aggiornamento degli operatori, da un lato, e dall'altro, nella sperimentazione di modelli organizzativi innovativi».

I punti nodali, già definiti dal legislatore, sono: l'uso di indicatori di qualità e di efficienza delle azioni professionali non solo al fine di orientare e migliorare i protocolli di assistenza, bensì anche l'allocazione delle risorse; la realizzazione di nuovi modelli di organizzazione, con l'obiettivo che i protagonisti migliorino le loro performance sia dal punto di vista tecnico che etico, oltre che ridurre a livello accettabile gli sprechi.

È giunto il momento che l'infermiere si faccia protagonista all'interno dei settori in cui esercita

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la professione, cogliendo, m collaborazione con gli altri professionisti sanitari, i segnali sopraddetti. È ancor scarsa negli infermieri l'attitudine allo studio, sia nella formazione di base che in quella continua dell'economia, della sociologia, dell'organizzazione, dell'antropologia, dell'epidemiologia e dell'etica, che pure forniscono le strutture essenziali per la lettura di un tema così complesso e sempre attuale come quello dell'allocazione delle risorse.

Ciononostante, già molti si trovano a dover gestire, spesso da soli, meccanismi che hanno a che fare con la distribuzione delle risorse, come le tristemente famose "liste d'attesa". In molti paesi, tra t quali l'Italia, le liste d'attesa costituiscono ancora l'unico sistema a disposizione dell'organizzazione sanitaria per il razionamento ovvero per la distribuzione delle risorse disponibili solo in quantità limitata. Agli infermieri non è attribuito alcun ruolo della programmazione sanitaria in tale sistema di allocazione delle risorse. Forse anche perché l'ammissione alla lista avviene solo attraverso criteri squisitamente medici, come la natura e gravità della malattia, e mai considerando criteri più specificatamente infermieristici, come potrebbe essere il livello di autosufficienza della persona o la presenza o meno accanto ad essa di un partner.

D'altro canto è ormai noto che le liste d'attesa sono un fenomeno assai strano, se si pensa che è già successo che l'aumento delle risorse a volte è stato in grado di aumentare anche la lista. Fatti di questo genere inclinano a pensare che la lunghezza delle liste d'attesa può esser dovuta anche a una cattiva gestione. Dal momento che il tempo di attesa per accedere a una prestazione o a un servizio è un fattore decisivo della qualità dell'assistenza, e questa è inscindibile dalla prestazione dei professionisti, occorre darsi degli standard per stabilire il periodo di attesa massimo che si vuole accettare. Secondo le linee guida pubblicate dal Ministero della Sanità per l'attuazione della Carta dei servizi nel Servizio sanitario nazionale (n. 2, 1995), è fondamentale che gli standard siano resi noti alla popolazione, in quanto costituiscono un impegno pubblicamente assunto dall'azienda sanitaria («La verifica periodica o continua degli impegni assunti attraverso gli standard al fine di adeguarsi ai processi produttivi dei servizi e ridefinire gli impegni costituisce una caratteristica irrinunciabile dei principi generali della Carta dei servizi»).

Dal momento che l'infermiere fa parte dell'équipe sanitaria, ha il dovere di apprendere a familiarizzare con le problematiche di allocazione delle risorse che incontra nella struttura in cui lavora e a gestirle in collaborazione con gli altri professionisti, i dirigenti e gli amministratori.

Possiamo capire la difficoltà per dei professionisti sanitari a partecipare alla decisione che la piccola B non debba essere di nuovo trapiantata, o che il signor Elplick non debba vedersi praticare l'angiografia, o che Ilaria non debba tentare una cura che la renda, anche se di poco, più autosufficiente. Ancor peggio, per la coscienza morale del professionista italiano, sarebbe dover far parte dell'équipe del dottor David Bihari, i cui responsi rischierebbero di essere vissuti come vere e proprie pene capitali (cfr. "Leggendo i giornali..."). È a causa di questi motivi che le decisioni riguardanti i programmi sanitari andrebbero adottate a livello macrosociale. È questo l'unico modo per avere garanzia di un trattamento equo nei confronti di ogni individuo, più di quanto avvenga a livello microsociale, dove elementi specifici del rapporto operatore-paziente potrebbero generare preferenze inique ed essere per questo molto conflittuali.

Già oggi i professionisti della sanità, compresi gli infermieri, si trovano a dover risolvere singolarmente e malvolentieri situazioni che non hanno determinato loro e che il senso di responsabilità del singolo non è sufficiente a dirimere. In questi casi il professionista si trova a sperimentare un senso di abbandono da parte dell'organizzazione e fors'anche anche del gruppo professionale in cui è inserito; rischia, pertanto, di lasciarsi prendere da considerazioni di ordine personale che non dovrebbero mai essere utilizzate per la soluzione di problemi che riguardano la selezione dei pazienti e le scelte di cure sanitarie (se dare di più a questo o quello; se dare prima all'uno o all'altro).

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A questo punto s'impone una riflessione che et consenta di recuperare la speranza di poter praticare le norme di buona condotta senza dover sperimentare continue circostanze di conflitto. La deontologia professionale offre a colui che esercita una professione una guida forte, consolidata dal consenso di tutti coloro che esercitano la stessa professione. L'attività professionale non è uno stato di potere esercitato sull'individuo che necessita di prestazioni, bensì un potere per il raggiungimento di un fine buono: il bene comune della salute, nella sua accezione più ampia. Pertanto, uno dei criteri per distinguere una buona (perché efficiente) organizzazione da una che non lo è, resta il conseguimento di questo fine, al quale tutti, senza eccezioni, devono collaborare.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Commissione ecclesiale "Giustizia e Pace", Educare alla legalità. Per una cultura della legalità nel nostro Paese, Edizioni Paoline, Milano 1991, pp. 20-21.

Iandolo C. - Hanau C., Etica ed economia nell'"azienda" sanità, Franco Angeli, Milano, 1992, pp. 30-34; 44-48; 61-63; 78-80.

Martini C.M., Viaggio nel vocabolario dell’etica, Edizioni Piemme, Alessandria, 1993, pp. 46-48.

Mooney G., L'economia come atteggiamento. Economia sanitaria e nursing in Europa, Infermieristica e salute per tutti. Documenti fondamentali, Cespi, Torino, 1993, pp. 133-134.

Norman R., La gestione strategica dei servizi, Etas Libri, Milano, 1992.

Ribes A., "Sclerosi multipla: un centro batte vie nuove. La terapia costa ma pare funzioni", da Erre come Riabilitazione, Aprile-giugno 1995, n. 22, p. 12.

PER APPROFONDIRE

L'Arco di Giano, Rivista di medical humanities, N. 5, 1994 (Dossier: "Lo stile azienda in sanità").

Quaglino G.P., Appunti sul comportamento organizzativo, Tirrenia Stampatori Editrice, Torino, 1992.

Bonaldi A., Focarile F. e Torreggiani A., Curare la qualità, Guerini e Ass., Milano, 1994.

Vineis P., La salute non è una merce, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.

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NURSING TRANSCULTURALE

FATTI

Vu' cumprà, ti ascolto

C'è posto per i nomadi nel nostro stato sociale?

Chi sono gli immigrati

Gli untori di Aids

La politica dello struzzo

IDEE

Pregiudizi, stereotipi e discriminazioni

Saltiamo il fossato dell'etnocentrismo

La condizione culturale dell'immigrato

Donna turca, ti conquisterò!

NORME

● Norme Giuridichc

I diritti degli stranieri in Italia

● Norme Morali

Diritti scritti, ma non attuati

COMPORTAMENTI

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FATTI

VU' CUMPRÀ, TI ASCOLTO

Lo scenario è l'astanteria di un pronto soccorso di una cittadina rivierasca. Ismail, un ragazzo di circa 30 anni, di nazionalità marocchina, viene ricoverato verso le 21 perché trovato svenuto sulla spiaggia dove svolgeva l'attività di ambulante. L'infermiere di turno redige la parte anamnestica della cartella infermieristica e rileva che il paziente, le cui condizioni nel frattempo sono migliorate, sta osservando il rito del Ramadan previsto dalla religione musulmana. Ismail risponde con precisione alle domande, alternando un italiano stentato intercalato da un francese sciolto. L'infermiere riesce a comprendere abbastanza facilmente ciò che il paziente gli dice grazie alle proprie conoscenze del francese. Ismail è affamato, in quanto sta osservando il digiuno imposto dal Ramadan lino al tramonto. Dopo che il medico ha visitato il paziente e predisposto ulteriori accertamenti, viene rispettata la richiesta di Ismail di poter mangiare dopo il tramonto. Una volta soddisfatto il bisogno del paziente, l'infermiere, d'accordo con i colleghi, raccoglie le informazioni circa il rito del Ramadan al fine di poter effettuare un passaggio di informazioni all'interno dell'équipe per un'assistenza adeguata al caso.

C'È POSTO PER I NOMADI NEL NOSTRO STATO SOCIALE?

Maijla, mia ragazza di circa 20 anni, ungherese, appartenente a una comunità nomade dei Rom insediatasi alla periferia di una grande città, viene ricoverata nel reparto di medicina per una probabile patologia a carico delle vie aeree che le ha procurato, da parecchi giorni, febbre alta e persistente con espettorazione. Maijla, la più piccola di un nucleo familiare composto da quattro fratelli, è spaventata perché è la prima volta che subisce un ricovero ospedaliero. L'ospedale è relativamente recente e pertanto le aree di degenza sono costituite da camerette con due posti letto con attigui i servizi igienici. La sua compagna di stanza è una donna di mezza età residente nella città, ricoverata da circa un mese. Vicino a Maijla c'è quasi costantemente la mamma per darle conforto. Nonostante la caposala abbia concesso alla mamma della ragazza di rimanere più a lungo durante l'orario di visita, nel reparto c'è un continuo via vai di nomadi appartenenti al clan dei Rom. La vicina di letto, una donna sino ad allora molto tranquilla, ha minacciato il primario di rivolgersi alla direzione sanitaria, se non cercherà di sistemarla in un'altra camera. La donna, probabilmente ansiosa anche per il prolungarsi del suo ricovero, non fa altro che chiamare gli infermieri anche durante l'orario notturno, perché ha paura che le possano essere sottratti gli effetti personali e di ammalarsi di Aids utilizzando i servizi igienici in comune con Maijla. Questa situazione diventa insostenibile dopo neppure tre giorni di convivenza in comune, a causa della difficoltà di disciplinare l’afflusso dei nomadi, con conseguente ostacolo al normale svolgimento delle attività assistenziali. Il primario riflette sul da farsi, anche perché la ragazza non è in possesso del permesso di soggiorno e, quindi, dovrebbe essere segnalata alla questura. Questo potrebbe compromettere la sua possibile cura e guarigione.

CHI SONO GLI IMMIGRATI

Le caratteristiche dominanti del fenomeno in Italia sono rappresentate da un estremo polimorfismo

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cinico, linguistico e culturale: al 31.12.1993 si contavano 987.405 presenze straniere in Italia con regolare permesso di soggiorno, di cui 834.451 provenienti da almeno 170 paesi poveri, più una quota di "clandestini" stimata dal 15 al 25% del totale delle presenze. In Italia la componente femminile rappresenta circa il 40% del totale degli stranieri presenti con regolare permesso di soggiorno. Per lo più si tratta di donne sole e motivate dalla ricerca di un lavoro.

Una grossa quota di immigrati non può avere accesso alle strutture del S.s.n.: si tratta di soggetti con permesso di soggiorno senza residenza e dei soggetti irregolari. Rimangono solo poche strutture disponibili: le associazioni di volontariato e la possibilità di rivolgersi ad ospedali in caso di urgenza medica, maternità o infortunio. Le modalità di accesso invece alle strutture pubbliche preventive (consultori familiari, pediatrici, ecc. ...) variano da regione a regione e a volte dipendono addirittura dalla disponibilità di singoli operatori.

Associazione Volontari Assistenza Sociosanitaria Stranieri e Nomadi,

L'assistenza agli immigrati: il MAGA

GLI UNTORI DI AIDS

L’evidenza epidemiologica, analizzata con le tecniche statistiche più appropriate, insieme ad alcune considerazioni antropologiche, permette di affermare quanto segue: (1) gli adulti stranieri che migrano in Italia hanno un tasso di sieropositività ― HIV "all'origine" che è inferiore di 1/3 al corrispondente tasso degli adulti italiani; pertanto il "gradiente" è tale da determinare un flusso di contagio dalla popolazione italiana a quella immigrata, e non viceversa; (2) le condizioni di miseria e di sfruttamento in cui viene tenuta parte della popolazione immigrata creano sacche ad allo rischio di contagio che coinvolgono sia una fascia di immigrati (spesso ignari di tutto), sia una fascia di italiani (spesso consapevoli ma sprezzanti del rischio).

Leopoldo SalmasoChi infetta chi?

LA POLITICA DELLO STRUZZO

«Per il 1995 i cittadini extracomunitari, regolarmente residenti in Italia ed iscritti nelle liste di collocamento, avranno accesso gratuito all'assistenza sanitaria, in quanto un decreto ― il numero 20 del 21 gennaio scorso ― li equipara ai cittadini italiani disoccupati». In realtà l'iniziativa, la prima del Governo Dini in materia sanitaria, avrà attuazione fino al 21 marzo prossimo. «Per quanto riguarda invece gli extracomunitari immigrati clandestini ― aveva aggiunto (ruzzanti ― bisogna prima sciogliere questo nodo: dobbiamo fare finta che non esistono, perché se ammettiamo che esistono stiamo violando la legge; oppure ammettendo che esistono, perché esistono, tuteliamo la salute pubblica? La soluzione a mio parere non può che essere la seconda».

Ma allora un extracomunitario che sta male cosa può fare? Ha accesso soltanto all'assistenza urgente (per frattura, infarto, appendicite, ecc.). L'amministrazione dell'ospedale emette regolare fattura, ma si sa già in partenza che è un costo da iscrivere nel bilancio della voce "perdita" . Per l'assistenza sanitaria generica si deve affidare solo agli ambulatori del volontariato. Le organizzazioni più impegnate sono due luna religiosa, la Caritas, e l'altra laica, il Naga. Garantiscono da anni a queste persone, che lo stato continua a ignorare, un'assistenza sanitaria generica e di prevenzione, per un elementare diritto umanitario e poi perché avere un ospite senza alcuna malattia significa proteggere la nostra salute.

AnselmoTerminelliImmigrati: per i "regolari" va bene, il problema restano i clandestini

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IDEE

PREGIUDIZI, STEREOTIPI E DISCRIMINAZIONI

Uno degli studiosi italiani più noti e autorevoli della teoria del diritto e della filosofia morale pone una serie di interrogativi sulla natura del pregiudizio. Questo tema di confine tra etica e politica è reso attuale dal profilo multiculturale e multirazziale che sta acquistando anche la società italiana.

Chiamiamo "pregiudizio" un'opinione o un complesso di opinioni, anche un'intera dottrina, accolta acriticamente dalla tradizione, dal costume o da un'autorità t cui dettami accettiamo senza discuterli: "acriticamente" e "passivamente". Proprio perché non è correggibile o è meno facilmente correggibile, il pregiudizio è un errore più tenace e socialmente più pericoloso. Dietro alla convinzione con cui crediamo a ciò che il pregiudizio ci vuol far credere sta una ragione pratica, una predisposizione a credere nell'opinione che il giudizio tramanda (...).

Chiamo pregiudizi collettivi i pregiudizi condivisi da un intero gruppo sociale e riguardanti un altro gruppo sociale. Molti conflitti fra gruppi derivano dal modo distorto con cui un gruppo sociale giudica l’altro, generando incomprensione, rivalità, inimicizia, disprezzo, Questo giudizio distorto è reciproco,

È tanto più forte quanto più è intensa la identificazione da parte dei singoli membri coi proprio gruppo. L'identificazione col proprio gruppo fa sentire l'altro come diverso, o addirittura ostile. A questa identificazione-contrapposizione contribuisce appunto il pregiudizio, ovvero il giudizio negativo che i membri di un gruppo si fanno dei caratteri del gruppo rivale. i pregiudizi di gruppo sono innumerevoli, ma i due storicamente più rilevanti: sono il pregiudizio nazionale e il pregiudizio di classe. I grandi conflitti che hanno contrassegnato tutta la storia dell'umanità sono quelli derivati dalle guerre fra nazioni o popoli (o anche razze), e dalla lotta di classe. C'è talora un'opposizione, fra il modo con cui un popolo vede se stesso e il modo con cui è visto dagli altri popoli; ma generalmente tutte e due i modi sono costituiti da idee fisse, da generalizzazioni superficiali (tutti i tedeschi sono prepotenti, tutti gli italiani sono furbastri, ecc.), che vengono chiamati proprio per questo "stereotipi" (...).

Vittime del pregiudizio di gruppo sono di solito le minoranze etniche, religiose, linguistiche, ecc. Lo stesso si può dire per il pregiudizio nei riguardi dei meridionali: questo è tanto più forte quanto più essi in seguito al fenomeno dell'emigrazione vengono a costituire una minoranza inserita in una maggioranza. «Ma se il pregiudizio reca tanti danni all'umanità, è possibile eliminarlo?». Posso dirvi soltanto che i pregiudizi nascono nella testa degli uomini. Perciò bisogna combatterli nella lesta degli uomini, cioè con lo sviluppo delle conoscenze, e quindi con l'educazione, attraverso la lotta incessante contro ogni forma di settarismo (...).

All'immigrazione dei paesi che chiamiamo del Terzo Mondo, si sta aggiungendo quella dei paesi dell'Est europeo m seguito al crollo del comunismo. Ora il flusso immigratorio arriva ai paesi europei che sono tra i paesi più popolati del mondo. Tra questi problemi c'è anche l'insorgere di fenomeni razzistici. La necessità del popolo ospitante di convivere improvvisamente con individui di cui si conoscono poco i costumi, per nulla la lingua, coi quali si riesce a comunicare solo a gesti o con parole storpiate, genera atteggiamenti di diffidenza che vanno dal dileggio verbale, al rifiuto di ogni forma di comunicazione o contatto, dalla segregazione all'aggressione. Le frasi che ora sono rivolte agli extracomunitari sono le stesse che alcuni decenni fa qui a Torino erano rivolle ai meridionali. Pregiudizi di carattere generale: "...hanno più difetti che pregi e invadono il nostro territorio". Pregiudizio di tipo socio-culturale:

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«Appaiono differenti nella mentalità, nel comportamento, nella vita sociale, nelle tradizioni». Pregiudizio socio-economico: «Sono scansafatiche, vivono a nostre spese, minacciano i nostri interessi». Pregiudizio di carattere personale: «Sono maleducati, disonesti, sporchi, portatori di malattie contagiose, violenti con le donne, ecc.».

Noberto BobbioElogio della mitezza e altri scritti morali

SALTIAMO IL FOSSATO DELL'ETNOCENTRISMO

Il problema etico centrale di una società multiculturale è quello di superare l'etnocentrismo, vale a dire quell'atteggiamento mentale e spirituale che consiste nel mettere la propria cultura al centro, misurando gli altri in rapporto a se stessi. Il teologo morale E. Chiavacci sostiene che l'etnocentrismo non è più sostenibile sul piano scientifico. L'umanità vive in culture diverse, non per questo migliori o peggiori.

Possiamo interpretare il "concetto globale di cultura" nel senso antropologico come un complesso di strutture in cui nasco e cresco, da cui ricevo una serie di input determinati che sono legati a quelle strutture e non ad altre, che creano dentro il singolo certe forme standard, quindi automatiche, di risposta. Si tratta di modelli cognitivi: il modo di parlare, di argomentare, di mettere insieme l'esperienza; di modelli operativi: il modo di muoversi, di operare, di comportarsi (si pensi per esempio a tutta la civiltà africana e afroamericana che vivono ballando e non si concepisce un camminare che non sia una danza); di modelli valutativi: quando io dico che questa è la famiglia buona e che quest'altra invece è la famiglia sbagliata, io valuto in base agli input ricevuti e questi input sono quelli delle strutture in cui sono nato.

Con questo schema è interpretabile la pluralità delle culture. Noi sappiamo che tutta la razza umana, la specie umana è organizzata intorno ad aree culturali che sono diverse e che sono abbastanza identificabili sia pure vagamente e che permangono fortemente nonostante la facilità della comunicazione e dei mezzi di trasporto abbia rimescolato molto le cose. C'è la cultura occidentale che non è più solo europea ma anche nordamericana, e c'è tutta l’area culturale sino-giapponese che è vastissima ma che costituisce fondamentalmente una unica cultura, sia pure con le dovute differenziazioni; c'è l’area culturale centroafricana; c'è l’area delle varie culture latino-americane e c’è la cultura aborigena nelle isole del Pacifico. Ognuna di queste grandi aree ha aree di subcultura, che non vuol dire cultura di qualità inferiore, ma semplicemente differenziazioni abbastanza piccole, dove però fondamentalmente i modelli sono gli stessi.

Enrico ChiavacciNatura, cultura, etica

LA CONDIZIONE CULTURALE DELL'IMMIGRATO

La presenza crescente di immigrati extracomunitari in Europa pone un problema nuovo ai sanitari che devono occuparsi dei problemi di salute di queste persone. Dal momento che salute e malattia non sono fatti puramente somatici, ma dimensioni della cultura, medici e infermieri che si occupano degli immigrati dovrebbero avere una "educazione etnica". È quanto sostiene l'antropologo B. Bernardi, identificando in questa educazione una sfida per ampliare gli orizzonti di tutti.

Ogni paziente, qualunque sia la sua provenienza, reca sempre con sé la propria identità etnica e

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culturale, per di più gravata dalla sofferenza. Quando poi il paziente è un immigrato non ancora inserito nella cultura ospitante, la comunicazione si rivela più difficile e complessa, se pur possibile. Da una parte e dall'altra si richiede un notevole sforzo anche solo per percepire i segni con cui si tenta di superare l'incomunicabilità del linguaggio normale. Solo la consuetudine e l'informazione culturale consentono di penetrare in qualche modo la barriera della diversità culturale, permettendo di cogliere un qualche barlume delle concezioni e dei sentimenti di fondo dell’uno e degli altri. L'immigrato, che nel suo modo di concepire mantiene intatto il suo quadro originario di riferimento culturale, incontra difficoltà soprattutto nel doverlo adattare alla novità dell'ambiente, in cui si trova improvvisamente inserito. Il personale medico per necessità professionale mette in primo piano la preparazione tecnica. L’incontro con il malato straniero lo confronta con un vuoto di formazione di cui, forse, lino a quel momento non aveva avvertito la portala esistenziale (...).

Anche se la diversità di cultura non può essere cancellata del tutto, l'atteggiamento mentale di apertura e di mutua comprensione che viene a crearsi sviluppa i presupposti perché maturi una necessaria e reciproca "educazione etnica". Questo tipo di educazione è tra i frutti più validi della formazione etnoantropologica, sia perché consente lo scambio culturale, sia perché serve a superare gli stereotipi rispetto alle identità altrui.

In tutte le culture la concezione della malattia ha risvolti che la collegano con le credenze religiose. Nelle società africane la convinzione del rapporto tra malattia e comportamenti sociali è profondamente radicata, pur con sfumature locali, e permane forte anche nelle attuali trasformazioni culturali.

Le cause della malattia, che la medicina scientifica riconosce nei sintomi, nelle società africane tradizionali sono attribuite a comportamenti personali e fattori sociali. Questi possono essere di due generi: agenti mistici ed esterni ― quali gli antenati, gli spiriti della natura o la stregoneria ― oppure il malessere sociale d'ordine intimo e personale, come, per esempio, l'astio o l'offesa verso parenti intimi. Nell'animo dell'immigrato, se prende corpo il dubbio che l'allontanamento dalla famiglia e dai parenti abbia causato una qualche offesa, questo inciderà come un assillo che non dà tregua e che, in ogni caso, gli è difficile manifestare e far comprendere ad altri. Concezioni e dubbi del genere sono evidentemente di natura intima e hanno un profondo carattere mistico, che sfugge quasi sempre alla percezione del terapeuta occidentale (...).

L'immigrato si trova coinvolto in un processo di trasformazione culturale determinato dall'incontro e dalla sovrapposizione della medicina scientifica e delle concezioni tradizionali. Di tale trasformazione è il soggetto e, in qualche modo, la vittima. La vive in condizioni limitate tra speranze e disillusioni. L'evenienza di una sua caduta in uno stato di profonda depressione è un esito frequente, che l'esperienza conferma.

Bernardo BernardiL'immigrato tra sistemi di cura della salute

DONNA TURCA, TI CONQUISTERÒ!

Tutti i paesi con una rilevante immigrazione devono affrontare situazioni nuove, proprie del nursing transculturale. Può essere utile confrontarsi con soluzioni creative sperimentate altrove, come le strategie messe in atto dai sanitari svedesi per arrivare a offrire servizi sanitari alle donne turche immigrate.

Nell’ipotesi che la salute fosse condizionata anche da fattori di ordine culturale, Sachs ha esplorato l'esperienza di donne turche all'interno del sistema sanitario svedese. L'analisi ha preso spunto dalla constatazione di una offerta disattesa di servizi socio-assistenziali da parte di soggetti appartenenti a quella etnia. Cosa accade quando individui con una propria esperienza in campo assistenziale ― in

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questo caso donne turche ― incontrano un sistema diverso preposto alla cura di bisogni assistenziali, nello specifico, il sistema svedese? Le due parti possono avvertire difficoltà nell'incontro.

Sachs ha ritenuto opportuno indagare le forme di assistenza abitualmente esperite da donne in un contesto agricolo dell'Anatolia. L’analisi ha evidenziato come, superato un ambito personale-familiare, la ricerca di aiuto potesse essere indirizzata sia verso un settore popolare, animato da guaritori irreperibili nel nuovo contesto, che verso un settore "biomedico", animato da specialisti scientificamente formati. Le differenze risultavano però sostanziali.

Il ruolo professionale del medico in Turchia si caratterizza infatti per una forte componente autoritaria: il dottore non comunica eventuali incertezze nella formulazione della diagnosi, limita al minimo l'uso di strumentazione diagnostica ed il coinvolgimento del paziente (le donne, per esempio, non sono obbligate a spogliarsi per essere visitate). Ed era questo che le donne turche si aspettavano di ricevere dal medico anche nel nuovo contesto assistenziale. Ma il medico svedese è invece abituato ad astenersi dal pronunciare diagnosi in mancanza di dati certi, oggettivamente riscontrabili; l’uso di un apparato tecnico avanzato e la collaborazione del paziente sono condizioni indispensabili per l’esercizio della sua attività.

La ricerca ha suggerito al sistema sanitario svedese un obiettivo: le donne vengono incoraggiate ad assumere atteggiamenti responsabili nei confronti della salute e del benessere familiare portando, per esempio, i propri figli nei centri medici indicati, affrancandosi così da un'eziologia fatalistica che pregiudicava la possibilità d'intervento. Risultato: progressivamente le donne turche hanno iniziato a frequentare le sale d'attesa dei centri ambulatoriali e delle cliniche.

Fausta FabbriIl diritto alla salute per gli immigrati

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NORME

NORME GIURIDICHE

I diritti degli stranieri in Italia

― Straniero

Se non hai la cittadinanza italiana sei, per la legge italiana, uno straniero. Se non hai neanche un'altra cittadinanza sei apolide. Come straniero o apolide hai diritto, al pari dei cittadini italiani, al godimento delle libertà fondamentali: libertà di riunione e di associazione, libertà personale, domiciliare, di corrispondenza, di circolazione e di soggiorno, di manifestazione del pensiero, di professione religiosa, ecc. Puoi inoltre agire in giudizio (civile o amministrativo) a tutela dei tuoi diritti e interessi legittimi. Come straniero non hai invece il godimento di alcuni diritti politici per i quali è richiesta la cittadinanza italiana, come il diritto di voto, il diritto di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Oltre alla Costituzione del 1948 (art. 10) e alle leggi sulla cittadinanza (l'ultima è la L. n. 123/83), la condizione dello straniero in Italia è oggi regolata dagli artt. 48 e 49 del Trattato di Roma, ratificato con L. 1203/57 (per quanto concerne i cittadini ― lavoratori CEE) e dal D.L. 30.12.89 n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato), convertito nella L. 28.2.90 n. 39.

― Lavoro

Ricordati che per lavorare in Italia devi avere il permesso di soggiorno per motivi di lavoro, che ti dà anche il diritto di iscriverti alle liste di collocamento. Il collocamento e il trattamento dei lavoratori extracomunitari è oggi regolato dalla Legge n. 943/86 (in applicazione della Convenzione dell'OIL n. 143/75) e dalla L. n. 39/90. Come lavoratore extracomunitario legalmente residente nel territorio italiano hai diritto, insieme alla tua famiglia, alla parità di trattamento e alla piena eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani. Ti è inoltre garantito il diritto all’uso dei servizi sociali e sanitari, al mantenimento dell'identità culturale, alla scuola e alla disponibilità dell'abitazione.

― Se sei straniero hai diritto alle prestazioni sanitarie?

Se risiedi in Italia e vuoi fruire dell'assistenza erogata dal S.s.n. devi pagare un contributo proporzionato al tuo reddito. Se sei studente il contributo è fisso. L'iscrizione al S.s.n. va effettuata presso la Usi del luogo dove risiedi. Se sei solo temporaneamente in Italia hai diritto alle cure urgenti ospedaliere per malattia, infortunio e maternità, ma devi pagare la retta ospedaliera. Se sei cittadino di uno stato della Comunità europea o di uno stato con il quale esiste una convenzione bilaterale, hai diritto alle prestazioni sanitarie alle stesse condizioni dei cittadini italiani.

― Il nomade: un esempio di minoranza

Le norme a garanzia degli zingari sono tutte e nessuna. Non esistono cioè norme specifiche a tutela degli zingari, ma saranno applicabili quelle sugli stranieri (se di nazionalità straniera), sull'uso della lingua italiana ecc. La tua condizione di fatto dipende totalmente dalla discrezionalità della polizia e dall'assistenza dei comuni. Il tutto a dispetto dei grandi principi sulla tutela delle minoranze etniche e linguistiche.

― Testimoni di Geova: una identità culturale

Gli aderenti a questo particolare credo religioso sono famosi per il loro rifiuto di sottoporsi a trasfusioni

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di sangue. Tale rifiuto rientra sicuramente tra le espressioni delle libertà costituzionali di pensiero, di professare la propria fede religiosa, di associazione, ecc. Il motivo del clamore suscitato da alcuni casi sta nel fatto di aver infranto la routine ospedaliera. La questione si riduce a questi punti essenziali:

― il "testimone" adulto e cosciente, in grado cioè di essere informato e di esprimere la sua volontà, può rifiutarsi di essere sottoposto a trattamenti contrari alle sue idee religiose. Nessun intervento della magistratura è legittimo. Il medico, raccolta la sua dichiarazione di rifiuto, non è esposto ad alcuna responsabilità. Non si pone un problema di stato di necessità: sulla "necessità di salvare", di cui all'art. 54 cp prevale il preventivo rifiuto, liberamente espresso, di certi trattamenti. Il sanitario ha l'obbligo di porre in essere le possibili terapie alternative sulle quali vi è il consenso o almeno il "non dissenso";

― per il "testimone" adulto e non cosciente, al momento in cui sorge la necessità del trattamento sanitario, si pongono gli stessi problemi per tutti gli adulti non coscienti. Il comportamento più corretto è: il medico che sa che certi trattamenti (per esempio la trasfusione) sono stati inequivocabilmente rifiutati fino a momenti prossimi alla perdita di coscienza non deve effettuarli, fermo restando l'obbligo di porre in essere misure terapeutiche diverse in tutti i casi in cui è possibile;

― per il minorenne figlio di "testimoni" valgono le stesse identiche regole per tutti i minorenni: il minorenne ha un diritto alla salute che non può essere pregiudicato dalle convinzioni religiose di genitori o rappresentanti legali. Se la trasfusione è indispensabile, devono chiedere l'intervento del giudice per i minorenni che deciderà. Il Tribunale per i minorenni può prendere provvedimenti urgenti che possono sostituire la volontà dei genitori, ma che non possono obbligare i genitori "testimoni" ad avere comportamenti contrari alla loro fede religiosa. Nel caso in cui non vi sia il tempo di richiedere l'intervento del Tribunale per i minorenni i medici, se non sono attuabili terapie alternative, possono effettuare la trasfusione anche in caso di rifiuto dei genitori. A ciò sono autorizzati dallo stato di necessità.

Amedeo SantosuossoGuida per conoscere e salvaguardare i tuoi diritti

NORME MORALI

Diritti scritti, ma non attuati

Se molti e gravi aspetti dell'odierna problematica sociale possono in qualche modo spiegare il clima di diffusa incertezza morale e talvolta attenuare nei singoli la responsabilità soggettiva, non è meno vero che siamo di fronte ad una realtà più vasta caratterizzata dall'imporsi di una cultura anti-solidaristica. Essa è attivamente promossa da forti correnti culturali, economiche e politiche, portatrici di una concezione efficientistica della società. Guardando le cose da tale punto di vista, si può parlare di una guerra dei potenti contro i deboli: la vita che richiederebbe più accoglienza, amore e cura è ritenuta inutile, o è considerata come un peso insopportabile e, quindi, è rifiutata in molte maniere. Chi, con la sua malattia, con il suo handicap o con la stessa sua presenza mette in discussione il benessere o le abitudini di vita di quanti sono più avvantaggiati, tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o da eliminare. Da un lato, le varie dichiarazioni dei diritti dell'uomo e le molteplici iniziative che ad esse si ispirano dicono l'affermarsi a livello mondiale di una sensibilità morale più attenta a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità, religione, opinione politica, ceto sociale. Dall'altro, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo, nei fatti, una loro tragica negazione. Questa è ancora più sconcertante, proprio perché si realizza in una società che fa dell'affermazione e della tutela dei diritti umani il suo obiettivo principale e insieme il suo vanto. Come mettere d'accordo queste ripetute affermazioni di principio con il continuo moltiplicarsi e la diffusa legittimazione degli attentati alla vita umana? E una minaccia capace, al limite, di mettere a repentaglio lo stesso significato della convivenza democratica: da società di conviventi, le nostre società rischiano di diventare società di esclusi, di emarginati, di rimossi e soppressi.

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COMPORTAMENTI

L'aumento della complessità sociale per la presenza di persone appartenenti a diverse culture ed etnie ha evidenziato la necessità di una nuova coscienza culturale da parte della professione infermieristica. Ciò presuppone il superamento degli atteggiamenti di campanilismo e di chiusura, diventando consapevoli delle differenze culturali, per essere di aiuto a chi parla un linguaggio ed esprime bisogni diversi dai nostri. L'accoglimento della domanda di salute della immigrazione extracomunitaria in Italia è prevalentemente a carico di gruppi di volontariato. Il volontariato non dovrebbe sostituirsi alla latitanza dello stato, bensì essere di stimolo alle istituzioni affinché si occupino delle fasce a rischio, evitando meccanismi di esclusione.

Gli infermieri costituiscono spesso il primo contatto che lo "straniero" ha con una struttura sanitaria. Perciò un confronto approfondito con questi argomenti può essere di aiuto al professionista per evitare equivoci e conflitti nell'identificare i problemi dell'utente con la sua diversità culturale. L'infermiere, come "specialista nella relazione d'aiuto", dovrebbe essere capace di occuparsi di pazienti di culture differenti; tuttavia in pratica questo obiettivo è spesso solo teorico per carenza di formazione nel "nursing transculturale".

Il nursing transculturale ha origine agli inizi degli anni sessanta con il contributo di Madeleine Leininger, infermiera professionale e antropoioga americana. Dal 1991 dirige il nursing transculturale nello stato del Wayne; lo insegna in corsi di diploma, laurea e dottorato. Secondo la definizione data dalla stessa Leininger, il nursing transculturale «si riferisce a uno stato di benessere culturalmente definito, valutato e perseguito, che riflette la capacità di individui (o gruppi) di adempiere alle attività quotidiane relative al proprio ruolo in modi di vita culturalmente modellati, culturalmente espressi e culturalmente benefici. Questa disciplina intende adattare i servizi di cura infermieristici al cliente, alla famiglia e agli stili di vita relativi alla salute del gruppo culturale».

Gli stranieri, considerati "diversi" da noi per colore di pelle, lingua, abitudini di vita e religione professata, suscitano spesso anche negli operatori sanitari, nonostante il mandato deontologico, paure inconsce e rifiuto, in quanto influenzati dal contesto sociale poco orientato alla cultura del diverso. In alcuni, addirittura, sono radicati biasimo e pregiudizi, tanto da creare resistenze a modificare il proprio approccio ai differenti gruppi culturali. Questa carenza è anche dovuta al "mito", sviluppatosi a livello di formazione, che vede tutte le culture e persone come uguali, senza far emergere le specificità che invece contraddistinguono ogni individuo. Ne deriva il comportamento di trattare tutti i pazienti allo stesso modo, agendo sulle persone senza considerarne la loro matrice culturale. Tutto ciò è segno di "etnocentrismo professionale", cioè una sorta di imposizione ad altri dei propri valori, credo e abitudini, perché ritenuti superiori.

Sull'esempio della Leininger, per poter erogare un'assistenza efficace la professione infermieristica dovrebbe approfondire le tematiche legate all'immigrato o al "diverso", considerando come punti deboli o forti del processo assistenziale :

● i fattori etnico-culturali, relazionali, linguistici, valoriali, giuridici, organizzativo-strutturali, logistici, le differenze di percezione e di contesto di ogni specifica cultura. Le ricerche condotte dall'Olanda ("Donna turca, ti conquisterò!"; nello stesso articolo di Fabbri sono

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riportate anche analoghe ricerche fatte in Svezia), sono emblematiche del problema che scaturisce dall'impatto dell'offerta sulla domanda di salute di utenze particolari con riferimenti culturali di fondo che non rientrano nella media;

● la programmazione di azioni di prevenzione su queste particolari fasce di utenza dovrebbe considerarne i valori, la cultura, i bisogni abitativi, lavorativi, sociali, legali, giuridico-amministrativi;

● l'intervento sanitario non può prescindere da quello sociale, a causa della precarietà delle condizioni di vita, del significato del distacco dal quadro originario di vita (paese, famiglia e cultura: cfr. "La condizione culturale dell'immigrato"), dalle difficoltà di rapporto/integrazione con una collettività etnico-culturale omogenea. In quest'ottica è opportuno inserire l'individuo malato nel suo gruppo sociale e familiare, riconoscendo a quest'ultimo, al di là delle differenti culture, un ruolo di agente di salute. È necessario però, che i professionisti abbiano la capacità di interagire con i familiari per evitare l'isolamento del soggetto malato, rischio frequente delle nostre istituzioni sanitarie. Nella storia della giovane nomade Maijla ("C'è posto per i nomadi nel nostro stato sociale?"), la presenza continua degli appartenenti al gruppo dei Rom crea scompiglio e confusione nella normale routine ospedaliera. La caposala e gli infermieri, probabilmente, non conoscono le abitudini e tradizioni di questa minoranza e l'importanza che viene data dai singoli componenti alla solidarietà e al conforto di un loro appartenente, specie se giovane, di sesso femminile e con fratelli più grandi;

● la coscienza che i servizi sanitari, così come sono stati strutturati dal punto di vista organizzativo, favoriscono maggiormente le utenze culturalizzate perché in grado di esprimere una domanda di salute, al contrario delle fasce deboli. Per esempio, una strategia potrebbe essere quella di favorire la partecipazione di immigrati e nomadi come "consulenti" nella organizzazione dei servizi finalizzati a questa particolare utenza. L'intermediazione linguistica, prevedendo il contributo di persone provenienti dagli stessi paesi degli stranieri, potrebbe favorire la comunicazione tra operatore-utente;

● la creazione di una rete integrata di servizi pubblici col volontariato sociale (Caritas, NAGA, Stop Razzismo, ecc.), potrebbe delineare un osservatorio epidemiologico atto a monitorizzare il bisogno di salute, conoscere i percorsi sanitari, facilitare la segnalazione e presa in carico delle situazioni a rischio per facilitare il rapporto con stranieri e nomadi. Questo presuppone anche un approfondimento degli stili di vita del soggetto per promuovere la valorizzazione di lutti i fattori non medicalizzati della salute ― come l'igiene di vita, il lavoro, l'alimentazione ― utili per migliorarne l'inserimento nell'ambiente ospitante;

● il tipo di accoglienza data in una situazione di bisogno costituisce un momento centrale e influenza la qualità delle prestazioni, in quanto rappresenta un "contenitore transizionale" dove il bisogno viene preso in carico e decodificato. Svolgere un servizio a tutela della salute significa dare importanza alla persona e alla sua esperienza, dove l'aspetto somatico del paziente non viene più visto come polo opposto della psiche. Un esempio tangibile di rispetto dell'utente, pur nella sua diversità, si evince nel caso di Ismail che, professando la religione musulmana, deve rispettare il Ramadan ("Vu' cumprà, ti ascolto"). L'infermiere che si occupa di lui opportunamente raccoglie le informazioni ed è in grado di interagire capendo sia l'importanza terapeutica che ha per il paziente l'osservanza del proprio credo religioso, sia la necessità deontologica del rispetto del diniego ad assumere liquidi o cibo fino al tramonto del sole.

Lo scenario transculturale ci prospetta la creazione di una bioetica che superi il concetto di

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"patria", come luogo di persone unite da comuni tradizioni, lingua, religione. Questa bioetica deve essere contraddistinta da:

● una costante educazione alla tolleranza, atta a migliorare la conoscenza reciproca per il rispetto delle differenze. Si vuole così contrastare gli atteggiamenti di intolleranza e razzismo che caratterizzano il clima sociale. Gli infermieri che assistono Maijla ("C'è posto per i nomadi nel nostro stato sociale?") hanno trascurato le possibili reazioni della paziente che divide la camera di degenza con la zingara: influenzata dall'immaginario collettivo, ella vede il nomade come entità unica socialmente pericolosa che ruba agli altri ed è portatore di malattie;

● una informazione dell'opinione pubblica circa la situazione socio-sanitaria di immigrati e nomadi, unita a una sollecitazione alle competenti autorità affinché si affronti efficacemente questo problema nel rispetto delle specificità. Dalla ricerca condotta dal NAGA di Milano (cfr. "Chi sono gli immigrati") emerge un campione variegato dell'immigrazione dove è eclatante il fatto che: più del 50% è in possesso di un titolo di studio di media superiore o è laureato; le persone partono sane dalla loro terra di origine, per poi ammalarsi per le precarie condizioni di vita a cui devono soggiacere;

● una educazione interculturale che garantisca i diritti di tutti, combatta il pregiudizio e la paura di invasione, capovolga l'ottica che vede il "diverso" solo come portatore di bisogni senza considerarne le risorse. Nel brano "Gli untori di AIDS", i dati epidemiologici sono chiari: le condizioni di miseria e sfruttamento creano aree ad alto rischio di contagio del virus HIV;

● una valorizzazione di ciascun individuo, contraddistinto dalla sua storia, cultura e dal suo vissuto, per contrastare la costruzione di stereotipi che vedono l'immigrazione come entità unica e spersonalizzata (cfr. "Pregiudizi, stereotipi e discriminazioni");

● concetto di salute vista come diritto inalienabile (cfr. I diritti degli stranieri in Italia"), indipendentemente dalla razza, religione, cultura, ideologia dell'individuo, ma anche come benessere psicofisico ed equilibrio ambientale per una migliore qualità di vita. La domanda che si pone il primario del reparto dove è stata ricoverata la giovane Maijla è se segnalare oppure no alle competenti autorità la presenza della clandestina, con tutte le conseguenze immaginabili. La tutela della salute è un bene prezioso che non dovrebbe sancire discriminazioni, anche perché "avere un ospite senza alcuna malattia significa proteggere la nostra salute";

● una alleanza terapeutica, dove l'incontro operatore-utente "diverso" contraddistingua una conoscenza reciproca centrata sul rispetto della dignità umana come primo valore da difendere;

● una assistenza olistica che tenga conto della realtà linguistica, etnica, culturale, sociale, psichica, somatica di ogni soggetto ("La condizione culturale dell'immigrato");

● lo sviluppo di un modello complementare di medicina e infermieristica transculturale, basato soprattutto su un cambiamento di mentalità per entrare in sintonia con il paziente straniero, evitando di imporre a tutti i costi i metodi della medicina occidentale (cfr. "Donna turca ti conquisterò!"). Medici e infermieri è opportuno che affrontino, a livello di formazione di base e permanente, le tecniche di comunicazione interpersonale con pazienti appartenenti a minoranze, al fine di evitare di cristallizzare in stereotipi il rapporto di cura;

● un'etica che sviluppi una concezione di salute caratterizzata non solo da aspetti fisici e psicologici ma anche morali e spirituali, come stimolo all'uomo ad assumere decisioni responsabili che non riguardano solo il presente ma anche il futuro dell'umanità ("Diritti scriti ma non attuati");

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● le organizzazioni sanitarie che privilegiano la solidarietà propria dello stato sociale, caratterizzate dalla crisi dell'allocazione delle risorse, devono porsi interrogativi sia sulle scelte da lare, sia sulle priorità nella distribuzione delle risorse rispetto alla tutela della vita umana di questa particolare fascia di utenti.

ALCUNE LINEE-GUIDA

L'esperienza di una società multietnica richiede uno sforzo di comprensione e un atteggiamento di tolleranza e rispetto delle diversità. La diversità culturale, pur essendo una risorsa, pone problemi sia al singolo, sia alla collettività a livello culturale, psicologico e relazionale. Le persone diverse per colore della pelle, religione e stile di vita possono affascinare, ma anche suscitare paure. Pertanto, l'obiettivo primario è quello di promuovere atteggiamenti, abilità e cultura atte a una convivenza civile tra persone provenienti da paesi diversi attraverso:

● una maggiore conoscenza delle altre culture per prevenire paura e diffidenza;

● la programmazione di una didattica infermieristica che contempli la diversità degli approcci assistenziali mediante processi razionali di conoscenza e alfabetizzazione interculturale;

● la consapevolezza da parte dell'operatore sanitario circa gli stereotipi culturali spesso interiorizzati emotivamente indipendentemente dalla propria ideologia, che sviluppano le immagini dello straniero e del diverso, in contraddizione con i propri valori di eguaglianza;

● una cultura della riflessione che ci influenzi negli atteggiamenti verso chi è diverso per cultura e lingua;

● una cultura dell'integrazione, dove migrante e società ospitante cercano di rispettare le differenti culture, i punti di contatto e le diversità, cercando di regolamentare i conflitti;

● una relazione di reciprocità con l'altro, pur nel rispetto delle differenze, superando una comunicazione unidirezionale senza feedback mediante una formazione permanente basata sulla pedagogia interculturale, caratterizzata da stili di relazione e comunicazione in cui si sviluppi l'ascolto;

● una infermieristica senza confini che cerchi di conoscere e valorizzare le differenze culturali, per evitare ripercussioni sull'identità dell'immigrato, il quale è spesso ambivalente rispetto all'integrazione, in quanto teme di perdere valori, abitudini e linguaggio proprio della società di provenienza.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Chiavacci E., Natura cultura eticaI condizionamenti biologici e culturali dell'uomo - la libertà - il problema etico in una società multiculturale, in La Rocca, 1995, p. 35.

Fabbri F., Il diritto alla salute per gli immigrati, in Prospettive Sociali e Sanitarie, 10 (1992), pp. 7-10.

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Santosuosso A., Guida per conoscere e salvaguardare i tuoi diritti, 1993, 2a ed., Hoepli, Milano, pp. 358-359, 369, 727-735.

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PER APPROFONDIRE

Ardigò A. e altri, Migrazioni, risposte sistematiche, nuove solidarietà, Franco Angeli, Bologna, 1993.

de Bernart M., Minoranze etniche ed immigrazione: la sfiga al pluralismo culturale, a cura di Bergnach L. e Sussi E., Franco Angeli, Milano, 1993.

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Monosta G., Le discriminazioni su base etnica. La prima vittima: il bambino, in Rivista dell'infermiere, n° 3 luglio-settembre 1994, pp. 186-190.

Tognetti Bordogna M., I confini della salute. Paradigmi da contestualizzare. Franco Angeli, Milano, 1989.

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LE INFORMAZIONI CONFIDENZIALI

FATTI

Le voci corrono ... e l'ospedale paga

Parlarne in famiglia

Responsabilità, tra dovere e amicizia

IDEE

i patti devono essere osservati

Forme della privacy

Dati statistici ed epidemiologici

NORME

● Norme Penali

● Direttive ai pubblici dipendenti

● Diritti Umani

● Norme Deontologiche

COMPORTAMENTI

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FATTI

LE VOCI CORRONO ... E L'OSPEDALE PAGA

Sono infermiera nel reparto di medicina da sei anni. L'ospedale in cui lavoro è un ospedale di provincia con 300 posti letto. Conosco quasi tutte le mie colleghe per nome e spesso negli spogliatoi dell'ospedale ci fermiamo qualche minuto a parlare e raccontarci la fatica del lavoro. Questi brevi incontri mi permettono di conoscere situazioni di lavoro e difficoltà di colleghe che operano in reparti cosiddetti “privilegiati”, come ad esempio il centro di emodialisi dove il rapporto con i pazienti a patologia di tipo cronico impegna non da poco la relazione con loro e i familiari, anche se la turnistica prevede il riposo domenicale e festivo. Non ricordo però nessun fatto tanto sconvolgente e problematico dal punto di vista etico come quello accaduto alla mia amica Viviana. Fra di noi c'è una particolare amicizia e confidenza perché sei anni prima ci siamo incontrate lo stesso giorno per l'assunzione in quell'ospedale e dopo alcuni mesi abbiamo sostenuto insieme l'esame per l'assunzione.

Viviana lavora nel reparto di ostetricia e ginecologia; questo per lei è stato l'unico reparto della sua esperienza di infermiera professionale. Una mattina, mentre ci prepariamo nello spogliatoio a lasciare l'ospedale dopo il turno di notte, Viviana in preda a una forte eccitazione mi confida di avere nel reparto la signorina Corinne, nota attrice di teatro di prosa. La sua eccitazione riguarda il fatto che lei, appassionata di teatro, trova in quell'attrice il suo ideale di donna. Mi confida che, appena Corinne avesse superato l'intervento chirurgico a cui doveva essere sottoposta, le avrebbe dedicato un'ora del suo tempo per avere notizie dettagliate sulla sua attività di attrice, di come in poco tempo fosse riuscita a farsi amare dal pubblico ed arrivare così al successo; inoltre le avrebbe chiesto consigli riguardo lo stile di abbigliamento e di bellezza.

Durante il racconto di Viviana sorridevo, ero felice per lei e per questa occasione "unica" e per come questo fatto potesse stravolgere la routine di un ospedale di periferia. Tornando a casa, però, ripensai a quella situazione e mi chiesi come mai un'attrice famosa dovesse scegliere proprio un ospedale di provincia per farsi operare. Fra l'altro ricordavo che fosse anche lontano dal suo luogo di nascita e da quello dove risiedeva per il lavoro. Scacciai subito questi pensieri dalla testa perché, non sapendo il motivo del ricovero, potevo supporre che si fosse trattato di un caso di emergenza.

L'indomani sui quotidiani locali e su quelli nazionali lessi la notizia che la famosa signorina Corinne si trovava ricoverata nell'ospedale di Villamone per un intervento chirurgico di interruzione volontaria di gravidanza. Questa notizia mi sconvolse e mi fece rabbrividire. Il mio pensiero tornava a quello che era avvenuto nello spogliatoio dell'ospedale la sera prima. Telefonai immediatamente a Viviana e la trovai in lacrime che singhiozzava disperata. Provava dei sensi di colpa per l'accaduto, anche se lei mi assicurava di non aver parlato con nessuno, né della presenza di Corinne nel suo reparto, né tantomeno del motivo del ricovero all'esterno dell'ospedale. Sempre dai giornali venni a conoscenza della denuncia dei legali di Corinne verso l'ospedale per diffamazione e di una querela per divulgazione di segreto d'ufficio e di segreto professionale. Sulla stampa la questione piano piano perse di interesse e dopo alcuni giorni non se ne seppe più nulla.

I responsabili dell'ospedale aprirono un'indagine ma non riuscirono né a trovare il responsabile dell’accaduto, né in quale punto dell’organizzazione ci fosse stata la fuga di notizie. Erano infatti coinvolti diversi settori e servizi dell'ospedale, oltre naturalmente al reparto di ostetricia e ginecologia.

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Mentre la commissione interna di disciplina, non riuscendo ad individuare il responsabile della divulgazione di notizie, decideva di archiviare il caso, l’ospedale fu obbligato a risarcire il danno alla signorina Corinne, per responsabilità oggettiva.

PARLARNE IN FAMIGLIA

Alberta lavora da tre mesi nel reparto di urologia dell'ospedale S. Giuseppe ed è alla sua prima esperienza di lavoro. L’ospedale si trova in una cittadina di provincia e Alberta raggiunge l'ospedale con il pullman che dal suo paese porta i lavoratori in città. Alberta ama molto la sua professione ed è molto impegnata nello studio per approfondire l'assistenza infermieristica ai problemi specifici dei malati del suo reparto; non vuole che niente di quello che fa diventi abitudine o routine. È una ragazza volenterosa ed entra immediatamente nella simpatia delle colleghe, della caposala e dei medici di reparto. Con i malati ha una spiccata sensibilità nell’ascoltare i bisogni e nel prodigarsi a risolvere i loro problemi.

Nel reparto viene accettato per un ricovero urgente il signor Stefano. Dalle indagini diagnostiche prescritte dal suo medico curante, risulta alletto da cancro della prostata e si sospetta l'inoperabilità per metastasi diffuse. Il signor Stefano, 58 anni, ha tre figli: due frequentano le scuole medie superiori e uno è al terzo armo di università. Con la moglie gestisce un’azienda artigianale con cinque dipendenti. Il signor Stefano è a conoscenza della sua patologia ed ha espressamente vietato al medico di divulgare a chiunque informazioni sul proprio stato di salute. Questo divieto è esteso anche alla moglie: vuole essere lui direttamente a gestire la situazione e l'unica persona che lui designa a ricevere le informazioni, qualora fosse necessario, è una zia materna, la signora Aurora. Questa zia è anche la persona incaricata di fare da tramite tra lui e la famiglia per tutte le informazioni a carattere sanitario. Il signor Stefano vuole evitare così troppe preoccupazioni ai suoi congiunti.

Alberta rimane molto colpita da questa situazione e in particolar modo dal fatto che una persona così giovane, che lei conosceva perché dello stesso paese, fosse destinata a morire. Una sera, in occasione della visita della zia Aurora a casa dei genitori, Alberta esterna con rammarico la situazione del signor Stefano, confidando ai famigliari i particolare della diagnosi e della relativa infausta prognosi. Alberta si rende conto immediatamente della leggerezza con cui ha agito e chiede ai propri genitori di mantenere assoluto segreto con tutti. Il giorno successivo chiede e ottiene un colloquio con la capo sala e la informa dell’accaduto. Nel colloquio Alberta dimostra di essere molto preoccupata non tanto per le conseguenze a cui sarebbe andata incontro, ma per aver infranto il rapporto di fiducia e il patto di alleanza e che lega i malati ai professionisti che lavorano in ambiente sanitario.

Il signor Stefano intanto, venuto a conoscenza della divulgazione di informazioni riservate e da lui espressamente vietate e alla divulgazione, decide di querelare l'infermiera Alberta per trasgressione di segreto professionale. Le conseguenze per lui di tale fatto sarebbero state lesive anche per il buon andamento della sua azienda artigianale.

La capo sala, che in un primo momento aveva rassicurato l'infermiera Alberta pur riconoscendo la gravità del suo comportamento e la ricaduta negativa sull'immagine del suo reparto e dei suoi collaboratori, decide di discutere il caso con tutta l'équipe infermieristica e con il medico del signor Stefano. Nell'incontro si scatenano i vissuti e le esperienze di ogni operatore. C'è chi difende Alberta, perché a tutti è successo almeno una volta di parlare con qualcuno fuori dall'ospedale per "scaricare" le grosse tensioni che si accumulano nel turno di lavoro; altri attaccano il comportamento del signor Stefano, perché "più si fa per loro più si viene ripagati con l'ingratitudine",

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altri approfittano per dire che Alberta è sempre stata troppo aperta con tutti e che "ci voleva proprio qualcosa di grave per farla smettere di chiacchierare e dare confidenza". Il medico offre la sua collaborazione per parlare con il signor Stefano e far leva sul rapporto di stima e di sincerità reciproca che fra loro si era consolidato. La caposala ascolta attentamente ciò che ognuno esprime in merito alla situazione e alla fine propone alcune riflessioni sulla confidenzialità e sul segreto professionale. Aveva già potuto osservare, infatti, come ognuno dei suoi collaboratori instaurasse dei rapporti basati prevalentemente sul "buon senso", o su caratteristiche del proprio carattere, o sui sentimenti di simpatia o di antipatia indotti dai pazienti, e non invece sul risultato di un consapevole rapporto professionale di empatia con tutti i malati. Questi argomenti sarebbero stati ripresi e discussi in incontri di reparto già previsti per l'approfondimento di tematiche relative all'assistenza dei malati.

Alberta, fisicamente e moralmente provata da questa esperienza, accetta l'aiuto del medico e insieme parlano con il signor Stefano. Dopo alcuni giorni il signor Stefano ritira la querela contro l'infermiera Alberta, per evitare così una maggior divulgazione della sua diagnosi.

Il signor Stefano per il rimanente periodo di degenza cambia completamente il modo di relazionarsi con gli infermieri del reparto e con la caposala, diventa taciturno e diffidente, dei suoi problemi personali e di salute parla solo con il medico.

Alberta entra in imo stato di ansia e di preoccupazione. Dentro di lei è crollata tutta la sua sicurezza e spontaneità nei rapporti e nelle relazioni sia con i malati che con i colleghi. La caposala parla in più occasioni con Alberta, anche per rielaborare insieme a lei l'esperienza negativa e renderla così formativa per il futuro lavorativo. Dopo tre mesi dall'episodio, Alberta chiede e ottiene il trasferimento in un altro reparto.

RESPONSABILITÀ, TRA DOVERE E AMICIZIA

Pino, nato in una famiglia modesta, padre operaio e madre casalinga, ha mia sorella più grande di tre anni; è fidanzato da un anno e attualmente lavora presso un'azienda agricola. Nel 1985 è stato ricoverato nel reparto di malattie infettive per un'epatite virale tipo B, nel mese di giugno del 1994 la conferma della sieropositività HIV. La storia di Pino la conosciamo bene noi infermieri del day hospital del reparto di malattie infettive: ci è rimasta scolpita nella mente il giorno in cui Pino fu inviato al nostro centro dal suo medico curante, subito dopo il risultato sierico. Pino è un ex tossicodipendente, ma è un ragazzo che è riuscito con molti sforzi a uscire dalla droga, si è rifatto una nuova vita e una nuova esistenza, ha voluto dimenticare con il lavoro la brutta esperienza passata. Non è facile arrivare a essere libero davvero. Questo è un giro che non perdona, la legge di questa organizzazione è chiara: chi entra non deve più uscirne. Troppo pericoloso tornare indietro, c'è l'eventualità che si diventi collaboranti e con senso di civiltà si facciano i nomi delle persone coinvolte, i luoghi di incontro, di scambio e d'altro.

Ci ispira simpatia Pino per il suo coraggio, per la determinazione con cui è riuscito a dare una svolta positiva alla sua vita. Da un anno dice di essere fidanzato con Anna (non aggiunge né il cognome della ragazza, né altri particolari che la possano identificare); aggiunge di fare con lei progetti per il loro futuro insieme.

Pino viene periodicamente al nostro servizio per gli esami di controllo, parla a lungo con il medico, vuole conoscere fino in fondo che cosa lo aspetta per il futuro. Nonostante le insistenze del medico che cerea di convincerlo in tale direzione, Pino si rifiuta di parlare ad Anna della sua sieropositività. Continua a ripetere che sarà lui ad assumersi qualsiasi responsabilità e far sì che non avvenga la trasmissione del virus. Prima di lasciare il servizio parla anche con noi infermieri e

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con parole rotte dall'ansia ripete che non riuscirebbe mai a rivelare la sua sieropositività ad Anna; non vuole perderla, questo rapporto lo ha salvato dalla solitudine e dallo sconforto; inoltre è il suo riscatto verso una vita normale. Ama Anna troppo profondamente per interrompere questo prezioso rapporto con lei.

Io conosco molto bene Anna, abbiamo fatto amicizia in occasione di una gita in montagna organizzata dal C.A.I. e subito abbiamo simpatizzato, scoprendo molti interessi comuni. Mi ha sempre parlato di Pino, del suo rapporto di amore a prima vista e della felicità con cui condivide ogni spazio della sua esistenza con lui. Non le ho mai fatto cenno del mio rapporto professionale con Pino, mantenendo il più stretto riserbo su tutte le informazioni avute durante l'attività professionale. Non è facile per me gestire questa situazione. Ora che esiste la certezza del contagio, non è in pericolo solo la vita di Pino, ma è in pericolo anche la salute e la vita di Amia, che, ignara della realtà, non può scegliere se accettare o meno le nuove condizioni di questo rapporto.

La competenza del medico riguarda l'informazione al partner della sieropositività, qualora il paziente richieda il segreto su tale informazione, è molto dibattuta (legge 5 giugno 1990 n. 135, art. 5 comma IV: "La comunicazione di risultati di accertamento diagnostici diretti o indiretti per infezione da HTV può essere data esclusivamente alla persona cui tali esami sono riferiti"). Non esiste nemmeno, in questo caso, la remota possibilità di trovare qualche appiglio affinché Anna venga a conoscenza che Pino è seguito dal nostro centro e quindi si ponga nelle condizioni di avere qualche dubbio o incertezza sui reali problemi di salute del suo fidanzato.

L'ipotesi di soluzione da adottare in questo caso specifico diventa motivo di animato dibattito fra infermieri e medici nella consueta riunione settimanale. Per molti il solo fatto di malattia trasmessa sessualmente che mette in pericolo di vita una terza persona ignara è già un fatto evidente che non esiste più un obbligo al segreto; altri sono perplessi non tanto per Anna, che ha il diritto di conoscere questa realtà e potersene così difendere, ma del fatto che debba essere maggiormente responsabilizzato Pino a essere sincero e continuare un rapporto basato sulla lealtà e sulla fiducia reciproca. Potrebbe altresì non essere lontano infatti il momento di dover affrontare la gravità della malattia conclamata e non poter più, comunque, nascondere l'evidenza dei fatti.

Per il medico il problema deriva dal fatto che la richiesta di Pino di non rivelare ad altri la sua sieropositività rientra in un rapporto di fiducia individuale con il proprio paziente; in questo rapporto il segreto professionale costituisce la colonna portante. Fra l'altro, il semplice dato di sieropositività non è soggetto alla denuncia obbligatoria per il medico (essendo soggette a tale obbligo solo la condizione di malattia secondo i criteri O.M.S./Ministero della Sanità, Circolare n. 14 del 13 febbraio 1988); quindi il sieropositivo tout-court non è assimilabile al malato e viene meno ogni cogenza normativa alla informazione, se non quella del medico nei confronti del paziente. Le intenzioni del medico sono quelle di responsabilizzare il paziente e convincerlo a dare lui stesso l'informazione alla sua fidanzata; ma di fronte al diniego chiede di essere autorizzato a rivelare l'esito dell'esame sierologico ad Anna.

Sono in un grave dilemma: conosco Anna, potrei dare le sue generalità al medico che avrebbe così l'opportunità di informarla baipassando il consenso di Pino; potrei in via confidenziale informare io stessa Anna della situazione e suggerirgli di affrontare con Pino il problema; ma in questa seconda ipotesi tradirei la fiducia del paziente e la sua richiesta di mantenere il riserbo. Sono indecisa sulla strada da seguire, se privilegiare il rapporto di amicizia o quello professionale.

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IDEE

PATTI DEVONO ESSERE OSSERVATI

La prerogativa di mantenere riservate alcune informazioni sta alla base di un corretto rapporto sociale. Oggi, addirittura, la legge ne regola taluni aspetti fondamentali. Il filosofo del diritto N. Bobbio descrive gli ambiti e le aspettative che caratterizzano l'accordo sociale nell'osservanza dei patti.

Non c'è politica senza uso del segreto: il segreto non solo tollera ma esige la menzogna. Essere tenuti al segreto significa il dovere di non rivelarlo; il dovere di non rivelarlo implica il dovere di mentire.

La massima che sta a fondamento di ogni possibile convivenza è "pacta sunt servanda" (i patti devono essere osservati). Ogni società è un intreccio di rapporti di scambio. Una società sopravvive se e sino a che venga garantita la sicurezza degli scambi. Di qui una delle massime morali, che esige la reciproca osservanza dei patti. Uno degli esempi proposto da Kant per far capire il principio etico fondamentale che suona così: "Non puoi fare ciò che non possa diventare una massima universale", è proprio l'osservanza dei patti. Devo osservare i patti perché non voglio vivere in una società dove i patti non vengono osservati. Sarebbe un ritomo allo stato di natura in cui nessuno è tenuto a osservare un patto sino a che non sia sicuro che anche altri lo osservano. Ma nello stato di natura questa sicurezza non c'è. Chi osserva i patti in un mondo in cui gli altri non sì ritengono obbligati a osservarli è destinato a soccombere.

Norberto Bobbio, Elogio della mitezza

FORME DELLA PRIVACY

Esiste una difficoltà oggettiva a realizzare un volume sui diritti del cittadino che sia di facile lettura anche per persone non esperte in questo campo. Vi è riuscito Amedeo Santosuosso che, con il suo primo manuale pratico di autodifesa civile, ha reso possibile la lettura e la comprensione delle leggi nel loro complesso e il loro utilizzo di fronte ai problemi concreti posti dalla convivenza civile.

Il diritto alla privacy viene teorizzato alla [ine dei secolo scorso in USA come diritto a "essere lasciato solo" rispetto alle ingerenze della stampa nella vita privata. Si sviluppa poi come diritto a non subire invasioni nella sfera privata da parte di altri privati o di pubblici poteri. I problemi di un riconoscimento di un diritto alla privacy, che già a questo livello non erano pochi, successivamente aumentano ancora. Negli ultimi decenni, con l’utilizzo esteso di elaborati elettronici e con diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, il diritto alla privacy è infatti emerso in tutta la sua importanza, ma contemporaneamente in tutta la sua inadeguatezza, ove concepito nei soli termini tradizionali.

Nella società attuale l'idea di un diritto che metta del tutto al riparo i propri dati personali fino a poterli escludere da ogni flusso informativo è assolutamente irrealistica, prima che insufficiente. Oggi infatti la libertà negativa (di non subire interferenze arbitrane nella propria vita privata) non può essere disgiunta dalla libertà positiva o "libertà informatica", intesa come diritto alla autotutela della propria identità informatica. Nello stesso tempo l'accesso ai dati è sempre meno un fatto personale e si collega al diritto all'informazione e ai limiti del "segreto".

Il diritto alla riservatezza non ha confini giuridici precisi. Alcune definizioni si trovano in accordi internazionali:

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«Nessuno può essere sottoposto a interferenze arbitrarie o illegittime nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa e nella sua corrispondenza, né a illegittime offese al suo onore e alla sua reputazione» (Art. 17, Patto internazionale sui diritti civili e politici, 1966 ratificato in Legge n. 881/f 977).

«Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata, al suo domicilio e alla sua corrispondenza» (Art. 8, Convenzione europea sui diritti dell'uomo, ratificata in Legge n. 848/1955).

Nel diritto di origine italiana, in assenza di espliciti riconoscimenti, l'art. 2 della Costituzione rappresenta il principale, anche se generalissimo, punto di riferimento. «La Repubblica riconosce e garantisce ì diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».

Viene comunque teorizzato con sempre maggior frequenza l'esistenza di un diritto generale della personalità nel quale rientra la possibilità di difendere da invasioni illecite la sfera intima della persona.

Amedo SantosuossoI tuoi diritti

DATI STATISTICI ED EPIDEMIOLOGICI: PROBLEMI DI CONFIDENZIALITÀ

L'informatizzazione sta diventando un problema anche etico, che comincia a emergere nella riflessione della bioetica contemporanea. La raccolta dei dati, infatti, talune volte non viene fatta su un campione anonimo, ma deve essere fatta su soggetti ben identificati. Di qui nascono i problemi di riservatezza, di accesso ai dati e di corretto uso delle informazioni.

Si discute molto sulla necessità di proteggere la vita privata dell'individuo, che nella società attuale è esposto in misura sempre maggiore a indebite interferenze e condizionamenti. In questo contesto anche la confidenzialità dei dati raccolti nei registri dei tumori è divenuto un argomento scottante.

Ne sono coinvolte l'autonomia e la dignità dell'individuo che prova disagio sapendo in mani estranee dati e informazioni sul suo conto che teme, confusamente, che potrebbero anche essere usati contro di lui. Una tale preoccupazione è legittima e comprensibile, ed è giusto che si prendano garanzie sufficienti (...). I dati di incidenza e mortalità per tumore sono alla base dei registri dei tumori, e rendono possibili le indagini epidemiologiche. Senza aver avuto la possibilità di usare dati cimici e di mortalità individuali, non sarebbe stato possibile stabilire il nesso causale fra alcune esposizioni e il cancro; per esempio fra tabacco e cancro, fra amianto, cloruro di vinile o altre esposizioni professionali e cancro, non si sarebbe colto il nesso fra esposizione prenatale a dietilstilbestrolo (DES) e cancro della vagina, né fra tumori dell'endometrio e trattamento con estrogeni in menopausa e cosi avanti.

Informazioni comuni ma ovviamente private, come nome e cognome e data di nascita, possono far sì che si evitino di contare più di una volta lo stesso tumore, permettono di constatare le recidive o la comparsa di altri tumori primitivi, di elaborare statistiche di sopravvivenza... Una insistenza eccessiva sulla confidenzialità che si accompagni anche ad una generica sfiducia nelle istituzioni sanitarie, potrebbe rendere addirittura impossibile seguire nel tempo i malati...

È essenziale senza dubbio che le informazioni individuali non vadano in mano a persone non autorizzate o a chi potrebbe usarle a fine diversi dalle analisi sanitarie...

Stefano RodotàQuestioni di bioetica

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NORME

Molte sono le norme che afferiscono ai diritti della persona umana, intesa nella sua globalità (fisica, intellettuale e sociale). L’ordinamento non fa differenza riguardo il godimento di diritti soggettivi inerenti la persona se non aumentando la tutela stessa, qualora l'uomo, inteso quale persona umana, si trovi in condizione di salute precaria o addirittura in condizione di non intendere e di volere (anche solo momentaneamente). In queste circostanze, maggiori sono i doveri di chi ha competenza a occuparsi della persona malata.

Per quanto riguarda il segreto, la riservatezza e la confidenzialità, in relazione alle materiali condizioni del soggetto giuridico "uomo", l'ordinamento identifica doveri e responsabilità degli operatori. Non sempre l'identificazione dei diritti e rispettivamente dei doveri viene fatta dalla legge. Nell'ambito del comparto professionale sanitario entra in gioco anche la vasta gamma dei codici deontologici, i quali pure regolamentano il comportamento dei professionisti, tutelando il diritto alla riservatezza.

NORME PENALI

Il codice penale identifica alcune figure tipiche di reati e situazioni giuridicamente rilevanti inerenti le fattispecie penalmente sanzionate. In particolare:

Incaricati di pubblico servizioArt. 385. Sono incaricati di pubblico servizio coloro i quali, a qualsiasi titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un'attività disciplinata dalle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima e con esclusione dallo svolgimento di semplici mansioni di ordine e dalla prestazione di opera meramente materiale.

Rivelazione di segreto d'ufficioArt. 326. Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie d'ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Se l'agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino ad un anno. Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbono rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altrui un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni.

Rivelazione di segreto professionaleArt. 622. Chiunque, avendo notizia, per ragioni del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino ad un anno o con la multa da L.60.000 a L. 1.000.000. Il delitto è punibile a querela della persona offesa.

Art. 361 (omissione di denuncia all'Autorità Giudiziaria): "...Il pubblico ufficiale, il quale omette o ritarda di denunciare all’Autorità Giudiziaria, o ad un'altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferire, un reato di cui ha avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue funzioni è punito con la multa da L. 60.000 a 1.000.000...".

Art. 334 (obbligo di referto): "Chi ha l'obbligo del referto deve farlo pervenire entro 48 ore o, se vi è pericolo nel ritardo, immediatamente al Pubblico Ministero ... all'ufficiale di polizia giudiziaria più vicino".

Art. 365 (Omissione di referto): "Chiunque, avendo nell'esercizio di una professione sanitaria prestato

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la propria assistenza o opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferire all'Autorità indicata nell'art. 361 c.p., è punito con la multa fino a L. 200.000. Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale".

DIRETTIVE AI PUBBLICI DIPENDENTI

L. 7 agosto 1990, n. 241 art. 28: Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi

"L'impiegato deve mantenere il segreto d'ufficio. Non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti provvedimenti o operazioni amministrative, in corso o concluse, ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme del diritto di accesso...".

Decreto ministeriale 31 marzo 1994

Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni

...Art. 2. Comma 1. "Il comportamento del dipendente è tale da stabilire un rapporto di fiducia e collaborazione tra i cittadini e l'amministrazione".

...Art. 2. Comma 5. "Il dipendente usa e custodisce con cura i beni di cui dispone per ragioni di ufficio. Egli non utilizza a scopi privati le informazioni di cui dispone per ragioni d'ufficio."

...Art.2. Comma 7. "Nei rapporti con il cittadino, il dipendente dimostra la massima disponibilità e non ne ostacola l'esercizio dei diritti. Favorisce l'accesso dei cittadini alle informazioni cui essi abbiano titolo, e, nei limiti in cui ciò non è vietato, fornisce tutte le notizie e le informazioni necessarie per valutare le decisioni dell'amministrazione e comportamenti dei dipendenti...".

La documentazione sanitaria

La cartella clinica: viene di seguito citata una delle numerose sentenze al riguardo, per evidenziare come la Corte Suprema si è pronunciata, con giurisprudenza costante, nel senso che la cartella è atto pubblico: Sez. V 2 aprile 1971, Pres. Passanisi, Rel. Barba, P.M. Iannelli, Imp. Scopel. "Deve essere riconosciuta natura di atto pubblico alla cartella clinica redatta dal medico addetto ad un ospedale (ente di diritto pubblico), nella quale il sanitario annota, nella sua qualità di pubblico ufficiale, oltre alla diagnosi, l'andamento della malattia e la somministrazione delle terapie di volta in volta adottate, assumendone la paternità e, con essa, la responsabilità della cura dell'ammalato affidatogli".

D.P.R. 14 marzo 1974 n. 225 recante il mansionario degli infermieri e che contempla, all'art. 1, sub b) "... annotazione sulle schede cliniche degli abituali rilievi di competenza (temperatura, polso, respiro, pressioni, secreti, escreti) e conservazione di tutta la documentazione clinica sino al momento della consegna agli archivi centrali"; all'art. 4, secondo cpv., in relazione ai compiti dell'infermiere professionale specializzato in anestesia e rianimazione o in terapia intensiva, la "raccolta, conservazione ed archiviazione delle schede di anestesia e delle cartelle di rianimazione".

DIRITTI UMANI

Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (1950)

...Art. 8 Comma 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.

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Comma 2. Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell'esercizio di tale diritto se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera.

Art. 9 Comma 1 Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo e la libertà di manifestare la propria religione o credo individualmente o collettivamente, sia in pubblico che in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti.

Art. 10 Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere e di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazioni di frontiera. L'esercizio di queste libertà può essere sottoposto a... condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge.

NORME DEONTOLOGICHE

L’infermiere rispetta il segreto professionale non soltanto per obbligo giuridico, ma per intima convinzione e come risposta concreta alla fiducia che l'assistito ripone in lui.

(Federazione nazionale dei Collegi, 25 giugno 1977)

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COMPORTAMENTI

Mantenere il segreto su tutte le informazioni che riguardano il malato e il suo piano di cura è per l'infermiere un dovere giuridico imposto dalle leggi; è anche un dovere deontologico dettato dalla fiducia che il malato ripone in lui.

È importante che i malati non debbano dubitare del fatto che possono rivolgersi agli operatori sanitari senza rischiare di essere traditi nella divulgazione di notizie personali. In forza del dovere del segreto professionale e del segreto d'ufficio, il paziente acquisisce il "diritto" al segreto e alla confidenzialità su tutte le informazioni che egli trasmette al medico, all'infermiere e più in generale alla struttura sanitaria.

In riferimento al caso "Le voci corrono ... e l'ospedale paga", la notizia del ricovero della signorina Corinne nell'ospedale di Villamone appare sulla stampa locale e nazionale; ma ciò che risulta più grave è il fatto che appaia anche il motivo del ricovero ospedaliero. Ci sono spesso circostanze tali per cui non si riesce a identificare l'autore della rivelazione del segreto professionale e gli operatori nel loro insieme diventano oggetto di critiche e di atteggiamenti di diffidenza da parte degli utenti del servizio sanitario. Nel caso esaminato l'ospedale ha pagato i danni; spesso però le persone subiscono l'umiliazione della divulgazione di notizie riservate e restano in silenzio nel timore di più gravi conseguenze.

Il segreto e la confidenzialità si fondano su principi etici inderogabili per gli operatori sanitari:

● il malato/utente deve potersi affidare al medico o all’infermiere senza sottrarre alcuna informazione utile al processo diagnostico e assistenziale;

● i dati e le informazioni acquisite per ragioni della propria professione, siano esse di ordine medico che privato, rappresentano il contenuto del segreto;

● la trasmissione di informazioni ai fini assistenziali utili al malato/utente all'interno dell'équipe non costituisce violazione di segreto;

● la rivelazione di segreto può avvenire quando ricorra una "giusta" causa legale che si ricollega all'obbligo delle denunce, all'obbligo di referto, alla rivelazione di fatti di interesse sociale e che, comunque, riguardano situazioni di stretto carattere sanitario (art. 361 c.p.; art. 334 c.p.; art. 365 c.p.);

● la natura privata e delicata delle informazioni obbliga l’infermiere a essere prudente nella scelta delle informazioni da fornire agli altri componenti dell’équipe; comunque l’obiettivo deve sempre essere il benessere dell’utente;

● la rivelazione di segreto può avvenire solo con il consenso della persona cui il segreto inerisce (sono esclusi i casi di obbligatorietà di tipo legale visti in precedenza); questo riguarda casi in cui le informazioni debbano essere usate a fini epidemiologici, didattici, di ricerca o altre situazioni motivate;

● il segreto deve essere salvaguardato a maggior ragione nei riguardi di tutte le persone che non fanno parte dell'équipe di cura e di assistenza della persona interessata. Quest'ultimo aspetto riguarda anche i familiari, indipendentemente dal fatto che si tratti di moglie, marito, genitori o figli. Naturalmente vanno escluse le ipotesi in cui il paziente sia minorenne o legalmente incapace di intendere e di volere, nei quali casi ì genitori o il tutore devono essere informati.

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L'impegno alla riservatezza, generalizzato a tutti gli infermieri, permette il funzionamento sociale della professione. Infatti, qualsiasi violazione danneggia non solo il singolo, i cui segreti vengono divulgati, ma tutti i potenziali fruitori dell'assistenza infermieristica, perché la violazione del segreto genera sfiducia nei confronti di tutti gli operatori.

Quasi sempre i pazienti, allorquando si trovano a contatto con la struttura sanitaria, vivono momenti di particolare stress e generalmente evitano il dialogo; ma, se stimolati, rivelano fatti e circostanze che in altre situazioni mai sarebbero disposti a riferire. Sintomatico è il fatto per cui, superato il momento di crisi, per molti pazienti arriva il momento del timore di aver riferito troppe informazioni.

Talune altre volte nelle confidenze si celano vere e proprie richieste di aiuto, mascherate in tali e tanti modi che solo la mente umana riesce a inventare. Tipico è il caso del paziente che, per paura di una infausta diagnosi, confida la volontà di togliersi la vita; oppure di quelli che all'infermiere confidano di aver commesso un crimine, pregando di mantenere il segreto. Altrettanto tipica è la situazione in cui il paziente chiede all'operatore che effettua l'intervento di primo soccorso il silenzio riguardo importanti fatti personali, rendendo così difficile il successivo intervento medico.

Di fronte a questi problemi l'infermiere si trova a dover prendere delle decisioni. Queste dovrebbero sempre privilegiare la salute del paziente, anche se ciò potrebbe andare a discapito del segreto o riservatezza richiesti più o meno esplicitamente dal paziente. Ciò avviene soprattutto quando vi è un'équipe e le informazioni debbono essere trasmesse da un operatore all'altro al fine di permettere la migliore assistenza e cura.

Ci sono situazioni, come quella che si rileva nel caso "Parlarne in famiglia", in cui l'operatore, colpito emotivamente dalla condizione del paziente, rivela informazioni relative alla diagnosi e alla prognosi. A tal proposito pare opportuno riflettere sull'effettiva intenzionalità della rivelazione nociva. Nella maggior parte delle volte nella rivelazione di un segreto gioca più l'emotività che non la reale volontà della trasgressione.

Diverso e più problematico è il rapporto con il soggetto sieropositivo di HIV, in quanto la normativa in vigore, nella più esasperata ricerca della tutela del sieropositivo, poco tiene conto del diritto alla salute di chi vive a suo stretto contatto, in quanto in questa fase della malattia non vi è a carico di nessuno l'obbligo legale di dare informazioni ai congiunti. Nel caso presentato "Responsabilità tra dovere e amicizia" è pesante per l'infermiere mantenere la riservatezza delle informazioni, quando è in gioco la salute e la vita stessa di una terza persona.

Altrettanto logico è interrogarsi su chi dovrebbe farsi carico di aiutare l'infermiere a gestire e tenere sotto controllo l'emotività. Una ipotesi di soluzione del problema del controllo dell'emotività è quella di creare all'interno dell'équipe spazi di discussione entro cui affrontare il caso e trovare le modalità idonee per affrontare le relazioni con i pazienti. Gli incontri permetterebbero di raggiungere gli obiettivi di seguito indicati:

1. promuovere l'unità e la condivisione del tipo di relazione da tenere col malato/utente nella situazione concreta;

2. verificare costantemente l'efficacia della relazione con l'utente concordata in équipe ed eventualmente modificarla riadattandola, ove se ne rilevi la necessità;

3. delegare l'assistenza infermieristica a un altro membro dell'équipe, qualora il primo operatore non fosse più in grado di gestire emotivamente la relazione col malato/utente;

4. ridurre al minimo le occasioni di divulgare informazioni riservate fuori dalla équipe di cura o della struttura sanitaria.

La riservatezza sulle informazioni non riguarda solo l'aspetto confidenziale del rapporto infermiere/utente, ma anche tutta la documentazione clinica in uso. L'articolo 7 dei D.P.R. 27

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marzo 1969, n. 128 stabilisce che il primario è responsabile della regolare compilazione delle cartelle cliniche, dei registri nosologici e della loro conservazione, superando così il disposto dell'articolo 24 del D.P.R. n. 1931 del 30-09-1938 nel quale si stabiliva la responsabilità diretta del primario per quanto riguarda la regolare tenuta delle cartelle cliniche e dei registri nosologici. La compilazione della cartella clinica, quale atto di natura documentale, non è di esclusiva competenza medica, in quanto il D.P.R. 225/74 attribuisce agli infermieri professionali alcuni compiti :

● annotare sulle schede cliniche gli abituali rilievi di competenza (temperatura, polso, respiro, pressione, secreti, escreti);

● conservare tutta la documentazioni clinica, sino al momento della consegna agli archivi centrali.

Riguardo la documentazione sanitaria, le disposizioni di legge hanno fatto sì che più operatori sanitari siano coinvolti nella compilazione e conservazione di atti che si riferiscono alla persona assistita e che, a vari livelli di responsabilità, ognuno di loro possa garantire alcuni aspetti rilevanti, quali:

● la regolare compilazione;

● il segreto;

● la conservazione;

● la circolazione della cartella clinica e quindi le modalità del suo rilascio.

I compiti di conservazione e di custodia nel reparto si riferiscono a tutto il periodo di degenza, fino alla data di dimissione dell'utente. Per l'infermiere diventa imperativo legale e morale assicurare innanzi tutto l'impossibilità di accesso alle cartelle cliniche da parte di coloro che non hanno titolo per consultarle. Particolare cura dovrà essere dedicata anche alla più banale delle cautele, come quella di non lasciarle incustodite o in luoghi nei quali possono essere facilmente viste da occhi estranei.

La cartella infermieristica è un'altra realtà di documentazione sanitaria che riveste carattere di documento fondamentale secondo le moderne concezioni del nursing. L'adozione della cartella infermieristica è specificatamente prevista dal D.P.R. 384 del 28-11-1990, che recepisce l'accordo per il contratto collettivo dei dipendenti del Ssn, all'art. 135 che istituisce la "commissione per la verifica e la revisione della qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie".

Per quanto riguarda la regolare compilazione, il segreto e la conservazione della cartella infermieristica, sono applicabili gli stessi obblighi legali e gli stessi reati previsti per la cartella clinica. Deve essere quindi superata la convinzione, molto diffusa tra gli operatori sanitari, che considera la cartella clinica come unico atto avente valore legale.

È chiaro che per l'infermiere la tutela del malato nel suo diritto alla confidenzialità e riservatezza riveste un campo vasto che supera il concetto di confidenzialità e segreto, in un rapporto strettamente personale. La necessità di documentare, conservare e trasmettere informazioni sanitarie personali degli utenti del Ssn è un problema delicato che non ha ancora raggiunto una sufficiente tutela legale. Proprio per questo, una buona parte delle informazioni è sottoposta alla discrezionalità e specifica responsabilità di ogni singolo operatore. Il nodo da superare in questa analisi diventa quello di agire non tanto per una paura della sanzione penale, seppure quest'ultima rilevante professionalmente, ma di dedicare forza e interesse alla tutela del rapporto di fiducia che si sviluppa con la persona assistita.

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Riferimenti bibliografici

Bobbio N., Elogio alla mitezza, Ed. Linea d'Ombra Milano, 1994, p. 110.

Rodotà S., Questioni di bioetica Ed. Sagittario Laterza Roma-Bari, 1993, p. 39.

Rodriguez D., La cartella clinica ospedaliera: riflessioni medico-legali, da: Convegno nazionale Abano Terme 12-13 ottobre 1990, Litografia Pinato Monselice PD., pp. 10-29.

Santosuosso A., I tuoi diritti, Ed. Ulrico Hoepli, Milano, 1995, pp. 290-296.

Terzuolo G. e Dario RossiAspetti giuridici e di medicina legale per gli operatori sanitari, Ed. Sorbona, Milano, 1991, p. 237.

PER APPROFONDIRE

Benci L., Aspetti giuridici della professione infermieristica, Mc Graw-Hill, Milano, 1995.

Cattorini P., Diagnosi di Aids e segretezza professionale, in Difesa Sociale, 1987, nr. 6.

Iandolo C., L'etica al letto del malato, Armando Editore, Roma, 1990, pp. 94-98.

Melannino S., Bevilacqua L., Il segreto professionale nell'esercizio delle arti sanitarie, Cedam, Padova, 1983.

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LA PREVENZIONE DELLE MALATTIE

FATTI

Per prevenire il contagio ogni mezzo è buono?

IDEE

Prevenzione ma senza equivoci

Infermieri in prima linea nella prevenzione dell'Aids

Decalogo AIDS

La prevenzione dell'AIDS

NORME

● Legislazione Sanitaria

Legge 29/6/1975 n. 405

Progetto-obiettivo AIDS 1994-1996

● Norme Deontologiche

Dichiarazione CII 1986

COMPORTAMENTI

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FATTI

PER PREVENIRE IL CONTAGIO OGNI MEZZO È BUONO?

Alice è una giovane infermiera che sta frequentando il corso per assistente sanitaria visitatrice. Non ha mai avuto occasione di lavorare nei servizi territoriali sino a quando non ha deciso di progredire negli studi. Lavorare nella prevenzione è sempre stato il suo sogno, crede fermamente nelle politiche preventive e cerca di adottarle anche nel proprio stile di vita. Tutti coloro che la conoscono ne sono al corrente e la consultano spesso per avere consigli di educazione sanitaria.

Alice frequenta attivamente la parrocchia e tutte le estati è impegnata come animatrice nelle vacanze in campeggio organizzate dal gruppo di boy scout locale. Si sta avvicinando il periodo delle ferie e Alice inizia il tirocinio nel consultorio della sua città. Dopo i primi giorni si ambienta senza problemi e comincia ad affiancare il personale nei colloqui con l'utenza.

Questa mattina sono in appuntamento due giovani, Paolo e Giulia, che si frequentano assiduamente da diverso tempo. Paolo, 25 anni, ha un passato di tossicodipendenza ritorna da un soggiorno in comunità e ha trovato in Giulia la forza di cambiare vita. Giulia, diciottenne alla prima esperienza amorosa, conosce Alice da diversi anni perché frequenta la parrocchia e quest'anno tutti e tre hanno in programma le vacanze con il gruppo di scout.

La giovane coppia confida ad Alice che è venuta al consultorio per chiedere informazioni circa il metodo più sicuro per proteggere Giulia da un'eventuale possibilità di diventare sieropositiva: il loro potrebbe pur sempre essere un rapporto "a rischio". Paolo non è risultato sieropositivo al test, ma gli hanno parlato del cosiddetto "periodo finestra" ed entrambi vogliono escludere anche la minima possibilità di contagio.

Alice si prepara ad assistere al colloquio tra il ginecologo e la giovane coppia con animo combattuto. Cosa deve prevalere in questo caso che la tocca così da vicino? La prevenzione della possibile malattia attraverso mezzi meccanici o l'osservanza dei dettami della dottrina cattolica che non concordano con l'uso di questi mezzi?

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IDEE

PREVENZIONE, MA SENZA EQUIVOCI

In Etica della salute l'autore ― medico docente di Igiene del lavoro all'università di Roma "La Sapienza" ― ha voluto proporre «una panoramica di fatti e non solo di idee, che attinge alla concretezza dell'epidemiologia, alla fantasia della letteratura, ai richiami della storia, all'esperienza della politica e agli orientamenti dell'etica...». Nel brano riportato offre spunti di approfondimento del concetto di prevenzione.

Sul tema della prevenzione esistono molti equivoci piuttosto banali. Il primo sta nel contrapporre la prevenzione alle cure, come se esistesse una insanabile antinomia. Il secondo sta nell'affermare a parole il valore pratico della prevenzione, ma nel negarlo nei fatti. In realtà i governi delle nazioni sviluppate dedicano a questo scopo non più del 3-6 per cento della spesa sanitaria, e quelli poveri un'aliquota spesso minore; anche i cittadini, peraltro, preferiscono spesso la costruzione di un nuovo ospedale a investimenti in favore della prevenzione, i quali sono meno visibili e hanno effetti meno immediati. In altre parole si può dire, riferendosi alla mitologia greca, che Igea, la dea preposta alla preservazione della salute, è divenuta la sorella povera di Panacea, la dea che promette un rimedio per ogni male. Il terzo equivoco sta nel considerare come prevenzione delle malattie le diagnosi prenatali, come quelle intrauterine che accertino anomalie e malformazioni fetali. Tranne i casi, per ora eccezionali, in cui il nascituro possa essere operato in utero, la decisione che può essere adottata è un'altra: quella di prevenire non una malattia, ma la nascita stessa; una decisione che può essere approvata, oppure considerata come una scelta insindacabile, oppure criticata, ma che non è certamente moralmente neutra.

Il quarto banale equivoco, forse il più diffuso, sta nel confondere due diversi campi e soggetti della prevenzione. Esistono da un lato la prevenzione primaria e la promozione della salute, che si propongono congiuntamente di evitare l'insorgere delle malattie e di migliorare le condizioni psico-fisiche degli individui viventi in una collettività. Questi tipi di prevenzione tendono a mobilitare le capacità preventive che sono frutto di scelte compiute in altri campi: la diffusione dell'istruzione, l'umanizzazione del lavoro, il miglioramento della nutrizione, delle abitazioni e della vita urbana, lo spirito di convivenza e solidarietà tra i cittadini. Tali "risorse indirette'1 contribuiscono in misura decisiva al miglioramento della salute: sia perché riescono a mutare le condizioni oggettive dell'esistenza, sia perché sviluppano negli individui conoscenze e stimoli atti non a obbligare, ma a favorire la libera adozione di comportamenti più salubri. Esistono dall'altro lato la medicina preventiva e la prevenzione secondaria, che sono attività specifiche della medicina, cioè servizi rivolti alle persone per diagnosticare e curare le malattie nella fase presintomatica o comunque iniziale, con lo scopo di ostacolare il loro progredire o di minimizzare il danno.

Un equivoco meno banale, ma assai diffuso, sta nell'affermazione che prevenire costa meno che curare. In molti casi questo è vero. Ma, se si ragiona esclusivamente in termini monetari, è facile osservare che la prevenzione può allontanare e attenuare le malattie, ma non può evitare la vecchiaia e i processi che avvicinano alla morte, cioè le fasi della vita nelle quali le spese terapeutiche diventano più alte. Spingendo al limite questo ragionamento e prescindendo quindi da ogni valutazione morale, si potrebbe dire che il risparmio maggiore si realizzerebbe non con la prevenzione, ma con l'eutanasia coatta dei soggetti che nascono bisognosi di molte cure, o di coloro che contraggono malattie croniche o di chiunque raggiunga un'età troppo avanzata. Se invece, senza trascurare gli aspetti economici

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del problema, si ragiona anche in termini umani, l'affermazione «prevenire costa meno che curare» risulta contenere una verità sostanziale, se non altro perché può risparmiare o attenuare molte sofferenze inevitabili.

Giovanni BerlinguerEtica della salute

INFERMIERI IN PRIMA LINEA NELLA PREVENZIONE DELL'AIDS

Uno tra i problemi di prevenzione più drammatici è oggi quello costituito dalla diffusione epidemica dell'Aids. In un documento, espressione di due importanti istituzioni internazionali, si esprime la necessità di coinvolgere nella prevenzione non solo le autorità, ma anche i professionisti della sanità. Gli infermieri appaiono in prima linea in questa strategia di prevenzione.

...Atteso che la sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids) e le infezioni dovute al virus della immunodeficienza umana (Hiv) pongono un problema sanitario internazionale di straordinaria urgenza,

Atteso che la pandemia di infezioni da Hiv minaccia i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, Atteso che le infezioni da Hiv sono un attentato alla salute che presenta profonde ripercussioni sul piano individuale, familiare e sociale che preoccupa moltissimo gli infermieri del mondo intero,

Atteso che nessun vaccino e nessun trattamento saranno sicuramente disponibili prima di molti anni a venire e che la prevenzione e la lotta contro le infezioni da Hiv su scala mondiale esigeranno uno sforzo prolungato,

Atteso che l'epidemia mondiale di infezione da Hiv pone ai sistemi sanitari una sfida che esigerà, da parte di tutti, una creatività, una energia e risorse di una ampiezza senza precedenti e le cui esigenze particolari, in materia di assistenza infermieristica, vanno crescendo rapidamente,

Atteso che la lotta contro l'Aids nel mondo esigerà contemporaneamente programmi energici a livello nazionale e pianificazione, coordinamento e cooperazione a livello internazionale,

Atteso che nel "Codice dell'infermiere" (Ginevra, Cii, 1973), formulato dal Consiglio internazionale delle infermiere è scritto che «l'infermiere divide con i suoi concittadini la responsabilità di prendere la iniziativa di individuare e di applicare misure destinate a rispondere alle esigenze sociali e sanitarie della popolazione», che «la responsabilità primaria dell'infermiere consiste nell'erogare cure infermieristiche alla persone che ne hanno bisogno», che «nell'esercizio della sua professione l'infermiere crea un ambiente in cui i valori, i costumi, le credenze dell'individuo sono rispettati» e che«l'infermiere è tenuto al segreto professionale e non comunica che per buon fine le informazioni che possiede».

Atteso che, con lo stesso spirito con cui aveva affrontato lo sforzo di eradicazione mondiale del vaiolo, l'OMS ha attualmente affrontato l'impegno più urgente, più difficile e più complesso ancora che consiste nel prevenire e nel combattere l'Aids nel mondo intero,

Si è deciso che il Cii si farà portavoce degli infermieri e si terrà al corrente su tutto quanto concerne la protezione della loro salute durante l'erogazione delle cure dispensate alle persone colpite da infezione da Hiv, e che il Cii collaborerà pienamente con l'OMS nel migliore degli interessi della collettività, delle persone colpite dal virus da Hiv e di coloro che li curano, e ugualmente che il Cu aiuterà gli infermieri, attraverso la intermediazione delle loro associazioni nazionali, a tenersi convenientemente informati sulla evoluzione della situazione relativa alla prevenzione della infezione e alle cure alle persone colpite da hiv e chiede a tutte le sue associazioni e agli infermieri del mondo intero di essere supportato attivamente in tutti questi sforzi.

Dichiarazione congiunta: OMS e Consiglio Internazionale contro l'Aids

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DECALOGO AIDS

Ancora un intervento in tema di prevenzione dell'Aids ― la malattia infettiva ed estremamente contagiosa che si è meritato l'appellativo di "peste del XX secolo" ― tratta da una rivista professionale per infermieri. Gli infermieri, più degli altri professionisti della sanità, possono utilizzare il rapporto diretto che hanno con i clienti dei servizi per un'azione educativa e preventiva.

1. Secondo le stime dell'OMS nei prossimi anni l'AIDS aumenterà soprattutto nelle donne.

2. Sempre secondo le stime dell'OMS il numero delle donne colpite dal virus dell'AIDS del '91 e '92 sarà uguale al numero di tutti i casi osservati (uomini e donne) dall'inizio dell'epidemia, dagli anni '80 al 1989. Alla fine del 1992 ci saranno nel mondo 350.000 casi di AIDS fra le donne. La maggioranza di esse ha contratto l'infezione attraverso il rapporto sessuale.

3. Per l'AIDS ancora non c'è né vaccino né guarigione. L'unico modo per arrestare l'ulteriore diffusione della malattia è la prevenzione.

4. Conosci bene il tuo partner e le sue abitudini prima di avere rapporti sessuali.

5. Rispetta e difendi il tuo corpo e la tua sessualità.

6. Imponi l'uso del preservativo in caso di dubbio sul tuo partner.

7. Prima di intraprendere un rapporto di coppia recati a fare il test di sieropositività per HIV (virus dell'AIDS) con il tuo partner. Il test è gratuito, anonimo, ed è eseguito in ogni USL o ospedale.

8. Prima di intraprendere una gravidanza fai il test insieme al tuo partner. Il virus HIV può infettare il nascituro.

9. Se adotterai sempre queste indicazioni il virus dell'AIDS non potrà uccidere né te né i tuoi figli.

10. Le donne ammalate di AIDS e le donne sieropositive hanno bisogno di aiuto, di solidarietà e non devono essere emarginate.

Professioni infermieristiche, 1992 n. 3

LA PREVENZIONE DELL'AIDS

Queste annotazioni epidemiologiche sono tratte da un libro in cui Enrico Malizia, un esperto di tossicologia, in collaborazione con la giornalista Hilde Ponti, traccia le linee fondamentali della storia dell'AIDS, indaga sulla natura e i modi di trasmissione dell'infezione, sui sintomi, sulle prospettive future della cura e sui principali aspetti della prevenzione. Soprattutto in rapporto all'Aids ci rendiamo conto di quanto sia vero che "prevenire è meglio che curare". Dal momento che per l'Aids non c'è cura, prevenire è l'unica via percorribile per un sanitario consapevole delle sue responsabilità per la salute.

La prevenzione è senza dubbio l'arma più importante a nostra disposizione, in quanto a tutt'oggi non esiste né una terapia risolutiva, né un vaccino profilattico. Sono i comportamenti e le situazioni a rischio che vanno evitati o neutralizzati. La propaganda e la politica preventiva stanno dando buoni risultati in tutti i paesi industrializzati, mentre hanno ancora poca presa in quelli del Terzo mondo, nei quali la diffusione degli infetti ha avuto un andamento esponenziale.

Cominciamo dalla trasmissione sessuale, che è indubbiamente la più rilevante. Pur se sarebbe auspicabile la monogamia, questa contrasta con le abitudini radicate della grande maggioranza della

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popolazione; quindi è buona regola, sia per i rapporti eterosessuali che per gli omosessuali e gli eterosessuali, che i comportamenti siano autodisciplinati e regolamentati, abolendo il sesso promiscuo. Per raggiungere soddisfazione non è necessario cambiare partner; va piuttosto cercato un approfondimento del rapporto che tenga conto dell'amore, oltre che dell'attrazione sessuale. Comunque, qualsiasi contatto con un partner, la cui condotta sessuale è ignota o anche solo sospetta, va intrapreso proteggendosi con il profilattico: una misura che chiunque sa di essere contagiato deve applicare, o far applicare.

È necessaria, quindi, una sensibilizzazione e un adattamento alla nuova realtà. Nel sano i comportamenti sorvegliati non contrastano con il desiderio e con le aspettative di piaceri sorprendenti. Si coniugano con reali sicurezze e non con quelle ritenute tali per autoindulgenza, anche a livello di inconscio, ma che sono solo espressione di superficialità.

Nel contagiato che sa di esserlo, la situazione psicologica molto spesso urta con la responsabilizzazione. La nozione di sapersi infetto comporta reazioni di rabbia, diniego, disperazione e rifiuto che possono essere deprimenti e pericolose. Lo stress può causare debilitazione delle immunità e quindi agire negativamente sul decorso della malattia, favorendo o accelerando il passaggio della sieropositività all'AIDS. È dunque opportuno che il contagiato sia sotto counseling medico e psicoterapeutico. In questa maniera si aiuta l'infetto a superare la fase di rigetto, con effetto favorevole sul decorso della malattia e sulla responsabilizzazione a non diffonderla. Facendogli accettare la realtà, lo si potrà convincere a rispettare i partner, usando comportamenti sessuali adeguati.

(...) La sessualità è un'espressione di vitalità, tanto del singolo, che di un popolo e un importante elemento culturale, carico di richiami misteriosi e affascinanti. Tuttavia, sia per motivi etici, sia di fronte alla minaccia di espandere e perpetuare una malattia letale, il sesso va disciplinato e regolamentato, adeguandosi a comportamenti idonei a impedire il proprio e l'altrui danno. Solo così si può fruire del vero piacere.

Enrico Malizia, Hilde PontiL’AIDS

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NORME

LEGISLAZIONE SANITARIA

Legge 29/6/1975 n.405: Legge quadro per il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità

Per molto tempo lo Stato italiano non è intervenuto in materia di consultori familiari, è stato così lasciato campo totalmente libero alle associazioni di volontariato. Solo nel 1975 venne approvata dal Parlamento, la legge 29/6/1975 n.405: legge quadro per il servizio di assistenza alla famiglia ed alla maternità.

La legge ha come scopi: l'assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità e alla paternità responsabile e per i problemi della coppia e della famiglia, anche in ordine alla problematica minorile; la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile, nel rispetto delle convinzioni etiche e dell'integrità fisica degli utenti; la tutela della salute della donna e del concepito; la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza, consigliando i metodi e i farmaci adatti a ciascun caso.

Progetto-obiettivo "AIDS 1994-1996"

Il D.P.R. 7/4/94 evidenzia un insieme articolato di iniziative che riguardano tanto gli ambiti della prevenzione e dell'assistenza che quelli della ricerca e della formazione degli operatori.

Perché un progetto obiettivo

Un organico programma di lotta contro l'infezione da HIV/AIDS assume di necessità tutte le caratteristiche proprie di quello che la legge 23 ottobre 1985, n.595, definisce progetto-obiettivo, vale a dire «un impegno operativo idoneo a fungere da polo di aggregazione di attività molteplici delle strutture sanitarie, integrate dai servizi socio-assistenziali, al fine di proseguire la tutela socio-sanitaria dei soggetti destinatari del progetto».

È noto infatti che l'infezione da HIV/AIDS è un problema di sanità pubblica emergente con risvolti di carattere sociale, morale, psicologico che si intrecciano con quelli biologici, clinici e assistenziali determinando una situazione di particolare complessità sia sul piano generale che individuale.

Prevenzione

La prevenzione, l'informazione, l'educazione continuano a rappresentare le armi più efficaci nella lotta contro l'AIDS, come confermato dal recente documento (1993) della Organizzazione mondiale della sanità "la strategia mondiale di lotta contro l'AIDS", che ridefinisce il programma già messo a punto nel 1987, alla luce delle nuove conoscenze ed esigenze.

È importante che non si determino grandi soluzioni di continuità nell'impegno per la prevenzione dell'AIDS. La continuità è da considerare, come è stato evidenziato anche da risoluzioni degli organismi di sanità pubblica sovranazionali, un elemento fondamentale per l'efficacia della prevenzione.

In rapporto alle conoscenze oggi disponibili sull'andamento dell'epidemia è però necessario definire specifici ed aggiornati programmi di prevenzione che devono tener conto essenzialmente della condizione personale dei soggetti interessati. Nell'area della prevenzione devono rientrare i seguenti interventi:

(...)

Programmi integrati di informazione ed educazione sessuale

I programmi hanno l'obiettivo di ridurre l'incidenza di infezioni trasmissibili per via ematica e sessuale nella popolazione giovanile. La realizzazione di tali programmi dovrebbe essere basata su:

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 concentrazione degli sforzi per raggiungere i giovani di età inferiore ai 16 anni, cioè gli adolescenti che non hanno ancora iniziato l'attività sessuale;

 inserimento delle informazioni finalizzate alla prevenzione all'interno di attività informative ed educative positive che siano incentrate sull'educazione alla salute, quindi anche sulla sessualità e non sulla malattia;

 affidamento agli insegnanti opportunamente preparati delle attività educative ed informative, in collaborazione con le strutture sanitarie;

 estensione dei programmi di prevenzione anche ai giovani della scuola dell'obbligo, sia essa pubblica che privata;

 contatto dei giovani che non frequentano la scuola e che rappresentano un gruppo ad altissimo rischio, attraverso "unità da strada" o programmi nei luoghi di aggregazione, compresi quelli in cui vengono effettuate le pratiche sportive.

NORME DEONTOLOGICHE

Dichiarazione del Consiglio Internazionale delle Infermiere (1986)

I pericoli per la salute

Molti problemi di salute di cui oggi le persone si lamentano sono imputabili ad una vita condotta in modo non igienico, oppure all'ambiente creato dall'uomo. Essi possono avere origine dalla scelta individuale di un modo di vita o dall'ambiente in cui le persone vivono o lavorano.

Il tabagismo, l'alcoolismo e la tossicodipendenza rispecchiano scelte personali che hanno gravi conseguenze per la salute. I pericoli del tabacco sono ben noti, ma ciò non impedisce a molti di cedere a questa tentazione. Analogamente, parecchie persone ricorrono all'alcool e alle droghe nel tentativo di sfuggire alle pressioni della vita quotidiana. Il cercare di curarsi in modo autonomo è divenuto una pratica corrente. La droga miete sempre più vittime. Le frustrazioni accumulate dagli individui sfociano troppo spesso nella violenza, molte volte rivolta contro se stessi, o contro membri della propria famiglia o contro altre persone.

Numerosi individui in tutto il mondo sono colpiti da mali dipendenti da una alimentazione errata o da carenze nutritive: così, mentre nel mondo industrializzato sono molti quelli che soffrono di obesità, in altre regioni la popolazione è vittima di denutrizione cronica. Inoltre, le sostanze chimiche che vengono aggiunte ai prodotti alimentari possono essere dannose per la salute.

Si è potuto constatare un aumento generalizzato delle malattie cardiovascolari, del cancro e dei disturbi mentali. L’evoluzione dei costumi e dello stile di vita si è tradotta in un considerevole aumento delle malattie trasmesse per via sessuale.

Negli ultimi anni è andato crescendo il numero delle persone che si sforzano di migliorare il proprio stato di benessere fisico. Questa tendenza a farsi carico della propria salute, se pur buona in se stessa, ha scatenato una specie di infatuazione per lo sport che, in mancanza di una adeguata preparazione, può causare degli incidenti.

Esistono anche molti fattori che, nell'ambiente in cui viviamo, possono portare alla malattia. Ad esempio, l'inquinamento dell'aria e dell'acqua sta diventando un problema sempre più preoccupante che pone una sfida alle Comunità e ai governi del mondo intero. Gli incidenti del traffico sono responsabili di gravi lesioni e di decessi. Si dovrebbero pertanto prendere delle misure per ridurne il numero e la gravità. Anche gli incidenti domestici ed industriali possono essere prevenuti. Molto può essere fatto al livello della salute e della sicurezza del lavoro, e non solo sul piano della prevenzione degli incidenti fisici. Si può valutare quale impatto abbiano sulla salute le nuove tecnologie, come ad esempio la crescente utilizzazione degli elaboratori; si possono creare ambienti di lavoro meno stressanti e che consentano agli individui di realizzasi meglio.

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Una notevole percentuale del totale annuo degli incidenti è rappresentata da quelli che si verificano tra le pareti domestiche, la maggior parte dei quali potrebbe essere evitata con una migliore e più diffusa informazione del pubblico.

Il C.I.I. ritiene che le infermiere e le loro Associazioni professionali possono contribuire ad accrescere la consapevolezza di questi problemi, ad informare il pubblico e ad accertare che i servizi sanitari siano in grado di soddisfare tali bisogni.

Le Associazioni nazionali di infermiere sono invitate a:

 promuovere e partecipare ai lavori dei Comitati o organi incaricati di elaborare, coordinare e supervisionare i programmi di controllo e di prevenzione dei pericoli specifici per la salute;

 intraprendere studi (o apportarvi il loro contributo) intesi a determinare l'estensione e la natura dei problemi prioritari nel proprio Paese in modo da giungere a decisioni sulle misure da adottare;

 condurre o completare le ricerche sullo stato di salute e sulle pratiche e le tecniche che consentono alle persone di migliorare e preservare la loro salute;

 definire la propria posizione di fronte ai principali problemi di salute nel rispettivo Paese ed ottenere la collaborazione dei legislatori e della comunità per l'adozione di misure di prevenzione e per lo sviluppo dei servizi necessari;

 adoperarsi per ottenere un miglioramento nell'insegnamento dell'assistenza infermieristica, onde assicurare un'adeguata preparazione del personale infermieristico;

 vigilare affinché un numero sufficiente di infermiere riceva l'insegnamento specialistico richiesto per lavorare con determinati gruppi (vale a dire nei Centri per alcoolisti e tossicodipendenti);

 sensibilizzare il personale infermieristico all'importanza del ruolo che deve svolgere come consulente in materia sanitaria;

 sostenere gli sforzi rivolti a controllare e prevenire i pericoli specifici per la salute;

 sostenere le misure internazionali necessarie ad affrontare quei problemi che richiedono una collaborazione internazionale (migliore alimentazione, controllo del traffico di droga, controllo dell'inquinamento, ecc.).

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COMPORTAMENTI

La prevenzione si è rivelata una strategia utile per combattere numerose malattie; per affrontare il problema dell'Aids, in assenza di terapie risolutive e misure di profilassi radicali, è sicuramente l'intervento più significativo.

Ai fini preventivi le funzioni maggiormente significative per l'infermiere saranno quelle relative all'uso di modelli informativi appropriati. Dalla ricerca effettuata dalla collega A. Clemente, che opera in qualità di A.F.D. all'USSL di Torino, emerge che «i modelli informativi generalizzati rivolti alla popolazione non sono efficaci ai fini della prevenzione» poiché manca la necessaria integrazione tra chi trasmette e chi riceve. «Ogni passaggio che porti alla modifica di un comportamento ha bisogno di verifiche, consigli, tanto più se questi comportamenti rappresentano il risultato di vissuti più profondi, più a contatto con le sfere emotive e irrazionali. Da ciò si può capire come occorra invece fornire capillarmente messaggi comprensibili nei singoli contenuti, usando linguaggi appropriati e valorizzando, nel veicolare questi messaggi, tutte quelle relazioni interpersonali che hanno significatività nella vita della persona, come amici, parenti, compagni di lavoro, insegnanti, assistenti sociali, medici di base».

Alice, la protagonista del nostro "fatto" ("Per prevenire il contagio ogni mezzo è buono"), si trova proprio in una situazione simile a quelle descritte in precedenza; può dunque cercare di instaurare una relazione significativa con la giovane coppia, al fine di trasmettere un messaggio preventivo efficace. Sarà perciò opportuno riflettere soprattutto in merito a quali messaggi trasmettere e quali modalità utilizzare per fornire l'informazione a fini preventivi. È di fondamentale importanza fare particolare attenzione inoltre ad alcune variabili quali l'età, il gruppo sociale di appartenenza e i comportamenti Individuali dei soggetti a cui è diretto l'intervento preventivo.

Dalla ricerca sopra citata emerge che per realizzare interventi preventivi efficaci è necessario individuare l'"interlocutore significativo", cioè la persona cui naturalmente ci si rivolge e con cui esiste una relazione significativa di carattere fiduciario. Possiamo dedurre che Alice dovrà porre particolare attenzione a diversi elementi, quali i soggetti su cui va ad agire, il linguaggio da utilizzare, il messaggio da dare e il grado di recettività al messaggio, nella sua azione preziosa di prevenzione primaria.

Gli esperti di educazione sanitaria suggeriscono di articolare l'azione preventiva in tre momenti:

● educazione (garantendo al destinatario le informazioni utili a modificare il comportamento a rischio)

● valutazione (analizzando il destinatario rispetto al rischio personale di acquisire l'infezione o la malattia e di trasmetterla)

● intervento (determinando l'adozione diffusa di comportamenti a basso rischio).

Altro elemento su cui è importante riflettere è il significato del rapporto professionale tra Alice e la giovane coppia: è innanzi tutto l'incontro tra due soggetti, tra due libertà. Il fatto che, relativamente a un aspetto della sua vita, l'utente di un servizio riconosca a un professionista, per la sua competenza specifica, il diritto di consigliarlo nel prendere decisioni che riguardano

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la sua vita, non significa .che egli abdichi al proprio diritto di decisione ultima. È fondamentale acquisire una disponibilità, non ad assumere un distacco neutrale, ma a prendere coscienza del proprio sistema di valori, a saper distinguere il proprio concetto di "giusto" da quello che un'altra persona considera "giusto"; a capire ì rischi di far assurgere a verità il proprio sistema di valori.

L'uso consapevole del rapporto professionale è un elemento centrale della competenza richiesta nell'esercizio delle professioni di aiuto. Ci si arriva sviluppando capacità di ascolto verso gli utenti, in vista di scelte il più possibile libere e consapevoli. Alice si interroga rispetto a quali criteri fare ricorso. Le appaiono inadeguati i semplici riferimenti alla soggettività individuale o collettività e ai valori della cultura dominante; le potrà però essere utile riflettere sui valori di fondo della professione riconducibili ai valori di dignità e libertà della persona umana, di eguaglianza, partecipazione e solidarietà affermati nella Carta costituzionale dei diritti dell'uomo e ripresi anche nella Costituzione italiana.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Berlinguer G., Etica della salute, Il Saggiatore, Milano, 1994 p. 95.

Malizia E. e Ponti H., L'AIDS, Newton Compton, Roma, 1994 pp. 92, 93.

PER APPROFONDIRE

CII (trad. di F. Cotone), “Prese di posizione del CII", Cnaioss, Roma.

Gatti G., Etica delle professioni formative, Elle Di Ci, Torino, 1992.

Guibert H., Le regole della pietà, Marsilio, Venezia, 1993.

L'Arco di Giano, Rivista di “Medical humanities", n. 4, 1994 (Dossier: "La salute: diritti e responsabilità").

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LA SESSUALITA' E LE SUE MANIFESTAZIONI

FATTI

Una persona molto particolare

Violenza alle donne e ruolo dell'infermiera

La sessualità dei giovani

IDEE

Zone del corpo tabù... Argomenti tabù

L’omosessualità: quello che sa la ricerca biologica

Un padre filosofo fa lezione di morale sessuale al figlio

La difficoltà di esprimere l'identità sessuale

Genere, identità e moralità

NORME

● Diritti umani

Carta dei 33 diritti del cittadino

● Norme morali

La sessualità nella prospettiva personalista

COMPORTAMENTI

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UNA PERSONA MOLTO PARTICOLARE

Paola ha 26 anni. È alta e bionda, con lunghi capelli ricci che tiene sciolti sulle spalle, ributtandoli spesso indietro con un gesto di affermazione di sé. La sua struttura corporea è robusta, piena di forza, in contrasto con i suoi modi che risultano invece delicati e tendenti all'armonia. Il timbro della sua voce è roco, poco femminile; il linguaggio che usa dimostra una scarsa istruzione, ma della sua vita passata non parla mai. Nonostante la sua altezza, porta sempre degli scendiletto con un tacco pronunciato, di quelli con le piume e i lustrini, che gli infermieri hanno subito notato. Anche la sua biancheria è ricercata, elegante, piena di particolari vistosi e senza dubbio non comini. Paola è ricoverata in chirurgia per ferite da taglio multiple agli avambracci, all'addome e al volto. Lavora in un night di Milano; si tratta di un club esclusivo e riservato, dove si esibisce tutte le sere come cantante spogliarellista. L'aggressione che ha subito è avvenuta due notti fa, all'uscita del locale dopo il termine dello spettacolo, da parte di sconosciuti. Paola però non vuole parlarne; accetta di colloquiare esclusivamente delle ferite, poiché teme che possano rimanere delle cicatrici evidenti; queste, infatti, potrebbero compromettere la sua attività lavorativa, unica fonte di reddito per lei ― sottolinea ― ma anche di realizzazione personale.

Da quando si è ricoverata, Paola ha sempre mantenuto una certa riservatezza, non solo con il personale, ma anche con le altre degenti. Per esempio: "Me ne infischio ― dice ― delle regole dell'ospedale, che sembrano tener conto di tutto fuorché delle esigenze e dei diritti dei malati!". In breve, la questione ha coinvolto tutto il gruppo infermieristico, in particolare Donatella che sembra particolarmente presa dalle richieste di Paola, mentre gli uomini del gruppo sostengono che se per tutte le "donnine isteriche" che capitano in reparto si dovessero ribaltare le regole... Dove stanno tutti questi problemi a farsi medicare all’addome da un infermiere uomo? Perché si deve permettere a una degente di fare tutta questa confusione? Che potrà mai avere di problematico questa persona da dover essere trattata diversamente dalle altre? O forse ha qualcosa da nascondere? Queste affermazioni dilagano tra gli infermieri, passando da gruppo a gruppo al cambiare del turno.

Paola nel frattempo si è chiusa in sé, rifiuta di essere avvicinata dagli infermieri e dai medici, non mangia, ha un'espressione rigida del volto, ferma nella sua opposizione a mettersi nelle mani di chiunque. Dice alla caposala che i suoi problemi personali, che non intende mettere alla mercé di tutti, anche se vincolati dal segreto professionale, la autorizzano a richiedere un attento rispetto dei suoi diritti di persona.

A seguito dell'accaduto, Donatella stamani ha chiesto alla caposala un colloquio a due: nel corso di questo riferisce alla coordinatrice di essere a conoscenza del problema di Paola, che l'ha vincolata a non rivelare la sua vera identità. Paola infatti ha un passato al maschile, di cui conserva ancora alcune caratteristiche sessuali. Normalmente usa della biancheria particolare per comprimere i genitali e nascondere così il suo problema; dal momento dell'arrivo al pronto soccorso è straordinariamente riuscita a evitare di togliere la biancheria intima davanti ai medici e agli infermieri, ma con Donatella non ha potuto più bleffare oltre. «Devo confessare ― ammette Donatella ― che ciò che più mi ha colpito è l'estremo tormento interiore di questa persona: Paola è una donna a cui la natura, per un brutto scherzo, ha dato un corpo maschile. Non pensi anche tu che debba essere una condizione terribile, senza via di uscita? Io credo che i suoi problemi particolari le

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diano il diritto di chiedere un'assistenza personalizzata...!». Donatella chiude il colloquio con la caposala chiedendole di concederle un orario particolare, per permetterle di occuparsi di Paola e rispettare così il suo pesante segreto, nonostante che gli altri colleghi inveiscano contro il favoritismo che così verrebbe concesso a una degente rispetto alle altre, addirittura stravolgendo l'orario di lavoro del gruppo infermieristico. «D'altra parte, la nostra attività deve fondarsi sulla burocrazia e la tradizione, oppure sulle esigenze dei degenti?». Le chiede inoltre di non rivelare quanto raccontatole da Donatella, poiché teme in particolare la reazione degli infermieri uomini, che già tra di loro apostrofano Paola con i più discutibili soprannomi.

VIOLENZA ALLE DONNE E RUOLO DELL'INFERMIERA

L'assistenza negli USA è prerogativa dei gruppi nati, il più delle volte, da incontri spontanei di persone unite da un interesse e fortemente motivate a perseguirlo. È il caso della Forensic Nursing Services (Fns), una società di servizi creata da un gruppo di infermiere professionali statunitensi che da circa 10 anni si occupa di violenza interpersonale, e in particolare violenza domestica, stupro e violenza sui minori.

È nel 1986 che viene organizzato a Santa Cruz il primo "gruppo di intervento” e si dà il via ai corsi di diploma per formare la figura dell'infermiera "forense". Racconta Sandy Holnvan Golstein, direttore esecutivo della Fns, in visita nel nostro Paese: "Il problema della violenza richiedeva un approccio multidisciplinare. L’aspetto sanitario, l’esame medico effettuato per raccogliere le prove non poteva prescindere dalle modalità di realizzazione di un processo per stupro, e allo stesso tempo non si poteva trascurare la salute psichica della vittima concentrandosi solo nell'elaborazione dei capi d'accusa".

Il punto forte del programma sta nell'aver individuato la solitudine della vittima di violenza, costretta ad affrontare anche il peso di dimostrare l'accaduto, di non essere creduta e di "subire" un processo nel quale non sempre è chiaro chi si trova "sotto accusa".

Oggi, quando viene denunciato imo stupro, le autorità di polizia avvertono subito l'infermiere responsabile che a sua volta dà l'incarico a una volontaria di assumere la funzione di "garante" dei diritti della vittima. Poi avviene l'incontro, in un ambiente riservato: una stanza d'ospedale, appositamente destinata allo scopo, tra vittima, garante, ufficiale di polizia e infermiera forense. (...)

È l'infermiera quindi a gestire in prima persona il caso, è lei a condurre il primo colloquio, lei ad eseguire la visita ed i necessari esami mirati a raccogliere elementi di prova, lei ad adottare un'adeguata profilassi volta a scongiurare malattie infettive o gravidanze indesiderate. Quindi a preparare un rapporto per le autorità giudiziarie e a sostenerlo con una competente e sempre più specializzata testimonianza resa al processo.

Elisabetta Di NicolaViolenza delle donne: un ruolo per le infermiere professionali

LA SESSUALITÀ DEI GIOVANI

Intervista a Patrizia, infermiera e sessuologa presso un Centro Consulenza Giovani di Firenze.

«Tra gli studenti italiani l'ignoranza in fatto di sesso è alta, anche se, in realtà, i ragazzi vorrebbero sapere di più. Secondo le statistiche Aied (Associazione italiana per l'educazione demografica) l'80% è favorevole all'introduzione delle "lezioni di sesso" a scuola. In effetti la situazione in cui si trovano oggi i giovani è veramente paradossale: da mia parte vengono bombardati dalla televisione,

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dalla pornografia dilagante, dal peso sproporzionato che la "prestanza fisica" ha assunto nella nostra cultura; dall’altra si trovano all'oscuro rispetto alle informazioni più elementari, sono pieni di dubbi, anche perche hanno poche occasioni per parlare della sessualità, che, nonostante tutto, rimane un tabù. Si deve valutare che il bombardamento di messaggi espliciti o sublimali confonde sempre più la percezione dell'eros da parte degli adolescenti. Quando si presentano al centro ci chiedono di spiegare loro come si fa ad avvicinarsi in modo naturale a questa forma di relazione. Il punto più oscuro rimane forse la contraccezione: in Italia l'uso dei contraccettivi è tra i più bassi d'Europa. Molti hanno notizie confuse, a partire proprio dall'anatomia e fisiologia; inoltre la mancanza di informazioni precise sulle modalità di trasmissione dell'AIDS sta producendo effetti ancora più gravi: quasi per reazione a un allarme che spesso rimane solo tale, senza essere spiegato, si preferisce non usare nulla, rischiare il tutto per tutto.

Bisogna riconoscere che per un adolescente non è sempre facile orientarsi tra i servizi a sua disposizione, e i genitori spesso non comprendono che non possono essere interlocutori riconosciuti in tutto per i loro figli. Capita, è vero, che una madre accompagni la figlia al centro per orientarla verso questo servizio, ma poi magari pretende di essere presente al colloquio, alla visita, alla valutazione del contraccettivo da usare...! Ma il fatto positivo che posso segnalare dalla mia esperienza è che i ragazzi hanno voglia di inserire la sessualità all'interno della più vasta problematica dei rapporti tra persone, dei sentimenti.

L'educazione sessuale nelle scuole dovrebbe essere complementare al servizio offerto dai consultori e centri consulenza giovani, ma l'ingresso nelle scuole non è stato (spesso non è ancora) facile. L'idea di un corso di educazione sessuale a ore precise, come se fosse una lezione di biologia o scienze, può in effetti suscitare perplessità. In genere si preferisce creare situazioni meno formali, o addirittura attivare corsi per gli insegnanti stessi, perché sappiano rispondere, al di là di situazioni codificate, alle domande degli studenti. Occorre però precisare che se le problematiche dei ragazzi non vengono affrontate con naturalezza, accogliendo le loro domande e richieste come parte di un discorso più globale su di loro come persone, il progetto è destinato a fallire. Il contributo degli operatori sanitari, che hanno come unica alternativa un approccio integrato, deve esplicarsi in tutti quei luoghi più accessibili per i giovani. È fuori discussione che il molo dell'infermiera e dell'ostetrica in tutto questo è fondamentale».

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IDEE

ZONE DEL CORPO TABÙ... ARGOMENTI TABÙ

Mentre cadono tutti i veli del corpo e l'Occidente in particolare sembra sempre più disinibito nella rappresentazione della realtà fisica dell'uomo, un antropologo ci richiama alla complessità del rapporto con il corpo. Pur variando da cultura a cultura, i tabù relativi all'accesso all'intimità corporea appaiono come un dato permanente. È una considerazione utile all'infermiere, che nell'attività di cura e assistenza ha una particolare vicinanza al corpo del malato.

Una "zona tabù" è una parte del corpo che gli altri non possono toccare. Ognuno di noi ha un senso della privacy fisica, ma la forza di essa varia da persona a persona, da cultura a cultura e da rapporto a rapporto. Soprattutto, varia a seconda della parte del corpo che sta sperimentando il contatto fisico. Soltanto gli amanti e ì genitori hanno libero accesso a tutte le parti del corpo del partner sessuale o del bambino. Per tutti gli altri c'è una scala graduata di contatti tabù.

Negli U.S.A. è stata effettuata un'interessante ricerca sulle zone tabù dei giovani laureati. Ciò che emerge è che ogni rapporto ha una propria combinazione peculiare di zone tabù e non-tabù. Certo, i dettagli precisi di questa ricerca sui giovani laureati americani non varranno forse per altri paesi, o per altri rapporti, tuttavia ne emerge un principio generale di vasta portata. Essi ci dicono che, senza pensarci, abbiamo speciali rapporti di tabù fisico con i nostri vari parenti e amici e che, a ogni nostro incontro, noi leggiamo e rileggiamo questi segnali. (...)

In alcune culture questo processo di riduzione del contatto è meno marcato che in altre. L'Europa meridionale, per esempio, è nel complesso meno anti-contatto di quella settentrionale. Anche all'interno della stessa cultura, alcune famiglie sono più restrittive di altre. A volte, una cultura ha un tabù particolare per una parte del corpo che altrove sarebbe considerata "pubblica". (...) In generale, le società tribali sono di gran lunga più libere delle civiltà urbane nei contatti fisici e gran parte delle restrizioni sono appunto un portato degli ambienti sovraffollati, infestati da estranei, delle nostre città. Con l'ulteriore aumento della popolazione, tutte le forme di privacy, inclusa quella del corpo, saranno sempre più protette ed è improbabile che il fenomeno delle zone tabù decimi negli anni a venire. (...) Nell'insieme, la società occidentale ha mantenuto la sua atmosfera generale di privacy fisica e contatti tabù.

Desmond Morris, L'uomo e suoi gesti

L'OMOSESSUALITÀ: QUELLO CHE SA LA RICERCA BIOLOGICA

Un ricercatore americano sostiene che all'origine dello sviluppo delle emozioni e dei comportamenti sessuali ci sarebbero dei meccanismi cerebrali. Per questa via intende individuare l'origine del comportamento omosessuale.

I fattori che determinano se una persona diventerà eterosessuale, bisessuale o omosessuale sono ancora ampiamente sconosciuti. Alcuni indizi, tuttavia, fanno pensare che l'orientamento sessuale sia influenzato in misura massiccia da eventi che si verificano nelle prime fasi dello sviluppo, quando il cervello va differenziandosi sessualmente sotto l'influenza degli steroidi gonadali.(...) Anche ì fattori

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ambientali giocano probabilmente un ruolo: fra questi potrebbero esserci lo stress materno o altre influenze ambientali che si verificano prima della nascita, le interazioni con i genitori e con i fratelli durante l'infanzia, e le interazioni sociali e sessuali nell'adolescenza e nell'età adulta. Nessuno dei fattori non-genetici suggeriti è stato finora confermato da valide prove scientifiche. Il fatto che negli omosessuali e negli eterosessuali alcune strutture cerebrali siano differenti e che alcuni tratti infantili preannuncino in qualche misura l'orientamento sessuale della persona adulta, fa ritenere più probabile l'influenza dei fattori ambientali che operano molto presto nella vita rispetto a quelli che operano più tardi. Ulteriori progressi in questo campo verranno con ogni probabilità dall'identificazione dei geni che influenzano l’orientamento sessuale e dei meccanismi attraverso i quali esercitano la loro azione. Quando questi meccanismi saranno stati chianti, sarà mollo più semplice studiare in che modo i processi ambientali possono interagire con loro per modificare l'esito finale.

Simon LeVay, Le radici della sessualità

UN PADRE FILOSOFO FA LEZIONE DI MORALE SESSUALE AL FIGLIO

Da un libro di successo, scritto per divulgare le problematiche della filosofia morale, in quanto punti di incontro obbligati non solo per filosofi professionisti, ma assolutamente per ogni persona consapevole e responsabile, una pagina sull'etica della vita sessuale. Rifiutare le torbide colpevolizzazioni riferite al sesso non significa privarlo di rilevanza nella vita morale delle persone.

Nel sesso, in sé e per sé, non c’è nulla di più immorale che nel mangiare o camminare in campagna; è chiaro che qualcuno può comportarsi immoralmente col sesso (usandolo per danneggiare un'altra persona, per esempio), ma lo stesso si può dire di chi mangia il panino del compagno di banco o prepara attentati terroristici durante le sue passeggiate. Certamente, siccome i rapporti sessuali possono creare vincoli molto forti e complicazioni sentimentali delicate, è logico che ci si debba comportare con il massimo dell'attenzione e del rispetto per l'altro. Però, in generale, ti dico chiaro e tondo che non c'è niente di male in quello che la piacere a due persone e non danneggia nessuno. Quello che veramente è male è credere che ci sia qualcosa di male nel piacere... Non perché abbiamo un corpo, come si usa dire (quasi con rassegnazione), ma perché siamo un corpo, e senza la soddisfazione e il benessere del corpo non è possibile vivere bene.

Chi si vergogna della capacità di godere del suo corpo è altrettanto stolto di chi si vergogna di aver imparato le tabelline. Sicuramente una delle funzioni più importanti del sesso è quella della procreazione. «Già, vengo a raccontartelo proprio a te che sei mio figlio!». È una conseguenza che non si può prendere alla leggera dato che comporta vincoli etici: se non te lo ricordi più, ripassa quello che ti ho detto della responsabilità come rovescio inevitabile della libertà. Però l'esperienza sessuale non è limitata solo alla procreazione. Negli esseri umani i meccanismi naturali che assicurano la perpetuazione della specie hanno altre dimensioni che la biologia non sembra aver previsto. Simboli e raffinatezze, invenzioni preziose della libertà senza la quale gli esseri umani non sarebbero tali, si aggiungono alla natura.

È paradossale che siano proprio quelli che vedono nel sesso qualcosa di male o almeno di torbido a dire che dedicarcisi con troppo entusiasmo rende l'uomo un animale. La verità è che sono proprio gli animali quelli che usano il sesso solo per procreare, così come usano il cibo solo per nutrirsi e l'esercizio fisico solo per mantenersi in salute; noi esseri umani, invece, abbiamo inventato l'erotismo, la gastronomia e lo sport. Il sesso è un meccanismo di riproduzione per gli uomini come per i cervi e i pesci; però negli uomini produce molti altri effetti, per esempio la poesia lirica e il matrimonio, cose che né i cervi né i pesci conoscono (per loro fortuna o disgrazia, non so). Più si separa il sesso dalla

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semplice procreazione più diventa umano e meno animale. Da questo, ovviamente, derivano conseguenze buone e cattive, come sempre quando è in gioco la libertà...

Fernando Savater, Etica per un figlio

LA DIFFICOLTÀ DI ESPRIMERE L'IDENTITÀ SESSUALE

Non si è forse osservato abbastanza che il problema della libertà sessuale in tutte le sue forme è in gran parte un problema di libertà di espressione. Appare evidente come, di generazione in generazione, le tendenze e gli atti differiscano ben poco; ciò che invece cambia è l'estensione della zona di silenzio che li circonda o lo spessore degli strati di menzogna che li comprimono (...) Non avevo nessuno cui domandare consiglio. La prima conseguenza delle tendenze proibite è di murarci in noi stessi: bisogna tacere, o non parlarne che a complici. Ho sofferto molto, nei miei sforzi per vincermi, di non potermi aspettare né incoraggiamento né pietà, e nemmeno quel poco di stima che ogni buona volontà merita sempre. Non avevo mai avuto intimità con i miei fratelli; mia madre, che era osservante e triste, aveva nei miei riguardi illusioni commoventi; non mi avrebbe perdonato di rovinarle l'idea purissima, dolcissima e un po' sbiadita che si faceva del suo ragazzo. Se avessi osato confessarmi ai miei, ciò che mi avrebbero perdonato meno sarebbe stato, appunto, questa confessione. Avrei messo quella gente scrupolosa in una situazione difficile, che l'ignoranza le risparmiava: sarei stato sorvegliato, non aiutato. Il nostro ruolo, nella vita di famiglia, è fissato una volta per tutte in rapporto a quello degli altri. Si è il figlio, il fratello, il marito, che so io? E il ruolo ci appartiene come il nome, lo stato presumibile di salute e i riguardi che ci spettano o meno di diritto. Il resto non ha importanza; il resto è la nostra vita. Ero a tavola, oppure in una sala tranquilla; mi assalivano fulminei tormenti in cui mi pareva di morire; stupivo che nessuno se ne accorgesse. Sono quegli istanti in cui lo spazio tra noi e i nostri cari diventa insormontabile: ci si dibatte nella solitudine come nel cuore di un cristallo. Finivo per concludere che fossero tutti abbastanza saggi da comprendere, non intervenire e non scandalizzarsi. Un'ipotesi, a ben pensarci, che s'attaglierebbe forse a Dio. Ma quando si tratta di gente comune, è inutile prestarle la saggezza; basta la sua capacità di vedere.

Marguerit e YourcenarAlexis, o trattato della lotta vana

GENERE, IDENTITÀ E MORALITÀ

Carol Gilligan è una psicologa che ha condotto ricerche su giovani donne in procinto di abortire, per studiare se i giudizi morali delle donne differiscono da quelli degli uomini. L'autrice giunge alla conclusione che le donne definiscono se stesse in termini di rapporti personali e giudicano la propria realizzazione in base alla capacità di prendersi cura degli altri. Questa autocomprensione si riflette anche nel giudizio morale relativo alla decisione di abortire. Alcune delle donne intervistate, in relazione alla specifica situazione dell'interruzione di gravidanza, affermano:

Quando penso alla parola moralità penso a degli obblighi morali. Penso a conflitti tra desideri personali e considerazioni sociali, oppure tra i miei desideri personali e quelli di un'altra persona o gruppo di persone. La moralità è la sfera entro la quale si decide come risolvere questo tipo di conflitti. Una persona morale è quella che il più delle volte decide ponendosi sullo stesso piano dell’altro; e una persona veramente morale considera sempre l’altro come suo pari... In una situazione di interazione sociale, c'è qualcosa di moralmente sbagliato se l'individuo finisce per calpestare tutti. È invece moralmente giusta quando tutti ne sono arricchiti.

Carol GilliganCon voce di donna

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NORME

DIRITTI UMANI

Carta dei 33 diritti del cittadino

(...) Il diritto della donna degente a vedere riconosciuta interamente la propria soggettività culturale e fisica, e quindi il diritto della donna ad esercitare liberamente scelte di valori e comportamenti, nell'ambito delle leggi vigenti, senza subire intimidazioni e forme di sindacato o di discriminazione.

Il diritto delle donne a tutelare la propria dignità sociale mediante forme di controllo popolare legate alle strutture delle unità sanitarie locali, soprattutto allo scopo di imporre, con una nuova concezione della gravidanza e del parto ― da considerarsi fatti fisiologici e non patologici ― un diverso trattamento basato sul rispetto della persona, sul rapporto paritario tra donne e operatori sanitari, sulla possibilità di esercitare diritti e quindi di non chiedere favori, sulla considerazione del pudore, su una concezione della ospitalità nelle strutture sanitarie non punitiva e carceraria e pertanto sulla possibilità di avere continui rapporti con i familiari, le organizzazioni politiche, i rappresentanti delle associazioni delle donne, i membri delle unità sanitarie locali (...)

Tribunale dei diritti del malatoCarta dei 33 diritti del cittadino (1980)

NORME MORALI

La sessualità nella prospettiva personalista

Alle radici delle tensioni e delle contraddizioni attuali si ha una nuova interpretazione della sessualità, del matrimonio e della famiglia.

Si registra una visione più ottimistica della sessualità, sempre più riconosciuta come «una componente fondamentale della personalità, un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l'amore umano». Essa viene colta come una tipica forma di linguaggio con cui l'uomo e la donna, diversi e complementari, vivono la loro reciproca comunione e donazione o nel matrimonio o nella verginità, quali modi specifici di realizzare la vocazione all'amore, propria della persona umana.

Più diffuso è il riconoscimento della dignità della donna e dei suoi ruoli nella vita privata e familiare e in quella pubblica, anche se spesso tale riconoscimento viene ostacolato dagli stili concreti di vita e contraddetto dalla sua riduzione a oggetto di piacere o di possesso.

Più vive sono la coscienza della libertà e l'esigenza di rispettare la dignità di ogni persona, sia nei rapporti di coppia come in quelli familiari. Di qui l'instaurarsi di nuove e più equilibrate forme di vita, attraverso anche una più chiara definizione dei ruoli di ogni membro della famiglia.

Sono cresciute l'attenzione e la consapevolezza delle responsabilità proprie del compito procreativo ed educativo dei genitori, come anche si è più chiaramente riscoperta la missione della famiglia in ordine alla edificazione della comunità ecclesiale e alla costruzione di una società più giusta e più umana.

Nonostante questo permangono, quando non si aggravano, elementi e fenomeni di segno opposto, che sconvolgono l'ordinata convivenza tra uomo e donna, marito e moglie, genitori e figli.

Assistiamo alla privatizzazione ed enfatizzazione della sessualità, spesso ridotta solo alla sua dimensione genitale. Si va dalla diffusione di rapporti sessuali prima e fuori del matrimonio, con una precocità sempre più frequente a partire dall'adolescenza, all'industria della pornografia che conosce anche episodi

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di sfruttamento dei minori e persino dei bambini, alla rivendicazione di una legittimità per qualsiasi tipo di attività sessuale, anche se vissuta in forme deviate.

Cresce il numero dei fallimenti coniugali nelle stesse giovani coppie, dovuti spesso a immaturità affettiva, a una non sempre sufficiente conoscenza reciproca e ad un'errata concezione dell'indipendenza dei coniugi tra loro.

L'idea stessa di comunità familiare viene spesso messa in discussione e svisata da parte di una cultura che, anche attraverso le proposte dei mass-media, non riconosce che il fondamento della famiglia sia nel matrimonio quale unione stabile di un uomo e di una donna, fondata sull'amore e pubblicamente manifestata e riconosciuta. Di qui il diffondersi delle convivenze di fatto, per le quali talvolta si chiede una forma di riconoscimento legale. Di qui anche il sorgere, in seguito alla fecondazione artificiale, di tentativi di legittimazione di modelli di coppia di genitori dove la differenza sessuale non risulta essenziale e necessaria.

Nell'ambito educativo, infine, si registra in alcuni genitori una precoce abdicazione alle proprie responsabilità o, viceversa, una possessività esasperata e soffocante nei confronti della libertà dei figli.

In una simile situazione diventa sempre più urgente un'approfondita riflessione sul significato della sessualità umana, per chiedersi in che rapporto essa stia con l'amore coniugale e con l'accoglienza e la solidarietà verso la vita.

Essenziale è pure la riflessione sui fondamenti antropologici e teologici della condizione maschile e femminile, per cogliere il senso della differenza e reciprocità sessuale e per precisare l'identità e la dignità personale dell'uomo e della donna.

Si potrà così comprendere più adeguatamente il valore della coppia e della famiglia, nella loro fondamentale missione di "custodire, rivelare e comunicare l'amore".

L'amore, quale fondamentale e nativa vocazione di ogni uomo, coinvolge la persona nella sua interezza, secondo la sua struttura di spirito incarnato. Parte integrante di questa struttura è la sessualità, che, oltre a determinare l'identità personale di ciascuno, rivela come ogni donna e ogni uomo, nella loro diversità e complementarità, siano fatti per la comunione e la donazione. La sessualità, infatti, dice come la persona umana sia intrinsecamente caratterizzata dall'apertura all'altro e solo nel rapporto e nella comunione con l'altro trovi la verità di se stessa. Così, la sessualità ― che pure è minacciata dall'egoismo e può essere falsificata e ridotta attraverso il ripiegamento di ciascuno su di sé ― richiede, per la sua stessa natura, di essere orientata, elevata, integrata e vissuta nel dinamismo di donazione disinteressata, tipico dell'amore.

Conferenza episcopale italiana, Evangelizzazione e cultura della vita umana (1989)

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COMPORTAMENTI

La sessualità è una dimensione costitutiva della persona: non è infatti limitata alla sola genialità, ma indica piuttosto il modo stesso di essere uomo o donna, poiché connota la persona in ogni sua espressione e modo di essere. Essa rappresenta una delle forme di espressione più originarie dell'essere umano, solo in parte collegata alla riproduzione. Come sottolineato dal contributo di F. Savater ("Un padre filosofo fa lezione di morale sessuale al figlio"), la sessualità è oggi uscita da quell'ambito peccaminoso in cui a lungo è stata relegata, per assurgere a dignitosa e insostituibile dimensione espressiva umana. Il suo significato pervade la vita intera ed esprime il mondo della persona: «Sorgente e connettivo della vita umana, la sessualità, che ne è all'origine, attraversa ogni vita e tutta la vita. Il che significa che la sua influenza entro il mondo personale non si riduce al suo ambito specifico, ma si ripercuote in tutte le sue manifestazioni». (G. PianaOrientamenti di etica sessuale, pag. 289). Appare chiaro, quindi, che l'espressione sessuale di sé rientra a pieno titolo nella concezione olistica di persona, fondamento dell'infermieristica ormai ampiamente accettato.

Una prima considerazione interessante, in proposito, riguarda proprio l'infermiere: in quanto persona, oltre che professionista, questi esprime in ogni momento la sua sessualità. Alcune manifestazioni di sé hanno una chiara connotazione sessuale, nonostante la loro larga diffusione: il modo in cui si indossa la divisa, il trucco e i monili in quantità accentuata possono risultare accentuazioni forzate o fuori luogo per un operatore che svolge la propria attività a continuo contatto con altre persone, occupandosi direttamente di loro. Al contrario, prendersi cura dell'altro significa avvicinarsi con tutta la sensibilità e il rispetto possibili all'utente, consapevoli che in una professione di aiuto non vi è spazio per un'espressione di sé accentuata, che porrebbe l’altro in imbarazzo.

In parallelo dobbiamo valutare che anche l'utente è portatore di una connotazione sessuale: il modo in cui laviamo e vestiamo una persona non può dirsi indifferente o neutrale rispetto alla sessualità dell'altro, poiché l’interazione tra individui non può non risentire dell'espressione sessuale dell'uno in dinamica con quella dell'altro. L’infermiere è infatti costretto a violare spazi molto personali: nel momento della malattia o del ricovero ospedaliero questi spazi devono improvvisamente spalancarsi, per l'utente, alla vistone e al contatto con una persona non scelta, non conosciuta.

Le persone che necessitano di essere assistite, in quanto non più autosufficienti, devono far entrare l'infermiere in aree intime, in genere non accessibili ad altri se non al partner, normalmente segnalate agli estranei con il pudore. È quindi necessaria all'infermiere una consapevolezza dei messaggi che invia e di quelli che riceve, qualunque sia l'età della persona che si trova ad assistere, in particolare con soggetti dell’altro sesso. L'osservazione antropologica rileva che esistono delle precise zone tabù, culturalmente variabili (cfr. Desmond Morris, "Zone del corpo tabù... Argomenti tabù"). Pertanto l’operatore, trovandosi a lavare e toccare la persona nelle aree intime, deve essere consapevole e attento al disagio che in questo modo procurerà all’assistito. Questa intrusione può essere limitata evitando di scoprire l'utente dove non necessario e mantenendo, finché possibile, la giusta distanza che ogni persona richiede. A tal proposito è utile accettare suggerimenti e indicazioni dall'utente stesso: «Dove preferisce che stia

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mentre si fa il bidet?», può darci la misura di quale distanza ponga a proprio agio l’assistito; oppure: «Mi dica lei quando è pronto per il bagno a letto»: può permettere all'utente di veder rispettati i propri tempi di adeguamento a un contatto intimo, vissuto così con minor senso di invasione. Trattandosi di uno spazio molto riservato, si rende comunque sempre opportuno chiedere permesso prima di entrare. Quando l’intrusione si rende inevitabile, deve avvenire in modo delicato e rispettoso della sessualità dell'altro.

Ma il ruolo dell’infermiere non si esaurisce nell'assistenza diretta al singolo. In relazione alla natura educativa della professione infermieristica, vi è un ruolo privilegiato che l'infermiere svolge nell'educazione sessuale, rivolta all'esercizio di una sessualità matura e responsabile. Secondo l'O.M.S., la salute sessuale è «l'integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali dell’essere umano, in modo da pervenire a un arricchimento della personalità umana e della comunicazione di amore». Gli interventi infermieristici a favore del singolo o di gruppi (campagne educative, educazione sessuale nelle scuole, attività nei centri diurni per disabili o pazienti psichiatrici, ecc.) possono essere svolti dall'infermiere in più contesti (consultori, scuole, servizi di comunità, residenze sanitarie, ecc.) e con varie modalità (colloqui personali, lezioni a gruppi, predisposizione e diffusione di materiale pubblicitario di educazione sanitaria, ecc.).

Il personale infermieristico ha quindi la possibilità di contribuire alla diffusione di una salute sessuale che contrasti sia l'erotizzazione corrente, sia la disinformazione: cfr. "La sessualità dei giovani". Vi è per esempio una educazione sessuale finalizzata a rendere informati i giovani, la donna in particolare, della possibilità di avere rapporti sessuali evitando una gravidanza non desiderata, al di là delle scelte morali o religiose.

Sempre a proposito dell'esperienza consultoriale, l'evoluzione rapida a cui è soggetta la società italiana pone l'infermiere a contatto con situazioni finora sconosciute ai nostri servizi: la presenza di persone di diversa estrazione geografica e culturale ci mette a confronto con eventi drammaticamente nuovi per noi, come l'infibulazione o l'escissione dei genitali esterni, a cui vengono ancora sottoposte le bambine africane, anche se stabilitesi nel nostro paese, fn tutti questi casi l'intervento infermieristico, in équipe con altri professionisti, può far sì che maggiori livelli di conoscenza e autoconsapevolezza possano favorire, anche all'interno di codici morali rigidi, come quello cattolico, musulmano o fondamentalista dei paesi arabi, il rispetto della dignità della persona quale portatrice di diritti. Ulteriori aspetti della convivenza tra culture diverse sono sviluppati dal capitolo dedicato al nursing transculturale.

La letteratura infermieristica sottolinea sempre più il ruolo di tutor dell'infermiere. La partnership del modello infermieristico promosso dalla bioetica può essere applicata a delle persone che si trovano in uno stato di estrema vulnerabilità a seguito del trauma subito: si veda in proposito il brano "Violenza alle donne e ruolo dell'infermiera". In questa esperienza straniera l'infermiera trova una connotazione particolare in termini di partnership, con un contributo che è veramente difficile pensare attribuito ad altri operatori. La specificità del rapporto infermiere-utente che la professionalità infermieristica può offrire trova qui uno dei suoi livelli massimi di esplicazione nella relazione d'aiuto realizzata verso soggetti che più di altri devono essere supportati nel "dar voce".

Anche il caso di Paola (cfr. "Una persona molto particolare") pone in evidenza la richiesta, implicitamente espressa, di essere tutelata rispetto a un particolare problema. Il modello promosso dalla bioetica assegna all'infermiere, infatti, il farsi portavoce dell'interesse dell'utente, facilitando la sua espressione di idee, scelte valori, soprattutto in quelle situazioni in cui la sua libertà potrebbe essere diminuita.

La storia di Paola ci riconduce al problema della libertà sessuale, affrontato anche col contributo di Marguerite Yourcenar: "Quando l'identità sessuale non si può esprimere". Rispetto

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alla libertà di espressione sessuale, l'infermiere si trova a fare i conti, come ogni altra persona, con pregiudizi diffusi e radicati nel nostro contesto sociale. Il limite tra la libertà sessuale e la necessità di regole entro cui esercitare l'espressione di sé sottolinea l’ambivalenza di questa dimensione umana, al tempo stesso forza espressiva e complementare tra i sessi, oppure modalità di sopraffazione sull'altro. Sorge perciò la necessità di riflettere e sugli atteggiamenti giudicanti, in cui l'infermiere potrebbe cadere nei confronti degli assistiti, e sui principi personali del professionista, che possono non allinearsi con lo stile di vita e le scelte dell'utente in tema di esercizio della propria sessualità. L'infermiera protagonista del caso ha rispettato le procedure, rivolgendosi alla caposala per esporre il problema di Paola nella sua globalità. Ha inoltre correttamente usato la confidenzialità (vedi Cap. 4). L'infermiera ha anche facilitato l'esperienza di malattia di Paola e ha soprattutto dimostrato pieno rispetto della persona, della sua sessualità e della sua autonomia, accettando, senza prendere posizione, lo stile di vita e le scelte dell'altro, dato che assistere non significa condividere o sostenere i valori dell'assistito.

Paola vive anche nel ricovero ospedaliero l'aggressione sociale rappresentata in questo caso dalla rigida organizzazione dell'assistenza. Il gruppo infermieristico in questione si trova a dover riflettere sull'organizzazione stessa dell'assistenza: in effetti, le regole ospedaliere sembrano a volte più finalizzate a se stesse che all'utente. D'altro canto la scelta di riservare a Paola un'assistenza del tutto personalizzata, a fronte dell'impossibilità di garantire a tutte le degenti uno stesso attento trattamento, può porre un problema di giustizia nell'assistenza. In questa circostanza il case management 1 potrebbe essere tuttavia una scelta opportuna da parte della caposala e del gruppo infermieristico, per rispondere in modo più mirato alle esigenze particolari di una persona che chiede un rispetto stretto del segreto professionale. Una discussione ampia nel gruppo infermieristico potrebbe ottenere il doppio effetto di una riduzione delle tensioni interne determinate dalla incompleta valutazione del caso, sebbene resti da considerare a priori la giustezza della trasmissione di un segreto professionale a tutti i colleghi, anche quando non strettamente collegato all'assistenza della persona.

1. Il case management consiste in una particolare modalità organizzativa dell'assistenza infermieristica, in base alla quale un infermiere fornisce un'assistenza globale a un utente per tutta la durata del turno, ricevendo direttive dal caposala. La visione olistica della persona è alla base di questa scelta organizzativa.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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PER APPROFONDIRE

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Buzzati G., Percovich L. (a cura di), Verso il luogo delle origini, La Tartaruga, Milano, 1992.

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Spinsanti S., Problemi antropologici e morali della identità sessuale, in "Medicina e Morale", 3/1982.

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LE SCELTE PROCREATIVE

FATTI

Un caso di coscienza per una ostetrica

I figli della provetta

Pro e contro la procreazione artificiale: la parola ai protagonisti

IDEE

In attesa di una legge

Figli si nasce o si diventa?

Quando lo scienziato frena la ricerca in nome dell'etica

La metafisica ci aiuta a risolvere le questioni morali?

NORME

● Legislazione

● Norme Deontologiche

● Norme Morali

COMPORTAMENTI

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FATTI

UN CASO DI COSCIENZA PER UNA OSTETRICA

Dorotea è una giovane ostetrica. Appassionatissima del suo lavoro, da due anni ha deciso di lasciare l'ospedale per occuparsi a tempo pieno dell'attività consultoriale in un quartiere periferico della città. Il suo lavoro si svolge all'interno di una équipe composta, oltre a lei, da una ginecologa e da uno psicologo; ricevono molte donne nel loro ambulatorio, in qualche caso anche coppie, per i vari problemi e consigli legati alla sessualità, contraccezione e aborto. Per l'interruzione volontaria di gravidanza (IVG) esiste un protocollo preciso, in parte derivante dalla normativa stessa, costruito proprio nel tentativo di muoversi nel rispetto di tutto e tutti.

Elena frequenta il consultorio della cittadina da diversi anni. Sia lei che il suo compagno provengono da un piccolo centro dell'Italia del sud, ma si sono trasferiti sul lago di Como per motivi di lavoro: entrambi insegnano nelle scuole superiori. La ragazza si reca periodicamente in consultorio per le visite di controllo e la consulenza contraccettiva. Qualche volta si è presentata anche in compagnia di Filippo, il suo partner, ma sostiene che, sia nel loro rapporto sessuale, sia per l'aspetto contraccettivo, le maggiori responsabilità toccano a lei. Filippo è un compagno affettuoso, attento e partecipe, ma in questo lato della loro vita di coppia ha un ruolo tendenzialmente passivo, sebbene non irresponsabile.

Il problema è emerso quando Elena, per un ritardo mestruale, gli ha comunicato che, a seguito della positività del test di gravidanza, intendeva discutere con lui della interruzione: «Non avevo intenzione di avere un figlio, poiché nella mia famiglia e nella sua è presente la talassemia e non posso pensare di mettere al mondo un figlio già in partenza pesantemente malato: è una responsabilità che non posso prendermi!», sostiene Elena nel suo colloquio in consultorio con l'ostetrica. «Filippo è sempre stato d'accordo con me e abbiamo sempre avuto una copertura contraccettiva nei nostri rapporti sessuali, perché il pensiero di una gravidanza mi ha sempre angosciato. Quindi, scoprendo di essere incinta, ho detto a Filippo che intendevo richiedere subito l'interruzione di gravidanza. Non l'avessi mai detto: Filippo si è infuriato, ha detto che in non l'ho mai tenuto in considerazione per tutto quello che ha riguardato questo aspetto della nostra relazione, mi ha urlato in faccia che un figlio non riguarda mai solo imo dei possibili genitori, ma tutti e due, e non potevo comunicargli una decisione già presa, ma una decisione da prendere. Capisco di non essere stata delicata quanto dovevo nei modi, ma la sostanza non cambia: noi non possiamo avere questo bambino, e lo avevamo già deciso!».

A seguito di questo primo colloquio, Elena è stata invitata a tornare a distanza di una settimana circa, come prevede il protocollo, assieme al suo partner. In questo secondo incontro con l'ostetrica e lo psicologo la problematica si è ulteriormente chiarita. «So quello che sostiene Elena ― ha affermato Filippo ― è tutto vero: la nostra pianificazione dei rapporti affinché una gravidanza non si verificasse, la riflessione a due sul futuro dei figli, se mai li avessimo messi al mondo... Ma era tutto in teoria, erano discorsi fatti senza il problema cocente addosso. Ora che un figlio è diventato realtà, per scelta o per caso poco conta, ora che c'è, è giusto dire no in assoluto, senza valutare, considerare che forse questo nostro figlio potrebbe vivere e crescere come tanti altri, come i figli dei nostri parenti e vicini che abbiamo visto crescere e vivere, sebbene con difficoltà, fino ad ora? Sono veramente molto in conflitto, ora che non dobbiamo più teorizzare ma scegliere anche per un bambino che non può farlo da solo. Io non credo di essere pronto all'aborto: tanti altri bambini ce l'hanno fatta».

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Filippo ha proseguito nelle sue riflessioni a voce alta spiegando che l'essere nato e vissuto in un luogo in cui questa malattia è ormai parte integrante della vita del gruppo ha ridimensionato il vissuto comune sulla talassemia, che ormai è parte del "destino" di ciascuno. I giovani, per esempio, soprattutto quelli che restano al paese, non fanno neanche indagini prenatali per sapere: sarà quel che il destino vorrà, perché non abbiamo nessun potere rispetto a questo.

Dorotea e il resto dell'équipe hanno cercato di facilitare il confronto tra i due, il chiarimento sulle reciproche valutazioni, priorità e scelte, ma certo non è facile. Dorotea rafforza le sue posizioni: «Filippo, ti rendi conto di quello che dici?!? Ti sembra questo il momento dei conflitti di coscienza? E poi ora dici tutto questo, ora che l'esperienza e la decisione dovrà passare prima di tutto sulla mia pelle... Non sono decisioni, queste, che si possono cambiare cammin facendo. Mi chiedi un prezzo troppo grosso da pagare... Dorotea, glielo spieghi anche lei che sapere che tuo figlio non avrà una vita normale rende di per sé non giusta la scelta di una gravidanza!».

La giovane ostetrica non riesce a smettere di pensare a questo caso, domandandosi quale sia il comportamento professionale più giusto da assumere rispetto a questa situazione.

I FIGLI DELLA PROVETTA

L'inquietante progresso delle tecniche riproduttive è ricostruito giornalisticamente dalla seguente carrellata sui protagonisti, così come l'opinione pubblica è venuta a conoscerli.

Luise Brown, la prima figlia della provetta, nasce in Inghilterra nel 1978 per opera di Patrick Steptoe, l'inventore dell'inseminazione artificiale. Da quel momento la fabbrica dei figli non conosce sosta. Gravidanze artificiali per giovani in età di concepimento, ma anche uteri in affitto, mamme a sessant'anni, donne che vogliono regalare un bambino alla propria figlia sterile e infine piccoli in provetta per le coppie gay.

Con la fecondazione artificiale nel 1985 Lisa Gilbert partorisce tre gemelli in una clinica del Marvland. Nel 1989 sono oltre 600 i figli della provetta che si riuniscono a Cambridge per festeggiare gli scienziati che hanno dato loro la vita. Tre anni dopo Claire Austin di Birmingham mette su un'agenzia per dare il suo utero in affitto. Scoppia il caso quando viene costretta ad abortire da una sua cliente perché l'ecografia svela che nascerà un mongoloide.

Nell'estate del 1992 la modenese Liliana Cantadori, 61 anni, mette al mondo un bimbo nella clinica di Carlo Flamigni, uno dei maghi della provetta in Italia. Nello stesso anno una settantenne vedova siciliana utilizza il seme del marito morto dieci anni prima.

È poi la volta del colore su ordinazione: nel 1992 una donna nera sposata a un bianco che non può avere gravidanze naturali si fa donare l'ovulo da un'amica dalla pelle chiara.

Ma a riempire le pagine di tutti i giornali è il caso della miliardaria inglese di 59 anni fatta partorire nel 1993 dal ginecologo romano Severino Antinori. A Londra le avevano negato il permesso di praticare la fecondazione artificiale proprio a causa dell'età; Antinori invece non si tira indietro e, donando alla signora inglese gli ovuli di una giovane italiana, riesce a far nascere due gemelli.

Pochi mesi fa il caso di Regina Bianchi, abruzzese di 42 anni, che avrebbe dovuto essere la nonna del suo bambino avendo prestato l'utero alla figlia: ma a otto mesi e mezzo di gravidanza un aborto spontaneo uccide il suo sogno.

Insieme alle discussioni dei comitati di bioetica cominciano anche i problemi legali. Fa scalpore la sentenza firmata qualche mese fa da un giudice del tribunale di Cremona: Antonio

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Anselmi ottiene il disconoscimento di paternità di Mattia, il bambino che lui e la moglie avevano deciso di far nascere con l'inseminazione artificiale a causa della sua sterilità. Ponente Ligure è invece la patria della bambina con due mamme: nel giugno 1994 nasce Sara, la figlia di Livia e Francesca. È un nuovo record in Italia anche se il loro ginecologo ammette di essersi occupato di un caso simile già dieci anni fa. Pochi giorni fa la regina delle mamme-nonne, Rossana Dalla Corte, 63 anni, partorisce Riccardo: è ancora Antinori il ginecologo che segue la donna che aveva perso il suo unico figlio diciassettenne in un incidente.

È invece cronaca di ieri la nascita del piccolo inglese Guy, concepito tre anni e mezzo fa insieme ai suoi due gemellini, ma venuto alla luce solo ora visto che il suo embrione era stato surgelato. I tre fratellini sono così gemelli perché concepiti contemporaneamente, ma la loro età anagrafica è diversa.

Orazio La Rocca, Da Luise a Riccardo i figli della provetta

PRO E CONTRO LA PROCREATONE ARTIFICIALE:

LA PAROLA AI PROTAGONISTI

Presentiamo alcune significative testimonianze sui molteplici aspetti coinvolti nella procreazione artificiale, che ci fanno cogliere appieno la complessità del fenomeno.

Ecco il racconto di una donna che ha recentemente avuto un figlio dopo la FIVET omologa: «Era mio marito che insisteva maggiormente; mio marito e la sua famiglia, mentre io e la mia famiglia eravamo più propensi all'adozione. Prima che io mettessi al mondo questo bambino non ero presa in considerazione dai parenti con cui vivevo. Ora le cose sono un po' cambiate. Prima di avere il bambino mi sentivo handicappata e quasi non uscivo di casa. Ora mi piace il fatto che tutti mi guardino e porto mio figlio come una bandiera».

Una donna che ha avuto un figlio con la FTVET racconta così la sua esperienza di maternità: «Dopo aver tanto desiderato una gravidanza, ora vivo tutto in modo grave. Mi sono messa al di sopra di tutto e di tutti. Sono apprensiva, non mi fido di nessuno. Non sopporto che il mio bambino pianga e ad ogni piccolo gemito corro da lui. Mi dimentico del contributo di mio marito. Riconosco di essere egoista ma penso che sono io che ho sopportato tutti quei dolori atroci. Mio marito è geloso del bambino e mi dice che io lo rovinerò. Io dovrei tornare all'insegnamento ma il solo pensiero mi fa star male. Spero che col tempo ciò svanisca. Ho gli incubi che qualcuno possa togliermi il bambino. È mio».

Uno psicoterapeuta di un centro Aied riferisce sul vissuto maschile: «Di norma l’atteggiamento paterno degli uomini che hanno fatto ricorso all'inseminazione eterologa è molto affettuoso: essi dedicano volentieri il loro tempo al figlio e non sembrano vedere in questa nuova presenza un peso o un intralcio. Probabilmente ciò è da attribuire alla maggiore elaborazione della scelta procreativa che necessariamente si impone a questi uomini e che permette loro di superare l'ambivalenza generalmente presente nei ruoli paterno e materno e di vivere quindi la responsabilità di un figlio più come gioia che come onere».

Un donatore afferma: «Ero già un donatore di sangue e avevo disposto che alla mia morte gli organi del mio corpo fossero usati per salvare altri esseri umani… mi pareva che anche questo fosse un modo per rendersi utile al prossimo». Un altro racconta così la sua motivazione: «Quello che per me è importante, quello che conta è solo la paternità morale. Anche se decidessi di mettere al mondo un figlio mio, non credo che smetterei di fare il donatore. Lo considero un servizio sociale».

Anna Oliverio Ferraris et al, La procreazione artificiale

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IDEE

IN ATTESA DI UNA LEGGE

La confusa situazione italiana in fatto di interventi rivolti alla procreazione assistita è espressa in questo articolo recente, apparso a documentare la realtà degli interventi di procreazione assistita.

Se andiamo a rivedere ciò che è stato scritto ed elaborato in questi ultimi anni sia dall'ostetricia e ginecologia "ufficiale", sia dalle riflessioni etico-sociali sul tema dei percorsi riproduttivi delle donne l'impressione è che si siano significativamente spostati alcuni termini del problema. Infatti, se negli anni '80 i temi della salute della donna si erano concentrati sui problemi del parto e della sua umanizzazione, della contraccezione intesa come possibilità di poter separare la sessualità dalla riproduzione e dall'aborto come tentativo di rapportarsi con l'istituzione nei confronti di una realtà che fino a poco tempo fa, per lo meno in Italia, era negata o penalizzata, negli anni '90 il dibattito si è concentrato principalmente sulle nuove tecnologie della riproduzione. Sicuramente ciò che di comune esiste in termini di analisi in questi due momenti storici è il pesante coinvolgimento del concepimento in questo processo di medicalizzazione che già era avvenuto per la gravidanza, il parto e la scelta di maternità.

Le nuove tecnologie riproduttive (Ntr) vengono presentate come aiuto alle donne sterili da parte della medicina. Ma tali tecnologie sono state estese rapidamente a varie situazioni: donne senza problemi di sterilità, ma con partner sterile, o coppie l'origine della cui sterilità è sconosciuta. Per molte studiose e ricercatrici il vero problema è il fatto che si sa poco delle cause crescenti di sterilità in molti paesi industrializzati, mentre la ricerca dovrebbe rivolgersi più ai modi di vivere, di lavorare, di curare (vedi le numerose cause iatrogene di sterilità) che alle singole sterilità. È stato documentato che le Ntr sono a tutt'oggi in grado di rispondere solo al 7% dei casi che si rivolgono ai centri attrezzati. (...)

Tutte queste considerazioni riportano i nuclei centrali delle riflessioni a un contesto sociale etico di cui bisogna tener conto prima di percorrere strade ardite della ricerca scientifica; senza dimenticare che oggi dobbiamo fare i conti con un assetto mondiale della popolazione, con la sempre crescente divisione tra sviluppo e sottosviluppo e che tutte le tecnologie esportate possono avere usi e fisionomie differenti quando vengono trasferite, ad esempio, nel Terzo Mondo. (...)

Secondo i dati forniti dalla Società Italiana di Fertilità e Sterilità, il registro nazionale dei centri che si occupano di Ntr al maggio 1993 mostra l'esistenza di 57 strutture, di cui 28 sono pubbliche e 29 private. I prezzi medi nel privato sono da circa 500.000 a 2.000.000 di lire per un ciclo di inseminazione artificiale e da 5.000.000 a 10.000.000 di lire per una fertilizzazione in vitro. Per l'esecuzione delle medesime tecniche, il ticket ospedaliero è di 300.000-500.000 lire per l'inseminazione artificiale e di circa 1.000.000 per la FIV.

Com'è noto, in Italia non esiste ancora una legge che regolamenti tutta la materia delle Ntr: esistono molte proposte in Parlamento, ma la discussione non è mai stata affrontata. E intanto si lascia che tutta questa materia che tratta di un "figlio voluto a tutti i costi" o la scelta di una maternità assistita sia condotta nel silenzio privato della coppia, molto spesso lasciata sola nel suo successivo percorso; o nella "difesa" pubblica della scelta di diventare madre a 63 anni, portata a modello di una presunta libertà astratta da ogni limite etico e sociale. Forse, sviluppare la ricerca per capire e per ridurre le cause della fertilità, incentivare politiche sociali verso la riproduzione che diano alle donne il controllo

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su questo aspetto della loro vita e dell'esercizio della libera scelta di fronte ai diversi tipi di servizi nel campo riproduttivo possono essere serie alternative al reale progresso in questo campo così complesso di interferenze tra scienza, ricerca e servizi di salute per le donne.

Graziella Sacchetti, Fertilità, contraccezione e aborto

FIGLI SI NASCE O SI DIVENTA?

Le nuove tecnologie applicate alla riproduzione non presentano solo problematiche di tipo biologico e medico, ma sconvolgono il modo tradizionale di concepire la generazione e i rapporti di parentela. La società nel suo insieme, e i professionisti della sanità in particolare, sono costretti a confrontarsi con questioni che si affacciano contemporaneamente sul diritto, l'antropologia e l'etica.

Il nocciolo della questione sta proprio qui, nel capire cosa pensiamo, cosa diciamo e cosa sappiamo della procreazione assistita. Cosa ce ne facciamo di embrioni congelati, di donazioni, di madri e di padri biologici, distinti e separati da quelli affettivi, di mamme-zie o di mamme-nonne. Dove li mettiamo questi figli della provetta? Non è tanto o solo un problema di modelli, di identificazione o di proiezioni psicologiche, è un problema di rappresentazione. La questione non si riduce soltanto al come si diviene essere, alla sua modalità, ma al come ― nel tempo ― l'esserci prende forma, diventa uno, persona che liberamente ed autonomamente vaga in un mondo in cui non vi è la "rappresentazione di se stesso". Il concetto di identità viene travolto, noi siamo ciò che gli altri ci permettono di essere, direttamente od indirettamente.

Non è certamente ― perlomeno per il pensiero laico ― l'aspetto strettamente biologico e procreativo, la scissione di sessualità e affettività a creare contraddizione o incoerenza. Questa scissione è piuttosto il punto di partenza, il trampolino di lancio per la ridefinizione, in senso antropologico, delle più elementari strutture parenterali. La nozione occidentale di parentela è infatti basata sul concetto di discendenza e non di affinità. E sul concetto di discendenza affonda le radici la legislazione. Ma se qui avviene una sostituzione, evidente e dirompente, cosa ne facciamo delle regole create su strutture a questo punto trasformate? E cosa significano allora affinità, relazione, appartenenza affettiva e non più biologica?

Madri surrogate (e chi sono quelle biologiche o quelle affettive?), padri donatori e nuovi figli, relazioni multiple, biologiche e psicologiche, sociali e legali, tutte da riscrivere in una cornice che contenga allo stesso tempo gli uni e gli altri. La maternità surrogata forse instilla dubbi più di altro. Il "genitore" reale si perde nella gestazione, la gravidanza è un tempo che ha sua funzione, senza la quale non sarebbe forse possibile accettare il parto, la nascita e la relazione che ne consegue. Ridefinire significa anche ricostruire nuove relazioni parentali, ovvero mettersi nei panni di chi il cambiamento non solo lo produce, ma lo vive. Mettersi nei panni allora non solo dei genitori-zii o dei genitori-nonni, ma del "bambino artificiale", del bambino cioè che porla il peso di una trasformazione imminente, senza pan, storica e antropologica. Il bambino diventa artefice senza coscienza, il bambino-adulto sarà la risposta del successo o dell'insuccesso della pratica, dal suo benessere o dal suo malessere dipenderà la continuità, la ripetizione, la riproduzione ― ovviamente non nell'accezione strettamente biologica ― di un altro uguale a se stesso. Ma sino ad allora cosa produrremo, bambini o "riuscite provette"? Affetti o "tecniche avanzate", e a seguire leggi e documenti altrettanto "artificiali?"

Il rischio è di disporre norme e confini nell'assoluta disattenzione. La pratica delle nuove tecniche riproduttive porta con sé l'ignoto, e da questa considerazione non si può prescindere. Come si può legiferare quando si è ancora nell'ambito delle supposizioni? Ciò che sino a questo momento è certo è solo che tecnicamente è possibile intervenire sulla procreazione a più livelli. Oltre a questo, il caos.

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Cosa se ne sa ― al di là dei luoghi comuni e delle facili considerazioni ― di quel che accadrà a questi figli? La cultura passa per attimi che sono eterni, si modella sul tempo e sulla ripetizione, sulla consacrazione e definizione dei simboli. Non è un fatto astratto, plasmabile a seconda delle circostanze, delle convenienze e dei risultati delle più avanzate tecniche. Il cambiamento culturale avviene attraverso lunghi e complessi passaggi generazionali, e non segue certo i tempi della scienza. Limitare le pratiche e quindi legiferare ha allora un solo importante obiettivo: quello di prendere tempo, di concedersi spazio per capire, per andare oltre.

Cosa hanno fatto gli altri paesi e cosa fanno? Il far west lo hanno previsto e regolamentato, hanno posto limiti e confini, circoscritto bisogni e desideri. Ma non è certo finita qui, adesso arriva la ricerca, l'approfondimento, su più versanti, perlomeno quello antropologico e psicologico.

Monica BonaccorsoProve di laboratorio su figli e discendenti

QUANDO LO SCIENZIATO FRENA LA RICERCA IN NOME DELL'ETICA

Dopo aver svolto un ruolo pionieristico nell'ambito della procreazione artificiale, avendo contribuito alla nascita di Amandine, la prima "figlia della provetta" francese, Jacques Testati ha proposto una specie di "moratoria" nella corsa al controllo medico-tecnologico della procreazione. In questo brano fornisce alcune ragioni della sua decisione di attenersi a una pausa di riflessione, mettendo in luce il rapporto tra scienza ed etica.

Ci rimangono alcuni anni felici prima di essere in grado di manipolare il genoma umano, ma sappiamo già stabilire la carta genetica che è l'autentica carta d'identità; sappiamo inoltre individuare con diagnosi sempre più precoci i futuri indesiderabili, portatori di deviazioni irreversibili rispetto alla norma. In termini logici inconfutabili, alcuni auspicano una diffusione sempre più ampia di tali diagnosi per scoraggiare certi matrimoni o evitare determinate nascite che pure siano in grado di alterare la qualità di una società moderna. Poiché, per le tare più gravi, l'eliminazione del feto viene già praticata, si pone, ancora una volta, la necessità di definire una soglia, quella che rende l'uomo intollerabile all'uomo.

L’obiettivo immediato e grandioso dei metodi di procreazione assistita passa attraverso le tecniche che stabiliscono l'identità. E ritengo sia giunto il momento di fare una pausa. Il ricercatore dovrebbe sentire l'esigenza di porre un limite a se stesso, in quanto non deve necessariamente essere l’esecutore di ogni progetto che nasca nell'’ambito della logica specifica della tecnica. Posto nel crogiuolo della spirale delle varie possibilità, intuisce prima di chiunque altro quale direzione assumerà la curva, quale desiderio appagherà, ma anche tutto ciò che inevitabilmente reciderà, metterà in discussione, rinnegherà. Io, ricercatore nel campo della procreazione assistita, ho deciso di fermarmi. Non intendo interrompere la ricerca che ha lo scopo di migliorare ciò che già stiamo facendo, ma quella che tende a un cambiamento radicale della persona umana, nell’area indefinita in cui la medicina volta a favorire la procreazione si confonde con l’arte della predizione. (...)

La ricerca scientifica ha la sua logica specifica che non si deve confondere con la dinamica cieca del progresso. La logica della ricerca si applica persino a realtà che non hanno il profumo seducente del progresso, ma non può essere applicata ad altre che hanno già il gusto amaro di un enorme pericolo per l’uomo. Io rivendico il diritto di una logica che rifiuti la scoperta, di un'etica che rinunci alla scoperta. Si deve smettere di fingere che la ricerca sia neutra e che solo le sue applicazioni possano essere definite buone o cattive. Nessuno sarebbe in grado di dimostrare che una scoperta non è stata applicata se corrispondeva a un'esigenza preesistente o addirittura creata dalla scoperta stessa. È

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necessario che le scelte etiche si operino in un momento decisamente anteriore alla scoperta. (...)

Esigere un'etica che sappia rifiutare la ricerca, significa contestare la concezione semplicistica che sostiene la legittimità e la fondatezza di una concatenazione automatica di processi. Rivendicare il diritto al progetto ambizioso di capire ciò che si è già realizzato e di cercare di teorizzare quanto si realizzerà in futuro. Significa quindi provare l'esigenza quasi fisica, carnale, di partecipare a una riflessione pluridisciplinare sul significato della produzione scientifica.

Jacques Testart, L'uovo trasparente

LA METAFISICA CI AIUTA A RISOLVERE LE QUESTIONI MORALI?

Lo studioso di bioetica americano Thomas Murray applica il metodo di osservazione proprio delle scienze sociali per analizzare il dibattito sull'aborto. A suo avviso, si potrebbe trovare una via di maggiori consensi se il dibattito non si arenasse nelle questioni metafisiche relative alla essenza delle cose e affrontasse invece problemi più pragmatici.

Come scienziato sociale, Murray sa riconoscere il fatto che il dibattito sull'aborto, che divide la società in due campi contrapposti, è ampiamente sostenuto dalla retorica. Realisticamente, è difficile credere che la gente che milita nell'uno o nell'altro schieramento sull'aborto sia molto esercitata in argomenti astratti e astrusi, quale per esempio il dibattito se il grumo di cellule non differenziate che costituisce un embrione nelle prime fasi del suo sviluppo sia una "persona" (...). Fare del dibattito sull'aborto una disputa metafisica sulla personalità del feto è, agli occhi di uno studioso che sa riconoscere il posto che l'etica occupa nella società, fuorviarne e distruttivo. Questi argomenti non riescono a persuadere se non coloro che sono già disposti a essere d'accordo. Malgrado questo clamoroso insuccesso, sia l'una sia l'altra parte continua a scagliarsi contro argomenti vecchi e nuovi, con nessun risultato. Lo scienziato sociale vi riconosce uno di quei comportamenti chiamati "perseverazione" e considerati un segno di disfunzione delTorganismo. Per quanto manifestamente non riescano a raggiungere lo scopo, gli animali e gli uomini... continuano a farvi ricorso.

Per Murray l'insistenza a inquadrare il dibattito pubblico sull'aborto entro la disputa sul carattere di persona del feto può essere considerata una "perseverazione metafisica"; ed è tanto disfunzionale quanto il continuo premere la leva sbagliata da parte del topo nella sua gabbietta, dopo essere stato condizionato a questo comportamento. Chi osserva il dibattito sull'aborto con lo spirito delle scienze sociali, inoltre, non può non rendersi conto che temi come lo statuto morale dell'embrione appaiono sostanzialmente dipendenti dalle premesse di ognuno. Il dibattito è interamente orientato al risultato.

In altre parole, alcuni "sanno" che l'aborto è un assassinio ed è moralmente sbagliato, mentre altri sono ugualmente convinti che l'aborto è molto meno di un assassinio, se pur moralmente sospetto: gli uni e gli altri attingono gli argomenti più dalla convenienza che dalla convinzione. Sentiamo passare una ventata di aria fresca sull'annoso dibattito circa la regolamentazione dell'aborto, quando l'attenzione è spostata su una questione in genere trascurata: se la nozione generale di persona ci aiuta o non ci aiuta a risolvere specifiche problematiche morali.

Ora, usare il concetto di persona per illustrare ciò che si crede sia in gioco negli argomenti pro e contro il permettere l’aborto, si rivela un errore. Tale concetto è una specie di abbreviazione stenografica, che introduce una semplificazione e annulla distinzioni cruciali, proprio là dove sono più necessarie per considerare i nodi in tutta la loro complessità e particolarità.

Murray invita piuttosto a domandarsi se gli embrioni o i feti sentono dolore, e quanto sia importante questo fatto; che impatto avrebbe sulla vita delle donne una fecondità non regolata; se l'aborto

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conduce a un diminuito rispetto per altri stadi della vita umana; quali effetti perversi derivano dall'intrusione dello stato nei più intimi dettagli della riproduzione umana, o l'egemonia della professione medica sul controllo della fertilità. Queste e analoghe questioni, benché anch'esse difficili da porsi, non sono ― a differenza del dibattito sulla persona ― delle pretese metafisiche sulla essenza delle cose. Presentano il vantaggio che le posizioni non sono già opposte fin dall'inizio, come avviene quando partono da premesse metafisiche assolutamente inconciliabili. E fanno immaginare che sia possibile ottenere qualche grado di compromesso.

Sandro SpinsantiLa bioetica. Biografie per una disciplina

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NORME

LEGISLAZIONE

Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria di gravidanza

Art. 1 - Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le Regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l'aborto sia utilizzato ai fini della limitazione delle nascite.

Art. 2 - I consultori familiari (...) assistono la donna in stato di gravidanza:

d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza. I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base o di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita. La somministrazione su prescrizione medica, nelle strutture sanitarie e nei consultori, dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile è consentita anche ai minori.

Art. 4 - Per l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali, o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsione di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico (...) o a una struttura sociosanitaria a ciò abilitata dalla Regione, o a un medico di sua fiducia.

Art. 5 - Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza, sia dopo il parto (...)

Art. 9 - Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione (...). L'obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificatamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento (...). L'obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo (...)

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NORME DEONTOLOGICHE

Art. 41

Fecondazione assistita

La fecondazione assistita ha lo scopo precipuo di ovviare alla sterilità al fine legittimo della procreazione.

Sono vietate nell'interesse del bene del nascituro:

a. tutte le forme di maternità surrogata;

b. forme di fecondazione artificiale al di fuori di coppie eterosessuali stabili;

c. pratiche di fecondazione assistita in donne in menopausa non precoce;

d. forme di fecondazione artificiale dopo la morte.

Inoltre è prescritta ogni pratica di procreazione assistita ispirata a pregiudizi razziali; non è consentita alcuna selezione del seme ed è bandito ogni sfruttamento commerciale, pubblicitario, industriale di gameti, embrioni e tessuti embrionali o fetali. Infine sono vietate pratiche di fecondazione assistita in studi, ambulatori o strutture sanitarie privi di idonei requisiti.

Art. 42

Interventi sul genoma e sul concepito

Ogni intervento sul genoma umano non può che tendere alla prevenzione e alla correzione di condizioni patologiche nel prodotto del concepimento Sono vietati trattamenti del prodotto del concepimento che non abbiano finalità di prevenzione e correzione di condizioni patologiche.

Non è consentito procedere a test predittivi di malattie genetiche se non per finalità di prevenzione.

Sono vietate in ogni caso le manipolazioni genetiche.

FnomceoCodice di deontologia medica, giugno 1995

NORME MORALI

Il generare

11. Gli operatori sanitari assolvono il loro compito qualora aiutino i genitori a procreare con responsabilità, favorendone le condizioni, rimuovendone le difficoltà e tutelandone da un tecnicismo invasivo e non degno del procreare umano.

La manipolazione genetica

13. Interventi non propriamente curativi, miranti alla produzione di esseri umani selezionati secondo il sesso o altre qualità prestabilite, alternativi comunque del corredo genico dell’individuo e della specie umana, sono contrari alla dignità personale dell’essere umano, alla sua integrità e alla sua identità. Non possono quindi in alcun modo essere giustificati in vista di eventuali conseguenze benefiche per l'umanità futura: nessuna utilità sociale o scientifica e nessuna motivazione ideologica potranno mai motivare un intervento sul genoma umano che non sia terapeutico, cioè in se stesso finalizzato al naturale sviluppo dell'essere umano.

La procreazione artificiale

21. La trasmissione della vita umana è affidata dalla natura a un atto personale e cosciente e, come tale, soggetto alle santissime leggi di Dio: leggi immutabili e inviolabili che vanno riconosciute e osservate. Tale atto personale è l'intima unione d'amore degli sposi, i quali donandosi totalmente a vicenda, donano

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la vita. È un unico e indivisibile atto, insieme unitivo e procreativo, coniugale e parentale.

22. La dignità della persona umana esige che essa venga all'esistenza come dono di Dio e frutto dell'atto coniugale, proprio e specifico dell'amore unitivo e procreativo tra gli sposi, atto che per la sua stessa natura risulta insostituibile. Ogni mezzo e intervento medico, neU'ambito della procreazione, deve avere una funzione di assistenza e mai di sostituzione dell'atto coniugale.

24. È illecita la FIVET omologa. Essa risponde non alla logica della "donazione", che connotaci generare umano, ma della "produzione” e del "dominio", propria degli oggetti e degli effetti. Qui il figlio non nasce come "dono" d'amore, ma come "prodotto" di laboratorio.

25. Il desiderio del figlio, per quanto sincero e intenso, da parte dei coniugi, non legittima il ricorso a tecniche contrarie alla verità del generare umano e alla dignità del nuovo essere umano. Il desiderio del figlio non è all'origine di alcun diritto al figlio. Questi è persona, con dignità di "soggetto". In quanto tale non può essere voluto come "oggetto" di diritto. Il figlio è piuttosto soggetto di diritto: c'è un diritto del figlio ad essere concepito nel pieno rispetto del suo essere persona.

26. Inaccettabile è l'inseminazione "post mortem", cioè con seme, depositato in vita, del coniuge defunto.

27. Le tecniche eterologhe sono gravate dalla negatività etica di un concepimento dissociato dal matrimonio. Ulteriore motivo di delegittimazione è la mercificazione e la selezione eugenetica dei gameti.

28. Per gli stessi motivi, aggravati dall'assenza di vincolo matrimoniale, è moralmente inaccettabile la fecondazione artificiale di nubili e conviventi.

29. Ugualmente contraria alla dignità della donna, all'unità del matrimonio e alla dignità della procreazione della persona umana è la maternità "sostitutiva". Significa dissociare la gestazione dalla maternità, riducendola a una incubazione irrispettosa della dignità e del diritto del figlio ad essere concepito, portato in grembo, messo al mondo ed educato dai propri genitori.

L'aborto

139. L'inviolabilità della persona umana dal momento del concepimento, proibisce l'aborto come soppressione della vita prenatale. Questa è una diretta violazione del diritto fondamentale alla vita dell'essere umano e costituisce un "abominevole delitto".

140. La Chiesa, come ogni uomo amante della vita, non può assuefarsi a questa mentalità e alza la sua voce a tutela della vita, in particolare di quella indifesa e disconosciuta, qual è la vita embrionale e fetale.

Essa chiama gli operatori sanitari alla fedeltà professionale, che non tollera alcuna azione soppressiva della vita, malgrado il rischio di incomprensioni, di fraintendimenti, ed anche di pesanti discriminazioni che questa coerenza può comportare. La fedeltà medico-sanitaria delegittima ogni intervento, chirurgico o farmaceutico, diretto a interrompere la gravidanza in ogni stadio.

142. È atto abortivo anche l'uso di farmaci o mezzi che impediscono l'impianto dell'embrione fecondato o che ne provocano il distacco precoce. Coopera con l'azione abortiva il medico che consapevolmente prescrive o applica tali farmaci o mezzi.

143. In presenza di una legislazione favorevole all'aborto, l'operatore sanitario deve opporre il suo civile ma fermo rifiuto. L'uomo non può mai obbedire a una legge intrinsecamente immorale, e questo è il caso di una legge che ammettesse, in linea di principio, la liceità dell'aborto.

Questo vuol dire che medici e infermieri sono obbligati a sollevare obiezione di coscienza. Il bene grande e fondamentale della vita rende tale obbligo un dovere morale grave per il personale sanitario, indotto dalla legge a praticare l'aborto o a cooperare in maniera prossima all'azione abortiva diretta.

144. Oltre che segno di fedeltà professionale, l'obiezione di coscienza dell'operatore sanitario, autenticamente motivata, ha l'alto significato di denuncia sociale di una ingiustizia legale perpetrata contro la vita innocente e indifesa.

145. La gravità del peccato d'aborto e la facilità con cui lo si compie, con il favore della legge e della

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mentalità corrente, inducono la Chiesa a comminare la pena della scomunica al cristiano che lo provoca. Chi procura l'aborto ottenendo l'effetto incorre nella scomunica latae sententiae 2.

Consiglio per la pastorale degli operatori sanitariCarta degli operatori sanitari

1. Codice di Diritto Canonico, can 1398. "Latae sententiae" vuol dire che non è necessario che la scomunica sia pronunciata dall'autorità in ogni singolo caso. Vi incorre chiunque procura l'aborto, per il semplice fatto di procurarlo volontariamente, e sapendo di incorrervi.

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COMPORTAMENTI

Mai come nel caso della manipolazione genetica si è potuto affermare che la scienza ha dato corpo ai sogni, rendendo possibile ciò che è stato a lungo fantascienza. Così gli scenari più inverosimili diventano reali grazie al progresso scientifico, che sempre più entra nel quotidiano, modificando impercettibilmente ma gradualmente le nostre idee sulla procreazione e sulla vita, ponendoci però di fronte a domande sostanziali sul futuro dell'umanità. Nel 1989, con la Human Genome Organization, l'esplorazione completa del genoma umano ha avuto inizio: si prevede che nell'arco di una quindicina di anni i 100.000 geni e i 3 miliardi di caratteri di DNA cui sono legati non dovrebbero avere più segreti. L'esplorazione del genoma non può dirsi evento innocente o neutrale. Essa è l'orizzonte più vasto e comprensivo entro cui vanno collocati t vari interventi biomedici che ci hanno permesso una sempre maggiore padronanza della procreazione umana.

Il brano "Figli si nasce o si diventa?" introduce l'aspetto delle tecniche riproduttive artificiali (TRA) che ci interessa evidenziare in questa sede. L'intervento infermieristico pone il suo accento, infatti, sull'aspetto relazionale connaturato al divenire genitori e figlio, piuttosto che al mero evento scientifico. Ci sembra quindi opportuno insistere sulla valenza educativa e relazionale dell'azione infermieristica, piuttosto che sulla discussione della liceità o moralità delle TRA, problema che investe l'infermiere come ogni altro individuo della società. Lo specifico infermieristico può infatti fornire un importante contributo a un intervento che non può altro che essere di équipe, vista la complessità dei problemi riconducibili alla procreazione medicalmente assistita.

La tecnica tende ad apparire anonima, neutrale, impersonale; la realizzazione di quanto la scienza permette sembra rendere a volte come necessario e acquisito ciò che in realtà è ancora tutto da ponderare. Ma, in un approccio più globale, l'osservazione dell'operatore deve spostarsi dal fatto in sé all'evento vissuto dai protagonisti; in altre parole, dalla cosa alla relazione. La psicologia, e in particolare la psicanalisi, ci ha permesso di comprendere che ognuno di noi prende origine da un corpo che lo accoglie interamente, rispondendo per nove mesi a tutti i suoi bisogni. L'esperienza gestazionale dà alla coppia e al bambino un naturale proseguimento o inizio delle rispettive storie individuali. Per ognuno di noi la storia individuale non inizia in effetti con la nascita, ma con il desiderio di avere un figlio da parte dei genitori, con le fantasie che i due costruiranno su di lui per un lungo periodo, con le sensazioni che andranno a costituire quel passato che è parte integrante della storia di ogni persona.

Nel caso di una nascita contraddistinta da una tecnica riproduttiva, questo processo subisce delle modificazioni radicali. Dal senso di fallimento più o meno conscio che la coppia sterile vive, oggi è possibile uscire con una soluzione sempre più a portata di mano. Basti pensare che fino a non molti anni fa per diagnosticare una sterilità di coppia si ritenevano necessari almeno 4 anni di rapporti non protetti, mentre oggi l'attesa è scesa a solo un anno. In tutto questo il ruolo dell'operatore può rivelarsi decisivo rispetto alle scelte. Vi è da riflettere sul significato più intrinseco della sterilità, su come questa si inserisce nel rapporto di coppia, così come, in parallelo, sul rischio che si richiedano alle coppie sterili, come a quelle che adottano, standard di genitorialità che neppure i padri e le madri naturali spesso possiedono.

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Ecco perciò che l'azione di counseling verso la donna e la coppia dovrebbe trovare più ampi spazi da parte dell'équipe degli operatori, per condurre i due partner a maggiori livelli di consapevolezza. In questo l'infermiere può contribuire in modo rilevante, in quanto primo operatore con cui in genere la donna o la coppia vengono in contatto in ambito consultoriale o ambulatoriale. Per esempio, è importante che siano chiarite le motivazioni che portano eventualmente a richiedere una fecondazione artificiale rispetto all'adozione, che venga affrontato il "segreto di famiglia" che spesso una fecondazione così raggiunta porta con sé, che sia affrontato il fantasma del donatore che rischia di frapporsi inconsapevolmente nella coppia. Osserva in proposito la psicanalista Silvia Vegetti Finzi: «Anziché lasciare al destino una rivelazione che appartiene al registro della tragedia, è forse meglio, come nel caso dell'adozione, provvedere in tempo ad instaurare, nella famiglia, un regime di verità» (Biotecnologia e nuovi scenari familiari). L'équipe di riferimento della coppia dovrebbe perciò accompagnare i due genitori nel tempo, senza concentrare o limitare la sua azione al momento della scelta e della gravidanza. Verosimilmente, vi è un periodo comunque delicato, anche successivamente, nei quale alla coppia dovrebbe essere consentilo un accesso facilitato al counseling, senza tuttavia creare la dipendenza o la medicalizzazione dell'essere genitori.

Vi è inoltre un aspetto deontologico importante da sottolineare in questa problematica: le professioni sanitarie devono certo proporre, al loro interno e nella società stessa, una riflessione sul più ampio fenomeno del dare la vita, evitando però di assumere su di sé scelte che forse appartengono ad altri ambiti. Vi è da domandarsi, infatti, a chi può competere la scelta di chi, dove e come debba scegliere in tema di TRA. Le parti del Codice deontologico della professione medica registrano un atteggiamento restrittivo che va prevalendo presso i medici.

Un altro delicato aspetto del fenomeno è la considerazione della donna che le TRA portano in sé: il corpo femminile non viene in genere tutelalo come un "bene". Tutte le tecniche insistono pesantemente sulla donna: esse non curano la sterilità, non mirano a guarire, ma semplicemente a sostituire, con manipolazioni che alterano un momento fondamentale dell'esistenza di almeno tre persone: madre, padre, figlio. La manipolazione tecnica infrange il mistero e la sacralità dellinizio. Forse è collegabile a ciò il rifiuto da parte della coppia ad assistere al congiungimento in provetta dell'ovulo e dello spermatozoo propri o altrui.

Quella che oggi è definita come deflagrazione dell'identità materna rischia di divenire nel tempo un importante campo di intervento per il personale sanitario. La funzione materna, fino ad oggi unitaria, viene adesso a essere scissa in quattro azioni diverse (ovulazione, gestazione, allattamento, maternage), suddivisibili tra più figure femminili. Rispetto al modello di genitorialità naturale, sono oggi moltiplicati i soggetti parentali: appaiono le figure del donatore e della donatrice di gameti, la madre surrogata o colei che affitta il proprio utero, con le rilevanti richieste che tutto questo porterà al personale sanitario in termini di risposte e soluzioni ai problemi in divenire, non ancora del tutto identificabili.

Risulta importante che la professione infermieristica si orienti alla ricerca interdisciplinare, poiché il recente ingresso delle TRA sta forse solo ora producendo i suoi primi effetti osservabili. Ciò nonostante, molto ancora resta da studiare e valutare: quali effetti a lungo termine ha l'essere figlio di più figure genitoriali? Come incide il desiderio di un figlio a ogni costo nel già di per sé difficile mestiere di genitore? Quali prospettive o fronti aprono le testimonianze di coloro che, in una veste o nell'altra, hanno affrontato questa esperienza? Questi ambiti di ricerca potrebbero fornire interessanti osservazioni per un futuro che è ormai sempre più presente.

Il personale di assistenza che opera nell'ambito materno-infantile deve affrontare spesso situazioni che comportano rilevanti implicazioni etiche. Ne è un esempio il caso di Dorotea, la

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quale, scelta dalla donna e dalla coppia come interlocutrice di confronto sulle proprie problematiche morali, si trova assieme all'équipe a dover tutelare la salute di tutto il nucleo ("Un caso di coscienza per una ostetrica"). In effetti l'aspetto che emerge prioritariamente non è tanto, o non solo, il rispetto della vita e la datazione dell'inizio dell'essere umano, bensì i limiti e le possibilità di opzione di chi in prima persona si trova investito dalla responsabilità di dover scegliere. È quanto emerge dalle riflessioni di Thomas Murray, che sposta l'attenzione dal dibattito filosofico ai problemi di relazione che l'interruzione di gravidanza implica ("La metafisica ci aiuta a risolvere le questioni morali?").

Quando una donna di qualunque età si chiede se portare a termine la gravidanza oppure abortire, si trova di fronte a una decisione che toccherà sia lei sia altri, affrontando quindi in tutta la sua pienezza la questione morale della sofferenza (vedi anche Carol Gilligan: "Genere, identità e moralità", nel Cap. 6). Nella situazione che l'ostetrica del caso si trova a gestire professionalmente, così come nella posizione della coppia che deve affrontare la scelta, la consapevolezza del rispetto altrui ha un posto quanto mai preponderante. L'ostetrica in una situazione di questo tipo può proporsi come facilitatrice per le decisioni che la coppia deve assumere: perciò incentra la sua posizione professionale sulla relazione d'aiuto con la coppia e la donna, permettendo un processo di chiarificazione dei valori di Elena e Filippo, utile alla definizione della scelta che solo a loro spetta, per quel diritto all'autodeterminazione che il modello bioetico ha fatto emergere.

Forse, in questo contesto più che in altri, la possibilità di ponderare le varie implicazioni di un orientamento che può procedere in un senso o nell’altro viene a essere facilitata dal contributo dell'operatore che, in sintesi, fa da specchio alla donna e alla coppia. Un elemento importante da considerare, in questa come in altre storie, è la possibilità di portare un proprio contributo alla facilitazione del dialogo all'interno della coppia; in tal senso l'orientamento ad altri professionisti può risultare efficacemente complementare all'intervento dell'ostetrica. Come evidenziato dal caso di Dorotea, le persone non sempre sono consapevoli dei propri valori; pertanto possono riscontrare delle difficoltà quando devono fare delle scelte o quando si sentono costretti a variare i propri principi.

Il processo di chiarificazione dei valori aiuta la persona ad acquisire consapevolezza delle priorità personali, a identificare le ambiguità nel contesto dei valori e a risolvere i conflitti tra valori e comportamenti. Le fasi del processo di chiarificazione dei valori possono così sinteticamente definirsi:

● identificare le proprie convinzioni e comportamenti, valutando le alternative e considerando tutte le conseguenze possibili, in un clima di libertà;

● stimare le proprie convinzioni e comportamenti;

● agire in conformità con le proprie convinzioni, facendo sì che la scelta operata divenga parte del comportamento della persona (Potter, PerryFoundamentals of nursing).

L'infermiere e l'équipe nel suo insieme possono gestire tale percorso del singolo e della coppia, aiutando a definire i valori in gioco, gli obiettivi, le soluzioni possibili, senza ovviamente dare giudizi od offrire pareri. Una chiara comprensione di tutte le alternative e delle relative conseguenze garantirà che la scelta finale a cui la coppia perviene sia veramente la più giusta per i due.

Il ruolo della figura infermieristica è quello di proporre risposte o nuove domande rispetto agli interrogativi o alle affermazioni della persona, per stimolare l'introspezione. Se l'infermiere propone al singolo o alla coppia di chiarire ulteriormente una certa risposta, oppure di analizzare un problema nelle sue varie componenti, questo percorso motiverà l'utente a esaminare i propri

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pensieri e azioni. Questo tipo di intervento professionale aiuta l'utente o la coppia a scegliere liberamente un valore, a considerare le alternative possibili, ad agire in conformità con la scelta, a integrare all'interno della propria vita i comportamenti che riflettono il valore scelto.

In questo modo il singolo o la coppia potranno giungere a una maggiore consapevolezza e a una capacità introspettiva di approfondimento anche personale. Inoltre anche la comunicazione operatore-utente diventerà più efficace, poiché il professionista sarà in grado di focalizzare l'attenzione sui commenti della persona e sulle ragioni di questi. L'utente sarà così più disposto a esprimere problemi e sentimenti, mentre l'infermiere potrà formulare un piano di assistenza veramente personalizzato.

L'obiezione di coscienza è prevista dalla normativa stessa per tutti quegli operatori che, in relazione ai propri valori, vedono nell'interruzione volontaria di gravidanza, al di là delle motivazioni da cui è sostenuta, un atto che non possono sottoscrivere dal punto di vista morale. Questo poiché l'aborto provocato rappresenta sicuramente un caso limite nel dibattito tra sistemi di valori differenti. Prima di questo estremo vi è tuttavia la necessità che l'operatore sanitario, per le situazioni in cui viene a trovarsi, sviluppi un modello in cui il rispetto della persona e dei suoi valori venga portato avanti, garantendo autonomia nelle scelte. Il fine è quello di giungere a un confronto dei rispettivi sistemi di valori, evitando che uno di questi, poiché affermato dal sanitario, abbia più peso rispetto all'altro (modello paternalistico), mirando invece alla definizione, più che del valore del principio stesso, a regole procedurali che garantiscano la coesistenza e il confronto tra sistemi di valori diversi (modello bioetico). In proposito, i protocolli per la discussione e la gestione dei casi possono essere validi strumenti, in quanto favoriscono l'integrazione tra le diverse professionalità e il rispetto dell'autonomia delle persone, siano esse utenti o operatori.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Consiglio per la pastorale degli operatori sanitariCarta degli operatori sanitari, Città del Vaticano, 1994, pp. 21-23, 104-108.

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PER APPROFONDIRE

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Vegetti Finzi S., Il bambino della notte, Mondadori, Milano, 1990.

Ventimiglia C. (a cura di), La famiglia moltiplicata, Franco Angeli, Milano, 1988.

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INFERMIERE DEL BAMBINO

FATTI

«Stavolta voglio partorire a casa»

L'assistenza a un neonato immaturo

Quando l'infermiera gioca, l'assistenza migliora

IDEE

Il dilemma ostetrico

Assistere secondo le esigenze di una nuova cultura del parto

Il parto attivo, per restituire alla donna la sua forza

La dibattuta presenza del padre in sala parto

I dilemmi della neonatologia

NORME

● Norme Giuridiche

● Diritti Umani

● Norme Morali

● Legislazione

COMPORTAMENTI

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FATTI

«STAVOLTA VOGLIO PARTORIRE A CASA»

Sandra è alla seconda gravidanza; Lucilla, la prima bambina, è nata 3 anni fa nell'ospedale di una grande città, in una sala parto anonima, affollatissima. «Penso che non scorderò mai quella esperienza, forse la più difficile della mia vita... Non ero mai entrata in ospedale prima di allora, per mia fortuna, e forse ciò ha contribuito a rendere ancora più negativa la situazione. Lucilla è venuta alla luce come se a partorirla fosse stata una "cosa" e non una persona. Ricordo il colloquio che avvenne tra il ginecologo e l'ostetrica quando entrai in sala parto:

― "È questa da fare?"

― "Sì, il suo collega dice di sì"

― "Ma perché da fare?"

― "Mah... forse vien giù da solo (il bambino), è quasi completa..."

― "Anche per me: aspettiamo... tutto bene, signora, ... tutto bene!"»

Non le avevano detto che in un primo momento avevano pensato al taglio cesareo. In realtà tutto a Sandra era sembrato regolare fino ad allora: non particolari segni di sofferenza fetale, un bacino regolare... Già, il parto cesareo: l'Italia è uno dei paesi al mondo ― e il primo in Europa ― con la più alta percentuale di tagli cesarei: oggi ormai i trattati su cui medici e ostetriche studiano riportano invano l'affermazione secondo cui "l'arma più grande dell'ostetrico è la pazienza’’. Il medico e l'ostetrica avevano discusso dell'evenienza come se la cosa riguardasse solo loro e non anche e Sandra e Federico.

Sandra, seduta davanti a me, prosegue il suo racconto ammettendo che nella fase espulsiva le cose migliorarono un po'. L'ostetrica si prese cura di lei restandole accanto e incitandola con parole e frasi ripetute: "Lunga, lunga, lunga ... dài, respira, brava, ancora... lunga, lunga, lunga .... Spingi, ce n'è un'altra ... dài, dài...". Nel suo insieme, però, l’esperienza del primo parto è risultata così devastante che questa volta Sandra ha deciso di partorire a casa, ricorrendo al nostro centro che ha un'esperienza consolidata in merito. "Per niente al mondo voglio ripetere l'esperienza della nascita di Lucilla. Stavolta resto a casa, anche se un po' di paura ce l'ho... ma ho il diritto di far nascere mio figlio in un modo più sano!".

Questa scelta è stata condivisa anche dal marito, Federico, che in sala parto si sentì come l'intruso di turno. In questa seconda occasione si aspetta di poter essere maggiormente di aiuto a Sandra, nonché di poter vivere direttamente la nascita del figlio, senza essere relegato al banale ruolo di spettatore d'impiccio.

Le aspettative di Sandra e Federico non sono andate deluse. Il travaglio è iniziato intorno alle due del mattino, ma con naturalezza, senza visite ginecologiche ripetute o la dilatazione guidata. Ho fatto passeggiare Sandra nella camera e nel corridoio, si è riposata e rilassata grazie ai massaggi del marito. Con l'approssimarsi della fase espulsiva, l'abbiamo aiutata a progredire nel parto con una posizione non più obbligata, soprattutto confacente alle sue necessità più che a quelle del personale sanitario. Un'apposita poltroncina le ha permesso di stare in posizione accovacciata, in modo da facilitare il travaglio, mentre io, su uno sgabello, le stavo accanto, aiutandola durante le contrazioni con una vocalizzazione particolare che Sandra aveva imparato nell'apposito corso di preparazione alla nascita, in modo da guidare la respirazione, la contrazione e il rilassamento muscolare.

Quando Cosimo è nato non c'erano scialitiche puntate sulla donna né sul bambino: tutto si è svolto

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senza fretta, senza il personale di sala che incitava "Su, forza, ora è il momento: si sbrighi, avanti...", senza le manovre affrettate. Ho avvolto il bambino in un telino bianco che avevo precedentemente bollito a casa loro; poi ho adagiato Cosimo sulla pancia di Sandra, mentre Lucilla e il padre potevano ammirarlo e accarezzarlo, ormai serenamente attaccato al seno della madre. Quando sono tornata a trovare la famiglia il giorno dopo la nascita, Sandra mi ha abbracciata dicendomi che stavolta aveva veramente partorito lei, lei e Federico che, impegnato con Lucilla, ha avuto modo di nascondere gli occhi lucidi per la commozione a cui la moglie significativamente ammiccava.

L'ASSISTENZA A UN NEONATO IMMATURO

Samuele è un bambino pretermine. La gravidanza della madre si è conclusa inaspettatamente in anticipo, sebbene tutto si fosse svolto regolarmente lino a quel fatidico 26 febbraio. La madre di Samuele aspettava la sua nascita intorno a Pasqua, invece alla 34a settimana il parto si è preannunciato repentinamente e a niente sono valse le cure per protrarlo. Adesso il neonato è ospite del reparto di terapia intensiva neonatale dell'ospedale pediatrico di Firenze; i genitori abitano in provincia ed hanno un'attività commerciale in proprio, che li costringe a orari particolari. Samuele pesa 1450 gr.; le sue condizioni di immaturità lo rendono particolarmente vulnerabile e incapace di svolgere autonomamente le funzioni vitali. È sottoposto a ossigenoterapia con ventilazione meccanica, nella sua Isolette personalizzata, col fiocco azzurro e la targhetta col suo nome disegnata dalla cuginetta. I genitori possono stare con lui solo in alcune parti della giornata.

Per il personale sanitario del reparto Samuele non presenta particolarità cliniche rilevanti: certo è piccolo, immaturo, ma molti altri nelle sue condizioni ce l'hanno fatta. I genitori del piccolo, invece, rappresentano un vero e proprio problema per il gruppo infermieristico. Stamani i medici e gli infermieri si sono riuniti per discutere dei neonati presenti nell'unità operativa, come tutti i lunedì sono soliti fare per pianificare il piano di cure. All'ordine del giorno c'è oggi in particolare la discussione sui genitori di Samuele: dopo un'iniziale collaborazione e quasi dipendenza dal personale infermieristico, adesso la madre mostra un atteggiamento aggressivo e in più di una occasione ha protestato con la caposala, dichiarando una discriminazione verso di lei a danno del bambino; il padre, invece, sembra indifferente di fronte al figlio, tende a tenersi a distanza dall'Isolette e ha rifiutato il contatto con lui quando il personale infermieristico e poi la moglie gli hanno proposto di partecipare alla marsupio terapia.

L'intervento educativo infermieristico si è reso necessario anche a proposito dell'allattamento. A seguito dell'inizio della marsupio-terapia è stato indicato alla madre di attaccare Samuele al seno, ma ovviamente occorrerà del tempo prima che il bambino possa passare all'allattamento materno completo. La madre non riesce ad accettare le difficoltà di Samuele, pretenderebbe di poter definire subito l'alimentazione: così, vista l'incapacità del bambino di alimentarsi al seno, insiste perché si mantenga l'allattamento artificiale completo. Il gruppo medico-infermieristico decide un piano di assistenza per i due genitori in difficoltà, cercando, nell'interesse di Samuele e della coppia, di favorire i contatti tra i tre, orientando inoltre la madre e il padre su alcuni atteggiamenti inadeguati, come quello sull'allattamento e sui contatti fisici col neonato.

QUANDO L'INFERMIERA GIOCA, L'ASSISTENZA MIGLIORA

È un po' perplesso Salvatore quando entra in braccio a Pina, ma la bolla di sapone che gli scoppia sul naso gli fa tornare il sorriso. Per qualche attimo anche la paura dell'intervento sparisce e la

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sala operatoria scompare per lasciare il posto alle bolle. Le infermiere lo salutano festose sotto le cuffie colorate e Pina lo tiene stretto a sé, cullandolo, mentre piano piano l'anestesia alla fragola fa il suio effetto.

Salvatore non è lui bambino speciale. L'accoglienza che ha ricevuto nella fredda sala operatoria del Policlinico Gemelli di Roma è quella che viene data a tutti i piccoli che si devono operare. «Cerchiamo solo di rendere meno traumatica l'anestesia» ci spiega l'anestesista Giovanni De Francisci, che da anni segue con passione il settore pediatrico «e le bolle di sapone creano un'atmosfera magica che ci aiuta molto». Mentre ci parla, dal suo taschino spunta una penna con le orecchie da topo e aggrappato al fonendoscopio ci guarda un koala colorato.

Da quando è arrivato qui da Palermo, Giovanni (cosi lo chiamano i piccoli pazienti) ha cercato di migliorare l'approccio con i bambini, sia sotto il profilo psicologico che sotto quello medico. «Spesso, continua, ci si dimentica che si ha a che fare con dei bambini e così le loro paure ed esigenze vengono lasciate da parte. Conquistare la loro fiducia è invece molto importante e a volte consente di evitare operazioni dolorose». Come la preanestesia, quell'iniezione che viene fatta prima di scendere in sala operatoria per "intontire" il paziente. «Noi preferiamo che il bambino arrivi sveglio e quindi in grado di collaborare. Per fare questo occorre però parlarci prima, fare amicizia con lui, spiegargli che cosa succederà, che la mamma lo lascerà fuori della porta, che verrà addormentato in modo che il dottore possa "sistemare" il suo problema. Bisogna rassicurarlo, senza mentire, rispondendo alle sue domande», cosi, quando i turni lo permettono, insieme a Giovanni e al suo koala scendono nel reparto anche le infermiere della sala operatoria. Marianna è una di loro. Ha una cuffia rosa in testa e al collo un curioso orsetto di plastica verde, con un tappo in testa. "È la mia arma segreta" ci dice. «Viene dall'America e fa delle bolle di sapone piccolissime».

Ma per rassicurare i piccoli pazienti non bastano le parole e i giochi. L'ospedale è un luogo ostile anche per un adulto, figuriamoci per un bambino. Ogni cosa gli ricorda che la normalità lì non è di casa, dal modo di vestire alle regole di vita. Per questo, nel corso delle visite in reparto è difficile vedere Giovanni, Pina o Marianna girare con il camice: «un paio di jeans e una maglietta creano un'atmosfera più rilassante e non evocano brutti ricordi legati magari a eventi dolorosi o traumatizzanti». E anche ai piccoli è consentito, il giorno dell'intervento, andare nella sala operatoria vestiti come preferiscono, anche accompagnati da un orsacchiotto. Manuele li ha presi alla lettera e si è presentato in tuta, scarpe da ginnastica e cappotto. Quando si è addormentato era ancora vestito e quando si è risvegliato aveva di nuovo addosso la sua bella tuta rossa.

Non appena l'anestesia fa effetto, la sala operatoria all'improvviso assume i ritmi e le solite caratteristiche. Da sotto un telo compare la flebo, il personale si mette la mascherina, il bambino viene spogliato, collegato ai sistemi di monitoraggio, intubato quando serve e preparato all'intervento.

L'attenzione di De Francisci non è però limitata al solo versante psicologico. «Non basta l'umanità. Occorre migliorare la qualità dell'anestesia, con dosaggi e metodiche più adeguate all'età. I bambini non sono semplicemente degli adulti su scala ridotta, anche se spesso l'anestesia pediatrica viene ridotta a una semplice operazione matematica, dividendo per due o per quattro il dosaggio dell'anestesia nell'adulto». Ci sono poi dei modi per evitare il dolore post-operatorio. «Qui» continua «non solo abbiamo abolito la dolorosa preanestesia, ma adottiamo anche una tecnica mista, dove all'anestesia generale si unisce anche quella loco-regionale, facendo in modo che il piccolo si svegli senza dolore». Purtroppo, però, in tanti anni non si è riusciti a costituire un'équipe di medici ed infermieri specializzata nel settore pediatrico, nonostante le persone disponibili ci siano. E così non tutti i bambini vengono addormentati con le stesse attenzioni e non a tutti è consentito un risveglio sereno come quello di Sara, che rispondendo alla mamma su come era andato l'intervento, le ha detto: «Lo rifarei».

Daniela de Robert, Il gioco del dottore

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IDEE

IL DILEMMA OSTETRICO

Un celebre psicanalista ci propone una riflessione antropologica che dà più spessore al parto dell'essere umano. Essendo espressione di un ipotetico salto evolutivo, non è più solo un fatto di natura, ma anche di cultura. Richiede perciò una più ampia partecipazione di tutto il gruppo, che sostiene la donna partoriente.

Il fatto più sorprendente che i paleoantropologi propongono alla nostra attenzione è il cosiddetto "dilemma ostetrico". Di che si tratta? Il dilemma ostetrico viene considerato un evento all'origine della mutazione dell'uomo, in quanto, appunto circa mezzo milione di anni fa (o un milione a seconda degli autori), l'uomo avrebbe acquistato la stazione eretta, e questa avrebbe determinato, come prima conseguenza, il restringimento del bacino. Contemporaneamente la stazione eretta ha permesso la liberazione delle mani, e con essa la scoperta dei primi utensili. Sempre a questo periodo si fa risalire anche l'origine del linguaggio. L'origine del linguaggio e la scoperta degli utensili avrebbero determinato in modo specifico l'ingrandimento del cervello. Se noi osserviamo la proiezione dell'homunculus sulla corteccia cerebrale, siamo colpiti dal fatto che soprattutto la zona orale e quella della mano sono molto dilatate rispetto alle altre zone del corpo. La zona orale rimanda al linguaggio, quella della mano all'uso degli utensili. Quindi, la scoperta del linguaggio e la scoperta dei primi utensili avrebbero determinato un ingrandimento del cranio.

Nello stesso tempo, però, la stazione eretta avrebbe avuto come conseguenza il restringimento del bacino. La concorrenza di questi due fattori fra loro concomitanti, ma anche fra loro antitetici per il meccanismo del parto, avrebbe causato il dilemma ostetrico, cioè un'estrema difficoltà, quasi un'impossibilità del nascere, dovuta da una parte all'ingrandimento del cranio, dall'altra al restringimento del bacino. È come se all'origine dell'uomo ci fosse una specie di ingiunzione paradossale, contraddittoria. La soluzione del dilemma ostetrico viene vista nel fatto che l'uomo sarebbe nato in una condizione neotenica, cioè come animale non finito, che tende a rimanere sempre come non finito. (...) Il dilemma ostetrico risulterebbe quindi centrale rispetto all'origine della specie o ― potremmo forse meglio dire ― rispetto alla mutazione uomo.

Franco FornariIl parto nascita, i suoi miti e la paranoia primaria

ASSISTERE SECONDO LE ESIGENZE DI UNA NUOVA CULTURA DEL PARTO

L'uso della tecnologia ha reso possibile, per la prima volta nella lunga storia dell'umanità, un parto con le più alte garanzie di sicurezza per la vita della madre e del bambino. Tuttavia il parto non potrà mai essere solo una tecnica. Il brano che riportiamo fa emergere i collegamenti profondi che la nascita ha con la psiche della donna e con il suo vissuto. Per questo il parto è e resterà una cultura.

Non a tutte le donne e i genitori dispiacciono gli ospedali. Alcune donne preferiscono lasciare la responsabilità ed essere addormentate durante il parto. Riesco a capire l'origine di questo desiderio.

La nostra società tenta di proteggerci dagli aspetti più duri della vita, e sovente è possibile sottrarsi a molte situazioni spiacevoli. Quasi tutti abbiamo vestiti e cibo sufficienti per non sentire la fame e il

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freddo e se abbiamo mal di testa prendiamo un'aspirina, il parto invece è una cosa che va portata a termine. Sfortunatamente molto poco è stato scritto o detto sulle possibilità di un ruolo positivo della donna nel processo del parto. Una donna che ha partorito, se è stata aiutata a partorire in modo attivo, se ha avuto il controllo sul parto, non dimenticherà mai di avere tanta forza, una forza che la sosterrà per tutta la vita. E più tardi, quando si presenteranno altre situazioni difficili, la donna avrà la forza e la coscienza per superarle. D'altra parte, invece, quando si rende conto di non aver controllo sul suo parto e che non ce la può fare da sola, diventa dipendente dall'aiuto degli altri e si sentirà più infelice. Alcuni definiscono questo fenomeno "depressione post-partum", per me è una normale reazione a un evento frustrante. Questo succede in effetti più spesso di quanto si creda. Nella grande inchiesta danese del 1984, il 29 per cento, un terzo delle donne, dissero di essersi sentite infelici dopo il parto.

È possibile usare la nostra conoscenza per cercare di evitare questa infelicità che distrugge la famiglia e il rapporto con il figlio? La madre non si innamora immediatamente del tiglio, qualche volta anzi arriva a odiarlo come causa della sua infelicità. Cosa possiamo fare per aiutare le madri e le famiglie a trovare la forza e usare le loro risorse interiori? In quasi tutti i paesi sembra sia compito proprio dell'ostetrica è aiutare questa ricerca delle risorse interiori. L’ostetrica è quasi sempre una donna, spesso essa stessa madre. Dare alla donna assistenza e tranquillità è un elemento fondamentale del suo lavoro, e sono queste le cose di cui c'è veramente bisogno: dare spazio alla madre, fisicamente e psicologicamente e, in veste di assistente, seguire le imprevedibili vie del parto. La donna in travaglio e durante il parto ha bisogno di pace e rispetto; la più piccola interferenza spiacevole ne disturberà il decorso. Questa è la giustificazione dell’uso della tecnologia, ma prima si stravolge il normale corso del parto, poi lo si salva con interventi che diventano indispensabili, come l'induzione e l'aspirazione.

Si sta sviluppando un nuovo tipo di assistenza al parto a tecnologia molto bassa. Non si tratta di tornare ai vecchi tempi quando la donna partoriva sul tavolo della sala da pranzo. Noi assistenti di parto siamo coscienti delle possibilità che offre la tecnologia e dei suoi limiti. Dobbiamo sapere che il contatto umano, la cura e l'amore, la convinzione che la donna ce la possa fare, sono l'aiuto più importante che un'assistente al parto possa dare.

Susanne HoudIl parto: un potere da restituire alla donna

IL PARTO ATTIVO, PER RESTITUIRE ALLA DONNA LA SUA FORZA

A contrastare la diffusa medicalizzazione del parto, che priva la donna di aspetti emotivi importanti della nascita del figlio, si vanno diffondendo modelli di parto più "dolce". Alcuni paesi, come l'Olanda, sono all'avanguardia nell'abbinare le esigenze della sicurezza con il rispetto dell'umanizzazione del parto.

Oggi c'è una minaccia nuova: che la medicalizzazione porti a trascurare gli aspetti psicologici ed emotivi del parto. Per la "sicurezza" della madre e del figlio, anche le donne sane sono sottoposte alle procedure standardizzate degli ospedali. Le donne diventano "pazienti" e perdono così la sicurezza di sé, l'indipendenza e la forza di carattere, tutte cose indispensabili per un buon parto. Le donne diventano dipendenti dallo staff medico e passive. In alternativa si sta diffondendo il parto verticale, il parto attivo. Oltre ai vantaggi fisiologici ― minor dolore, miglior scorrimento della placenta, l'ovvio aiuto della forza di gravità durante le spinte ― c'è un vantaggio di tipo psicologico. La donna non deve stare sdraiata sulla schiena, non è più una paziente esposta e dipendente dalle persone attorno a lei. Nella posizione verticale la donna si può muovere liberamente se e quando vuole, ha più autonomia e può seguire lo svolgimento del parto.

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È sufficiente una rotazione di 90 gradi fra la posizione orizzontale e quella verticale, per modificare completamente il comportamento delle persone che circondano la partoriente. Il rapporto è meno diseguale, gli occhi di tutti sono alla stessa altezza. La donna si sente più forte e più indipendente: è lei che sta partorendo, non gli assistenti. L'ostetrica, o il ginecologo, stanno anch'essi accovacciati di fronte alla donna, seduti su un piccolo sgabello. Le gambe possono essere un po' d'impaccio per il ginecologo, ma ci sarà bisogno di intervenire di meno perché la donna si sente più forte e meno indifesa. Da questo punto di vista il parto attivo è un ottimo metodo di lotta contro la medicalizzazione. Dopo tutto è la donna che ha la parte più importante e l'ostetrica e il ginecologo dovrebbero accettare con gioia un ruolo minore.

Beatrjs Smulders, Astrid Limburg,

Medicalizzazione e parto in casa in Olanda: una contraddizione?

LA DIBATTUTA PRESENZA DEL PADRE IN SALA PARTO

Dal momento che la gravidanza non è una malattia e il parto non è un intervento terapeutico, si aprono numerose possibilità di riportare nell'evento della nascita molti degli aspetti relazionali che sono così importanti per le emozioni. A cominciare dalla presenza di una persona di fiducia accanto alla donna che partorisce. Il brano riportato cerca di non ideologizzare questi problemi, preferendo appoggiarsi su dati della ricerca comportamentale.

Il padre è stato escluso dalle sale parto degli ospedali con vari pretesti: che poteva introdurre delle infezioni, che era di intralcio per il personale, che rischiava di svenire, che disturbava la donna in travaglio... Le ricerche a questo proposito, dovute anche alle pressioni dei consumatori perché si aprissero le porte della sala parto, hanno smentito questi pregiudizi: ì padri non introducono infezioni supplementari (Fraser 1983); le donne sopportano meglio il dolore e hanno bisogno di meno farmaci (Henneborn, Cogan 1975). Anche se quest'ultimi risultati non possono essere attribuiti al padre in quanto tale ma piuttosto alla presenza di una persona a fianco della donna (Kennel 1981), si può concludere che i padri influiscono piuttosto positivamente sull'andamento del parto. Donne e uomini sono inoltre generalmente soddisfatti dell'esperienza e questo è già un motivo importante perché sia accessibile a tutti.

In Italia una ricerca della fine degli anni '70 rivelava che solo nel 12% delle sale parto di ospedali pubblici era ammessa la presenza di un familiare. Una ricerca fatta negli stessi anni mostrava che 180% delle puerpere avrebbe voluto la presenza di qualcuno di sua scelta durante il travaglio e il parto (Di Renzo et al. 1981). I bisogni di queste donne erano inoltre estremamente differenziati: il 36% avrebbe voluto il marito, il 17% preferiva l'ostetrico /a di fiducia, il 15% la madre e 111% un'altra persona (come una sorella o un'amica). La scelta variava secondo fattori come l'età, il livello di educazione e l'origine geografica. Anche in questo caso è evidente la discrepanza tra ciò che le donne vogliono e quello che viene loro proposto dalle istituzioni. Le porte della sala parto, se e quando si aprono, lo fanno spesso a condizione che si tratti del marito e non di un'altra donna. Se un'altra donna sia più efficace del padre nell'aiutare la partoriente, è una domanda a cui la ricerca non ha ancora dato una risposta. Nell'incertezza, di fronte all'evidenza che le donne vogliono comunque qualcuno in cui hanno fiducia, e per evitare nuove regole e nuovi modelli normativi, è bene che le negoziazioni per aprire le porte delle sale parto non si concentrino sulla figura del padre in quanto tale, ma piuttosto sul diritto della donna di scegliere chi preferisce avere con sé.

Patrizia Romito, Parto: lotte delle donne e nuovi riduzionismi

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I DILEMMI DELLA NEONATOLOGIA

Il progresso della medicina ha reso possibile oggi la sopravvivenza di neonati anche in condizioni critiche: non senza dilemmi etici, però, per il personale sanitario. Il più importante è quello relativo alle misure di rianimazione e di medicina intensiva che permettono di salvare bambini che non sopravviverebbero, se la natura facesse il suo corso. Salvare la vita del neonato non è però tutto il compito della medicina: bisogna anche salvare la sua vita di relazione, che è il presupposto per uno sviluppo sano.

La nascita di un bambino pretermine e/o di basso peso (uguale o inferiore a 2500 g) avviene con un'incidenza del 9-10% rispetto alla totalità dei nati vivi. Il destino dei nati pretermine ha subito un radicale mutamento negli ultimi 20 anni, per il miglioramento delle condizioni socioeconomiche della popolazione e l'affinamento dell'organizzazione e delle tecnologie di intervento nell'assistenza perinatale. Ciò ha portato ad un sostanziale cambiamento delle loro prospettive di vita.

Mentre è ben conosciuta l'influenza che sullo sviluppo hanno tutte le classiche patologie a cui è esposto il nato pretermine nel periodo neonatale, scarsa considerazione viene posta su alcuni aspetti della vita relazionale del paziente che possono influenzare significativamente il suo futuro sviluppo psichico. (...)

Il bambino cresce e si sviluppa non solo all'interno ma in quanto parte di una relazione: future distorsioni dello sviluppo psico-emozionale possono essere determinate da una non specifica attenzione da parte di chi lo accudisce nei primi momenti della vita extrauterina e da un negato coinvolgimento dei genitori.

I genitori dei nati pretermine si vengono a trovare in una situazione completamente diversa, estremamente più fragile, rispetto a quella dei genitori dei nati a termine sani. I genitori pretermine, specialmente la madre, sono nella stragrande maggioranza dei casi bruscamente separati dal loro Aglio. Il processo di riavvicinamento e di "riappropriazione" del loro bambino, di cruciale importanza nelle prime settimane di vita, deve essere favorito nel reparto di patologia neonatale da parte del personale medico e paramedico, coinvolgendo i genitori nell'accudimento del loro bambino, anche se sottoposto a cure intensive.

Gian Paolo Donzelli et al., La patologia iatrogena in neonatologia

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NORME

NORME GIURIDICHE

Codice civile

Libro Primo. Delle persone e della famiglia

Titolo VI - Capo IV

Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio

art. 147 ― Doveri verso i figli ― Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. Titolo IX

art. 316 ― Esercizio della potestà dei genitori ― Il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino all'età maggiore o alla emancipazione.

La potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori.

In caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei.

Se sussiste un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili.

Il giudice, sentiti i genitori ed il figlio, se maggiore degli anni quattordici, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell'interesse del figlio e dell'unità familiare. Se il contrasto permane, il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene più idoneo a curare l'interesse del figlio.

DIRITTI UMANI

Carta europea dei bambini degenti in ospedale

Il parlamento europeo chiede che la Carta dei bambini in ospedale comprenda i diritti qui di seguito indicati:

a. diritto del bambino a essere ricoverato in ospedale soltanto se le cure necessarie non possono esser fornite a casa o in ambulatorio e se sono opportunamente coordinate ai fini di un ricovero quanto più rapido e breve possibile;

c. diritto ad avere vicino quanto più possibile, durante il periodo di degenza, i propri genitori o la persona che ne fa le veci non come spettatori passivi ma come elementi attivi della vita ospedaliera

d. diritto del bambino a ricevere informazioni adeguate alla sua età, al suo sviluppo mentale e al suo stato fisico e psicologico, circa tutte le cure mediche cui è sottoposto e le prospettive positive che esse offrono;

e. diritto del bambino all'assistenza individuale, con ricorso a quanto più possibile ampio ai medesimi infermieri e operatori per la cura e l'assistenza;

h. diritto dei genitori o della persona che ne fa le veci a esprimere il consenso sulle cure alle quali il bambino è sottoposto;

i. diritto per i genitori o per la persona che ne fa le veci a un'adeguata assistenza e guida psicosociale da parte di personale specializzato;

m. diritto (e possibilità concreta) di vedere i propri genitori o tutori nei momenti di particolare tensione;

n. diritto ad essere trattato con tatto, educazione e comprensione e ad essere rispettato nella sua intimità;

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o. diritto ad essere seguito durante il suo ricovero ospedaliero da persone appositamente preparate, capaci di rendersi conto delle necessità fisiche e psichiche dei bambini nelle varie fasce d'età;

q. diritto di disporre di ambienti arredati e attrezzati secondo le necessità ospedaliere, educative e ludiche e conformi alle norme vigenti in materia di sicurezza;

s. diritto di usufruire durante la degenza di giocattoli adatti all'età, di libri e di audiovisivi.

(Parlamento europeo, 13 maggio 1986)

NORME MORALI

La morale cattolica

Una speciale attenzione deve essere riservata alla valutazione morale delle tecniche diagnostiche prenatali, che permettono di individuare precocemente eventuali anomalie del nascituro. Infatti, per la complessità di queste tecniche, tale valutazione deve farsi più accurata e articolata. Quando sono esenti da rischi sproporzionati per il bambino e per la madre e sono ordinate a rendere possibile una terapia precoce o anche a favorire una serena e consapevole accettazione del nascituro, queste tecniche sono moralmente lecite. Dal momento però che le possibilità di cura prima della nascita sono oggi ancora ridotte, accade non poche volte che queste tecniche siano messe al servizio di una mentalità eugenetica, che accetta l'aborto selettivo, per impedire la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità è ignominiosa e quanto mai riprovevole, perché pretende di misurare il valore di una vita umana soltanto secondo parametri di "normalità" e di benessere fisico, aprendo così la strada alla legittimazione anche dell'infanticidio e dell'eutanasia. In realtà, però, proprio il coraggio e la serenità con cui tanti nostri fratelli, affetti da gravi menomazioni, conducono la loro esistenza quando sono da noi accettati ed amati, costituiscono una testimonianza particolarmente efficace dei valori autentici che qualificano la vita e che la rendono, anche in condizioni di difficoltà, preziosa per sé e per gli altri.

Papa Giovanni Paolo II, Evangelium vitae

LEGISLAZIONE

Piano sanitario Nazionale 1994-96: La tutela materno infantile

Gli interventi da compiere nel triennio di validità del Piano riguardano:

 l'individuazione di un’area per l'assistenza pediatrica con caratteristiche strutturali e logistiche adeguate alle esigenze psico-fisiche proprie dell'età evolutiva e con personale con competenza e formazione di tipo pediatrico, in stretta connessione, sia in ambito ospedaliero che extraospedaliero, con le strutture ostetriche e i servizi di assistenza alla gestante;

 l'istituzione e/o l'attivazione del Dipartimento materno-infantile per l'integrazione degli aspetti sanitari e sociali ed il coordinamento delle attività proprie di ciascuna delle sue componenti;

― la de-ospedalizzazione delle attività ostetriche e pediatriche, mediante il potenziamento della rete consultoriale, della pediatria di comunità e di libera scelta; la riconversione delle strutture pediatriche ed ostetriche di ricovero con bassi indici di utilizzazione in servizi di assistenza diurna, di riabilitazione ed ambulatoriali;

 il potenziamento dei servizi per la tutela delle funzioni neuropsichiatriche e della vita di relazione;

― il potenziamento e l'adeguata distribuzione territoriale dei servizi per la prevenzione e l’individuazione delle patologie genetiche e l’identificazione dei centri di riferimento regionali;

― svolgimento di campagne nazionali di informazione per la tutela della gravidanza e la promozione

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della salute in età evolutiva;

― promozione dello screening delle più rilevanti malattie infettive in gravidanza;

― adeguamento qualitativo e quantitativo della rete dei consultori, con particolare riguardo alle attività di consulenza genetica;

― attivazione o potenziamento dei servizi di assistenza domiciliare integrata in favore delle famiglie con handicappati gravi in età da 0 a 14 anni;

― identificazione e potenziamento delle strutture destinate alla prevenzione, diagnosi, trattamento e riabilitazione delle disabilità, attivando o potenziando i servizi di riabilitazione infantile destinati a pazienti in età 0-14 anni.

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COMPORTAMENTI

Le problematiche connesse al concepimento, alla nascita e al parto, alle prime fasi di vita e di relazione con la famiglia, infine alla violenza verso i bambini rappresentano le più facce di un fenomeno oggi complesso e ancor più complicato dai media, ovvero il rispetto dei bambini nella nostra società. Proprio in considerazione della multiformità del problema, vediamo le tematiche etiche di principale interesse infermieristico.

La diagnosi prenatale è oggi uno degli ambiti della medicina preventiva più dibattuti. Sono molte le conquiste che in questo campo si possono annoverare: il prelievo del liquido amniotico permette di diagnosticare la trisomia 21 e altre anomalie cromosomiche responsabili di malformazioni; altre marcature genetiche indicano l'eccesso di colesterolo, la mucoviscidosi e altre patologie importanti nelle loro conseguenze. Non si può negare il ruolo fondamentale della genetica per la possibilità di intervento verso alcune affezioni, per esempio il glaucoma ereditario, una malattia che, se non curata, provoca la cecità, ma che può essere neutralizzata con un trattamento tempestivo ad hoc, oppure per la fenilchetonuria.

Queste considerazioni derivano dal fatto che, nell'ambito della diagnosi prenatale, si procede individuando i fattori di rischio: quando ad esempio si scopre nel feto una trisomia 21, si può dire che il bambino nascerà Down, ma non sarà possibile valutare lo sviluppo psicologico e affettivo che avrà. In pratica, può accadere che i genitori decidano di non avere il bambino in base a "fattori di rischio", mentre quello stesso individuo avrebbe potuto avere uno sviluppo tale da permettergli una vita sociale sostanzialmente adeguata. In altre parole, potrebbe prendere campo l'idea di eliminare tutto ciò che disturba. In relazione a ciò molti quesiti di natura etica si frappongono tra noi e l'attuale realtà: si ha il diritto di interrompere una gravidanza perché il nascituro rischia di sviluppare una certa malattia intorno ai 50 anni? Come si può valutare in anticipo quella che sarà l'esistenza di una persona? Come valutare quanto sarà o meno in grado di sopportare? Una considerazione affrettata delle potenzialità della diagnosi prenatale potrebbe portarci a condannarla in blocco?

Rispetto a queste istanze, l'azione infermieristica può svilupparsi significativamente per l'utenza verso la partnership, nel tentativo di far realizzare al singolo e alla famiglia la globalità della situazione in tutte le sue sfaccettature. Il counseling genetico dovrebbe iniziare dal momento in cui si decide la gravidanza, ovvero prima che eventuali problemi possano far trovare la coppia di fronte a dilemmi. Nel caso di una gravidanza ormai insediata, l'azione professionale del personale medico-infermieristico deve indirizzarsi a orientare opportunamente la coppia o la donna verso gli accertamenti del caso, ovvero quelli che nella singola e specifica situazione si rendono necessari. I genitori devono essere a conoscenza dei rischi che comporta ogni singolo esame diagnostico prenatale, con l'attuazione di un corretto consenso informato. L'intervento medico-infermieristico integrato deve iniziare fin dalla primissima fase, con un counseling genetico che di fronte a un risultato positivo supporti la coppia o la donna nella valutazione attenta della situazione, anche attraverso il processo di chiarificazione dei valori.

Un momento fondamentale dell'inizio di ogni nuova vita è la nascita, quindi il parto per la madre e il padre. La nuova cultura che si è sviluppata attorno a questo tema portante dell'esistenza

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ha raggiunto oggi un'eco diffusa nella popolazione, tanto che sempre più donne scelgono di partorire a casa, alla riscoperta di una dimensione del parto e della nascita difficile, se non impossibile, da vivere in ospedale. Sandra e Federico, («Stavolta voglio partorire a casa») rappresentano una delle tante coppie che tentano di restituire umanità alla nascita e al parto. Come riporta la testimonianza di Sandra, spesso nei nostri servizi l'esperienza del parto e della nascita rende la donna esclusa ed esautorata, all'interno di un'esperienza per eccellenza femminile e naturale.

Al ritorno a una naturalità del parto e della nascita la cultura infermieristica ha contribuito molto, come dimostrano le varie esperienze di ostetriche che da anni propongono alla coppia un ruolo da protagonista nel parto e nella nascita, sia in ospedale che a domicilio. L’elemento da sottolineare è comunque l’importanza dell'autodeterminazione della coppia o della donna: nessuno potrà mai sostenere con prove inconfutabili che il parto e la nascita a casa o in ospedale siano migliori l'uno rispetto all'altro; piuttosto è fondamentale che i genitori trovino la dimensione attesa e per i due prioritaria, nel contesto che sceglieranno. Il rischio di standardizzare, in questi ambiti, è sempre presente: meglio il parto in ospedale perché più sicuro (come se la sicurezza fisica fosse l'unico elemento importante) meglio l'allattamento artificiale perché qualitativamente più completo (come se fossero solo i componenti del latte a contare, non anche la relazione) meglio una separazione del neonato dalla madre per permettere a quest'ultima di riprendersi dallo stress del parto prima del rientro a casa (come se lo stress avesse solo una componente fisica e non anche psico-affettiva).

Anche altre discipline hanno fornito i presupposti teorici per un reinquadramento delle modalità assistenziali della fase postpartum, come ad esempio i contributi di Bowbly sull'attaccamento. Si è così sviluppato il rooming-in, ovvero la possibilità di far permanere il piccolo nella stessa stanza della madre, seguito direttamente dalla stessa con l'aiuto e l’intervento educativo del personale infermieristico. Questo supporto e integrazione è ovviamente più intenso nelle prime fasi, così come in caso di richiesta o necessità da parte della madre; viene invece successivamente allentato per favorire l'indipendenza della donna e della coppia. L'aspetto igienico-sanitario, che fino ad oggi ha imposto la separazione del bambino dal resto del nucleo familiare per motivi di sicurezza, ha cessato di prevalere sull'ambito psico-relazionale, che vede nei contatti ravvicinati e continuativi il presupposto fondamentale per sviluppare un normale legame genitore-figlio. In questo senso la rilevanza etica della relazione neonato-genitori-infermiere è palese: l'operatore, assumendo un modello di comportamento o l'altro, può determinare uno sviluppo positivo o meno della prima fase della relazione di attaccamento. A cominciare dai primi momenti dopo la nascita, quando il bambino risulta particolarmente sensibile al contatto fisico, l'infermiere può favorire la vicinanza tra genitori e neonato, con quelle attenzioni e manovre che piano piano si stanno facendo strada anche in quei contesti dove la medicalizzazione della nascita e del parto ha reso la donna una paziente più che una madre.

In un rapporto di partnership nei confronti della donna e della coppia, l'infermiere può garantire che la dimensione soggettiva dei genitori venga rispettata, favorendo una positiva identificazione nel ruolo genitoriale. L'infermiere può aiutare, integrare e in alcuni casi sostituire inizialmente la madre o il padre, guidando la coppia verso il graduale sviluppo delle naturali competenze genitoriali. Le prime cure al neonato impegnano notevolmente sia la madre che il padre, in particolare alla prima esperienza; le competenze genitoriali sono tipicamente esperienze naturali dell'esistenza di ognuno, che spesso risentono delle tradizioni familiari e culturali dei neogenitori. È questo forse uno dei patrimoni che più si stanno perdendo nella società attuale, dove la performance e l'ansia da prestazione hanno assunto un rilievo sproporzionato, in realtà, ogni donna ha delle risorse personali che si basano sull'intuito, sul rapporto simbiotico

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col piccolo, su un sapere antico e popolare che fa parte del concetto di salute di un gruppo: «La primipara in particolare porta dentro non una vecchia, ricca di esperienza, ma una madre-bambina; la sua età non ha alcuna importanza: può avere dai diciotto ai quaranta anni, perché diventando madre per la prima volta ogni donna è una madre-bambina… ha bisogno delle cure materne di una o più donne anziane, che la consigliano, la incoraggiano e la sostengono. Per anni ed anni questo ruolo fu svolto dalle donne più anziane delle tribù e del villaggio... Oggi nella maggior parte dei paesi industrializzati la giovane madre porta avanti la gravidanza, partorisce e cerca di curare bene il figlio da sola. È una tragedia di proporzioni enormi». (C. Pinkola Estés, 1993).

L'infermiera, per la sua specificità professionale, rappresenta l'operatore che meglio di altri può ricondurre la donna e la coppia a ritrovare in sé quell'adeguatezza che la medicalizzazione di oggi ha ridotto: le madri si sentono inadeguate nelle cure al figlio, nell'allattamento, che pure è sempre stato un compito loro indiscutibile, nel comprendere il linguaggio e i bisogni del neonato. La natura educativa della professione infermieristica trova qui una delle sue applicazioni più ampie: l'infermiera o l'ostetrica, in mancanza di persone di riferimento per la donna o la coppia, può supportare e aiutare i neogenitori, soprattutto in una prima fase e al rientro a casa, facendo riferimento al contesto culturale di cui si accennava, che porta in sé quel patrimonio consolidato di sapere popolare, con quell'insieme di modalità di approccio e soluzione ai piccoli problemi quotidiani del neonato, che non necessitano affatto di interventi professionali o professionalizzati.

È tuttavia fondamentale che tutte le scelte materne o della coppia vengano considerate: il rooming-in, infatti, potrebbe altrimenti assumere toni forzati o costrittivi. A volte la madre preferisce lasciare inizialmente il piccolo al nido, magari per timore dell'inesperienza o per lo stress del parto, riconsiderando in un secondo momento le sue preferenze. Il personale di assistenza, rispettando le vane possibili scelte materne, o meglio le fasi di un processo di adattamento che la donna e la coppia devono comunque affrontare rispetto all'inserimento del figlio nel loro menage, può aiutare gli adulti nella loro graduale identificazione verso il ruolo di genitori. In proposito anche eventuali rifiuti od opposizioni vanno comunque sostenuti ed accettati, evitando alla donna o alla coppia giudizi o sensi di colpa indotti, sia da parte del personale sanitario stesso che dai familiari. Va ricordato che quest'ultimi, a volte, constatando l'inesperienza o la scarsa abilità materna, si sentono in dovere di elargire consigli e aiuto, che spesso però per la coppia si trasforma in intrusione e disorientamento.

In questa discussione rientra anche il dibattuto incremento, ai nostri giorni, dell'allattamento artificiale: la poppata con latte materno è quanto di meglio il neonato possa attendersi nei primi mesi di vita, eppure sono sempre meno i bambini allattati al seno attualmente circa 10 su 100. Le ricerche più recenti dimostrano che il 12% dei neonati non viene mai attaccato al seno dalla madre nei giorni successivi al parto, che il 23% dei bambini viene avviato d'ufficio al biberon, mentre un altro 25% viene dirottato al latte artificiale al sesto mese di vita. Pur nella positiva considerazione dell'allattamento artificiale in quei casi in cui le condizioni della madre o del bambino lo impongono, vi è la necessità di far riscoprire ai genitori un ruolo decisionale che in questo ambito hanno, attraverso una maggiore informazione ed educazione in proposito. Non si deve dimenticare, infatti, che dall'allattamento al seno il bambino può trarre benefici importanti, sia sul momento che per la vita futura, salvo casi patologici.

In particolare, è importante che i genitori sappiano apprezzare le conseguenze che dall'una o altra scelta potrebbero derivare; esplorando assieme al personale capace di fornire una consulenza l'insieme degli elementi in gioco, dall'aspetto igienico (ridotta necessità di procedure di disinfezione e sterilizzazione) a quello relazionale, ì genitori potranno assumere una decisione

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ponderata e responsabile. Anche in questo caso, infatti, è importante che il personale sanitario non proceda per standardizzazioni rigide: pur rivolgendosi al maggior beneficio possibile per il bambino e per la madre (o la coppia), sicuramente possono verificarsi situazioni particolari in cui l'allattamento artificiale resta da preferirsi. In questo caso sarà importante dialogare soprattutto con la madre per far comprendere che, salvaguardando la relazione col piccolo nel momento dell'allattamento, il biberon può sostituirsi al seno senza conseguenze per il figlio.

Nel caso di una nascita pretermine, come quella di Samuele (cfr. "L'assistenza a un neonato immaturo"), a questo tipo di problematiche e considerazioni devono aggiungersene altre specifiche. L'inattesa nascita del figlio sottopone i genitori a un processo di adattamento alterato fin dal suo inizio: si interrompe bruscamente il processo che riguarda la preparazione fisica, ormonale, emotiva e mentale al divenire genitori; si impone la separazione fisica anzitempo e forzata, con l'ansia di perdere il bambino che angoscia soprattutto la madre; il senso di colpa spesso sovrasta ì primi contatti col bambino, con una rabbia e depressione che possono colpire pesantemente la madre, fino a ostacolare l'acquisizione delle competenze genitoriali. L'atteggiamento dei genitori di Samuele rappresenta una casistica comune nelle unità di terapia intensiva neonatale, dove il personale di cura ed assistenza si trova a dover sostenere, come è logico, oltre al neonato in condizioni critiche per la nascita prematura, anche una famiglia pretermine (cfr. "I dilemmi della neonatologia"). In particolare, il personale deve occuparsi di guidare i genitori verso l'ultima fase del processo di adattamento, facilitata dalla stabilizzazione delle condizioni del bambino, caratterizzata da un cauto ottimismo verso il futuro del figlio, da una maggiore confidenza sviluppata nei suoi confronti, da un'identificazione nel ruolo di genitori che comincia a farsi strada.

La progressione lungo queste fasi può essere significativamente aiutata dall'équipe medico-infermieristica: il comportamento della madre di Samuele, per un verso, e del padre, per l'altro, possono essere ricondotti allo svolgimento difficoltoso di questo processo. Lo sviluppo del legame di attaccamento è ostacolato dall'Isolette e dall'accudimento e assistenza specifica di cui Samuele necessita per le sue condizioni. Anche la struttura fisica dell'unità di terapia intensiva rende difficile i rapporti e il contatto fisico, così essenziale per entrambe le parti in questo momento. Si può quindi affermare che in questa fase sia la salute del bambino che quella dei genitori siano a rischio: devono perciò essere particolarmente tutelati i rapporti tra genitori e bambino, tra personale sanitario e bambino e tra genitori e personale sanitario.

Per quanto riguarda la struttura fisica, si deve evidenziare che in genere non risulta affatto a misura del bambino e dei genitori: se da un lato ciò risulta inevitabile a seguito delle condizioni cliniche del bambino, dall'altro molto può essere tentato dal personale infermieristico per cercare di diminuire il senso di separazione e quasi di occultamento del figlio ai genitori. Le sofisticate attrezzature, ad esempio, possono impedire la vista del piccolo o rendere impervio stargli accanto. I genitori, informati delle funzioni essenziali svolte dai macchinari e dell'importanza di certe attività in parte della giornata, che non sempre rendono possibile la loro permanenza nella stanza del bambino, potranno collaborare maggiormente alle procedure assistenziali e mediche, riducendo inoltre il senso di esclusione dalle cure al figlio che i genitori inevitabilmente vivono. Anche l'ambiente stesso può essere adattato dal personale infermieristico alle necessità del piccolo: le luci abbassate e i rumori ridotti diminuiscono lo stress del bambino e dei genitori; l'accudimento del neonato e una postura atta a favorire l'autoconsolazione possono attenuare il senso di separazione sia dall'una che dall'altra parte del nucleo familiare. La personalizzazione dell'Isolette con oggetti che non ostacolino le procedure e il livello di asepsi

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necessario contribuisce all'identificazione del proprio bambino, da parte dei genitori, nella sua particolarità e unicità, dimensioni che la permanenza in un'Isolette anonima di un ambiente estraneo possono incutere.

L'aggressività della madre e l'evitamento del padre possono essere affrontati dal personale infermieristico con un maggior coinvolgimento nelle cure al figlio, favorendo i contatti fisici col piccolo, a cui mira anche la proposta della marsupio-terapia. Questa si rende opportuna non solo per la temperatura corporea del bambino, ma anche per sviluppare quel sentirsi figlio e genitore rispetto all'altro, cosi come la manipolazione del bambino, i massaggi delicati, la voce della madre e del padre. L'inserimento di eventuali fratelli nel nucleo coinvolto accanto al piccolo può permettere di prevenire o ridurre l'innescarsi di gelosie tra fratelli, scatenabili anche dall'assenza prolungata della madre e dal distacco da questa rispetto alle abitudini precedenti, così come dall'impossibilità di entrare in contatto col nuovo fratellino o sorellina.

Le tensioni e le emozioni non espresse in questa fase potrebbero evolvere in dinamiche di più complessa risoluzione in tempi successivi, innescando dinamiche familiari alterate negli anni. Vi è inoltre la possibilità che quell'immagine iniziale di un bambino gracile, bisognoso di cure, in difficoltà rispetto ai bambini nati a termine, ovvero normali, possa accompagnare i genitori nel tempo, condizionando lo sviluppo successivo del bambino; sarà quindi importante aiutare i genitori nell'elaborare e ristrutturare l'immagine del proprio bambino, una volta superata la fase iniziale e gli eventuali problemi clinici. Una relazione di aiuto rivolta in triangolazione a neonato e genitori, incentrata sui comportamenti citati, può evitare danni alla salute globale del bambino, dei genitori e alle relazioni familiari nel loro complesso. I problemi che sorgono in questi casi possono essere spesso considerati, in verità, di natura iatrogena.

L'ospedalizzazione rappresenta sicuramente uno degli eventi più traumatici dell'infanzia. Le prime esperienze di separazione e perdita si impongono spesso al bambino proprio in relazione a motivi di salute che richiedono un allontanamento da casa. Nonostante queste considerazioni, ai nostri giorni ormai diffuse, gli ospedali dimostrano una certa resistenza al cambiamento, tanto che fino ad oggi è stato il bambino a doversi adattare al ruolo di "piccolo uomo", piuttosto che l'ospedale a quello di "luogo a misura di bambino". L'aspetto più degno di attenzione risulta l'atteggiamento del personale, che, al di là delle altre risorse necessarie, rappresenta di gran lunga il vero elemento innovativo di una organizzazione dei servizi dove l'umanizzazione non sia solo un mero slogan.

Nella gestione dei rapporti operatore-bambino-genitore alcuni aspetti risultano decisamente opinabili: per esempio, chi valuta se la madre o il padre sono in grado di assistere alla procedura che il bambino dovrà affrontare? Con quali criteri il medico o il personale sanitario può valutare se è il caso o meno di allontanare il genitore? Il rapporto bambino-genitore corre su binari difficili da standardizzare. Soprattutto in questo caso è opportuno ripensare a tutti quegli atteggiamenti improntati al paternalismo dell'operatore, che ritiene di poter stabilire il modello di madre o di padre in grado di dar sostegno efficacemente il bambino nella procedura dolorosa o durante prestazioni particolari. Si potrebbe piuttosto considerare che un'alleanza terapeutica tra infermiere e genitore andrebbe a favore sia dell'interesse e sicurezza del bambino, sia della crescita e autonomia dell'adulto nel suo ruolo genitoriale, ruolo che ognuno di noi costruisce su base esperienziale.

Anche nell'esperienza di ospedalizzazione il gioco ha una funzione fondamentale per il bambino: permette infatti lo scarico emotivo, facendo affiorare situazioni significative o difficili da sostenere. È perciò importante che una visione ludica e creativa attraversi tutte le attività del reparto ospedaliero pediatrico. L'elemento portante di questa trasformazione verso una struttura

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a misura di bambino non consiste solo nell'uso dei colori, nella disponibilità di giocattoli o materiali per il gioco, nelle attività di animazione da parte di volontari o educatori, ma soprattutto nella riorganizzazione di spazi e attività.

La dimensione ludica deve attraversare trasversalmente tutta l'ospedalizzazione. L'esperienza riportata in "Quando l'infermiera gioca l'assistenza migliora" rappresenta un significativo esempio di come questo possa essere attuato anche con modesti mezzi e risorse. Il bambino deve aver modo di adattare il suo modo di giocare all'esperienza ospedaliera, certo avendo la possibilità di portare con sé oggetti particolarmente significativi per lui (orsacchiotto, copertina ecc.), rispetto ai quali i principi igienico-sanitari devono cedere la loro supremazia. Ma per rendere meno traumatica e disagevole la separazione dal proprio ambiente e dai genitori è basilare che il bambino possa trasformare tutta l'esperienza stessa in un gioco, come le storie dei bambini dimostrano. Così il percorso fino alla sala operatoria con la bambola in barella, il gioco preferito di una piccola malata, diventa un modo per rivivere con un intento liberatorio le ripetute esperienze traumatiche.

Il gioco permette all'infermiere di aiutare il bambino nella comprensione di eventi minacciosi e sconosciuti, che possono essere esplorati e riesplorati attraverso le attività ludiche che il bambino stesso creerà a sua misura. Nello scoprire e portare a galla i propri sentimenti il gioco rappresenta, come sostiene Erikson, la possibilità autoterapeutica più naturale che l'infanzia possa offrire. Esso porta alla conoscenza, permette di rivivere con più distacco, favorisce la comprensione di eventi sconosciuti o di concetti errati. L'infermiere del bambino è quindi un operatore che ha saputo trasformare le attività assistenziali e l'organizzazione del reparto stesso in una dimensione ludica, dopo che l'infermiere ha stabilito un'alleanza terapeutica, secondo il modello bioetico, con il bambino e i genitori.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Donzelli G.P., Pratesi S., Rapisardi G., Piumelli R., Landini L., La patologia iatrogena in neonatologia, in "Salute e Territorio" anno XVI, nr. 93, p. 43.

Giovanni Paolo IIEvangelium vitae, p. 95-96

Houd S., Il parto: un potere da restituire alla donna, in “Le culture sul parto", Feltrinelli, Milano, 1985, p. 87.

Parlamento EuropeoCarta Europea dei bambini degenti in ospedale, in "Infermiere Informazione", 4/1991, p. 137.

Petrillo M., Sarget S., Assistenza psicologica del bambino ospedalizzato, Ambrosiana, Milano, 1980, pp. 131-159.

Romito P., Parto: lotte delle donne e nuovi riduzionismi, in "Le culture sul parto", Feltrinelli, Milano, 1985, pp. 17-18.

Smulders B., Limburg A., Medicalizzazione e parto in casa in Olanda: una contraddizione?, in "le culture sul parto", Feltrinelli, Milano, 1985, pp. 94-98.

PER APPROFONDIRE

Barnett S.A., Una nuova genetica, in "Prometeo", n. 49, marzo 1995.

Cendon P., I bambini e i loro diritti, Il Mulino, Bologna, 1991.

Gianini Belotti E., Non di sola madre, Rizzoli, Bologna, 1983.

Nucchi M., Aspetti psicologici del bambino in ospedale, Sorbona, Milano, 1995.

Pinkola Estès C., Donne che corrono coi lupi, Frassinelli, Milano, 1993.

Relier J.P., Amarlo prima che nasca, Le Lettere, Firenze, 1994.

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L'ANZIANO COME CITTADINO

FATTI

Invecchiare a domicilio utopia o realtà?

L'amore non ha età

IDEE

Il sogno di una casa tutta per sé

Vecchiaia e società

I servizi domiciliari in Gran Bretagna

La cura nella società e nella famiglia

NORME

● Diritti Umani

● Norme Deontologiche

COMPORTAMENTI

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FATTI

INVECCHIARE A DOMICILIO: UTOPIA O REALTÀ?

Lara è una giovane infermiera trasferitasi di recente in una grande città in cerca di lavoro. Dopo breve tempo riesce finalmente a trovare un incarico presso il Centro antidiabetico e viene impiegata nell'attività di assistenza domiciliare. Tra i casi che le sono stati affidati si trova spesso a ripensare alla signora Lucia, vedova ultraottantenne.

La signora LucIa è stata inserviente di cucina in diversi ristoranti della città e, poiché lavorava in nero, si trova ora a dover sopravvivere con la pensione minima. È andata avanti diversi anni grazie ai suoi risparmi, ma ora il piccolo gruzzolo si sta estinguendo. L'anziana signora vive in centro storico, all'ultimo piano di un vecchio palazzo senza ascensore e soffre di diabete.

Lara si reca ogni due settimane in visita alla signora Lucia per controllarle i valori glicemici. L'abitazione della signora Lucia è raggiungibile con tre rampe di scale a gradini stretti e alti e Lara, nonostante la giovane età, raggiunge il piccolo appartamento sempre con il cuore in gola. Il gabinetto è all'altro capo dell'edificio; bisogna scendere una rampa di scale e risalirne un'altra.

"È il mio incubo ― dice la signora Lucia alla giovane infermiera ― certe volte quando non mi sento tanto bene, rimango appoggiata al muro della scala e mi chiedo se riuscirò a tornare a letto; non domando però mai aiuto ai miei vicini perché vorrebbero prendersi le mie stanze. Cercano in tutti i modi di farmi ricoverare in casa di riposo. Io preferirei morire, piuttosto. Da qui si gode un incantevole panorama e il mio gatto, l'unico affetto che mi è rimasto, è libero di saltare sui tetti".

Metà della pensione di Lucia se ne va per l'affitto; il resto lo spende in buona parte per il riscaldamento, anche se per risparmiare si riscalda a malapena: d'inverno rimane a letto sino a tardi e il resto della giornata lo passa nei grandi magazzini o nelle chiese. Non si annoia ― dice ― fa molte passeggiate durante le quali legge i titoli dei giornali alle edicole; quando rientra legge il quotidiano del giorno prima che una amica le passa.

Lara si rende conto che la causa principale delle crisi ipoglicemiche di Lucia è l'alimentazione scorretta e insufficiente. Propone perciò di far intervenire il Servizio sociale per la fornitura di una dieta bilanciata a domicilio. Lucia si oppone in modo categorico, sostiene che un'esperta di cucina come lei non può ridursi a mangiare pasti preconfezionati da altri! In realtà, confiderà poi all'infermiera che ha l'impressione di mendicare: rifiuta il principio della pubblica assistenza e non riesce a rassegnarsi a questa situazione. Impreca contro la società che non ha il coraggio di sbarazzarsi delle sue "bocche inutili", ma le fornisce appena il minimo per mantenersi sull'orlo della morte. L'anziana signora ripete sempre più spesso, nei frequenti momenti di sconforto, che ha troppo per morire e troppo poco per vivere! Lara informa della situazione il Servizio sociale e riesce a far accettare all'utente la soluzione della dieta a domicilio. Finalmente Lucia raggiunge un periodo di discreta compensazione per quanto riguarda la patologia diabetica.

Si avvicinano così le feste natalizie. Lara può usufruire di un breve periodo di ferie e ritorna temporaneamente al proprio paese. Al rientro in servizio si accorge che Lucia è stata cancellata dalla lista degli utenti sottoposti periodicamente ai controlli e chiede subito informazioni. La coordinatrice le riferisce che Lucia è in casa di riposo: all'ultimo controllo a domicilio è stata trovata distesa a terra, perché incapace di rialzarsi in seguito a una banale caduta. A seguito di quell'episodio, i vicini si rivolgono all'autorità sanitaria locale e suggeriscono in modo pressante la necessità di un ricovero definitivo in casa di riposo, adducendo la pericolosità della situazione creatasi per la condomina così poco "autosufficiente”. Continuano a lamentarsi della scarsa igiene in cui viene lasciato il servizio

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comune, del gatto che disturba, della potenziale pericolosità di eventuali fughe di gas, dello spettacolo poco decoroso che una vecchia dà quando va e viene dai servizi igienici, vestita alla bell'e meglio. Mentre risuona la voce della coordinatrice, Lara ripensa all'ultima rivista professionale che ha sfogliato. Vi si parlava delle politiche sociali riguardanti la terza età, di quanto sia importante l'integrazione tra nuove e vecchie generazioni, dei considerevoli vantaggi dell'assistenza domiciliare e del contributo che può dare la professione infermieristica rispetto a queste problematiche...

L'AMORE NON HA ETÀ

Arianna è alla prima esperienza professionale come caposala in una casa di riposo della provincia. Il primo giorno di lavoro viene accolta dal direttore che le illustra l'organizzazione dell'istituzione. Il dottor Carli auspica di poter continuare il rapporto di collaborazione che esisteva con la caposala che aveva lavorato con lui per trent'anni e che purtroppo era ora andata in pensione. L incontro si conclude con le solite formalità di benvenuto e la presentazione della nuova caposala a tutto il personale.

La casa di riposo ospita una utenza mista di settanta persone; in minima parte gli utenti sono autosufficienti. L'edificio è stato recentemente ristrutturato: sono state eliminate le camere a dieci posti letto e ora gli ospiti possono usufruire di comode stanze a 2/4 posti letto con servizi annessi. La zona notte è rigorosamente suddivisa in sezione maschile e sezione femminile; gli anziani utenti possono usufruire però degli stessi spazi diurni: refettorio e sala soggiorno.

Arianna inizia pian piano a conoscere personalmente tutti gli utenti e a conquistarsene le simpatie per i suoi modi gentili e affettuosi. Ha notato che Livia e Guido, rispettivamente 71 e 76 anni, sono sempre vicini e si aiutano volentieri l’un l’altro nei momenti di difficoltà. Guido è un paziente "difficile"; ha sofferto molto per un recente lutto che l'ha costretto a entrare in casa di riposo e non riesce ad accettare questa nuova condizione. Con il passare del tempo la giovane caposala li osserva in modo più attento e spesso li coglie in atteggiamento affettuoso. L'altro personale di assistenza, quando li sorprende in questi momenti, li canzona e questo atteggiamento disturba l'umore di Livia e Guido.

Dopo qualche mese, Arianna si trova da sola in medicheria con Livia e l'anziana signora inizia a raccontare la sua storia. «Sono qui ormai da dieci anni, i miei figli non li vedo più, tanto sono occupati con il loro lavoro e le loro famiglie; mio marito è morto poco prima che io fossi ricoverata in casa di riposo e ormai la mia sola compagnia è Guido. Purtroppo possiamo vederci solo di giorno e quando uno di noi due non si sente bene può passare anche parecchio tempo. Come vorrei essere più giovane e in buona salute per poter vivere fuori da qui con questo nuovo compagno! Con Guido fantastichiamo spesso, vorremmo vivere insieme gli ultimi anni della nostra vita».

Arianna ascolta in silenzio e termina di riordinare il materiale usato per la medicazione. Nella casa di riposo l'organizzazione del lavoro è scandita da periodiche riunioni a cui partecipa tutto il personale. Tali incontri sono anche l'occasione per esporre eventuali proposte relative alla vita di comunità. Arianna, dopo una lunga riflessione, decide di proporre il trasferimento di Livia e Guido nella stessa stanza, perché possano vivere in modo più sereno questo periodo in casa di riposo. Ci tiene a sottolineare che Guido sta traendo notevoli benefici dal rapporto con Livia e questo gli sta consentendo di accettare pian piano il suo ricovero in casa di riposo. Il giorno della riunione la proposta è in minima parte accettata e in larga parte invece contrastata. Il direttore teme che questa novità" possa danneggiare il prestigio dell'istituzione. L'idea di rapporti sessuali tra gente anziana lo scandalizza. Interpellati, i parenti si oppongono in modo deciso.

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IDEE

IL SOGNO DI UNA CASA TUTTA PER SÉ

Nel romanzo Il diario di Jane Sommers Doris Lessing narra come da un incontro casuale tra una povera e vecchia signora e la raffinata caporedattrice di una rivista a larga diffusione possa nascere una singolare amicizia che produce una profonda riflessione sulla vecchiaia e un ampliamento dell'esperienza umana della protagonista. Il brano di seguito riportato esprime l'importanza dell'abitazione per una persona anziana.

«La specializzazione», disse lei, «è la cosa più importante. È la cosa che sta tra una persona e il nulla. Quello è una casa tutta per sé».

Quella sera mi raccontò delle lotte che aveva dovuto fare per farsi dare l'appartamento, perché da principio aveva occupato quello all'ultimo piano, di una sola stanza, ma aveva sempre tenuto d'occhio il seminterrato. L'aveva desiderato, aveva aspettato, aveva studiato il modo di farselo dare, e alla fine l'aveva avuto. «E non riusciranno mai a mandarmi via, è meglio che non ci pensino nemmeno». Parlava come se tutto questo fosse successo il giorno prima, e invece doveva trattarsi dei tempi della prima guerra mondiale.

Mi raccontò di quando non aveva i soldi per l'affitto di quelle stanze, di averli risparmiati per anni, un penny dopo l'altro, di come poi glieli avesse rubati, due anni di risparmi faticosi, quella strega del primo piano, e di come avesse ricominciato a risparmiare per poi finalmente andare dal padrone di casa e dirgli: adesso me lo deve dare quell'appuntamento nel seminterrato, i soldi ce li ho. E lui mi disse: «E come farà a continuare a pagare l'affitto? Lei fa la modista, no?». E io dissi: «A questo ci penso io, lei non si preoccupi. Se non riuscirò a pagare potrà sempre buttarmi fuori». E non ho mai tardato a pagare, nemmeno una volta. Stavo senza mangiare piuttosto. No, questa è una cosa che ho imparato molto presto. Se hai una casa hai tutto. Senza casa sei come un cane. Non sei nessuno. «Lei ce l'ha una casa?» E quando dissi di sì, lei fece, annuendo con furia, con rabbia: «Molto bene e veda che non gliela portino via. Con una casa, non può succederle niente di brutto».

Doris LessingIl diario di Jane Sommers

VECCHIAIA E SOCIETÀ

La scrittrice e saggista Simone de Beauvoir ha dedicato un'ampia ricerca alla condizione dell'anziano nella società moderna. La vecchiaia non è un problema separato dal complesso delle istituzioni, dei valori e dei fini che riflettono il livello di ogni civiltà. Forse per questo attorno agli anziani esiste, a detta di S. de Beauvoir, una "congiura del silenzio".

Questo studio, per quanto sommario, è sufficiente a dimostrare fino a qual punto la condizione del vecchio dipenda dal contesto sociale. Il destino biologico ch'egli subisce comporta fatalmente una conseguenza economica: egli diventa improduttivo. Ma la sua involuzione è più o meno rapida a seconda delle risorse della comunità: in certune la decrepitezza comincia a quarant'anni, in altre a

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ottanta. D'altronde, quando la società è relativamente prospera le sono permesse certe scelte: è ben diverso per l'uomo anziano essere considerato come un fardello ingombrante o essere integrato in una comunità i cui componenti hanno preferito sacrificare una certa parte delle loro ricchezze per garantirsi la propria vecchiaia. Non è in gioco soltanto la sua situazione materiale ma anche il valore che gli viene riconosciuto: può essere trattato bene e disprezzato, o trattato bene e venerato o temuto. Queste varie condizioni dipendono dagli scopi cui mira la collettività.

Il termine decimo non ha senso se non in rapporto a un certo fine cui ci si può avvicinare o allontanare. Se un gruppo cerca soltanto di sussistere giorno per giorno, diventare una bocca inutile è declinare. Ma se, misticamente legato agli antenati, il gruppo aspira ad una sopravvivenza spirituale, allora si incarna nel vecchio che appartiene nel tempo stesso al passato e all'al di là, e pertanto, anche nella più grande decadenza fisica, egli può essere considerato come un culmine della vita. Nel più frequente dei casi, questo apogeo si situa all'età dei capelli grigi, e la decrepitezza è considerata come un declino, ma non sempre. È il significato che gli uomini attribuiscono alla propria esistenza, è il complesso del loro sistema di valori che definisce il significato e il valore della vecchiaia; inversamente dal modo in cui una società si comporta con i suoi vecchi, essa rivela senza equivoci la vera essenza ― spesso accuratamente dissimulata ― dei suoi principi e dei suoi fini.

Le soluzioni pratiche adottate dai primitivi circa i problemi loro posti dai vecchi sono molto diverse: si uccidono, si lasciano morire, gli si concede un minimo vitale, gli si assicura una fine confortevole, o addirittura li si onora e li si ricolma di agi. I popoli cosiddetti civili usano loro gli stessi trattamenti; solo l'assassinio è vietato, almeno in modo non dissimulato...

Simone de BeauvoirLa terza età

I SERVIZI DOMICILIARI IN GRAN BRETAGNA

Da una inchiesta sociologica sulla condizione della vecchiaia, rivolta a porre in luce i problemi dell'inserimento dei vecchi nel contesto sociale della nostra epoca, proponiamo la descrizione dei servizi domiciliari attivati in Gran Bretagna per garantire i diritti della popolazione anziana.

In molti paesi europei (ma in Gran Bretagna in modo particolare) lo Stato ha creato tutta una serie di servizi domiciliari a favore dei vecchi. Sono nati soprattutto per aiutarli a restare più a lungo possibile nel loro ambiente, inseriti nel contesto sociale a loro familiare, evitando così i cronicari e le case di riposo. Ma i servizi domiciliari (detti anche "extramurari" o aperti per una loro caratteristica fondamentale: il fatto cioè di svilupparsi al di fuori di strutture chiuse), sì prefiggono pure un altro scopo: diminuire il numero degli anziani ricoverati negli ospedali, quindi ridurre i costi sanitari. In questo modo, da un lato si realizza un'importante conquista sociale che consiste nell'evitare nell'anziano, fino a quando è possibile, il "ricovero", dall'altro si attua un notevole vantaggio economico in quanto, riducendo il numero dei ricoveri, l'organizzazione sanitaria risparmia sugli alti costi di gestione dei posti letto.

I servizi domiciliari sono quasi sempre organizzati dai Comuni e consistono in genere nel servizio gratuito a domicilio di infermiere, di collaboratrici domestiche, di chiropodisti, di assistenti sociali e di fisioterapisti. Tutti i servizi sono collegati fra di loro e coordinati dall'ospedale zonale che diventa un po’ il centro propulsore di queste prestazioni, talune delle quali sono di carattere strettamente sanitario, mentre altre sono di tipo sociale (...).

La Gran Bretagna è stato il primo paese europeo che, fin dal dopoguerra, ha organizzato l'assistenza in maniera organica e capillare. Questo paese, che si è industrializzato assai prima del nostro, si è

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trovato con molto anticipo a dover fronteggiare il problema dei propri vecchi, arrivati al limite del pensionamento già tarati da tutta una serie di malattie professionali e sociali (sordità, silicosi, artrite deformante, stati depressivi...). E, per giunta, erano vecchi che il processo produttivo aveva reso psicologicamente indisponibili: incapaci di organizzarsi, di utilizzare in qualche modo il tempo libero (individui che per anni avevano compiuto gli stessi gesti, avevano mangiato lo stesso cibo "prefabbricato" nelle stesse ore del giorno: avevano scambiato ― come in un rituale ― le stesse parole, pensato le stesse cose). A settanta anni, vecchi finiti, con una pensione irrisoria che lo Stato non "poteva" aumentare: il calvario dei vecchi inglesi era simile (ed è simile) a quello dei vecchi di ogni altro paese. Con una differenza: che in Inghilterra, lo Stato "colpevole" si assumeva il dovere di "collaborare" al mantenimento in vita di questi rottami che aveva prodotto nel tempo.

Fu dalla considerazione che i bisogni sanitari e sociali di una persona andavano "soddisfatti" nello stesso momento, senza dare agli uni o agli altri un carattere prioritario, che nacque l'idea di affidare ad un unico organismo: il National Health Service (Servizio Sanitario) questo tipo di assistenza.

In questo modo l'assistenza diventava un servizio veramente funzionale, perché si occupava contemporaneamente sia delle esigenze medico-sanitarie che di quelle sociali di ogni cittadino, dato che si trattava di necessità strettamente collegate e interdipendenti. Gli inglesi, infatti, si rendevano conto che l’apporto di uno soltanto dei "servizi" che compongono l'assistenza domiciliare (per esempio l’infermiera o l’assistente sociale), non sarebbe stato sufficiente per risolvere i problemi del vecchio che vive solo, e quindi non avrebbe impedito ― specie in caso di malattia ― il suo ricovero forzato. È infatti tutta l’organizzazione dei servizi, vista nella sua globalità che in Gran Bretagna riesce veramente ad assolvere al compito di ritardare o addirittura evitare il ricovero. Così le collaboratrici domestiche diventano essenziali, come le infermiere, come le assistenti sociali, come i fisioterapisti (nel caso di vecchi colpiti da paralisi), come i chiropodisti. Si tratta di una vera e propria "catena assistenziale" in cui ogni singola prestazione ― strettamente collegata ― diventa estremamente funzionale proprio perché a sua volta è sostenuta da un altro tipo di prestazione; come per esempio, i pasti già confezionati e serviti caldi a domicilio, la distribuzione di libri e riviste, le semplici "visite amichevoli"; tutto ciò insomma che può aiutare una persona anche ammalata a restare a casa senza sentirsi isolata, abbandonata a se stessa.

Alcune di queste mansioni (domestiche, infermiere, assistenti sociali, fisioterapisti) sono affidate esclusivamente a personale professionista; altre (come la distribuzione dei pasti, dei libri, delle riviste; la visita amica ecc...) sono affidate invece a quei cittadini volontari che si offrono gratuitamente. Di questi servizi possono fruire tutti quelli che ne facciano richiesta, ma con ciò non vogliamo dire che tutte le domande siano soddisfatte e tutte allo stesso modo...

M. Malfatti e R. TortoraGli anni negati

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LA CURA NELLA SOCIETÀ E NELLA FAMIGLIA

L'attività professionale di medici e infermieri si riassume nel verbo "curare" (che dal punto di vista ideale ha come risultato eccellente il guarire). Il "prendersi cura" si è sempre più staccato dal curare ed è stato affidato alla famiglia o al volontariato. Ma proprio la condizione di cronicità e i bisogni connessi con la sempre più lunga stagione della vecchiaia ci costringono a vedere il legame intrinseco tra il "curare" e il "prendersi cura". In principio era la cura: è il titolo efficace della raccolta di saggi da cui traiamo l'intervento del giurista Stefano Rodotà.

"Tempo di cura", "lavoro di cura", "assegno di cura", diritti e doveri "di cura": e si potrebbe continuare. Un lessico sempre più ricco testimonia dell'uscita della nozione di cura dall'ambiente propriamente medico, dello spezzarsi di un rapporto esclusivo tra cura e malattia, e della progressiva individuazione di una dimensione sociale dove quella nozione si arricchisce continuamente di significati. Seguendo questa indicazione, si sottolinea come i servizi e il lavoro, la città e suoi orari, la distribuzione delle funzioni familiari dovrebbero essere organizzati in forme tali da consentire appunto l’adempimento delle essenziali funzioni di cura. Oggi si discute e si teorizza un passaggio dalla società del "benessere" alla società della "cura".

(...) In questa prospettiva si comprende il progressivo emergere dell'autonomia di una serie di funzioni di cura, svincolate dall'idea di malattia e che assumono un preciso valore sociale e istituzionale.

Si parla ormai abitualmente di tempo di cura o di lavoro di cura, ricollegando loro eventualmente anche un assegno di cura come retribuzione per quanti svolgono questo tipo di attività. Si delinea così anche un quadro medito di diritti e di doveri.

Il mutamento si coglie con particolare nettezza quando la nozione di cura viene riferita al bambino, all’anziano, all'handicappato, dunque a soggetti che non appartengono alla categoria dei malati, ma incarnano una "condizione". Ora, questa non è una condizione in sé nuova. E nuovo il modo in cui essa si presenta, soprattutto per effetto del mutamento delle funzioni familiari.

In passato, infatti, una serie di funzioni, comprese quelle relative alla cura dei soggetti appena ricordati, venivano ritenute attribuzioni quasi "naturali" della famiglia, e da questa automaticamente adempiute secondo una consolidata distribuzione dei ruoli, resa possibile dalle dimensioni e dalla modalità dell'organizzazione familiare.

La struttura dell’abitazione rifletteva immediatamente questo stato di cose, riferita com'era alla compresenza di almeno tre generazioni che consentiva un forte intreccio delle funzioni di cura, con gli anziani direttamente assistiti e che, a loro volta, contribuivano alla cura dei nuovi nati. L’abbandono della famiglia allargata e il progressivo strutturarsi dell'abitazione attorno a due sole generazioni, fanno saltare questo schema e determinano un mutamento delle mortalità e dei luoghi della cura, prima indistinguibili nello svolgimento ordinario nella vita familiare.

Stefano RodotàItinerari della cura

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NORME

L'anziano di per sé non viene preso in considerazione dall'ordinamento giuridico, a meno che non si trovi in una condizione particolare (se non è in grado di provvedere a se stesso, se è senza mezzi di sussistenza ecc.). Tale scelta appare più che opportuna, perché va a sottolineare che l'anziano che non si trova in una condizione a rischio: è un soggetto come qualsiasi altro e perciò non necessita di particolare protezione, ma d'altro canto non deve neanche essere soggetto a limitazioni. Ciò non esclude che debbano esistere precise garanzie giuridiche per i soggetti in difficoltà.

DIRITTI UMANI

Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo

Art. 25

Ognuno ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ognuno ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.

(Onu, 1948)

Carta dei diritti degli anziani non autosufficienti

Chi ti dà il diritto

... di mandarmi via di casa, dici tu, per il mio bene?

... di fare pressione perché decida quello che vuoi tu?

... di farmi vivere solo tra vecchi?

... di farmi vivere in un ambiente anonimo, squallido, dove ci si perde perché tutte le stanze sono uguali, dove perdo l'identità e i riferimenti?

... di non darmi ascolto quando esprimo il mio parere sulle cose che mi riguardano direttamente?

... di dimenticarti che sono una persona anch'io nonostante sia vecchio?

... di non darmi la possibilità di reclamare, di fare ricorsi, di contestare la tua decisione?

... di rompere rapporti, legami, canali che mi tenevano vivo dentro questo mondo?

... di trascurare la mia "preferenza" di vivere a casa mia?

... di non considerare che abbandonare la casa per molti vuol dire morire prima?

"I diritti negati degli anziani non autosufficienti" (Seminario Fondazione Zancan)

NORME DEONTOLOGICHE

Codice deontologico delle infermiere italiane

Primo punto di riferimento per le infermiere del nostro Paese sarà sicuramente il Codice dell'infermiere professionale revisionato e approvato dalla Federazione Nazionale Collegi IP-AS-VI nel 1977, che, pur non dettando un programma di azione,

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indica in quale misura devono essere tenuti in considerazione i problemi etici e del comportamento dei singoli professionisti di fronte ai temi del nostro tempo, indipendentemente dalle rispettive personali convinzioni.

L'infermiere (...) è chiamato non solo ad assicurare una qualificata assistenza infermieristica, ma anche a dare risposte professionali sempre nuove per favorire, con la collaborazione di tutto il personale sanitario, il progresso della salute nel Paese.

― Codice etico delle infermiere americane (1976). L'infermiera lavora rispettando la dignità e l'unicità di ogni cliente senza limitazioni causate da condizioni socio-economiche, da caratteristiche individuali e dalla natura delle infermità.

1.1 Libera scelta dei clienti. - I clienti devono essere coinvolti, ogni qualvolta ciò sia possibile, in tutte le decisioni che riguardano la loro assistenza medica. Ciascun cliente ha il diritto morale di decidere ciò che gli sarà fatto, di essere informato sufficientemente per poter pronunciare giudizi consapevoli, di essere avvertito dei possibili effetti della terapia e di accettare, rifiutare o sospendere un trattamento. Anche i minorenni ed altre persone non legalmente capaci hanno questi diritti, che devono essere completamente soddisfatti. La legge in questo campo può essere differente da stato a stato: ogni infermiera ha l'obbligo di essere informata al riguardo e di proteggere e sostenere i diritti morali e legali di tutti i clienti, tenuto conto delle leggi dello stato e di quelle federali. L'infermiera deve tener presente che in alcune situazioni il diritto di un individuo all'autodeterminazione della sua assistenza medica può essere temporaneamente alterato per il benessere comune. Poiché sono implicati molti fattori, ogni caso va considerato a sé, ma bisogna sempre cercare di mettere il cliente in condizione di decidere da solo, mentre vengono tutelati i suoi diritti.

1.2 Condizioni socio-economiche dei clienti. - La domanda di assistenza infermieristica è universale, senza differenze nazionali, etniche, religiose, culturali, politiche ed economiche, come universale è l'offerta di assistenza per questo fondamentale bisogno. L'assistenza infermieristica deve essere fornita per necessità umane, senza tener conto dell'ambiente, circostanze od altri indici delle condizioni socio-economiche di un individuo.

1.3 Caratteristiche individuali dei clienti. - L'età, il sesso, la razza, il colore, il carattere o altre caratteristiche individuali, come le differenze di ambiente, abitudini, tendenze ed opinioni, influenzano l'assistenza infermieristica solo come fattori che l'infermiera deve comprendere, considerare e rispettare per adattare l’assistenza ai bisogni di ciascun paziente e mantenere il rispetto per lui e la dignità che ciascuno possiede. Considerazioni sul sistema di valori e lo stile di vita di ogni cliente devono essere inclusi nella programmazione sanitaria...

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COMPORTAMENTI

Nel novembre 1993 gli infermieri europei si sono riuniti ad Atene per parlare dell'anziano, in occasione dell'anno dell'anziano e della solidarietà tra le generazioni. Dai lavori è emerso che per gli infermieri non è tanto necessaria una formazione complementare in ambito geriatrico, quanto piuttosto un'approfondita conoscenza (nella formazione di base e permanente) delle conseguenze di questo periodo della vita sullo stato di salute, tenuto conto dei fattori psico-fisici, socio-economici e familiari (cfr. "La cura nella società e nella famiglia"). L'anziano perciò deve essere considerato una persona, parte di un nucleo familiare e sociale cui ha contribuito. Il rapporto con la persona anziana sarà necessariamente improntata a solidarietà, rispetto e protezione, poiché il valore di una società si riconosce nella misura in cui difende ogni persona che ne fa parte, tutelandone i diritti.

L'infermiere per lo più incontrerà i problemi degli anziani in situazioni professionali concrete, come quella della giovane Lara (cfr. "Invecchiare a domicilio, utopia o realtà?"). Come guida per il comportamento corretto è bene che tenga presente le seguenti indicazioni:

● non considerare le persone anziane come componenti di un gruppo omogeneo con carente vitalità e indipendenza e scarso sviluppo psicologico ed emotivo;

● non considerare la vecchiaia sinonimo di malattia (cfr. S. de Beauvoir:"Vecchiaia e società";

● individuare la famiglia come sostegno importante per i componenti più deboli;

● fare da legame tra la persona anziana e i servizi (Lara rivolgendosi al servizio sociale dimostra di conoscere la rete esistente nella realtà locale);

● tenere conto delle esigenze della popolazione anziana nell'organizzazione del lavoro (attraverso strumenti quali la formazione, l'aggiornamento e la ricerca);

● facilitare attraverso le attività di educazione sanitaria, l'acquisizione di comportamenti adeguati al fine di determinare uno stile di vita sano.

Ulteriori indicazioni ce le fornisce la Conferenza di Atene attraverso alcuni principi fondamentali che l'infermiere deve conoscere, qualunque sia il settore e il livello in cui si trovi ad operare:

● le persone anziane sono un gruppo debole della popolazione;

● le persone anziane devono restare il più possibile nel loro ambiente naturale di vita, limitando l'ospedalizzazione;

● l'umanizzazione dei servizi deve corrispondere ai dettati della Carta dei diritti fondamentali dell'uomo (cfr. "Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo");

● la società, in tutte le sue componenti, deve partecipare alla vita dell'anziano;

● la recessione economica attuale, se sicuramente penalizza l'espansione dei servizi di assistenza pubblica, incrementa la rete volontaristica di risorse umane e materiali che mira ad attivare il potenziale degli anziani;

● l'impostazione solo curativa degli attuali sistemi sanitari non ha favorito quelle azioni centrate sulla promozione della salute e sulla prevenzione delle malattie, creando negli anziani uno stato di salute precario.

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Indubbiamente la componente infermieristica è considerevole nei servizi di assistenza per le persone anziane ammalate. Attualmente essa porta un contributo sempre maggiore all'assistenza agli anziani in buona salute, allo scopo di aiutarli a conservare la loro indipendenza e a curarsi in modo autonomo, assicurando loro una migliore qualità di vita. Alla luce di queste considerazioni, è importante che l'operatore tenga sempre presente che l'impegno della professione nei confronti delle persone anziane deve essere volto a fornire un'assistenza qualificata che tenga costantemente presenti i diritti degli utenti.

Per quanto riguarda l'agire quotidiano, le associazioni professionali hanno formalizzato, con le "Prese di posizione del CII", indicazioni che possono aiutare il professionista:

● partecipare agli sforzi compiuti nel proprio paese per assicurare assistenza sanitaria alle persone anziane (in particolare collaborando alle iniziative miranti a promuovere e proteggere la salute nel domicilio e nella comunità) e per promuovere programmi di educazione sanitaria;

● influenzare nel proprio paese la politica sanitaria in modo che tutte le persone anziane che ne hanno bisogno possano contare su un'assistenza adeguata e umana;

● proporre, a tutti i livelli del programma di formazione infermieristica, uno specifico insegnamento riguardante l'assistenza alle persone anziane;

● proporre ricerche infermieristiche al fine di migliorare l'assistenza alle persone anziane e di agevolare in tale campo dei cambiamenti nei servizi e nella gestione dell'assistenza infermieristica;

● riesaminare la legislazione concernente la protezione delle persone anziane e del personale sanitario addetto e incoraggiare l'adozione di misure legislative corrispondenti.

A conclusione possiamo dire che, se in tempi brevi si è riusciti a raggiungere l'obiettivo specifico "aggiungere anni alla vita", compreso all'interno della strategia OMS "Salute per tutti entro il 2000", ora è necessario impiegare le risorse professionali per il raggiungimento di un altro obiettivo, complementare al primo, "aggiungere vita agli anni". A tal fine è indispensabile non solo l'utilizzo di avanzate tecnologie, ma anche l'affermazione di un sistema di valori che neutralizzi le attuali forme di penalizzazione ora presenti nei confronti della persona anziana. La sfida per gli infermieri sarà riuscire a dare un valido contributo per la costruzione di una nuova realtà assistenziale più vicina alle esigenze degli anziani.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

de Beauvoir S., La terza età, Einaudi, Torino, 1971, pp. 86,87.

Lessing D., Il diario di Jane Sommers, Feltrinelli, Milano, 1986, p. 21.

Malfatti M., Tortora R., Gli anni negati, Mursia, Milano, 1974, pp. 145-150.

Rodotà S., "Itinerari della cura", in Donghi P. e Preta L. (a cura di), In principio era la cura, Laterza, Roma-Bari, 1995, pp. 103-104.

PER APPROFONDIRE

AA.VV., Diritti umani e vita anziana, Ed. del Centro Rezzara, Vicenza, 1992.

Calamandrei C., Lampronti V., Maciocco G., Guida all'assistenza domiciliare, Ed. NIS, Roma, 1981.

Cassese A., I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Bari, 1994.

Franco A., Il vecchio in Italia, Ed. Coines, Roma, 1972.

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LA GESTIONE DELLA CRONICITA'

FATTI

La memoria come strumento di salute

Laura: una storia di dipendenza dagli altri

Nelle istituzioni la noia è il male peggiore

La comunicazione non verbale nell'assistenza agli anziani

IDEE

Il cambiamento, oltre lo sforzo e la ragione

Voglio morire come gli esquimesi

Accudimento per un lungo tramonto

La situazione del malato cronico

Una nuova forma di povertà

Quando l'assistenza viene scaricata sulla famiglia

NORME

● Legislazione

● Norme Morali

COMPORTAMENTI

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FATTI

LA MEMORIA COME STRUMENTO DI SALUTE

Il signor Giovanni di 80 anni viene ricoverato in un reparto ospedaliero, perché affetto da problemi di carattere intestinale. Viene visitato immediatamente, ne viene raccolta con cura la storia ed inizia la terapia, che prevede l'ospedalizzazione per una settimana.

La lunga vita di Giovanni era stata particolarmente significativa. Per oltre 60 anni aveva fatto il sagrestano della parrocchia del paese in cui abitava: per tutto questo periodo è stato testimone di tutte le vicende serene e tristi dei suoi concittadini. Dalla nascita alla morte, tutto sapeva e tutto condivideva; in particolare, riferiva di aver accolto le nascite, partecipato ai matrimoni e accompagnato i compaesani all'ultimo viaggio.

Il paziente riferiva al medico con assoluta naturalezza questa sua esperienza di vita: ma con altrettanta naturalezza sembrava incapace di separare la propria vita da quella di tutta la comunità. Nella gioia e nella tristezza identificava la propria esistenza con la memoria; disse anche al medico che fino a poco tempo prima del ricovero andava tutti i giorni, con il sole o con la pioggia, in bicicletta, al cimitero, per ricordare i concittadini scomparsi: per lui questo contatto rinnovato era un motivo di vita. Ripeteva anche che non gli era possibile immaginare la sua esistenza senza la possibilità di ricordare quel passato, fatto di uomini e di donne del suo paese.

Il giorno successivo al ricovero il signor Giovanni chiese un colloquio al medico curante per esprimere tutto il disagio per essere in ospedale, dove era certamente trattato bene e curato con attenzione, ma dove si sentiva privato di tutte quelle pratiche che davano un senso alla sua vita. Per lui era impossibile restare fermo in corsia senza esercitare il "ricordo" di quelle tappe in bicicletta al cimitero del paese. Questi fatti erano espressi con la naturale semplicità di un evento essenziale, come la luce e l'aria: senza la "memoria" Giovanni non poteva vivere.

Nei giorni seguenti il medico notò un peggioramento nel paziente: se da un lato la sintomatologia specifica, per la quale era stato ricoverato, regrediva rapidamente, dall'altra le condizioni generali mostravano un rilevante declino, sia dal punto di vista psicologico che per quanto riguarda la mobilità. Il malato continuava a lamentarsi e a chiedere con sempre maggior insistenza di poter ritornare a casa.

Il medico curante decise di abbreviare ulteriormente la sua degenza, anche tenendo conto del miglioramento della patologia intestinale. Giovanni tornò a casa rasserenato. Recatosi in ospedale per un controllo ambulatoriale dopo 15 giorni, il signor Giovanni riferiva di aver ripreso completamente la vita precedente al ricovero e di essere ritornato a tutte le sue pratiche di umana pietà. Ogni giorno in bicicletta andava al cimitero, ricordava i suoi morti e ritrovava speranza e serenità.

LAURA: UNA STORIA DI DIPENDENZA DAGLI ALTRI

Laura ha trenta anni e da circa dieci è malata di sclerosi multipla. La malattia l'ha resa invalida lentamente, fino alla completa dipendenza dagli altri in ogni cosa. Oggi non è in grado di muovere alcun muscolo, ogni movimento le è impossibile. L'unico modo che ha per comunicare è la mimica del viso e il movimento degli occhi. Da ormai due anni non può più parlare, ma si esprime grazie all'invenzione di un amico: un cartellone trasparente con sovrapposte le lettere dell'alfabeto.

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Interponendo il cartellone tra Laura e il suo interlocutore nel punto di incontro degli sguardi, si individua la lettura voluta e cosi si compongono le parole e le frasi. Vive in casa con i genitori una nonna. La madre in particolare si prende cura di lei durante tutta la giornata. Il rapporto nato tra loro in questi anni di malattia, è di forte intesa e profondo affetto. Così anche con molti amici che le sono accanto e cercano di condividere con lei la sua realtà.

Nei momenti di maggior gravità della malattia, per Laura è necessario il ricovero ospedaliero. Inizia così per lei un'ulteriore sofferenza. Questo perché entrando in ospedale per Laura persiste lo stato di completa dipendenza dagli altri, che in questo caso sono persone estranee per lei. Durante il ricovero, Laura ha bisogno che ci sia sempre una persona accanto a lei, perché da sola non è in grado neppure di suonare il campanello per la chiamata dell'infermiera.

Gli infermieri difficilmente utilizzano la competenza e la conoscenza circa le abitudini di Laura del familiare presente, provocando in Laura ulteriori disagi e dolore durante le manovre assistenziali. Nessun infermiere ha mai usato il cartellone per comunicare con lei. È più facile assistere Laura in modo standardizzato, come da protocollo, piuttosto che farlo in modo personalizzato. A volte qualche infermiere si permette di commentare ad alta voce la situazione di Laura dicendo che preferirebbe morire anziché vegetare in quelle condizioni.

NELLE ISTITUZIONI LA NOIA È IL MALE PEGGIORE

Recentemente gli studenti del secondo anno di corso della scuola per infermieri professionali hanno svolto un'esperienza di tirocinio nelle case di riposo per anziani. Hanno rilevato come gli ospiti non sono sufficientemente stimolati, né completamente occupati dalle loro routine quotidiane. Spesso gli ospiti non autosufficienti nelle attività quotidiane, vengono mobilizzati in carrozzella al mattino e portati in un grande salone fino all'ora di pranzo, con la televisione sempre accesa che nessuno ormai ascolta più; così nel pomeriggio fino all'ora della cena. Gli infermieri sono molto premurosi nell'assistenza ai bisogni fisiologici dell'anziano; nella mobilizzazione, nell'alimentazione, nella somministrazione delle terapie; non dimostrano invece nessuna preparazione nelle attività di animazione e occupazionali. Gli ospiti in grado di collaborare vengono accompagnati in laboratori per attività occupazionali e aiutati nelle attività da apposito personale. Gli altri attendono ora dopo ora il susseguirsi delle attività standard del reparto.

LA COMUNICAZIONE NON VERBALE NELL'ASSISTENZA AGLI ANZIANI

La signora Immacolata era molto impedita a causa dell'artrite e di una totale cecità. Parlava poco con tutti e nella casa di riposo in cui era alloggiata tutti pensavano che ella vivesse in un mondo tutto suo per gran parte del tempo. Si diceva anche che fosse affetta da una forma di demenza senile che le impediva di partecipare attivamente alle attività relazionali.

Un operatore assistenziale, mentre le si rivolgeva per chiedere alcune informazioni, circondò con le sue braccia le spalle della signora Immacolata mentre parlava con lei. La signora iniziò a rilassarsi in quell'abbraccio e a parlare tranquillamente, rispondendo alle domande in maniera sensata. Era chiaro che la signora Immacolata avesse mantenuto fin a quel momento il silenzio a causa di uno stato d'ansia che le impediva di comprendere ciò che le stava accadendo intorno.

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A DOMANDA CRONICA, RISPOSTA CRONICA:

UNA PATOLOGIA DEGLI OPERATORI

Giovanna da alcuni anni si recava quotidianamente presso il servizio di salute mentale del suo distretto, anche due volte al giorno, per misurare la pressione. Tutte le volte, ancor prima di salutare le infermiere. Giovanna immancabilmente diceva: "Mi sento morire, mi sento mancare il respiro, oggi muoio". E lo diceva anche con una discreta partecipazione emotiva. Era ricoverata in casa di riposo nonostante la sua età non geriatrica aveva poco più di quaranta anni.

A nulla erano valse le varie cure psicofarmacologiche, i ricoveri psichiatrici, le proposte riabilitative, quali la partecipazione a gruppi di attività, colloqui di sostegno, ecc. Ormai, dopo anni che Giovanna si presentava sempre nella stessa modalità, sia gli operatori della casa di riposo che gli operatori del servizio di salute mentale consideravano quel modo di esprimersi come parte integrante della paziente stessa. Alla sua richiesta sempre uguale veniva data una risposta sempre uguale.

Un giorno Giovanna venne accompagnata al servizio di salute mentale d'urgenza in ambulanza. Per la prima volta non diceva: "Aiuto sto per morire". Tutto il suo corpo era irrigidito, con la muscolatura contratta, lo sguardo fisso. Non rispondeva alle domande, non rispondeva agli stimoli. Giovanna attraverso una crisi catatonica aveva interrotto bruscamente la cronicità della sua malattia, ma aveva anche interrotto la cronicità delle risposte degli operatori.

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IDEE

IL CAMBIAMENTO, OLTRE LO SFORZO E LA RAGIONE

La forza interiore che c'è in ogni uomo può offrire l'aiuto decisivo per superare le situazioni più drammatiche della vita, come quando la perdita del controllo sulle proprie capacità fisiche nella malattia porta a uno scoramento infinito, con la volontà di abbandonare tutto e di non reagire più. Nel racconto autobiografico dello scrittore Hermann Hesse cogliamo il momento della svolta, con la consapevolezza di aver superato il sentimento negativo cronico legato allo stato di malattia.

Tra poco la mia cura sarà finita. E, grazie a Dio, ora va meglio, va bene. Per una settimana ero tutto preso e sommerso, ormai soltanto ammalato, soltanto stanco, soltanto annoiato e stufo di me stesso. C'è mancato poco che non mi facessi applicare un puntale di gomma in fondo al bastone...

Venne un giorno in cui mi ero stufato di tutto a un punto tale che me ne restai coricato e non scesi più per il bagno quotidiano. Feci sciopero, me ne restai semplicemente a letto; per un giorno soltanto e, dal giorno seguente in poi, andò meglio. Quel giorno in cui giunse la svolta, è un giorno memorabile, perché la svolta e il cambiamento interno vennero di colpo e come di sorpresa.

L'uomo riesce a superare ogni situazione, anche la più odiosa, purché lo voglia e così anch'io, perfino nei giorni più squallidi e deprimenti di questa cura, in mezzo al peggiore scoramento, non ho mai dubitato che mi sarei trascinato fuori anche da quella palude. Il trascinarsi fuori, la lenta e faticosa vittoria sul mondo esterno, la ricerca e il ritrovamento graduali della disposizione d'animo più ragionevole, tutto questo era, e lo sapevo, una via sempre aperta, la molto raccomandabile via della ragione. Ma dalle mie antiche esperienze conoscevo anche l'altra via, quella che non si cerca ma si trova soltanto, quella della felicità, della grazia, del miracolo...

Hermann HesseLa cura

VOGLIO MORIRE COME GLI ESQUIMESI

Nell'immaginario diario di una nonna alla nipote lontana Susanna Tamaro coglie un momento critico nel cammino di un malato verso la cronicità: la ribellione verso risposte assistenziali standardizzate, a detrimento dell'autonomia della persona, che spera di poter mantenere fino alla fine il controllo sulla propria vita.

Quando avevo già cominciato ad alzarmi è entrato nella stanza un giovane medico che avevo visto altre volte durante le visite. Ha preso una sedia e si è seduto vicino al mio letto. «Dato che non ha parenti che possano provvedere e decidere per lei», ha detto,« le dovrò parlare senza intermediari e in modo sincero». Parlava, e mentre parlava, più che ascoltarlo lo guardavo. Aveva le labbra strette e, come sai, a me non sono mai piaciute le persone con le labbra strette. A sentir lui il mio stato di salute era così grave da non permettermi di tornare a casa. Mi ha fatto il nome di due o tre pensionati con assistenza infermieristica dove avrei potuto andare a vivere. Dall'espressione della mia faccia deve aver capito qualcosa perché subito ha aggiunto:«Non si immagini il vecchio ospizio, adesso è tutto diverso, ci sono stanze luminose e intorno grandi giardini dove poter passeggiare». «Dottore», gli ho

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detto io allora, «conosce gli esquimesi?» «Certo che li conosco», ha risposto alzandosi. «Ecco ,vede, io voglio morire come loro», e visto che sembrava non capire, ho aggiunto, «preferisco cadere a faccia in giù tra le zucchine del mio orto piuttosto che vivere un anno ancora inchiodata a un letto, in una stanza dalle pareti bianche». A quel punto lui era già sulla porta. Sorrideva in modo cattivo. «Tanti dicono così», ha detto prima di scomparire, «ma all'ultimo momento corrono tutti qua a farsi curare e tremano come le foglie».

Tre giorni dopo ho firmato un foglio ridicolo in cui dichiaravo che, se per caso fossi morta, la responsabilità sarebbe stata mia e soltanto mia...

Nei giorni seguenti ho fatto poco o niente. Dopo l'incidente la parte sinistra del corpo non risponde più come una volta ai miei comandi. La mano soprattutto è diventata lentissima. Siccome mi fa rabbia che vinca lei, faccio di tutto per usarla più dell'altra. Mi sono legata un fiocchetto rosa sul polso, così ogni volta che devo prendere una cosa mi ricordo di usare la mano sinistra invece della destra. Finché il corpo funziona non ci si rende conto di che grande nemico possa essere; se si cede nella volontà di contrastarlo anche per un solo istante, si è già perduti.

Susanna TamaroVà dove ti porta il cuore

ACCUDIMENTO PER UN LUNGO TRAMONTO

Un breve segmento narrativo che fissa, in una immagine eloquente per il cuore, il rapporto di intimità tra un figlio e un anziano genitore, nella stessa casa. Non sempre è prevedibile quale dipendenza e quale autonomia reciproche si possono instaurare tra il genitore, che sta declinando verso la fine, e il proprio figlio.

A cena mangio con lei gli stessi cibi scipiti, per non suscitarle desideri che non posso consentirle. Dopo le medicine, è l'ora della televisione. Lei sta leggendo il giornale che le ho portato, le sue braccia appesantite dall'artrite tengono a fatica i fogli del tabloid. Non le rispondo quando dice di rimpiangere il suo vecchio quotidiano, con i titoli neri e tombali e i fogli come lenzuola che mai riuscirebbe a girare... Ma la fatica evidente che ha nelle braccia mi fa male; le chiedo di lasciar leggere a me i programmi della televisione. È cocciuta, resiste, pretende di guardare lei, ma non posso lasciarglielo fare perché i movimenti necessari sono eccessivi anche per me...Faccio ordine sul comodino, appallottolo e butto via i cento foglietti che, come ogni giorno, lascia in giro con la sua scrittura sgraziata: li chiama appunti, sono parole senza senso... Le rimbocco le coperte, le aggiusto il cuscino: il lampo di disperazione che ha negli occhi quando le spengo la luce, dopo averle tolto il libro dal comodino, lo conosco bene.

Ma non preoccuparti, mamma, hai tutta la mia pazienza: anche domani, come sempre, sarò qui, a prendermi cura di te.

Clara SereniEppure

LA SITUAZIONE DEL MALATO CRONICO

Agli operatori sanitari, abituati a vivere prevalentemente il momento della fase acuta o della riacutizzazione di una malattia cronica, sfugge per lo più la condizione del malato all'interno della famiglia, nel contesto dell'attività quotidiana. Da un testo di psicologia dedicato alla malattia cronica, raccogliamo il richiamo a considerare in modo analitico e differenziato quale sia il rapporto del malato cronico con la sua famiglia, per

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poter programmare un percorso assistenziale efficace.

La situazione tipica della malattia cronica non presenta solo notevoli implicazioni sulla conduzione e sulla qualità della vita del soggetto che ne è affetto, ma presenta anche importantissime conseguenze per il tipo di esistenza che può condurre tutta la famiglia nel suo complesso.

Naturalmente non tutte le condizioni sono ugualmente importanti quanto a necessità di coinvolgimento del gruppo familiare. A nostro avviso si hanno due estremi:

a) le condizioni morbose in cui la situazione della malattia è sufficientemente affidata al singolo, che può ragionevolmente prescindere dalla assistenza e/o dalle cure del gruppo familiare e può regolarsi da solo circa le norme di vita igieniche, l’assunzione di farmaci, l'organizzazione dei controlli e delle visite mediche. È questo il caso ad esempio del diabete nell'adulto, delle malattie gastroenteriche, ecc.;

b) le malattie cui il gruppo familiare deve fornire piena, coinvolgente assistenza in favore del malato, non soltanto "non lasciandolo solo", ma molto spesso intervenendo attivamente nello spostarlo, provvedere ai suoi bisogni, intervenendo attivamente nella collaborazione per uno stile di vita terapeutico/riabilitativo, come nel caso di invalidità, difficoltà di deambulazione,ecc.

Sono queste ultime le situazioni in cui l'assistenza psicologica sul gruppo familiare in quanto tale è importante, e spesso decisiva ai fini dell'organizzazione di uno schema di vita salutare e di una qualità della vita soddisfacente: di solito, infatti, la necessità di "tener conto" della condizione di malato di un suo membro determina la costruzione di un vero e proprio stile di vita familiare".

Annibale Bertola e Paolo CoriIl malato cronico

UNA NUOVA FORMA DI POVERTÀ

Da un manuale di etica rivolto agli infermieri un eloquente invito a non considerare solo lo stato di bisogno legato alla malattia, ma tutte le forme di fragilità che attivano una domanda di aiuto. La cronicità appare come una delle manifestazioni predominanti del nuovo volto che ha assunto la povertà.

Le nuove povertà: con questo termine vengono indicate oggi una serie di condizioni di svariata natura accomunate da una condizione di "marginalità" che in qualche modo comportano. Il concetto di "povertà", infatti, nella sua originaria accezione, non esprime solo uno stato di indigenza economica ma anche sociale. Il "povero", in sostanza, non è chi ha poco ma chi è poco, chi conta poco, chi non ha peso, chi non può far valere i propri diritti, chi non trova adeguata considerazione e protezione sociale. Allora, a pane il malato in genere che già si trova in una condizione di "indigenza fisica", sarà povero in modo particolare il malato bambino, l'anziano, il tossicodipendente, il malato di mente, l'alcoolista, il portatore di handicap, il malato di AIDS, il paziente terminale, ecc. Sono proprio queste le categorie di infermi in cui più importante e delicata diventa la relazione di aiuto.

Salvino LeoneEtica

QUANDO L'ASSISTENZA VIENE SCARICATA SULLA FAMIGLIA

La crisi economica e le restrizioni imposte allo stato sociale rischiano di far ricadere sulla famiglia il peso dell'assistenza. Si inverte così la tendenza che, in nome delle responsabilità dello stato e dei valori della solidarietà, aveva progressivamente spostato

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l'assistenza dalle famiglie alle istituzioni pubbliche. Sulle famiglie incombe il pericolo di un compito per il quale sono sempre più inadeguate.

Nel discorso bioetico è stato messo in evidenza che alcune pratiche biomediche contemporanee hanno un forte impatto sulla famiglia L'attenzione, pur legittima, rivolta a queste pratiche ha distolto dal considerare l'impatto sulla famiglia che hanno anche le decisioni cliniche quotidiane, non riconducibili agli interventi che modificano in modo così vistoso i processi naturali della crescita e della morte.

Di fatto, la medicina e la famiglia sono due grandi sistemi che tendono a funzionare autonomamente e fanno ricorso l’uno all'altro solo quando si scontrano con i propri limiti. È vero che, in misura crescente, l’organizzazione sociale della cura della salute ha tolto alla famiglia questo compito, affidandolo alle istituzioni deputate (e ben lo avvertono i familiari quando sentono di essere una presenza estranea in ospedale, solo tollerata entro ambiti di tempo e di spazio ben delimitati). Ma la famiglia espropriata rischia di essere investita di nuovo, e in modo pesante, del compito di cura e di assistenza quando la medicina pubblica-istituzionale non è più in grado di far fronte ai suoi impegni. Si parla allora di coinvolgimento della famiglia per la cura dei malati cronici e per l'assistenza dei malati in fase terminale.

Alla famiglia dobbiamo riconoscere solo un valore strumentale, oppure le spetta un ruolo di soggetto, con propri valori e preferenze che vanno considerate nelle decisioni cliniche? Nella pratica della medicina l'attenzione va abitualmente agli interessi individuali del paziente: la sua vita e la sua salute in primo luogo; eventualmente anche le scelte dipendenti dalla sua concezione di qualità della vita. L'individuo è per lo più considerato in uno splendido isolamento e i legami con coloro che condividono la sua vita e le sue scelte sono passati sotto silenzio, come irrilevanti. Ora, nelle altre scelte che costituiscono il tessuto quotidiano dell'esistenza non è così: non si sceglie un lavoro, e neppure una semplice vacanza, indipendentemente dal "sistema famiglia" che ne subisce i contraccolpi. Non si capisce perché dovrebbe essere altrimenti nelle scelte che riguardano la cura della salute.

Sandro SpinsantiBioetica in sanità

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NORME

L'evoluzione della normativa in materia di cronicità, grazie anche al finanziamento massiccio fatto negli ultimi anni dallo stato al settore sanitario e sociale, ha permesso di individuare, assistere e curare tutta una serie di patologie croniche che in passato erano disconosciute o ritenute naturali (e quindi immanenti) e non curabili, a spese della collettività.

Oggi le leggi danno le più svariate definizioni di cronicità, spaziando dalla dipendenza di alcool e stupefacenti alle limitazioni di funzionalità ad opera di incidenti o alterazioni fisiologiche dovute a malattie o vecchiaia. La poca organicità con la quale viene trattata la materia porta il legislatore a intervenire prevalentemente in quelle branche dove più forte è la spinta dell'opinione pubblica, senza magari tenere conto dell'effettiva necessità dei soggetti passivi.

Peraltro talune patologie, quali quelle generate sui luoghi di lavoro, riconosciute come malattie croniche sin dall'istituzione dell'INAIL, hanno comportato la formazione di un blocco storico di malattie croniche che solo ora, per l'effetto di una mutata sensibilità sociale rispetto all'intera compagine consociativa, sta permettendo di rivedere il concetto di cronicità e di allargare i sussidi a quanti lamentano invalidità e malattie croniche.

LEGISLAZIONE

Legge n. 412/1991: "Disposizioni in materia di finanza pubblica”

Articolo 4: Assistenza sanitaria

3. In attuazione di quanto previsto dalla legge 23 ottobre 1985, n. 595, i cui standard vengono rideterminati prevedendo l'utilizzazione dei posti-letto ad un tasso non inferiore al 75% in media annua, la dotazione complessiva dì 6 posti-letto per mille abitanti, di cui lo 0,5 per mille riservato alla riabilitazione o alla lungodegenza post-acuzie con un tasso di ospedalizzazione del 160 per mille.

Le regioni sono tenute ad attuare, a modifica di quanto previsto dalla legge 12 febbraio 1968, n. 132, il modello delle aree funzionali omogenee con presenza obbligatoria di day hospital, conservando alle unità operative che vi confluiscono l'autonomia funzionale in ordine alle patologie di competenza.

Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-1996

Obiettivi

Paradossalmente, le richieste più vive di rinnovamento della pratica medica attuale in termini umanistici ― dalla medicina palliativa alle cure domiciliari ― sono relativamente a minor costo ed a più alta gratificazione dei malato. L'attenzione alla qualità delle cure, correlata all'interesse per la qualità della vita, si rivela così pagante non solo in termini umanitari, ma anche economici.

Queste considerazioni sono maggiormente significative in uno scenario che vede un allargamento fortissimo delle patologie croniche invalidanti, particolarmente degli anziani. Si registra inoltre una tendenza naturale del malato cronico a perdere l'autosufficienza. Nel futuro giocheranno un ruolo particolarmente incisivo le demenze, le malattie cardiorespiratorie croniche, le malattie cerebrovascolari e in generale le malattie degenerative (neurologiche, osteoarticolari, degli organi di senso) e ― sebbene meno incisive dal punto di vista quantitativo ― le malattie croniche del giovane e dell'adulto, in particolare le malattie psichiatriche

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che non rispondono ai trattamenti terapeutici, le lesioni cerebrali irreversibili, le malattie neuro-muscolari croniche.

Il problema centrale è quello del finanziamento dei servizi all’ammalato cronico. La risposta a questo interrogativo è ancora molto difficile: appare, però, irresponsabile non porsi il problema e lasciarlo crescere senza ipotizzare prospettive di soluzione. Vi è il rischio concreto che l'età cronologica costituisca il solo arbitrario criterio per limitare l'assistenza sanitaria.

In questa prospettiva è veramente una scelta di civiltà ipotizzare un sistema di integrazione socio-sanitaria che permetta di dare risposte qualificate a costi relativamente contenuti, coinvolgendo nei progetti assistenziali diversi componenti della rete formale ed informale che si stende attorno all'ammalato cronico.

Carta dei servizi pubblici e sanitari

Elenco dei diritti contenuti nelle carte proclamate a livello locale:

La protezione dei soggetti deboli

47. ad avere assistenza adeguata per il malato non autosufficiente, in particolare per l'anziano (per mangiare, andare in bagno, curare l'igiene personale, deambulare, ecc.) sia da parte del personale infermieristico che dai parenti

48. a vedere riconosciuti i propri diritti per il degente handicappato (in particolare quello alla cura e alla riabilitazione) e la possibilità di usufruire di sedie a rotelle e altro per gli spostamenti

49. per il malato anziano a non subire il ricovero per richiesta dei parenti quando non è necessario

50. al riconoscimento per la donna degente della propria soggettività culturale e psicofisica, alla libera scelta dei valori (aborto, ecc.)

51. per l'alcoolista, ad avere una adeguata assistenza senza discriminazioni

52. alla possibilità, per il malato tossicodipendente di usufruire senza discriminazioni di adeguato ricovero per terapie disintossicanti; ad avere informazioni sull'assunzione di sostanze stupefacenti e a ricevere cure in comunità terapeutiche

53. per l'emodializzato, a essere curato in reparti adeguati e all'assistenza da parte di personale appositamente formato; a cure gratuite domiciliari; all'essere messo in contatto con centri di trapianto nazionali e regionali

54. per il malato di AIDS, a essere curato, a non subire discriminazioni e ad avere personale specializzato

55. per il malato con disturbi mentali, al rispetto della dignità; alla libertà di movimento di relazione e alla libera scelta del terapeuta, delle cure e del luogo di ricovero

NORME MORALI

L'obbligo sociale di curare anche gli inguaribili

All'ammalato sono dovute le cure possibili da cui può trarre un salutare beneficio.

La responsabilità nella cura della salute impone a ciascuno "il dovere di curarsi e di farsi curare". Di conseguenza coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare le loro opere con ogni diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili. Non solo quelli miranti alla possibile guarigione, ma anche quelli lenitivi del dolore e di sollievo di una condizione inguaribile.

Pontificio Consiglio per la pastorale degli operatori sanitari,

Carta degli operatori sanitari

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COMPORTAMENTI

Non è facile definire con precisione lo stato di cronicità. Anche negli scritti dei gerontologi non esiste un'accezione univoca e ben determinata del termine. Ciò dipende soprattutto dalla difficoltà di stabilire il confine tra "malattia acuta e "malattia cronica".

In linea di massima viene tuttavia proposto come indicatore fondamentale di cronicità la permanenza o l'irreversibilità di una malattia che ha colpito la persona. E ancora non è sufficiente che il malato abbia lasciato l'ospedale per non essere più chiamato "malato"; nell'ospedale può avere solo superato la fase acuta, ma rimane permanente il bisogno di ricorrere alle cure sanitarie, o per controlli medici, o per trattamenti assistenziali o riabilitativi. Il trasferimento precoce a domicilio in situazioni prive di sostegno, oppure l'affidamento a istituti non attrezzati per la continuità delle cure e della riabilitazione o privi di personale specializzato, equivale a condannare il paziente a un rapido peggioramento del suo stato generale.

È facile, anche dal punto di vista normativo, spingere l'affido dei malati cronici a strutture socio assistenziali per non sovraccaricare gli oneri finanziari del comparto sanitario. Con questo si arriva a trascurare tutte quelle situazioni estremamente delicate che sono a confine tra la cronicità e la fase acuta della malattia.

Lo stato di "non autosufficienza" aggiunge al concetto di cronicità quello di impedimento a gestire la propria esistenza quotidiana. Per questo la persona non autosufficiente cronica è:

● in condizioni di malattia che dura nel tempo e che rende incapace la persona colpita a provvedere a se stesso, se non con l'aiuto di terzi;

● oppure la persona è incapace di esprimere le proprie esigenze.

In altri paesi, quali l'Inghilterra (inizio secolo), Canada, Francia e Stati Uniti, sono nate le prime istituzioni per malati cronici e malati nella fase finale della vita ― il cosiddetto hospice ― con il compito di dare supporto al malato e aiuto alla famiglia che non fosse in grado di gestire a domicilio la situazione di estrema gravità o di non autosufficienza del proprio congiunto. Si può dire che gli hospice siano dei luoghi intermedi fra la famiglia e l'ospedale. Le caratteristiche dell'hospice si possono così sintetizzare:

● l'hospice è una delle componenti di una rete di servizi integrata, che include l'ospedale e tutti ì servizi socio-assistenziali locali. Si avvale della rete di solidarietà del territorio;

● un approccio interdisciplinare (medico, infermiere, psicologo, assistente sociale, ministro del culto, volontario) nel rispetto di una visione di etica della persona e della sua famiglia, affinché il malato viva nel modo migliore l'ultima fase della vita;

● l'assistenza è improntata all'autenticità e all'empatia. Agli operatori si richiede una preparazione specifica, che sappia mantenere alto il livello della motivazione.

Tra le strategie messe in atto a difesa della salute esiste oggi anche in Italia un tipo di assistenza a domicilio: la "home care". Secondo la definizione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, l'home care consiste nel "fornire servizi specialistici" per la salute a casa del paziente piuttosto che nelle sedi ospedaliere.

Nei nostri ospedali un gran numero di pazienti sono ultrasettantenni o più che ottantenni. Si ricoverano, ad esempio, per una broncopolmonite o per scompenso cardiaco; spesso, superata la

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fase acuta della malattia rimangono in ospedale. I motivi sono diversi. La permanenza in ospedale li ha privati della loro autosufficienza; hanno perso la capacità di camminare o di accudire a se stessi in modo autonomo; sono diventati portatori cronici di catetere a causa della loro incontinenza urinaria. Oppure la malattia ha accentuato un deterioramento psichico che li rende inadatti a vivere da soli, o hanno bisogno di cure specializzate quotidiane. A questo tipo di problemi la società ha finora offerto il ricovero m ospedale o nelle case di cura per lungodegenti.

Dalle esperienze di assistenza domiciliare nel mondo si è osservato che trasferire a casa del paziente la tecnologia e le competenze specialistiche ospedaliere determina un sensibile miglioramento delle condizioni di vita del malato e, in alcuni casi, ne aumenta la sopravvivenza. Tipiche situazioni in cui l'home care può essere utilizzato sono le seguenti:

● Anziani: l'assistenza ospedaliera può essere utile per brevi periodi, ma a lungo andare può risultare nociva.

● Malattie respiratorie: nei malati con bronchite cronica e gravi disturbi respiratori può essere fornita a casa l'ossigenoterapia.

● Malattie renali: alcuni casi di pazienti sottoposti alla emodialisi due o tre volte alla settimana possono alternare a casa e in ospedale la dialisi peritoneale che li rende indipendenti dalla seduta di dialisi.

● Diabete mellito: si renderebbe autosufficiente il paziente con la fornitura di piccole apparecchiature che determinano il dosaggio della glicemia e la quantità di farmaco antidiabetico.

● Tumori: molti di questi pazienti sono cronici e si devono sottoporre periodicamente a cicli di chemioterapia a scadenza mensile e terapia per il controllo del dolore. Esistono esperienze di gestione domiciliare positive per il malato che non si vede costretto ad allontanarsi dalla propria casa e dai propri affetti.

● Problemi nutrizionali: in malattie tumorali o dell'apparato digerente o altre malattie croniche, con le moderne tecnologie e strumentazioni è possibile effettuare a domicilio sia la terapia venosa che quella enterale.

Un'altra forma alternativa al trattamento ospedaliero sono le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA). Istituite sul territorio nazionale con D.P.Consiglio dei Ministri del 22/12/1989, in esecuzione della legge n. 67 del 1988, hanno come obiettivo di realizzare un livello medio di assistenza sanitaria (medica, infermieristica e riabilitativa) integrato da un alto livello di assistenza tutelare e alberghiera. Queste strutture si differenziano da quelle riabilitative per la minore intensità delle cure sanitarie e per i tempi più prolungati di permanenza degli assistiti, che in relazione al loro stato psicofisico possono trovare nella stessa struttura anche "ospitalità" permanente. Il legislatore ha voluto istituire nuove forme di assistenza sanitaria e sociale per dare sfogo a tutte quelle situazioni di cronicità che non potevano essere gestite a domicilio e non potevano nemmeno tornare a carico del Sistema sanitario nazionale. Affinché queste strutture rispondano al loro compito, è necessario che gli operatori sanitari rivedano responsabilmente il loro modo di operare, per non riproporre in questa sede tutti gli aspetti negativi della medicalizzazione degli interventi.

La gestione della malattia cronica non può essere riconducibile solamente all'aspetto fisiopatologico: questo farebbe perdere di vista alcuni aspetti della persona, in particolare il modo in cui la nuova immagine viene percepita dal paziente e quella che invece gli viene restituita dall'ambiente circostante.

È necessario riflettere sulla dipendenza dalle strutture sanitarie e dal mondo medico degli utenti con patologie croniche e sul processo di responsabilizzazione dell'individuo e della sua

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famiglia necessario per una gestione armonica e consapevole della malattia stessa. Il rischio che fino ad oggi si è concretizzato è stato quello di creare pseudobisogni (terapie sempre nuove e diverse, che si sommano a quelle tradizionali come la idroterapia, l'equitazione per i bambini cerebrolesi, l'animazione e le attività di laboratorio per gli anziani), che hanno portato a un rafforzamento della cronicità attraverso la cronicità delle risposte assistenziali e riabilitative e la dipendenza delle famiglie dal sistema terapeutico. Questa distorsione nel rapporto con i servizi è esattamente il contrario della promozione di autonomia e autodeterminazione della persona verso le scelte terapeutiche e riabilitative.

L'aumento della responsabilizzazione delle persone con situazioni di malattie croniche non riduce di contro la complessità e la delicatezza del rapporto con gli operatori e le strutture sanitarie o sociali. Per affrontare una situazione di cronicità è necessario infatti farsi strada fra mille sfaccettature e problemi a carattere generale, economico, sociale e sanitario. Il lavoro con i cronici risulta più complesso rispetto a quello su pazienti con problemi acuti e di possibile guarigione.

Sono molti i casi come quello di Giovanna ("A domanda cronica, risposta cronica"), che fanno sorgere nell'operatore un senso di frustrazione, a volte addirittura di rabbia per non essere riusciti a produrre delle modificazioni nel paziente, nonostante ì tempi lunghi di intervento e con i tentativi più sofisticati e anche fantasiosi. È la regola non arrivare a una regressione totale della malattia cronica, qualunque essa sia. L'obiettivo non è più quello della cura per la guarigione, ma diventa quello di mantenere nel tempo la massima capacità raggiunta dalla persona, e in questo modo allontanare il più possibile nel tempo la fase di scompenso, che costringe la persona a ricominciare tutto daccapo.

Risulta difficile per gli operatori sanitari schematizzare un tipo di comportamento standard in tutte le situazioni particolari; è importante invece rintracciare all'interno della mutevolezza delle situazioni concrete quelle linee specifiche che rendano gli interventi e le relazioni con il malato cronico soddisfacenti e operativamente utili. Alcuni aspetti generali devono comunque essere presidiati dagli operatori che assistono persone in stato di cronicità, anche per evitare una continua "sperimentazione assistenziale" nei singoli casi.

Nelle malattie croniche la diagnosi segna l'inizio di una relazione terapeutica che è destinata a protrarsi nel tempo. Se si pensa ad esempio all'opportunità di "dire la verità al malato" come nel caso di prognosi infausta (ad esempio il cancro), nelle malattie croniche tali dubbi non possono sussistere poiché la gestione di queste malattie è possibile solamente con la partecipazione diretta del paziente stesso. Questo vale anche nel caso di bambini, di adolescenti o di anziani.

Il problema della comunicazione della diagnosi al paziente è semmai in questo caso un problema di come porgere la verità in modo da ottenere un sano atteggiamento cooperativo:

● dare sufficienti informazioni che lo aiutino a comprendere ciò che gli sta accadendo;

● favorire l'accettazione delle limitazioni imposte dalla realtà della malattia;

● convincerlo e responsabilizzarlo circa l'utilità di seguire costantemente le misure terapeutiche;

● valorizzare le sue risorse personali e le sue capacità residue o potenziali;

● responsabilizzarlo circa i sintomi di recrudescenze della patologia di base, per non sottovalutare aspetti importanti di prevenzione;

● consigliare il contatto con associazioni che si occupano di problemi analoghi non solo in modo tecnico ma soprattutto sociale e riabilitativo.

Il concetto della responsabilizzazione del malato nella gestione della malattia cronica è un nodo importante dell’assistenza. Non è infrequente un fallimento delle terapie o la mancanza

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di accettazione dei propri handicap o debolezze o la scarsa capacità di reinserimento sociale in questa nuova realtà fisico-psicologica, anche all'interno della famiglia stessa del malato. In queste situazioni l'infermiere può dare un notevole contributo nel raccogliere tutti quei segnali di disagio e di scarso adattamento alla malattia che il paziente esprime anche attraverso segni non sempre evidenti.

L'assistenza infermieristica nelle situazioni di cronicità diventa creativa e impegna le maggiori energie alla ricerca di soluzioni alternative a seconda della persona dei suoi bisogni e delle sue capacità. Nel caso di Laura ("Laura: una storia di dipendenza dagli altri") c’è uno spunto per fare una breve riflessione: comunicare per un infermiere può voler dire imparare un linguaggio alternativo. L'impegno può essere maggiore di quanto è professionalmente e istituzionalmente richiesto; ma può darsi che questo risulti essere l'unico modo per entrare in relazione con la persona.

Ciò che si vuol evitare è proprio il pencolo di perdere di vista l'unicità e integrità della persona a vantaggio di un rigido ordine organizzativo e di routine. Per questo nelle relazioni con le persone portatrici di patologie croniche può essere necessario accettare o adeguarsi a comportamenti risultati già vincenti e sperimentati da altri e che non sempre rientrano negli schemi rigidi della nostra organizzazione (cfr. "La comunicazione non verbale nell'assistenza agli anziani").

Un altro nodo importante per la gestione della cronicità risulta essere quello di tendere a sviluppare nelle persone la capacità di adattamento alla loro nuova e destabilizzante realtà. La persona, che si trova in situazioni nuove e minacciose e che modificano in modo permanente il proprio modo di interagire con l'ambiente esterno, deve essere messa in grado di raggiungere un senso di interezza e di integrità del sé, nonostante il cambiamento e le difficoltà. L'adattamento guida la persona verso la salute e la crescita.

Di contro, il disadattamento si verifica quando una persona usa modi inadeguati per fare fronte alle situazioni di stress o di alterazioni funzionali e di devianze della salute, nel tentativo di mantenere l'equilibrio biologico, psicologico e il suo funzionamento sociale.

In sintesi, l'azione dell'assistenza infermieristica che tende allo sviluppo della capacità della persona di adattarsi alla situazione di cronicità tiene in considerazione alcuni presupposti indispensabili:

● le persone interagiscono continuamente con l'ambiente;

● l'adattamento è la risposta della persona a un mutamento dell'ambiente;

● ogni persona ha dentro di sé le potenziali risorse per raggiungere un adattamento ottimale;

● scopo del nursing è quello di promuovere l'adattamento della persona a una nuova realtà;

● l'ansia produce una scarsa capacità di raggiungere un adattamento; l'assistenza può abbassare a un livello funzionale il grado di ansia della persona.

In molte situazioni croniche sono necessari ricoveri periodici utili al controllo dell'evoluzione della malattia stessa, o che si rendono necessari nelle fasi di aggravamento. Durante il ricovero è importante per l'infermiere cogliere l'occasione per aiutare il paziente a formulare una sorta di "punto della situazione", orientando l'intervento verso l'acquisizione di consapevolezza delle mete riabilitative realistiche che magari il paziente può aver tralasciato di perseguire. Non è raro che proprio in queste occasioni l'infermiere si accorga che il paziente non evolve in un adattamento positivo alla malattia.

Alcune situazioni concrete che impediscono un buon adattamento sono quelle che derivano dalla percezione che il paziente ha della propria malattia, come ad esempio la gravità o la potenzialità di recupero possibile o la percezione soggettiva dei sintomi. È noto infatti come alcune malattie caratterizzate da una scarsa presenza soggettiva di disturbi (come alcune forme

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di ipertensione o di ernia iatale) tendono a suscitare nel paziente l'impressione di non essere veramente malato e quindi a non essere stimolato all’osservanza di prescrizioni mediche o al ridimensionamento nelle attività lavorative.

Anche l’andamento della malattia può produrre atteggiamenti diversi nelle persone. In linea di massima si può dire che tanto più gravi sono i sintomi, tanto maggiore sarà l'adesione da parte del paziente a quanto gli viene proposto. Sia nel caso di adesione (compliance) che nel caso di resistenza o di desiderio di non collaborazione bisogna ricordare che è sempre una scelta libera e autonoma della persona aderire o meno al piano terapeutico o riabilitativo. Un nesso significativo si stabilisce fra lui e il personale sanitario all'interno di una relazione terapeutica. È opportuno che gli operatori sanitari colgano questo atteggiamento come valore di comunicazione e come segnale relazionale significativo, non vedendo in questo solo un aspetto riduttivo di "malato che non vuole guarire".

Proprio perché non vi sono interventi medici risolutivi o comunque di forte sollievo per la salute dei malati, la qualità dell'assistenza è determinata in gran parte dai fattori relazionali, organizzativi ed ambientali.

Nella malattia cronica ha un ruolo importante la famiglia del malato (cfr. "Quando l'assistenza viene scaricata sulla famiglia"). Non è possibile per gli operatori sanitari prescindere da questa realtà, come potrebbe avvenire nei confronti di pazienti con patologie tendenti al ripristino totale di uno stato di salute.

È importante che il malato cronico avverta che il contesto intorno a lui sia omogeneamente orientato alla sua salvaguardia e alla promozione della migliore qualità di vita possibile. In questo senso anche il rapporto fra lui e i suoi familiari ha un ruolo decisivo, così come l’interazione che si viene a creare fra familiari e operatori sanitari e il malato stesso. Si viene così a creare un sistema, le cui componenti sono il malato con la sua famiglia e l'équipe sanitaria. La famiglia per lo più dà continuità nel tempo al piano terapeutico e assistenziale.

Fra operatori sanitari e famiglia si può venire a creare una dinamica difforme da quella più utile al perseguimento di una terapia o riabilitazione efficace per il paziente e che si basi su di una condivisione di obiettivi e di modalità per raggiungerli da parte di tutti i soggetti coinvolti. Può in questo caso avvenire che si crei una sorta di alleanza fra infermiere e familiari, che spingono il paziente nella direzione da loro desiderata.

La buona intenzione che sottende questo comportamento, può però trascurare proprio gli aspetti psicologici che fanno da resistenza, e che nella fase cronica di una malattia a lungo termine giocano contro l'adattamento del paziente. Può in questo caso essere recepito come bisogno oggettivo un maggior impegno del paziente nella riabilitazione, e non invece andare a fondo nella comprensione di sintomi che soggettivamente ostacolano una partecipazione attiva del paziente stesso. Abulia, depressione, tristezza, sensazione di non essere compreso sono le più frequenti resistenze all'adattamento da parte del paziente. Sono reazioni legate alla difficoltà di ristrutturare una immagine di sé modificata dall'evento malattia.

È frequente che proprio in questa situazione il paziente sia accusato di "lasciarsi andare", di non impegnarsi abbastanza. Il comportamento del paziente è invece indice di difesa contro l'alleanza famiglia-operatore sanitario, che egli percepisce come minaccia alle sue reali capacità e convinzioni.

Sono meno frequenti i casi di alleanza paziente-operatore sanitario contro la famiglia, e ancora meno frequente quella in cui il paziente e la famiglia si alleino contro un operatore verso cui non si ha fiducia, stima o simpatia. Quest'ultima ipotesi ha come esito l'allontanamento dell'operatore: in questa ipotesi il "capro espiatorio" è il personaggio estraneo alla famiglia.

Per l'infermiere è importante riconoscere il ruolo determinante e insostituibile dei familiari

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nella gestione del paziente/utente con malattia cronica:

● riconoscere il loro impegno nel farsi carico del paziente;

● informare costantemente circa l'evoluzione della malattia, sulle caratteristiche della disabilità che essa produce, sui servizi disponibili;

● attivare la possibilità di ricorrere a ricoveri di sollievo programmati;

● attivare la possibilità di un aiuto personale ed economico dove esiste una situazione di disagio.

La malattia cronica comporta complessità e frammentazione degli interventi, che spesso sono delegati al comparto sanitario. Se il nostro obiettivo è quello di creare intorno alla persona portatrice di problemi di salute irreversibili rispetto al totale ripristino delle normali attività, un ambiente familiare e confortevole dove la persona possa continuare le sue relazioni e scegliere la propria realtà di vita, dobbiamo prendere in considerazioni tutte le risorse umane disponibili. Il volontariato è un fenomeno che in Italia si è sviluppato con sollecitazioni ad un impegno caritativo dal mondo cattolico. Attualmente sono presenti su tutto il territorio nazionale forme di volontariato che non hanno nessun condizionamento religioso, se non quello di rendersi disponibili a compiti di aiuto alle persone laddove non arrivano le istituzioni o le organizzazioni dello stato.

Il volontariato è anche uno dei cardini dell'assistenza domiciliare. I suoi compiti possono essere:

● aiutare e accudire il malato nelle sue necessità quotidiane:

 assistere il malato negli spostamenti in casa

 assistere il malato durante i periodi di assenza dei familiari

 sbrigare commissioni o pratiche burocratiche

 aiutare, previo accordo con i familiari e con l'infermiere domiciliare, nella mobilizzazione nella toiletta del paziente se allettato

 aiutare nella alimentazione

 aiutare il malato a recarsi in ospedale o a visite ambulatoriali

● ripristinare una corretta comunicazione con il malato: parlare di tutto ciò che costituisce motivo di interesse per il paziente ed ascoltarlo;

● mantenere una costante comunicazione fra il malato e il servizio sanitario: ad esempio, aiutando il paziente a fornire informazioni sul suo stato di salute e sui suoi bisogni;

● permettere ai familiari del paziente pause nell'assistenza, per scaricarsi e distrarsi;

● mantenere i contatti con il mondo esterno (giornale, notizie, commissioni);

● aiutare la famiglia nel momento del decesso e, se il caso, mantenere con essa contatti nel periodo del lutto.

L'impiego del volontario presenta alcuni problemi cruciali. Intorno a una persona e a una famiglia ruotano già molti operatori sanitari e socio assistenziali con obiettivi e interventi diversificati. Prima di introdurre una nuova persona, è bene analizzare a fondo alcuni aspetti cruciali per non incorrere in fallimenti e conseguente sfiducia del paziente verso gli operatori di assistenza. Nel decidere se e quando inserire un volontario nella famiglia di un dato ammalato, bisogna scegliere quale volontario destinare al paziente e come introdurre il volontario nella famiglia del malato.

La realtà del volontariato anche all'interno delle strutture residenziali per gli anziani ha assunto un ruolo ormai indispensabile a dare continuità nelle attività di vita delle persone ivi residenti. Fornisce inoltre supporto alle attività di animazione e di coinvolgimento relazionale degli ospiti e allontana la mentalità che ormai l'anziano sia una persona che aspetta la morte e non ha bisogno di altre attenzioni particolari.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Hesse H., La cura, Adelphi, Milano, 1993, pp. 111-112.

Leone S., Etica, Mc Graw - Hill, Milano, 1993, pp. 111-112.

Sereni C., Eppure, La Fenice, Milano, 1995, pp. 30-31.

Spinsanti S., Bioetica in sanità, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993, p. 117 s.

Tamaro S., Và dove ti porta il cuore, Baldini & Castoldi, Milano, 1994, p. 12 s.

PER APPROFONDIRE

Arzuffi O., Emarginazione A-Z. Guida pratica ai problemi, alle istituzioni, alla legislazione, Piemme, Casale Monferrato, 1991.

Cerami R., Emarginazione e assistenza sociale. Origine ed evoluzione, Feltrinelli, Milano, 1979.

L'Arco di Giano, N. 2, 1993 (Dossier: "Le cure domiciliari").

Trabucchi M., Invecchiamento della specie e vecchiaia della persona, Franco Angeli, Milano,1992.

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TERAPIA E CONTROLLO SOCIALE

FATTI

Mani legate

Dove finisce la libertà?

IDEE

Il mandato storico della psichiatria

Come si entra nell'area dell'emarginazione

Il paradigma della salute mentale

La società terapeutica

NORME

● Norme Giuridiche

● Norme Deontologiche

COMPORTAMENTI

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MANI LEGATE

Franca è una infermiera che opera ormai da un trentennio in psichiatria. Ha vissuto professionalmente tutti i cambiamenti legati alle modifiche culturali e istituzionali che ha attraversato l'assistenza ai malati mentali (dall'ospedale psichiatrico al trattamento in ambito territoriale). Ora opera nel reparto di diagnosi e cura della sua città; è ormai una delle infermiere più esperte ed è discretamente inserita nel gruppo di lavoro.

Il reparto di diagnosi e cura sta attraversando un periodo piuttosto critico. I letti sono sempre tutti occupati e, per far fronte alle esigenze dell'utenza, sono presenti anche parecchi ammalati in barella. La tensione spesso aumenta e si verificano episodi di aggressività tra i pazienti e da parte dei pazienti nei confronti del personale. Il responsabile medico della struttura spesso è costretto a dare indicazioni circa la contenzione dei malati più aggressivi.

Franca è molto turbata quando deve applicare questo trattamento, poiché la fa ritornare con il pensiero a quando, giovane infermiera, fu inserita nel reparto agitati del vecchio ospedale psichiatrico. Decide di esporre il suo malessere in uno dei periodici incontri di supervisione. Si sente frustrata perché è convìnta che un aumento di organico o una diminuzione dell'utenza consentirebbero al personale di assistere gli utenti senza ricorrere alla contenzione fisica o farmacologica.

All'incontro è presente anche Giovanni, giovane collega da poco trasferito in psichiatria. Giovanni lavorava in terapia intensiva e ha chiesto di essere assegnato a un settore meno invaso dal "tecnicismo". L'area delle cure intensive, che lo aveva così attirato all'indomani del diploma, lo lasciava ultimamente sempre più insoddisfatto. Ha maturato così l'idea di cambiare l'area operativa e si è ritrovato a lavorare in psichiatria.

Sentendo Franca esprimere il suo disagio, prende coraggio e comincia a interrogarsi ad alta voce sulla sua recente esperienza: «Lavoro qui da un mese e continuo a sentirmi inutile e spaesato. Ho delle grosse difficoltà a capire qual è il contributo che posso dare come infermiere e mi rifugio nell'esecuzione delle poche tecniche in cui sono esperto (rilevazione parametri, somministrare terapia, pratiche diagnostiche). Tutti mi dicono che devo abituarmi a lavorare sulla relazione, sui rapporti interpersonali, ma con gli utenti psichiatrici è una cosa molto complessa. Ieri ei ho provato con il nuovo entrato, ma mi sono dovuto arrendere perché mi aveva identificato come suo nemico e mi ha colpito, lanciandomi una tazza che teneva tra le mani. Devo dire che oggi, quando sono tornato in servizio e i colleghi mi hanno riferito che quel paziente era stato contenuto, mi sono sentito sollevato e nello stesso tempo confuso, perché mi chiedo quali risvolti etici può avere una misura "terapeutica" che in passato veniva usata anche come controllo sociale».

DOVE FINISCE LA LIBERTÀ?

Anna è una infermiera ormai inserita da diversi anni nell'ospedale di una città di provincia. Recentemente le è stata offerta l'opportunità di trasferirsi al Sert. Da tempo aveva maturato l'intenzione di fare una diversa esperienza e questa le sembra l'occasione favorevole. Il nuovo lavoro la incuriosisce molto, l’utenza è numerosa e molto giovane e l'équipe dei nuovi colleghi completamente assorbita dalle continue richieste di aiuto. Alma ha cercato di documentarsi il più possibile

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sul nuovo contesto lavorativo: ha letto articoli sulla liberalizzazione, ma ha anche spesso sentito parlare di coercizione.

Per quanto riguarda la coercizione, continua a interrogarsi sui risvolti etici che potrebbe avere l'imporre la terapia come trattamento obbligatorio. I due principi che le vengono subito in mente sono da una parte la tutela del diritto della libertà personale intesa come "diritto all'autonomia", dall'altro il dovere dello stato di tutelare la vita e la persona di ogni cittadino. A seconda che si assegni la prevalenza all'uno o all'altro di questi due principi, si ha una soluzione diversa. Ma dove sta il "giusto"? Il "consumatore" di droghe deve essere punito? Deve essere obbligato al trattamento o essere semplicemente trattato con persuasione e indotto a curarsi, affidando il recupero alla sua decisione e all'offerta dei Sert?

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IDEE

IL MANDATO STORICO DELLA PSICHIATRIA

Il brano si situa nel contesto di un convegno, tenutosi a Bologna nell'aprile 1990, dedicato a un bilancio della legge n.180 del 1978, che ha deciso la chiusura degli ospedali psichiatrici come ghetti per i malati mentali e lo spostamento della cura dei disturbi psichiatrici sul territorio. Questa svolta epocale nella politica sanitaria costringe a chiedersi se uno dei ruoli storici della psichiatria ― controllare i comportamenti devianti e "normalizzare" la società ― non sia venuto meno.

Si può dire che sia venuto meno il mandato "storico" del controllo sociale della psichiatria? Sul piano rigorosamente formale sembrerebbe non esserci dubbio ― ed anzi la legge 180 pare aver sanzionato la rottura definitiva del "patio tradizionale" tra psichiatria e giustizia repressiva, già posto radicalmente in discussione dalla crisi della psichiatria manicomiale. Ma sul piano della pratica reale si impongono considerazioni diverse. L'esperienza concreta ci dice che alla psichiatria ― sottolineo, nella sua configurazione di servizio pubblico ― vengono avanzate richieste eterogenee e complesse, molto spesso non coincidenti con un teorico modello "sanitario".

Idealmente questo modello dovrebbe strutturarsi su quel rapporto duale medico-paziente che si instaura allorché una persona che è portatrice di un bisogno inerente alla sfera della salute richiede l'aiuto di un "esperto" avente titolo per erogare una prestazione sanitaria. Nella psichiatria pubblica lo schema si complica per l'intervento di "terzi" protagonisti. Con grande frequenza chi si rivolge primariamente all'esperto ― lo psichiatra ― sono appunto dei "terzi" ― persone singole o istituzioni, nel caso più semplice la famiglia ― che gli chiedono di intervenire in una situazione alterata per un problema provocalo da o attribuito a un comportamento giudicato abnorme o comunque indesiderato, messo in atto da parte di persona presunta malata mentale. Il "terzo" esprime, spesso in modo non esplicito, un proprio bisogno (una sofferenza) che è in conflitto con quello del "malato". Ma l'opera dello psichiatra è invocata per "curare", e cioè normalizzare il comportamento del responsabile designato e ristabilire l'equilibrio della situazione turbata.

Naturalmente, in prima istanza non importa qui che sia un comportamento penalmente rilevante: importa che si tratta sempre di anomalie o trasgressioni di regole ― le regole della convivenza o della comunicazione, ad esempio ― che turbano l'omeostasi del gruppo. Spesso riesce difficile stabilire con nettezza chi sia realmente il "cliente" o, per meglio dire, il "committente" dell'intervento specialistico, e il quesito non è irrilevante in quanto è proprio la committenza che tende a stabilire la direzionalità, gli obiettivi ― in termini di "valori" ― dell'intervento stesso. La committenza, quindi, finisce per diventare "normativa”, e urtale modo, utilizzando la psichiatria come agenzia sociale peculiare cui si possono rivolgere certe richieste e che si ritiene sia comunque tenuta a soddisfarle, tende a mantenere ad essa una funzione di controllo. E tanto più la pretesa può apparire legittima in quanto si presume generalmente che la psichiatria sia dotata, oggi, di strumenti o tecniche speciali di sicura efficacia con cui può intervenire normalizzando il comportamento del paziente designato.

A questa funzione di terapia "normalizzatrice" richiesta alla psichiatria se ne associano altre, apparentemente accessorie ma in realtà non meno rilevanti, che sono parte integrante del mandato di fatto assegnato alla psichiatria stessa. Sono le funzioni che possiamo chiamare genericamente socio-assistenziali. Il servizio psichiatrico pubblico è delegato ad occuparsi dei problemi di vita dei cittadini

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sofferenti e socialmente indesiderati, ma anche socialmente fragili e bisognosi. In molte circostanze ed in molte situazioni esso si configura come agenzia di sopravvivenza rispetto ad esigenze vitali non altrimenti soddisfatte da altri servizi o da altre agenzie sociali/statuali. In pratica si presume che il servizio debba assumere una relazione di tutela (nel senso più ampio del termine) assoluta nei riguardi dei suoi assistiti, di cui dovrebbe diventare totalmente responsabile. Nelle aspettative coglibili negli atteggiamenti culturali diffusi, quello attribuito alla psichiatria ancora si rivela un mandato totalizzante nel quale si fondono, in modo spesso inestricabile, il dovere di intervento sanitario specialistico, di intervento di controllo più o meno repressivo, di intervento assistenziale.

Il mandato "nuovo", dunque, puramente terapeutico, sempre più si dimostra essere un "mandato impossibile", specie se si pensa di poterlo assolvere secondo una codificazione semplificata e rigida di prestazioni professionali. La psichiatria pubblica deve ancora rispondere ad un mandato eterogeneo e complesso, e credo sia illusorio ― e per molti aspetti fuorviarne ― pensare di sottrarvisi perseguendo un'ideale essenzialità della disciplina psichiatrica come disciplina sanitaria "pura".

F. GiancarelliI problemi giuridici dell'assistenza psichiatrica dopo la legge 180

COME SI ENTRA NELL'AREA DELL'EMARGINAZIONE

Dalla voce di un criminologo ascoltiamo alcune riflessioni relative al controllo che la società esercita sul comportamento dei cittadini. Chi si sottrae al controllo viene stigmatizzato come "emarginato". Una volta entrati nell'area dell'emarginazione, può diventare difficilissimo reinserirsi nella normalità.

Quando un soggetto mette in atto un comportamento deviarne, è chiaro che su quest'ultimo incide il cosiddetto controllo sociale primario, ossia il punto di vista, rispetto a tale comportamento, dei gruppi sociali di riferimento, all'interno dei quali il soggetto vive: la famiglia, il gruppo dei pari, le persone che compongono l'ambiente di lavoro, quelle con cui il soggetto intrattiene rapporti di tempo libero; insomma, i gruppi informali di controllo. È evidente che ci può essere un certo tipo di comportamento che il gruppo sociale primario sarà disposto a nascondere: ad esempio, può darsi che il gruppo dei banchieri sia disposto a tutelare il collega che ha compiuto qualche piccola trasgressione e cerchi in qualche modo di farlo rientrare nell'area del comportamento conformista. È tuttavia altrettanto evidente che sul fatto di abbassare la visibilità sociale e di passare al conformismo, incidono anche gli stereotipi, ossia quelle immagini abbastanza cristallizzate, radicate in ciascuno di noi, che, m una certa misura, possono determinare se un certo tipo di comportamento menti una sanzione oppure l'indulgenza. Ed è chiaro che a diverse aree culturali, a diversi ambienti sociali, corrispondono stereotipi diversi in rapporto ai vari tipi di comportamento.

A questo punto, se il controllo sociale primario sanziona, in un certo senso, il comportamento deviarne, questo arriva alla visibilità sociale anche senza passare attraverso il controllo primario. Ma, in questa sede mi premeva mettere in evidenza come in questo processo possano intervenire anche questi "filtri", importanti per selezionare il livello di evidenza sociale dei comportamenti devianti. La loro importanza, del resto, va anche messa in rapporto a quella sorta di dipendenza relazionale che l'individuo ha rispetto al gruppo. Tutti noi abbiamo bisogno, in un certo senso, di sentirci accettati, stimati, valorizzati, protetti dal gruppo. Quando l'atto trasgressivo è particolarmente aggressivo rispetto a certi valori della normalità, o quando il soggetto non è sufficientemente coperto dal gruppo primario, oppure intervengono stereotipi molto forti, allora si perviene alla visibilità sociale del comportamento deviarne. Come si è già detto, sulla visibilità sociale incide, oltre che il controllo primario, anche la distribuzione del potere. Un certo comportamento deviarne ha tanto più modo di divenire

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visibile, di essere scoperto, quanto più chi lo mette in atto non ha potere, inteso, quest'ultimo, in una delle sue numerose possibili accezioni: soldi per potersi servire di un buon avvocato, relazioni personali con ambienti influenti, una buona cultura, conoscenza delle leggi, ecc.

Se l'atto assurge a visibilità sociale, quindi se c'è denuncia e reazione dell'opinione pubblica, allora entra in gioco il controllo sociale secondario. Quest'ultimo tende sempre più a situarsi oltre che nell'area dell'emarginazione in quella cosiddetta di "border line", la quale, forse, nelle società caratterizzate da scarsa complessità mancava del tutto, nel senso che era immediato e diretto il passaggio dal comportamento deviarne all'area dell'emarginazione.

Nell'Ottocento, ad esempio, era ricorrente l’utilizzo dell'internamento in istituto, per ogni forma di devianza sociale: dall'ospedale al carcere, alla casa di lavoro, agli orfanotrofi, brefotrofi, manicomi, ecc.; oggi invece, negli attuali sistemi sociali complessi, s'è andata sviluppando anche un'area che potremo definire dei servizi sociali, i quali, a loro volta, entrano nel sistema di controllo della devianza. In definitiva, il controllo sociale secondano è quello messo in atto da apposite agenzie: polizia, tribunali, istituzioni di segregazione, di rieducazione, servizi sociali, ecc. E ora, dopo l'introduzione di questo ulteriore concetto, sarà ancora più evidente come-e quanto-incida, rispetto ad esso, ossia rispetto alla possibilità dell'inserimento nel circuito istituzionale del controllo, anche la concreta distribuzione del potere.

È probabile che l'intervento del controllo sociale secondario possa determinare, secondo la teoria dell'etichettamento, la ripetizione del comportamento deviarne. L'intervento delle agenzie istituzionali di controllo sociale secondano può rappresentare solo un fatto occasionale inserito all'inizio di una possibile carriera deviarne, e può essere praticato così bene, con tanto tatto e tanta sensibilità, da costituire un'effettiva possibilità di rientro nell'area della normalità. Tuttavia, mollo spesso dal controllo sociale secondano si passa all'attribuzione dello stigma, all'applicazione di un'etichetta: si è verificata la visibilità sociale, c'è stato l'intervento delle agenzie, sicché il soggetto viene "schedato", e, anche qualora ciò non avvenga in senso letterale, siccome finisce col far capo a un determinato servizio o a un'istituzione, diventa, ad esempio, "un tossicodipendente", "un semilibero", "un detenuto", ecc. Ed è proprio lo stigma che stabilisce l'appartenenza all'area dell'emarginazione.

Indubbiamente, nell'area dell'emarginazione si può ancora lavorare per il rientro della normalità, ma, anche se questa possibilità va lasciata aperta, man mano che si scende quella china sempre più si riducono le probabilità di risarirla. In altri termini, legata al controllo sociale secondario c’è sempre la possibilità della ripetizione del comportamento deviarne, e quindi, quando ciò si verifica, si crea una sorta di circuito chiuso: la ripetizione del comportamento deviarne porta ancora una volta al controllo sociale di tipo secondario, riconduce nell'ambito dell'attribuzione dello stigma, e quindi alla radicalizzazione del distacco dalla normalità. Fino a quando non si arriva alla radicalizzazione, è ancora consistente la possibilità di rientro nell’area della normalità, ma se essa si verifica porta alla ripetizione del comportamento deviarne e ad un’accentuazione del controllo sociale di tipo secondario, quindi allo stigma ed all’appartenenza all'area dell'emarginazione.

Bruno BertelliDevianza e controllo sociale

IL PARADIGMA DELLA SALUTE MENTALE

Il concetto stesso di malattia mentale (con il suo correlato: salute mentale) ci obbliga a rivedere il modo abituale di considerare la malattia, riferendola al trattamento di sintomi prodotti da un cattivo funzionamento degli organi. L'infermiere, con la sua cultura "olistica" di salute e malattia, ha una profonda affinità con le esigenze di un trattamento rivolto a malati psichiatrici.

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Nel 1856 Connoly scrive il Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi, il "no restraint system". In questo libro di straordinaria attualità il baricentro dell'intervento si sposta dalla tutela della società alla tutela del malato, che diviene finalmente soggetto della cura. La critica radicale all’uso della violenza nel trattamento al malato di mente è la conseguenza del riconoscimento di questa soggettività. Scevra da rischi di ideologismo, essa è segno di rigore scientifico e di congruenza al modello teorico di riferimento.

Nel momento in cui Connoly pone al centro della sua riflessione il malato, tollerando il sintomo e restituendolo alla sua pregnanza relazionale, dotandolo di senso, fonda la salute mentale. Questa "passione" per l'uomo ci fa riconoscere in Connoly un antesignano dell'approccio fenomenologico alla malattia mentale, che andava ben oltre l'umanizzazione del folle spingendosi a riconoscere nel malato la persona, nel decorso la storia, nel sintomo il linguaggio, nella malattia l'esperienza. Connoly perse contro il suo tempo, la sua eresia sfidava lo Zeitgeist, anche se è improprio parlare di sconfitta.

In realtà siamo in presenza di due paradigmi alternativi, ciascuno dei quali dotato degli strumenti categoriali idonei ad esprimere il proprio punto di vista come l'unico possibile (o accettabile). In definitiva: per la psichiatria, a volte la società ha un problema che si chiama malato di mente, che è due volte deviarne, perché va contro le regole della civile convivenza e perché non è sensibile ai rigori previsti dalla legge per i contravventori.

Per la salute mentale, a volte l'uomo ha un problema che si chiama malattia mentale, che non significa insensibilità al meccanismo premio-punizioni ma inefficacia. Più che trattare il sintomo bisogna lasciarsi "trattare" dal sintomo che l'altro ci offre, riconoscere il suo valore comunicativo, per cui la sua efficacia sia il presupposto per la sua prossima non-utilità, inefficienza. Il paradigma dell'internamento psichiatrico va inteso come strumento di autodifesa paragiuridica della società dal suo membro divenuto "pericoloso a sé ed agli altri e di pubblico scandalo", e perciò espulso dalla società e dalla coscienza, e a queste celato, perché ciascuno non vi si debba specchiare, e temere a sua volta di perdersi.

Il rovesciamento di questo paradigma si realizza materialmente in Italia con la legge 180 del 1978 che riconosce nel paziente il soggetto della tutela. Quantunque la rivoluzione copernicana che vi si compie sia rimasta, in molte circostanze, un fatto meramente letterario, non possiamo non riconoscervi l'atto fondativo del paradigma della salute mentale. La diversità dei paradigmi e dei modelli paradigmatici della psichiatria e della salute mentale non coesistono come diverse prospettive all'interno di un unico orizzonte o fasi successive del pensiero psichiatrico, ma come diversi orizzonti, separati da una frattura epistemologica incolmabile. I due paradigmi rappresentano visioni del mondo alternative e antagoniste, entrambe sostenibili, ma in loto o per nulla.

Non si può pensare la "tutela del paziente", l'esperienza della malattia mentale, in termini psichiatrici (dove l'unica tutela datagli è da se stesso) né si può pensare ad una tutela "chirurgica" della società come "amputazione", allontanamento di una parte "caduta" malata, in termini di salute Mentale. Da questa dicotomia, la scelta di costituire un'associazione infermieristica per la promozione della salute mentale, attraverso gli strumenti della ricerca e della formazione, dentro il quadro teorico di riferimento della fenomenologia, è orientata al superamento del paradigma psichiatrico per l'affermazione del paradigma della salute mentale.

L'infermiere è stato determinante per l'imporsi del paradigma psichiatrico. Per la peculiare caratteristica di essere luogo di gestione della persone considerate non suscettibili del deterrente "penal-penitenziano", il manicomio necessitava di "custodi" che non fossero immediatamente "secondini".

Esiste ormai una discreta letteratura che chiarisce la figura dell'infermiere psichiatrico in quanto "personale istituzionalizzato" alla continua, affannosa ricerca di elementi in grado di differenziare in maniera inequivoca questi dal paziente-recluso. Questa distanza fu spesso rappresentata dalla differenza

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di potere: chi lega non è il legato, l'oggetto non è il soggetto, il boia non è l'impiccato.

Negli anni questa consapevolezza fece dell'infermiere psichiatrico una potente leva con cui scardinare i cancelli dei manicomi. E molti infermieri fecero la loro parte.

Michele PiccoliL'infermiere e la follia: origini e prospettive

LA SOCIETÀ TERAPEUTICA

Il brano seguente è tratto da Musei della follia, un libro che intende favorire una testimonianza critica e offrire strumenti per comprendere gli importanti cambiamenti storici intervenuti nei meccanismi di controllo sociale. Dopo una società repressiva, vediamo così delinearsi una società terapeutica, tutta rivolta alla "cura" del vasto complesso di comportamenti che in modo o nell'altro sono catalogabili come pazzia. Le conseguenze del cambiamento possono essere altrettanto inquietanti della repressione.

Gli psichiatri, insieme agli altri esperti del controllo sociale, hanno accettato la delega del sociale a "trattare" ciò che appare tutti i giorni ai loro occhi: la loro è un'impresa morale legata alla creazione e all'applicazione di significati sociali a segmenti specifici della vita quotidiana. Di essi si può dire, come dei medici, che sono impegnati «nella creazione della malattia, intesa come condizione sociale che può essere assunta da un individuo»; infatti, di fronte al criterio non ben definito che viene usato per definire la ''malattia mentale", la sua posizione in quanto realtà socialmente costruita è più chiara di quella della malattia somatica. Secondo me, nonostante le asserzioni degli psichiatri (e le loro complesse evoluzioni retoriche), il confine tra normalità e patologia rimane vago e indeterminato e la malattia mentale resta, conseguentemente, un concetto amorfo che può comprendere tutto. In tali condizioni non esiste un universo limitato di "persone folli" e il processo di individuazione del folle non può essere guidato da regole oggettive e immodificabili.

Questa indeterminatezza teorica nel concetto di follia ha avuto una grande importanza nel XIX secolo, quando i confini del concetto di malattia mentale arrivarono a comprendere i comportamenti dei disadattati sociali, degli ignoranti, dei "socialmente inutili", come vittime di un ampio ventaglio di patologie organiche, che vennero in seguito catalogate secondo una diversa categoria ontologica (quella di una reale malattia somatica). Questa indeterminatezza ha continuato ad avere un peso significativo anche nel nostro secolo. Con il miglioramento dello status sociale attribuito agli psichiatri, che erano riusciti a convincere il pubblico del fatto che la loro capacità professionale aveva basi scientifiche, si andò sempre più affermando una "visione psichiatrica della devianza". Almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ci siamo allontanati da una società repressiva per avvicinarci a quella che Kittrie definisce una "società terapeutica", una società cioè, che accetta la visione psichiatrica del mondo. Così come nel «XVIII e nel XIX secolo, una serie di fenomeni ― che non erano mai stati tradotti in termini medici ― furono riclassificati come malattia mentale», anche oggi molte forme di devianza vengono riavvicinate a un modello medico, definite malattie e "curate" più che represse. Inoltre, «la spinta prodotta dall'espansione dell'applicazione delle terminologie mediche si rivolge al riconoscimento (e controllo) delle forme gravi di devianza, mentre quelle minori e più banali sono state delegate ad altre istituzioni (giudiziarie e religiose)».

Con spirito sarcastico, Peter Sedgewick ha recentemente affermato che "il futuro appartiene alla malattia", poiché sono sempre più frequenti le condizioni soggette all'intervento e al controllo medico e si tende a ridefinire diversi comportamenti "come patologie mediche (e perciò controllabili)". Come ho dimostrato, non è detto che una tale ridefinizione abbia successo e neppure il controllo

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medico può rimanere limitato a quelle patologie per le quali il suo intervento si dimostra efficace. Poiché uno schema che pone l'origine della patologia in forze intraindividuali e che permette il riassorbimento della protesta e della devianza nell'ordine sociale dominante, attraverso l'uso di termini individualistici e patologici, è utile a coloro che si avvantaggiano dall'ordine sociale esistente, la limitazione del concetto di malattia che potrebbe derivare dall'incapacità dei medici di "curare" alcune forme di devianza verrebbe accettata solo quando i fallimenti dovessero essere tanto frequenti da far sorgere dubbi sulla validità del modello esplicativo originale.

Di solito è sufficiente una pseudo-capacità; più generalmente, finché la medicina non sarà in grado di sviluppare nient'altro che tecniche di intervento capaci di modificare "comportamenti socialmente indesiderabili" e/o finché i criteri di verifica rimarranno ambigui e facilmente manipolabili, ci è solo possibile anticipare un'ulteriore espansione delle tendenze contemporanee verso una "società terapeutica".

A.T. ScullMusei della follia

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NORME

NORME GIURIDICHE

Costituzione Italiana

Art. 32. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Nel primo capoverso dell'art.32 della Costituzione si stabilisce una distinzione fondamentale che risente dell'impostazione personalistica dei diritti delle persone, contrapposti a quelli che possono essere gli interessi della collettività, posti in posizione subordinata rispetto ai diritti personali. La salute è un diritto della persona e un interesse della collettività; ma non c'è dubbio che quest’ultimo non può comprimere il diritto personale.

Ovviamente il nostro ordinamento giuridico di tipo personalistico è coerente con un disegno generale; aver affermato che il diritto alla salute è un diritto legato alla persona è come avere affermato il diritto come soggettivo, cioè come diritto primario non comprimibile, ed avere quindi subordinato gli interessi della collettività alla salvaguardia dei diritti personali.

Risoluzione 46/119 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite

La tutela delle persone affette da malattia mentale ed il miglioramento dell'assistenza psichiatrica.

Principio 11: "Consenso al trattamento"

La contenzione fisica e l'isolamento non volontario di un paziente non devono essere utilizzati se non in pieno accordo con le procedure ufficiali della struttura psichiatrica e solo nei casi in cui esse rappresentino gli unici mezzi disponibili per prevenire un danno immediato od imminente al paziente o ad altri. Tali provvedimenti non devono protrarsi per un tempo superiore a quello strettamente necessario al raggiungimento di tale scopo. Tutti gli episodi di contenzione ed isolamento, le relative motivazioni, la loro natura e durata devono essere registrati nella cartella clinica del paziente. Ad un paziente contenuto o isolato va garantito un trattamento umano con l'assistenza e la supervisione, attenta e costante, di operatori qualificati. Ad un rappresentante personale, se è presente e se ciò è previsto, va data immediata notizia di qualsiasi contenzione fisica o di qualsiasi isolamento non volontario attuato nei confronti del paziente.

Legge n. 180/1978 Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori

Art. 1 (...) gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori a carico dello Stato e di enti o istituzioni pubbliche sono attuati dai presidi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate (...)

La Legge 13-5-78, n. 180 costituisce uno dei fondamentali cardini dell'innovativo sistema garantista disegnato dal legislatore, che tenta un adeguato componimento tra le contraddittorie esigenze di tutela della collettività da un lato, e dall'altro di protezione e cura del singolo non in grado di provvedere direttamente e autonomamente alla propria salute.

Con la legge 180 viene reciso definitivamente quel filo plurisecolare che legava la follia alla devianza sociale.

Progetto-obiettivo "Tutela della salute mentale 1994-1996"

Premessa

La riforma psichiatrica varata nel 1978 con la legge n. 180, poi travasata nei contenuti sostanziali dell'art. 33 e seguenti della legge di riforma sanitaria 23 dicembre 1978, n.833, ha aperto la via a profondi cambiamenti culturali e organizzativi a tutti i livelli delle istituzioni pubbliche preposte al settore. La

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nuova disciplina legislativa, infatti, ha postulato un diverso approccio alla malattia mentale, modificando gli obiettivi fondamentali dell'intervento pubblico dal controllo sociale dei malati di mente alla promozione della salute e alla prevenzione dei disturbi mentali e spostando l'asse portante delle istituzioni assistenziali dagli interventi fondati sul ricovero ospedaliero a quelli incentrati sui servizi territoriali.

Premessa al D.P.R. 7-4-94 di approvazione del Progetto-obiettivo "Tutela della salute mentale 1994-1996"; Questo testo istituzionale. descrittivo e prescrittivo, è ritenuto dagli addetti ai lavori eticamente "impegnativo"

NORME DEONTOLOGICHE

Prese di posizione del Consiglio Internazionale delle Infermiere

Da: "Il ruolo dell'infermiera nella salvaguardia dei diritti dell'uomo"

Un paziente o un prigioniero ha il diritto di rifiutare di nutrirsi o di essere sottoposto ad una terapia. L'infermiera può trovarsi nella necessità di verificare che il paziente o il prigioniero accetti con piena conoscenza di causa le implicazioni del suo rifiuto; essa comunque non deve partecipare alla somministrazione di cibo o di farmaci a questi pazienti.

Codice etico dell'associazione delle infermiere americane (1976)

Ruolo di tutela

Il primo dovere di un'infermiera è di assistere e tutelare il proprio cliente. Svolgendo questo ruolo di tutela, l'infermiera deve prendere tutte le misure appropriate nei casi di esercizio incompetente, non etico o illegale della medicina da parte di chi, come membro dell'équipe medica o dell'organizzazione di assistenza, oppure non direttamente coinvolto, danneggi o pregiudichi gli interessi del paziente.

Per svolgere concretamente questo ruolo l'infermiera deve conoscere le leggi dello stato e le norme dell'organizzazione per cui lavora, riguardanti le procedure e le denunce per attività incompetente, non etica e illegale.

Azione iniziale

Quando l'infermiera viene a conoscenza di comportamenti scorretti o discutibili nell'erogazione dell'assistenza, deve riferirne alle persone competenti, e richiamare la loro attenzione sui possibili svantaggi che potrebbero arrecare al cliente. Quando è la stessa organizzazione sanitaria con il suo funzionamento che minaccia il benessere del cliente, un'azione analoga va svolta nei riguardi del responsabile dell'amministrazione. Se ciò è necessario, l'infermiera riferirà ad autorità più alte nell'ambito dell'istituzione, organizzazione o struttura per cui lavora.

Dovrebbe esistere una procedura stabilita per denunciare e trattare tutti i comportamenti che possono danneggiare il paziente nell'ambito di lavoro, in modo tale che una denuncia sia accolta ufficialmente e non ci siano rappresaglie. L'infermiera deve essere informata dell'esistenza di questa procedura, e pronta ad eseguirla se necessario.

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COMPORTAMENTI

La problematica relativa alla contenzione è poco trattata nella letteratura italiana, mentre è oggetto di studi approfonditi nei paesi europei e negli USA. Eppure anche in Italia il problema è certamente sentito. Ben consci ne sono coloro che lavorano con i malati di mente e gli anziani.

Certamente la contenzione è uno degli eventi più drammatici, contraddittori e angoscianti in cui un infermiere può trovarsi coinvolto; né può bastare la situazione di "pericolosità" a sé e ad altri a sciogliere la contraddizione di una misura che si sostiene essere orientata al benessere del paziente, ma che viene espressa attraverso un'oggettiva violenza.

Un quadro di agitazione psicomotoria, e anche di violenza fisica, può essere imputabile a diverse situazioni cliniche: crisi psicotiche, maniacali, confusionali, di ebbrezza etilica, quadri di astinenza. È necessario perciò ragionare sul senso e le conseguenze dell'agire infermieristico nei confronti del paziente violento, per evitare di trovarsi di fronte a una sorta di violenza controagita. Quale che sia l'orientamento culturale e operativo, resta il fatto che il confronto con la violenza è necessario e richiede specifica professionalità.

Entrando nel merito dei comportamenti auspicabili da parte dei professionisti in contesti riconducibili alla situazione descritta in apertura ("Mani legate"), di fronte a un paziente agitato sarà opportuno:

● evitare ogni atteggiamento simmetrico (es.: gestualità, tono di voce);

● organizzare gli interventi in modo tale da evitare di trovarsi impreparati in situazioni drammatiche, al punto da dover restituire al paziente la sua paura amplificata;

● tentare di instaurare un rapporto umano, recuperando i margini fli disponibilità alla relazione umana che ancora esistono;

● garantire al paziente il recupero di un margine di contrattualità che gli consenta di conoscere t motivi e le modalità dell'intervento;

● essere presenti e promuovere il dialogo.

Franca e Giovanni, i personaggi del nostro fatto, cercano, verbalizzando il loro disagio, di mettere in luce il problema. Con il loro comportamento contribuiranno sicuramente a evitare che passi sotto silenzio l'applicazione di una misura "terapeutica" quale la contenzione e potranno riflettere con il gruppo di lavoro sul fatto che il generale dovere di tutelare la propria salute emerge come conseguenza del necessario collegamento tra la condizione del singolo e il benessere della collettività.

Il problema del consenso in determinate circostanze è un problema delicato, sia dal punto di vista etico che dal punto di vista legale. L'operatore deve cercare di avere come obiettivo un'adesione costante del paziente al progetto terapeutico; e in alcune situazioni si potrà comunque avvertire la contraddizione tra un'azione volta a tutelare e assistere una persona incapace di autonomia e la prevaricazione. Ogni intervento dovrà tendere a promuovere la collaborazione del paziente. A tal fine l'informazione tra operatore e paziente rappresenta una fondamentale modalità di relazione.

L'uso delle cinghie o di altre forme di contenzione è un fatto vistoso, che colpisce l'immaginazione e fa sorgere una serie di interrogativi etici. Quando la contenzione è utile o indicata?

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Quando è clinicamente e moralmente giustificabile? Sulla delicata questione riportiamo l'opinione del prof. Anselmo Zanolda, già direttore dell'ospedale psichiatrico Fatebenefratelli a San Maurizio Canavese (To) e docente di psichiatria forense all'Università di Torino.

«Il concetto di "contenzione" esiste anche in altri settori della medicina e nessuno si pone il problema della liceità o meno. Tutti i giorni delle persone vengono ingessate, contenute in sala operatoria, nei reparti di chirurgia e medicina perché con gesti od altro non abbiano a compiere qualcosa che li possa danneggiare. È chiaro che in psichiatria il discorso è completamente diverso. È completamente diverso perché veniamo da un'epoca in cui la contenzione è stata usata, e abusata, fino al punto di considerarla molto simile ad uno strumento di tortura. Poiché la legge attuale ha molto liberalizzato il problema della malattia mentale, credo che sia maturato il momento per affrontare il problema delle contenzioni secondo un'angolatura priva di pregiudizi.

È fuor di dubbio che la contenzione in psichiatria debba essere una situazione del tutto eccezionale ed è sicuramente l'espressione di una carenza di personale e di capacità professionali. È da questa dichiarata insufficienza che si pone il problema del "minor male". Quindi la liceità non può essere il frutto di un'elaborazione giuridica ma la conseguenza di circostanze che chiedono di essere superate.

Con risorse maggiori, più qualificate e meglio organizzate, la contenzione può essere evitata. Può essere evitata se il responsabile dell'assistenza può stabilire che quel malato ha due infermieri in assistenza continuata. Questo è il problema.

Ovviamente non basta la quantità: l'assistenza "intensiva" non consiste in un piantonamento ma in una relazione attiva ed orientata. Questa risulta però essere efficace se agita per tempo, non quando il paziente è ormai alla crisi pantoclastica.

Sia la contenzione meccanica, sia l'uso della forza sono l'espressione di una situazione che è andata oltre. La differenza tra il contenere il paziente con mezzi meccanici, con la forza delle braccia o con i sedativi è aleatoria e sempre conseguenza di un errato intervento terapeutico. Dietro l'ipocrisia dell'utilizzo di psicofarmaci in dosi tali da "ingessare" il paziente non si pongono i problemi della contenzione; ma si può dire che il paziente non sia "contenuto"?

Siamo distanti anni-luce da una buona assistenza psichiatrica. D'altra parte, s'insegna la semeiotica, la farmacologia, le cose più disparate ma non c'è un vero e proprio insegnamento sull'assistenza psichiatrica. C'è un insieme di nozioni, di esperienze, di capacità formidabile, che non vengono insegnate se non attraverso l'osmosi del lavoro quotidiano.

Il tentativo che aveva fatto Paumelle, del XIII arrondissement di Parigi, fondatore della psichiatria territoriale attorno agli anni sessanta (fu il primo ad avere l'idea dell'ospedalizzazione a domicilio) non consisteva soltanto nell'idea di assistenza psichiatrica sul territorio ma anche nell'imparare a vivere con il malato in una serie di possibilità. Chiaro che questo approccio non ha successo se la situazione è già stata portata all'esasperazione della crisi pantoclastica. Ecco quindi che nella carenza culturale, di uomini e mezzi, quello della contenzione diventa il minor male.

Comunque la contenzione dovrebbe essere il frutto di una decisione non unilaterale ma con la responsabilità di tutto il gruppo, ben chiara nei modi e nei tempi di attuazione e sulla quale dovrebbe, a mio avviso, essere redatto un rapporto da inviare alla Direzione sanitaria in quanto è l'espressione della carenza terapeutica del reparto. La paura di un problema si manifesta spesso attraverso la sua dissimulazione; non parlarne è un modo per negarlo. Noi siamo in una società in cui ciò di cui non si scrive non esiste. Della contenzione non se ne parla, non se ne scrive, la si fa, non è regolata ed è come se non avvenisse. Mettere in luce il problema, non nasconderlo sotto il tavolo ma affrontarlo con le contraddizioni ed ì conflitti che esso reca, è un modo onesto di lavorare».

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Scull A.T., Musei della follia, Società Editrice Cooperativa, Bari, 1983, pp. 207-208.

PER APPROFONDIRE

Ariatti R., Lo Russo R., Melega V. (a cura di), I Problemi dell'assistenza psichiatrica dopo la legge 180, Ed. Officina Grafica Bolognese, Bologna, 1991.

Atti del SeminarioI diritti del paziente psichiatrico e della sua famiglia, Bologna, gennaio-aprile 1993.

Callari Galli M., Itinerari bioetici, La Nuova Italia, Firenze, 1994.

Schiavone M., I confini della psichiatria. Aspetti epistemologici e deontologici, Pàtron, Bologna, 1993.

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FATTI

Un infarto per ritrovare la famiglia

Una giovane vita devastata

La paura del portiere aspettando il calcio di rigore

IDEE

Il dolore fisico ci lascia senza parole

Nel dolore sento il corpo, nella salute sento il mondo

Per crescere ed evolvere, è necessario il dolore

Ognuno soffre in modo diverso

La sofferenza dei bambini: uno scandalo teologico

NORME

● Legislazione

● Norme Deontologiche

● Norme Morali

COMPORTAMENTI

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FATTI

UN INFARTO PER RITROVARE LA FAMIGLIA

Gianni ha 36 anni, è sposato da dieci con Laura, ha due figli, di tre e sette anni. Imprenditore edile, è subentrato al padre nella conduzione dell'azienda familiare, che nel breve volgere di quattro anni ha ampliato fino ad assumere circa venticinque dipendenti. Per raggiungere un tale risultato ha lavorato molto intensamente, alzandosi prestissimo e rientrando a casa la sera molto tardi.

Negli ultimi mesi ha spesso sofferto di stanchezza, malessere e dolore di tipo anginoso al petto. Gli onerosi impegni di lavoro e il fatto di ritenere tali dolori come passeggeri lo hanno indotto a non recarsi dal medico di fiducia. Tuttavia sei giorni fa mentre era al lavoro a bordo di una pala meccanica, ha provato un improvviso dolore retrosternale che si irradiava al braccio sinistro, con nausea e vomito. I colleghi di lavoro lo hanno accompagnato al pronto soccorso. Pochi minuti dopo l'arrivo in pronto soccorso, mentre gli infermieri lo stavano spogliando e gli stavano applicando gli elettrodi per l'effettuazione dell'elettrocardiogramma è stato colto da arresto cardiaco. Rianimato, è stato accolto nell'unità di cure intensive cardiache, dove tuttora è degente con diagnosi di infarto acuto del miocardio.

Soprattutto dopo la fase acuta, con il permesso del curante, Gianni ha voluto Laura sempre vicino. Dopo lui primo momento in cui lia chiesto dell'azienda e ha dato disposizioni circa l'attività in corso, non è più tornato sull'argomento. Laura ha confidato agli infermieri di essere molto preoccupata per la salute di Gianni. Ma ha anche detto alla caposala che si sarebbe aspettata, con la vita che Gianni conduceva, che i nodi prima o poi sarebbero venuti al pettine. Tuttavia considerava questo evento come un ammonimento prezioso per riconsiderare tutto il loro modo di vivere.

Durante i lunghi momenti passati nella camera Laura e Gianni hanno aiuto l'opportunità di considerare un grandissimo numero di questioni che il tempo non aveva loro concesso di affrontare. In definitiva, la preoccupante situazione del marito è diventata occasione per discutere sulla loro vita di coppia, sul tempo dedicato ai figli, sul fatto che ― come dice Laura ― chiaramente si lavora per vivere e non viceversa; e che a lei «poco importa avere una grande ditta e un marito morto!»

UNA GIOVANE VITA DEVASTATA

Luca è stato studente modello di un istituto tecnico e ha militato nella locale squadra di calcio. Da due anni è affetto da un tumore alla colonna vertebrale che gli ha provocato una paresi degli arti inferiori e si è ormai metastizzato nei polmoni. Ora Luca ha 17 anni.

E ricoverato nel reparto di oncologia per effettuare un ciclo di chemioterapia. Ha una piaga da decubito profonda e fistolizzata al sacro. I dolori sono molto intensi nella sede della lesione tumorale e sono accompagnati da febbricola, nausea e vomito. Anche la piaga determina parecchi disturbi e provoca dolori ogni volta che Luca deve muoversi nel letto.

Durante la sua ormai lunga malattia, Luca, che è figlio unico, è sempre assistito dalla mamma, mentre il papà viene a fargli visita quotidianamente. Anche i suoi amici gli sono vicini e in tanti modi cercano di farlo partecipare alla vita del gruppo. Tuttavia negli ultimi tempi l'aggravarsi

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della malattia e il fatto che i dolori si siano fatti più frequenti ed intensi rende più problematico questo rapporto e in molti dei suoi amici crea un grande disagio. Essi, infatti, hanno visto progressivamente dimagrire Luca e molto spesso non hanno potuto fermarsi accanto a lui poiché i forti dolori e la conseguente terapia sedativa impongono la sospensione delle visite e dei colloqui.

Quando si lamenta dei suoi dolori e della sua condizione e la inanima cerca di consolarlo dicendo che presto sarebbe guarito, Luca non risponde nulla ma l'espressione del suo volto fa trasparire in modo chiaro e inequivocabile il suo profondo scetticismo di fronte a questa possibilità. Spesso la mamma lo sorprende a piangere in silenzio e lei stessa, dopo aver cercato in qualche modo di consolarlo, esce dalla stanza a piangere nel corridoio per non farsi vedere da lui. A lei i medici hanno chiaramente detto che la prognosi della malattia di Luca è infausta e che tutte le terapie poste in atto hanno lo scopo di ritardare, per quanto possibile, l'evoluzione del male, ma che non potranno eliminarlo.

Le infermiere del reparto sono tutte estremamente gentili e disponibili, ma hanno tuttavia atteggiamenti molto differenti nei suoi confronti. Alcune cercano accuratamente di evitare le occasioni di entrare nella stanza di Luca; altre, invece, più volte si recano da lui nei rari momenti liberi e seguono il suo caso con straordinario impegno, industriandosi in tutti i modi per sollevargli per quanto possibile i suoi dolori e i suoi disagi, altre ancora lo assistono, ma sembrano mantenere una specie di neutralità emotiva. Tuttavia la sua sofferenza e la sua gioventù provata in modo così doloroso dal cancro resta un fatto che mette tutti in grande disagio nel reparto.

LA PAURA DEL PORTIERE ASPETTANDO IL CALCIO DI RIGORE

Gigi Ghirotti, brillante giornalista, nel maggio 1973 infrangeva un forte tabù alla nostra società presentando in TV una sua inchiesta sulla condizione del malato nelle strutture sanitarie nel nostro paese. Nella stessa trasmissione dichiarò di essere affetto da cancro e di volerne parlare. La sua testimonianza ha fatto epoca. Dopo la sua morte si sono costituiti in tutta Italia i "comitati Gigi Ghirotti", per l'assistenza personalizzata ai malati nella fase terminale della vita.

Non sono il solo, caro Macchi che combatte in questo modo i mali della vita. Ce ne sono migliaia. In fondo, io nell'ospedale ho appreso una grande lezione di forza e di rispetto per il prossimo: uno che sta male cerca di non trasmettere i suoi guai al vicino. Si controlla, se può. Impara che ci sono altri che stanno peggio e allora quasi si conforta. Persino i bambini, quando sono ossessionati da madri troppo apprensive, persino i bambini riescono nell'Ospedale a dare una importante lezione di dignità agli adulti. Io ricordo con commozione e gratitudine un mio piccolo amico, Vincenzino Scivoleto, che l'anno scorso comparve accanto a me nella trasmissione del "lungo viaggio nel tunnel". Era il bambino del microscopio; avevamo tutti e due lo stesso male, il morbo di Hodgkin. Poiché ci avevano tolto la milza, lui diceva che eravamo degli "smilzati": scherzavamo volentieri sui nostri malanni. Ci univa la speranza; avevamo l'impressione che ad aver fiducia nella vita ci sarebbe stato da guadagnare; perché non c’è da guadagnare nulla dalla disperazione, e così tutte e due facevamo credito al futuro. «Quando usciremo…» dicevamo fra noi; e si facevano progetti.

Siamo usciti, ma per lui è stata una tempesta dopo l'altra, povero bambino. Ila finito l'estate con fatica. È morto con molta dolcezza, mi dicono i suoi genitori. Ecco: io ricordo la sua forza d'animo, il suo esempio gentile: anche una creaturina così fragile è capace d'insegnare uno stile nobile e dignitoso, nella vita e nella morte.

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Quando cominciai quest'ultimo ciclo di cure, il professor Biagini mi illustrò con molta pazienza e chiarezza il meccanismo dei miei guai, le terapie che sarebbero state usate, la possibilità di riuscita e quelle di insuccesso. «E adesso ― mi fece infine ― lei la prenda, se può, come un incontro sportivo. È una partita importante. Si deve giocarla ben, ma non posso garantirle in partenza che lei vincerà. Ce la metteremo tutta e anche lei deve aiutarci...»

Io mi sono attenuto all'immagine dell'incontro sportivo. Mi trovo impegnato in una partita difficile, su terreno fangoso, con un avversario, questo oscuro signor Hodgkin, che è furbo e anche sleale. Ma non sono solo. C'è Mariangela, mia moglie, che mi aiuta, mi dà fiducia; mi dà il braccio se vacillo. E se il signor Hodgkin s'avvicina troppo è lei che se ne accorge per prima e si mette al mio fianco. Ma poi ho una tribuna che è tutta mia! Famigliari, amici colleghi, lettori del mio giornale, telespettatori che dopo la trasmissione mi hanno rintracciato e scritto la loro solidarietà. Pensa un po', caro Macchi, se io posso dare a tutta questa gente, così simpatica e affettuosa il dispiacere di abbandonare il campo, di lasciar partita vinta al signor Hodgkin? Certo l'avversario è forte; ma è una ragione di più per impuntarsi. Ho imparato a ragionare così dai miei compagni di vita partigiana; eravamo poveri, affamati, inseguiti da nemici sterminatamente più forti e numerosi. C'erano infiniti motivi per darsi per vinti. Ma non volevamo alzare bandiera bianca; il nostro destino era di camminare, magari con le scarpe a pezzi ma non a testa bassa.

Perciò combatto. E poi, finché dura l'incontro ogni possibilità è sospesa; non ho vinto io, ma neppure lui, siamo pari. E vero, il signor Hodgkin deve tirare il suo terribile calcio di rigore. È pauroso, a pensarci. Ma in fin dei conti anche i più famosi campioni talvolta sbagliano il rigore. E in ogni caso è giusto che quel pallone mi trovi sulla porta e in guardia, quando arriverà. Ecco tutto.

Gigi GhirottiIl coraggio di vivere

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IDEE

IL DOLORE FISICO CI LASCIA SENZA PAROLE

Quando dall'animale si passa all'uomo, anche l'espressione del dolore cambia: al grido succede la parola. Ma forse perché il dolore ci colpisce nella nostra dimensione più somatica e animale, la nostra capacità di articolarlo con le parole è così insufficiente. Ce lo ricorda l'antropologa Ida Magli.

L'incomunicabilità del dolore fisico di solito ci sfugge, e tanto più sfugge oggi che siamo abituati a sopprimerlo con mezzi farmacologici. Si può dire, anzi, che molto spesso non siamo consapevoli dell’esistenza e del funzionamento di certe parti del nostro corpo fino a quando queste non "parlano" con il dolore. Ma è un linguaggio intraducibile, non descrivibile a parole.

La terminologia a nostra disposizione per descrivere il dolore fisico è poverissima, allusiva in modo del tutto elementare alla sua realtà (per esempio "acuto", "sordo"), così che spesso il paziente non è in grado di dame una definizione al medico, e questi si ritrova, paradossalmente, a essere lui a suggerire e indicare al paziente la collocazione, la forma esatta del dolore nel momento in cui cerca una diagnosi sintomatologica. A questa povertà del linguaggio nei confronti del dolore fisico fa riscontro la ricchezza inesauribile della letteratura sul dolore "spirituale" a testimonianza del fatto che soltanto questo è partecipabile.

Ida MagliIl dolore fisico: un'esperienza incomunicabile

NEL DOLORE SENTO IL CORPO, NELLA SALUTE SENTO IL MONDO

Oltre alle dimensioni del corpo e della psiche, il dolore dell'uomo coinvolge anche lo spirito, ponendo il problema del senso. Il filosofo Salvatore Natoli analizza la fenomenologia del dolore, in quanto chiave di comprensione del rapporto dell'uomo con il suo corpo e attraverso questo con il mondo.

Qual è il carattere peculiare dell'esperienza del soffrire? Il carattere peculiare è l'esperienza della separazione. Nel soffrire si diventa unici. In senso stretto, si diventa unici nella morte, perché solo allora io non sono sostituibile a me stesso: posso essere sostituito nell'amore, perché posso essere amato o non amato da un altro e riamare un altro; posso essere sostituito nel lavoro; non però nella morte. La morte è solo mia e io divento "uno" nella morte.(...)

Nel deperimento delle mie possibilità, infatti, io divento unico, perché tale deperimento coincide con la riduzione progressiva della mia comunicazione con l'altro. Ho sete vado a una fonte e bevo, oppure prendo un bicchier d'acqua e bevo. Ho bisogno di un libro o di un attrezzo: sollevo il braccio e prendo il libro o l'attrezzo. Con il fresco dell'acqua cessa l'arsura, sento il mondo. Ho un erpes al labbro che mi fa male e mi disturba nel gusto dell'acqua fresca, mi toglie il piacere di dissetarmi; sento il corpo. Nel dolore si sente il corpo, nella sanità si sente il mondo. Nel dolore, il corpo non è un'apertura verso il mondo, ma una barriera rispetto al mondo. Ed è probabile che una delle ragioni per cui si è pensato all'immortalità dell'anima sia dovuta al fatto che si è sentito il peso del corpo come barriera. L'esperienza del dolore è dunque esperienza della separazione. (...)

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Tuttavia, se il dolore fosse solo questo, non si potrebbe sopravvivere non un giorno, non un'ora, ma neppure un attimo a esso. Il dolore, per quanto atroce, appartiene a chi vive. E quel lato della vita che sottende il dolore, apre alla comunicazione. Nel momento stesso in cui si è separati e chiusi, c'è un tacito accordo a dire che qualcosa si vuole dagli altri, qualcosa ci si aspetta, e probabilmente si crede ancora di poter dare qualcosa di sé.

In questa esperienza della separazione non c'è quindi l'annullamento della comunicazione, bensì un’aspra attenzione. Il dolore quindi non è solo qualcosa che si prova, ma qualcosa che richiede prova rispetto al senso generale del mondo. E nel dolore, quando io sono fatto unico, il mondo vacilla nel suo intero; nel momento più strettamente privato e individuale, si scatena la domanda più universale, cosmologica, totale. Il problema singolare del dolore diventa la domanda universale intorno al male.

Salvatore NatoliGiobbe: lo scandalo del dolore

PER CRESCERE ED EVOLVERE, È NECESSARIO IL DOLORE

Amore e dolore non sono solo accostati nella più scontata delle rime da canzonetta. La riflessione del sociologo filosofo Max Scheler coglie il legame intrinseco che esiste tra le due esperienze, sul cammino che porta la persona a crescere, maturare ed evolversi.

Tutto ciò che noi chiamiamo "subire", "patire", in opposizione a "fare", "operare" (non in opposizione al piacere) è di due tipi. La resistenza di un tutto verso una parte viene risentila dalla parte tanto più intensamente quanto meno la parte che la subisce ha la forza di opporre una controresistenza e un'autoaffermazione. Il dolore come percezione di questo "patire" è il dolore dell’impotenza, della povertà, dell'indigenza, della debilitazione, dell'invecchiamento. Ma il "patire" aumenta anche a causa del fenomeno diametralmente opposto: un'attività esorbitante della parte verso il tutto, che a causa dell'irrigidimento della sua organizzazione comprime violentemente la parte che cerca di "crescere" in forza e in estensione. È questo il tipo opposto di dolore: il dolore della crescita, dell'evoluzione, le "doglie del parto". Questo è forse il dolore più nobile, il primo, il più comune; quello è segno della decadenza, questo è annuncio di un’ascesa della vita. Ma l'uno come l'altro sono "sacrifici".

L'amore vitale, che è la faccia interiore dell'impulso alla propagazione presente negli esseri altamente organizzati e dalla specie bisessuata, è solidale con la morte ― i quanto originaria ripercussione sul tutto della perdita di sostanza e di forze nella propagazione ― così come morte e dolore sono solidali con il costituirsi di un insieme collegato (che è esso stesso l'effetto delle forze costruttive che si cercano e si attraggono nelle unità viventi). Per questa ragione anche amore e dolore sono uniti da un vincolo necessario e immanente. E perciò l'amore, forza originaria di ogni compaginazione (nello spazio) e di ogni propagazione (nel tempo), a creare la condizione preliminare del "sacrificio", che ha tanto morte che dolore. È lo stesso oscuro impulso del vivente ad andare oltre se stesso verso una vita sempre più grande e più alta ― impulso che si esprime a un tempo della formazione di unità compaginate e nella propagazione ― a creare la condizione preliminare ontologica del dolore. In questa duplice accezione, dolore e morte scaturiscono dall'amore. Non esisterebbero senza di esso.

Max SchelerIl dolore, la morte, l'immortalità

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OGNUNO SOFFRE IN MODO DIVERSO

L'antropologia filosofica ha formulato il concetto di "persona" per esprimere il fatto che ogni essere umano è unico e irripetibile e che si trascende fino a orizzonti che vanno oltre il tempo e lo spazio. Ciò equivale a dire ― utilizzando le considerazioni del teologo Patrick Verspieren ― che il dolore dell'uomo è "personale".

Il fenomeno neurologico del dolore è sopportato in modo diverso dai diversi esseri umani; la sua risonanza affettiva vana secondo la natura individuale dell'uomo, la sua cultura che gli fa interpretare gli avvenimenti in un certo modo, l’educazione che l'ha modellato, la formazione che ha ricevuto.

I neurofisiologi dimostrano anche che queste potenzialità dell'individuo agiscono sullo stesso fenomeno neurologico per trasformarlo. Sottolineano che una preoccupazione sufficientemente intensa del soggetto può snaturare l'intensità dell'influsso doloroso, che la donna durante il parto può concentrare la sua attenzione sui fenomeni fisiologici che avvengono nel suo corpo, a condizione che possa comprenderli, ed evitare così una risonanza affettiva troppo intensa di un dolore, che tuttavia sente. E, soprattutto, uscendo dal nostro ambiente culturale, possiamo incontrare uomini il cui comportamento algico, e, apparentemente, il vissuto doloroso sono molto diversi dai nostri. Ecco come parla un medico che ha esercitato in un'oasi del Sahara: «Quelli che hanno visitalo una regione del deserto, in cui le popolazioni vivono lontane da ogni moderna struttura medica, conoscono questa impressione di rassegnazione, di coraggio inerte, di intensa fede, di serena fiducia negli elementi naturali, di fronte all'esperienza della sofferenza, vissuta come inevitabile. L'uomo moderno occidentale, che può chiamare a tutte le ore del giorno e della notte il suo medico, esige sempre di più dalla scienza medica che si vede obbligata a prendere su di sé la responsabilità del dolore fisico e morale e a togliere definitivamente dal campo dell'umana esperienza questo senso di sconfitta».

Due atteggiamenti diversi, di due popolazioni diverse per stile di vita, comfort, cultura, religione. Tutto questo influisce su ogni personalità; e inoltre, anche in condizioni identiche, resta l'individualità di ciascuno, questo carattere irriducibile di ogni soggetto umano, diverso da qualsiasi altro e che soffrirà in modo diverso.

Patrick VerspierenEutanasia?

LA SOFFERENZA DEI BAMBINI: UNO SCANDALO TEOLOGICO

Una celebre pagina dai "Fratelli Karamazov", dove viene posto in forma pura e con toni estremi il problema teologico che agita il credente: conciliare il dolore innocente con la fede in un Dio buono e provvido. Dal livello della risposta neurologica allo stimolo doloroso fino alla vita religiosa, non c'è dimensione dell'umano che non sia sconvolta dalla sofferenza.

Ascolta: se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l’armonia eterna, che c'entrano qui i bambini? Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l'armonia con le sofferenze. Perché anch'essi dovrebbero costituire il materiale per concimare l’armonia futura di qualcun altro? La solidarietà fra gli uomini nel peccato la capisco, capisco la solidarietà nella giusta punizione, ma con i bambini non ci può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco. Qualche spiritoso potrebbe dirmi che quel bambino sarebbe comunque cresciuto e avrebbe peccato,

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ma, come vedete, egli non è cresciuto, è stato dilaniato dai cani all'età di otto anni. Oh, Alesa, non sto bestemmiando! Io capisco quale sconvolgimento universale avverrà quando ogni cosa in cielo e sotto terra si fonderà in un unico inno di lode e ogni creatura viva, o che ha vissuto, griderà: «Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!». Quando la madre abbraccerà l'aguzzino che ha latto dilaniare suo figlio dai cani e tutti e tre grideranno fra le lacrime: «Tu sei giusto, o Signore!»; allora si sarà raggiunto il coronamento della conoscenza e tutto sarà chiaro. Ma l'intoppo è proprio qui: è proprio questo che non posso accettare. E finiamo che mi trovo sulla terra, mi affretto a prendere i miei provvedimenti. Vedi, Alesa, potrebbe accadere davvero che se vivessi fino a quel giorno o se risorgessi per vederlo, guardando la madre che abbraccia l'aguzzino di suo figlio, anch'io potrei mettermi a gridare con gli altri: «Tu sei giusto, o Signore!»; ma io non voglio gridare allora. Finché c'è tempo, voglio correre ai ripari e quindi rifiuto decisamente l'armonia superiore. Essa non vale le lacrime neanche di quella sola bambina torturata, che si batte il petto con il pugno piccino e prega in quel fetido stambugio, piangendo lacrime irriscattate al suo "buon Dio"! Non vale, perché quelle lacrime sono rimaste irriscattate. Ma esse devono essere riscattate, altrimenti non ci può essere armonia. Ma in che modo puoi riscattarle? È forse possibile? Forse con la promessa che saranno vendicate? Ma che cosa me ne importa della vendetta, a che mi serve l'inferno per i torturatori, che cosa può riparare l'infemo in questo caso, quando quei bambini sono già stati torturati? E quale armonia potrà esserci se c'è l'inferno? Io voglio perdonare e voglio abbracciare, ma non voglio che si continui a soffrire. E se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all’acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto. (...) Hanno fissato un prezzo troppo alto per l'armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d'entrata. E se sono un uomo onesto, sono tenuto a farlo al più presto. E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alesa, gli sto solo restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto. «Questa è ribellione», disse Alesa sommessamente e a capo chino.

F. DostoevskijI fratelli Karamazov

ACCANTO A CHI SOFFRE: LA PAROLA CHE OFFENDE, IL SILENZIO CHE AVVICINA

Rileggendo il biblico libro di Giobbe nella prospettiva delle medical humanities, lo studioso delle religioni Sergio Quinzio affronta un tema che tocca profondamente chi per professione, assiste i malati: quando è più opportuno il silenzio, e quando la parola? E quale tipo di parole vanno assolutamente evitate?

La meno invalida delle consolazioni è quella che non ha parole consolatone, che non presume di poter consolare. Meglio, molto meglio, la vicinanza silenziosa, più significativa di qualunque parola, perché ne riconosce l'impotenza.

La vicinanza silenziosa rispetta il malato, non l'offende con la superiorità del suo sentirsi in grado di aiutarlo. Si dice, ed è vero, che "il malato è noioso". Chi ha assistito una persona cara nella malattia e nella morte sa che è così. Accanto alla presenza silenziosa, non possono stare altro che i poveri gesti che cercano, sapendo quanto vanamente, di dare sollievo, dal basso del proprio infimo servizio, non dall'alto della propria condizione di superiorità. Accettando non solo la sostanziale impotenza dei nostri gesti, ma il carattere fatalmente offensivo con il quale appaiono a chi è nella triste e umiliante condizione di chiederli, di averne continuamente bisogno. (...)

Un'ultima domanda riguarda ciò che è diventato purtroppo un luogo comune del dolorismo cristiano. La malattia, in quanto purifica ed espia le proprie ed altrui colpe, è davvero un "dono" di Dio,

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una preziosa occasione che ci è offerta? Se questo è vero appartiene a quelle verità troppo grandi perché si possano dire.

Sergio QuinzioIl Libro di Giobbe

LA RICERCA DEL SENSO

Sulle orme di Viktor Frankl, fondatore della "logoterapia", Elisabeth Lukas propone una via insolita alla guarigione della sofferenza: riuscire a darle un significato. È questo il senso della "logoterapia": una terapia attraverso la scoperta di un senso e di una finalità nella vita. Frankl ha elaborato questa concezione mentre era prigioniero in un campo di sterminio tedesco. Anche un letto d'ospedale o una malattia cronica possono diventare una sfida a cercarvi un senso.

Cosa succede dunque alle persone che non hanno mai imparato ad accettare il destino ― e che credono di poter comprare quasi tutto ― quando le colpisce un dolore immutabile? Quando cioè sono costretti a sopportare un certo destino e scoprono che il denaro non serve? Devono precipitare in una crisi interiore ed infine persino disperare.

In una crisi prodotta da un destino ineluttabile sono possibili solo tre tipi aiuto, e cioè:

1. la fede e la fiducia in Dio,

2. la simpatia e la comprensione del prossimo,

3. la propria stabile realizzazione del senso della vita.

La logoterapia ha dedicato grande parte delle sue ricerche allo sforzo di trasformare il dolore, mediante un atteggiamento positivo nei suoi confronti, in una prestazione umana che non solo dà forza e slancio all'interessato stesso, ma merita anche l'ammirazione di chi lo circonda. La logoterapia parie dal presupposto che ogni sofferenza, anche la più grave e grande, può essere superata psichicamente solo se la si concepisce in un contesto valido. Una madre, per esempio, che entra in una casa in fiamme per trarre in salvo il figlio, non verserà una sola lacrima sulle proprie gravi ustioni se avrà salvato il bambino, al contrario ringrazierà Dio e si rallegrerà. La stessa donna se la prenderebbe forse amaramente con il destino se si procurasse lesioni molto meno gravi per una disgrazia che non giova a nessuno ed è dovuta ad uno stupido errore.

Partendo da questa conoscenza, il logoterapeuta cerca di inserire l'infelice situazione del paziente, che non può essere mutata, in un contesto valido che il paziente può accettare, e questo non è sempre facile.

Elisabeth Lukas, Dare un senso alla sofferenza

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NORME

LEGISLAZIONE

D.P.R. 14/03/1974 N. 225

Mansionario degli infermieri professionali

Sono attribuzioni proprie dell'infermiere professionale:

a) assistenza completa all'infermo (art.2 , punto 1);

b) richiesta d'intervento medico o di altro personale in relazione alle esigenze sanitarie sociali e spirituali degli assistiti (art. 1, punto c);

c) somministrazione dei trattamenti terapeutici che il medico prescrive e che sono specificatamente previsti dal Mansionario, attenendosi scrupolosamente alle stesse prescrizioni mediche (art. 2 , punti 2 e 12);

d) registrare, custodire e sorvegliare la distribuzione dei farmaci e degli stupefacenti (art. 1, punto f).

D.M. N.739 del 14/09/94

Profilo dell'infermiere professionale

Art. 1

Comma 1 (...) L'infermiere (...) è responsabile dell'assistenza generale infermieristica

Comma 2 L'assistenza infermieristica preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa è di natura tecnica, relazionale, educativa. Le principali funzioni sono la prevenzione delle malattie, l'assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e l'educazione sanitaria.

Comma 3 L'infermiere:

a) partecipa alla identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività;

b) identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi;

c) pianifica, gestisce e valuta l'intervento assistenziale infermieristico ;

d) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche ;

e) agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali (...)

NORME DEONTOLOGICHE

Codice Deontologico dell'infermiere

La dimensione umana

Art. 1 L'infermiere è a servizio della vita dell'uomo: lo aiuta ad amare la vita, a superare la malattia, a sopportare la sofferenza e ad affrontare l'idea della morte.

NORME MORALI

La dottrina morale cristiana

Per quanto riguarda il trattamento del dolore, i punti essenziali della dottrina morale cattolica comprendono: liceità ma non obbligatorietà del ricorso ai mezzi atti a lenire il dolore; liceità del ricorso ad analgesiche

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portano anche alla perdita della coscienza, purché questo mezzo sia giustificato da un intento terapeutico; accettazione di trattamenti antalgici che hanno come effetto secondario quello di abbreviare la vita, purché motivi veramente gravi lo giustifichino. Quanto al primo punto, la dottrina cristiana valorizza il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti della vita, attribuendogli un denso significato antropologico e salvifico. Senza tuttavia farne un idolo, perché non è il dolore in sé che purifica e salva, ma solo la grazia che produce l'amore. Spesso è stato indebitamente attribuita al cristianesimo la coltivazione malsana del dolore. Il "dolorismo" può essersi appoggiato al cristianesimo, ma non ne è un suo figlio legittimo. Sarebbe soprattutto illegittimo motivare con argomentazioni religiose l'eventuale dimissione del personale sanitario di fronte al compito di contenere il dolore e addolcire la fine dei pazienti. La posizione cristiana è quella di un giusto equilibrio tra il feticismo del dolore, che lo fa considerare come il valore supremo, e la fobia di esso, che lo identifica con il non-valore assoluto. Se è vero che il dolore costringe l'uomo a porsi nuovamente le questioni fondamentali del proprio destino, della propria posizione nei confronti di Dio e degli altri uomini, della propria responsabilità individuale e collettiva, del senso del proprio pellegrinaggio terreno, d'altra parte è anche possibile constatare che il dolore aggrava lo stato di debolezza e di esaurimento fisico, ostacola lo slancio dell'anima, logora le forze morali e può fornire l'occasione di nuove colpe (cfr. Pio XII, Ai partecipanti al IX Congresso della Società Italiana di Anestesiologia, 24/2/1957). Il principio a cui si ispira la morale cattolica suona, nella formulazione di Pio XII: "Il paziente desideroso di evitare o di calmare il dolore può, senza inquietudine di coscienza, avvalersi dei mezzi trovati dalla scienza".

Sandro SpinsantiLa lotta contro il dolore

La lotta contro il dolore

La distinzione etica e legale tra sopprimere il dolore e sopprimere il paziente è chiara in linea di principio, ma non sempre può essere così chiara nella pratica (...) Uno degli elementi essenziali di una "buona morte" è l'assenza di dolore, che ottunde le menti e può lasciare la persona fisicamente e mentalmente incapace di raggiungere qualunque scopo si fosse prefissata prima della morte. Perciò non vi sono scuse per l'insuccesso nell'utilizzare le metodiche disponibili per il controllo del dolore.

Commissione di esperti dell'O.M.S., Dolore da cancro e cure palliative

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COMPORTAMENTI

La gestione del dolore pone agli infermieri complesse problematiche e richiede il rispetto di una serie di principi, che si applicano anche nelle cure palliative e nell'assistenza al morente (cfr. cap. 14). La scelta e l'attuazione di comportamenti moralmente significativi nella gestione del dolore si basa sui due principi fondamentali dell'etica sanitaria: quello di "fare del bene" e di evitare, ove è possibile, di "fare del male". L'infermiere nella pratica clinica deve inoltre tener presenti altri principi-valori irrinunciabili, quali: il rispetto della vita; il rispetto dell'autonomia del malato; l'avvocatura della persona assistita.

L'"International Association for Study of Pain" definisce il dolore come «una spiacevole sensazione ed esperienza emotiva associata con un danno tissutale, presente o possibile, o descrivibile in termini di tale danno. Ogni individuo apprende il significato di tale parola attraverso esperienze legate ai traumi durante l'infanzia. Essa è sicuramente una sensazione in una o più parti del corpo, ma è sempre spiacevole e per tale motivo emotivamente coinvolgente». L'intensità del coinvolgimento emotivo può variare da persona a persona (cfr. "Ognuno soffre in modo diverso") ed è, in genere, correlata con l'intensità del dolore. Gli sforzi della medicina per sollevare i malati dal dolore, soprattutto dal dolore cronico ― o "dolore totale", come dice la fondatrice del "Saint Christopher's Hospice" Cecily Saunders ― appaiono ancora francamente inadeguati alla portata del problema.

Molte ragioni possono essere portate in campo per giustificare questo ritardo o inadeguatezza rispetto al trattamento del dolore: una medicina eccessivamente vitalistica; gravi lacune nella formazione dei medici e degli infermieri; difficoltà a esprimere, oggettivare e conoscere il dolore; riserve morali; paura degli effetti collaterali dei farmaci; preconcetti sulla gestione del dolore. I molti problemi e conflitti etici che quotidianamente gli infermieri devono affrontare assistendo i malati affetti da dolore e offrendo sostegno ai loro familiari richiedono alcune linee guida chiare e motivate, che siano in grado di orientare adeguatamente la pianificazione, l'erogazione e la valutazione delle cure infermieristiche.

L'AUTONOMIA DELLA PERSONA

Per rispettare e capire la persona che soffre, prima di tutto ascoltare

Di fronte al paziente che soffre, l'infermiere ha come primo dovere morale il rispetto della dignità della persona e del suo diritto ad assumere direttamente e scientemente le decisioni che riguardano il suo presente e il suo avvenire. Ciò predispone l'infermiere a porsi davanti al paziente con un senso profondo di attenzione e quasi di stupore, sapendo che la sua esperienza di uomo sofferente è filtrata e vissuta nell'ambito di un tipo di essere al mondo, fatto di esperienze, valori, sentimenti, attese personalissime e irripetibili (cfr. "Per crescere ed evolvere è necessario il dolore"). La stessa condizione di sofferente pone il malato in una condizione di unicità e di separatezza che, come dice Natoli (cfr: "Nel dolore sento il corpo, nella salute sento il mondo") richiede prova rispetto al senso generale del mondo. I casi di Gianni ("Un infarto per ritrovare la famiglia") e Luca ("Una giovane etA devastata") sono emblematici nel presentare due situazioni di sofferenza orientate in modo diverso. Per Gianni l'evento traumatico

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nella malattia è occasione di verifica di vita, di riscoperta di valori, di affetti e di obiettivi di vita diversi; la sofferenza di Luca, in sé irriducibile, è fonte di disagio, assurdamente "in più" rispetto a ciò che è umanamente pensabile di dover patire.

L’infermiere è chiamato a comprendere l'infinita complessità esistenziale e delle diverse forme del dolore. La comprensione e il rispetto del cammino interiore del malato domandano una partecipazione fatta soprattutto di silenzio ("Accanto a chi soffre: la parola che offende, il silenzio che avvicina"). Silenzio che tuttavia, come dice ancora Natoli, è domanda pressante di attenzione e comunicazione. È un silenzio attraverso il quale il malato ci parla e domanda di essere ascoltato, capito e aiutato.

Al fine di porre la massima attenzione alla persona che soffre, l'infermiere valorizza la raccolta dei dati. Mediante il colloquio-intervista e l'osservazione cerca di disporre di tutte le informazioni possibili che gli consentano una pianificazione pertinente ed efficace.

Credere al malato

Il rispetto per la persona richiede all'infermiere di dare credito a ciò che il malato afferma, evitando di sottostimare le affermazioni dei pazienti che dicono di provare dolore.

Il sentire dolore è un'esperienza che varia da persona a persona, in base a una serie di fattori diversissimi: fisiologici, psicologici, sociali e culturali ("Ognuno soffre in modo diverso"). Non esiste una misurazione obiettiva del dolore anche se, in qualche modo, si possono cogliere i segni della sua presenza nel sofferente.

Nessuno sa quanto dolore si prova se non chi lo prova, e chi lo prova ha pochissimi mezzi per dire questo dolore ("Il dolore fisico ci lascia senza parole"). Perciò l'infermiere evita in modo assoluto tutte le considerazioni soggettive sul dolore provato dalla persona assistita. Fino a prova contraria, dà pieno credito a tutte le sue affermazioni di dolore e quindi a tutte le sue richieste di aiuto.

Informarlo

Di fronte al dolore, come di fronte a ogni fatto che riguarda la salute, il malato ha diritto di assumere le decisioni che ritiene più opportune. Ma l'assunzione di tali decisioni, ovviamente, richiede una preventiva e chiara informazione sulla sua condizione di malattia. La necessità di rispettare questo fondamentale diritto del malato pone all'infermiere una serie complessa di quesiti morali.

Tradizionalmente è sempre stato il medico a essere unico ed esclusivo depositario della funzione di informare il malato. È una funzione particolarissima che, assieme alla fiducia e alla confidenzialità, fonda l'alleanza terapeutica tra medico e paziente. La professione infermieristica, per il ruolo esecutivo fino ad ora svolto, ha sempre riflettuto su questo argomento senza entrare direttamente in causa, partecipando al dibattito ma restando ai margini nella decisione.

La società e la legge stessa chiedono oggi all'infermiere la presa in carico della totalità dei bisogni delle persone assistite; quindi, si pone anche per noi il problema di quante e quali informazioni abbia il malato.

Non è più accettabile, di fronte al malato che chiede a cosa serve un determinato trattamento, o che deve eseguire un certo esame, trincerarsi dietro a imbarazzanti risposte o costruire confuse spiegazioni che hanno la tenuta dei castelli di sabbia; oppure, peggio ancora, accettare e sviluppare un tipo di relazione col malato fondata sul timore o sul silenzio imposto, in modo che l'assistito, per paura o presumendo di non capire, non osi nemmeno porre la domanda.

Qualora si presentino queste situazioni, l'infermiere deve proporre con fermezza la problematica a tutta l'équipe sanitaria. Il medico, infatti, non può più ritenersi, né dal punto di vista

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morale né da quello giuridico, unico titolare del rapporto con il inalato ma, nel rispetto delle diversità dei ruoli e delle responsabilità, deve porsi come integratore e coordinatore di tutta l'équipe curante. La stessa équipe deve poter disporre di tempi e modi per discutere e per dotarsi, in generale, di linee guida comportamentali o, nei singoli casi, di specifiche soluzioni. Per ciò che riguarda l'infermiere, esso ha l'obbligo di sollecitare questi incontri, di parteciparvi, di stimolare e di esigere dai membri dell'équipe la messa in atto di una relazione con l'assistito tale che consenta a questo di essere posto nella migliore delle condizioni possibili per chiedere e ottenere informazioni.

L'infermiere professionale è tenuto a informare l'assistito prima di iniziare una qualsiasi prestazione, in modo tale che il malato possa collaborare fiducioso conoscendo tempi, modi, vantaggi e problemi di ogni intervento.

Informarlo per dargli la possibilità di decidere e di lottare

La decisione su cosa fare davanti al dolore può essere molto diversa se si tratta di superare un dolore momentaneo in vista dell'acquisizione della guarigione o di una migliore qualità di vita, o se il dolore (come nel caso di Luca: "Una giovane vita devastata") è dovuto a una situazione cronica irreversibile, per cui la sua sopportazione non può essere orientata a nessun fine. Un'informazione obiettiva aiuterà il malato ad assumere le decisioni che sono buone per lui, cioè conformi ai suoi sistemi di valori, alle sue credenze, aspettative e alla sua situazione di salute.

La testimonianza personale di Gigi Ghirotti ("La paura del portiere aspettando il calcio di rigore") presenta in modo significativo l'importante ruolo dell'informazione e del modo con cui viene fornita al paziente. L'immagine dell'incontro sportivo tematizza la lotta di Ghirotti contro la malattia che l'affligge e contro il dolore, lotta strenua nella quale è sostenuto dai familiari, dagli amici, dai colleghi; lotta durante la quale è importante non perdere mai la speranza, mai darsi per vinti.

L'INFERMIERE COME "AVVOCATO" DEL MALATO

Assumere la difesa del malato

L’infermiere fa proprio il principio della avvocatura ― cioè della protezione di chi per età, tipo di malattia, stato della coscienza, mancanza di conoscenze ecc., si trova in una condizione di debolezza, di scarse possibilità di difesa ― come parte integrante del suo ruolo professionale. L'infermiere, quindi, diventa avvocato del malato. Proprio per questo può entrare in conflitto con altri membri dell'équipe curante, soprattutto in presenza di pazienti che, in ragione delle loro condizioni, non sono e non saranno in grado di affermare i propri diritti.

Difenderlo da interventi non adeguati di altri professionisti

L’infermiere deve tutelare l'assistito da tutto ciò che può ledere i suoi diritti e interessi legittimi, difenderlo da interventi non adeguati di altri professionisti, sia che attengano alla dimensione fisica che a quella spirituale. In particolare, è chiamato a difendere il malato dall'incompetenza, dalla immoralità, dalla negligenza di altri membri dell'équipe sanitaria. Per svolgere adeguatamente questo ruolo, oltre che essere esperto nel suo campo, deve avere una approfondita conoscenza di leggi e norme, sapendo cosa fare e a chi rivolgersi in qualsiasi situazione, quali ordini può discutere, quali può rifiutare perché palesemente illegali, quali può chiedere che siano messi per iscritto a tutela maggiore del malato e sua, per quali abusi può e deve intervenire, in quali modi e presso quali sedi. In ogni istituzione dovrebbero esistere procedure ben

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definite per consentire a ciascuno di fare rapporto senza temere ritorsioni.

L'infermiere, pur non avendo la responsabilità della prescrizione della terapia, ha il diritto e il dovere di intervenire qualora la terapia sia inappropriata o sperimentale, rischiosa o intrapresa senza il necessario consenso del paziente.

Senza arrivare a casi estremi, il ruolo stesso che è proprio del medico dell'infermiere o del farmacista può portare a una diversa valutazione delle condizioni del malato e dei possibili trattamenti. Tali diversità possono essere all'origine di conflitti interpersonali e interprofessionali. Il fatto che un medico ometta un trattamento antidolorifico perché troppo oneroso per lui, o perché non ne ha la competenza, o che un farmacista scelga un determinato tipo di antidolorifico meno efficace o meno tollerato ma che costa meno, possono essere situazioni che l'infermiere è chiamato ad affrontare.

Certamente la chiarezza del proprio e dell'altrui ruolo, un clima di lavoro rispettoso e sereno, una comunicazione efficace e ad alto contenuto di professionalità, l'esistenza di tempi e modi perché l'équipe discuta i casi e valuti i comportamenti, sono situazioni che possono prevenire l'insorgenza di questo tipo di conflitti o favorire la loro risoluzione. L'infermiere ha il dovere morale di intervenire al fine di segnalare all'interno dell'équipe in modo chiaro e professionale queste situazioni.

Intervenire e far intervenire in modo sollecito

Di fronte al malato dolorante che chiede aiuto, l'infermiere risponde in modo sollecito; senza remore, fa intervenire tutti i professionisti che siano chiamati in causa. Il medico, soprattutto, deve essere chiamato tutte le volte che lo si ritiene opportuno, di giorno e di notte. Capita che l'infermiere per "quieto vivere" o per paura di non dimostrarsi capace di controllare una situazione, o peggio ancora per paura di ritorsioni, tenda a non chiamare il medico. Tale prassi è inaccettabile, sia dal punto di vista professionale che da quello morale, poiché è un diritto del malato essere assistito e curato da tutte le professionalità presenti e operanti nella struttura ed è dovere di tutti i professionisti, salvo che siano impegnati per altre e più gravi urgenze, rispondere sempre e in modo sollecito.

Il dovere di intervenire con sollecitudine si accompagna a quello di verificare l'efficacia del proprio operato. Il nostro interesse professionale e la nostra responsabilità non possono limitarsi alla constatazione che una determinata prescrizione sia stata eseguita, ma si estendono alla verifica dell'effetto che la pratica posta in essere ha avuto sul malato, al fine di verificare se il problema dell'assistito sia stato risolto completamente, parzialmente o se il problema permanga inalterato o attenuato e quindi richieda ulteriori e diversi interventi da parte dell'équipe.

IL DOVERE DI FARE IL BENE DEL MALATO

Il principio dell'avvocatura e quello dell'autonomia della persona impongono al nostro "fare" professionale la tutela di ciò che è "il bene del malato", bene che non possiamo presumere ma che dobbiamo desumere dalla persona stessa. È il malato stesso che deve poter dire che cosa è bene per lui.

Riconoscere che ciò che è bene per una persona deve essere deciso dalla persona stessa

I sanitari, molto spesso, si fanno presuntuosi interpreti del bene della persona e decidono ciò che è bene per l'assistito senza tener conto delle sue opinioni, dei suoi voleri, delle sue aspirazioni, in quella determinata situazione in cui il malato si trova. È l'atteggiamento al quale generalmente ci si riferisce quando si parla, in tono critico, di "paternalismo medico".

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I dilemmi morali posti da queste problematiche devono essere risolti tenendo soprattutto presente la necessità che gli infermieri non confondano il loro punto di vista con quello degli assistiti. Perciò essi devono essere in grado di riconoscere e rispettare i valori delle persone affidate alle loro cure.

Rispettare e favorire le decisioni che il malato prende

In relazione ai sistemi di valori e credenze personali o alla adesione a scelte religiose o a posizioni filosofiche particolari, le persone devono poter scegliere di eliminare o controllare il più possibile il dolore, oppure di accettarlo e sopportarlo, del tutto o in parte, in vista delle proprie aspirazioni e dei propri obiettivi. Qualsiasi sia la decisione che il malato prende, avrà dall'infermiere il massimo rispetto e la massima disponibilità professionale. In alcune situazioni, quando il malato per vari impedimenti è impossibilitato a esprimersi, è doveroso un ascolto attento di tutti i suoi familiari ed eventualmente degli amici, al fine di interpretare, in assenza di disposizioni scritte, nel modo più autentico possibile il suo volere.

Prevenire il dolore

È prassi non infrequente che si attenda la comparsa o l'acutizzazione del dolore per iniziare il suo trattamento. Tutto ciò mette il malato in una situazione di ansia e consente la sopportazione di sofferenze mutili. Numerosi studi clinici evidenziano chiaramente che un più efficace trattamento del dolore, con dosi inferiori di antidolorifici, è possibile mediante l'uso preventivo e costante di determinate categorie di farmaci. L'attuazione tempestiva e puntuale di questa metodica diventa pertanto un impegno morale dell'infermiere, al fine di risparmiare al malato ansie e inutili sofferenze.

Controllare il dolore per favorire il benessere

L'uso adeguato di metodiche farmacologiche o, in caso di pazienti con aspettativa di vita breve, di tecniche neurolitiche e neurochirurgiche, consente un buon controllo del dolore, che a sua volta produce una qualità di vita migliore per il paziente. Infatti, liberato dal peso del dolore continuo, il malato si gioverà di miglioramenti notevoli sia fisiologici (rilassamento generale, miglioramento della respirazione, riduzione della tensione muscolare e dello stress), sia psicologici (diminuzione dell'ansia, della paura e della disperazione), sia sociali (recupero delle relazioni con parenti e amici). In generale, avrà dunque la possibilità di lottare ancora contro la malattia e di sopportarla con maggiore dignità e speranza.

Problemi relativi alla prescrizione dei farmaci

Non è infrequente che molte terapie vengano prescritte "al bisogno". Tale dizione è quanto mai impropria; è fonte di difficoltà e di difficile interpretazione. Questo perché la normativa attuale non prevede che l'infermiere possa fare diagnosi e prescrivere trattamenti medici: è ovvio che definire, in questo caso, il bisogno esistente significa esprimere un giudizio clinico, che è una diagnosi medica.

L'infermiere, pertanto, esige dal medico che le prescrizioni siano scritte, complete, datate e firmate. L'uso della terapia "al bisogno", anziché di somministrazioni regolari, continua a essere una delle principali cause del mancato controllo del dolore. Se nell'ambito del servizio in cui l'infermiere presta la sua opera si fa uso di protocolli terapeutici, questi devono essere datati e firmati dal primario del reparto e devono esplicitamente indicare quali sintomi e segni giustificano la somministrazione del farmaco prescritto. Va detto per completezza che il valore legale di tali protocolli è ancora dubbio e l'argomento meriterebbe specifica attenzione nell'ambito

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dell'auspicato aggiornamento del D.P.R. n.225/74 (Mansionario degli infermieri professionali).

Le difficoltà, le incomprensioni e ì danni che può subire il malato, i rischi a cui lui stesso va incontro, sollecitano l'infermiere a impegnarsi in modo pubblico e collettivo per l'adeguamento delle normative citate.

IL DOVERE DI NON NUOCERE

La terapia del dolore pone una serie di dilemmi etici che riguardano il rapporto fra gli effetti benefici degli antidolorifici e i loro effetti dannosi, quali la depressione respiratoria, l'assuefazione e l'obnubilamento della coscienza. Considerata la rilevanza che il controllo del dolore ha, in particolare, per la qualità di vita del paziente terminale, è importante approfondire questi dilemmi che mettono a confronto il principio del beneficio con il dovere di non recare danno al malato.

Certamente i progressi fatti dalla farmacologia clinica hanno enormemente diminuito gli effetti collaterali e dannosi di tali farmaci, consentendo un loro uso più massiccio e costante. La depressione respiratoria è uno degli effetti collaterali più temuti di alcuni analgesici. Tale effetto ne limita in alcuni casi l'uso, soprattutto in presenza di malati con problemi polmonari. La formazione clinica adeguata degli operatori medici e infermieristici metterà in evidenza il fatto che tale evenienza è tuttavia rara e correlata a dosaggi particolarmente elevati, all'avanzata età dei pazienti e, comunque, è reversibile mediante l'uso di farmaci antagonisti.

Nel valutare l'opportunità di somministrare tali farmaci è da considerare anche il fatto che, se il dolore non è sedato bene, sicuramente interferisce, comunque, nell'attività respiratoria, rendendola estremamente difficoltosa. La paura di indurre assuefazione nel malato è frutto, con molta probabilità, sia di preconcetti che di mancanza di conoscenze scientifiche. Una tale evenienza è così rara che non giustifica le pesanti riserve di molti operatori sanitari, soprattutto in presenza di pazienti con brevissima aspettativa di vita.

L'ultimo problema che vorremmo trattare è relativo all'obnubilamento della coscienza, provocato da alcuni trattamenti antidolorifici. Esso è una condizione considerata, in generale, come danno inflitto al malato, perché lo pone nella condizione di non essere più autonomo, di non interagire con le persone e con l'ambiente e di non poter più adempiere a eventuali obbligazioni di carattere morale, giuridico o religioso. Anche in questo caso l'imperativo etico è quello di rispettare i valori e le attese della persona assistita, che dovrebbe essere messa in grado di partecipare alle decisioni, le quali a sua volta possono essere diverse e variare nel tempo. Ci sono persone che preferiscono sopportare il dolore e conservare la coscienza; altre preferiscono il controllo del dolore anche al prezzo di una condizione di obnubilamento (cfr. "Ognuno soffre in modo diverso"). La pianificazione della cura può inoltre prevedere dei periodi in cui una delle due funzioni sia preservata a scapito dell'altra.

L'infermiere, quindi, sarà in grado di affrontare i dilemmi morali posti dall'uso degli analgesici considerando prioritario, soprattutto nella situazione del malato terminale, il comfort della persona. Egli resta, tuttavia, cosciente degli effetti anche dannosi e dei rischi derivanti dall'uso di tali farmaci; perciò li somministra con la massima diligenza, prudenza e perizia, e con l'obiettivo primario di salvaguardare la qualità di vita del malato, sapendo che il suo intervento terapeutico pone in essere una causa che produce un duplice effetto: l'uno previsto e voluto, che è quello prioritario di sedare il dolore; l'altro previsto o prevedibile, ma non voluto , che è quello secondario di provocare l'obnubilamento della coscienza o la depressione respiratoria.

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L'INFERMIERE: LA SUA PERSONA E LA SUA PROFESSIONALITÀ

Sviluppare costantemente la propria competenza professionale e le proprie motivazioni

Non v'è dubbio che lenire il dolore dei sofferenti costituisca una delle attività umane più nobili. L'importanza di questo valore morale e la sua condivisione può aiutare il professionista ad autorealizzarsi come persona (cfr. "La ricerca del senso").

Nel campo della terapia del dolore il progresso delle conoscenze e la divulgazione dei risultati delle ricerche può apportare notevoli benefici ai malati.La condizione di professionista dell'infermiere lo obbliga a un continuo aggiornamento sulla tematica del dolore, tale da metterlo in condizione di comprendere la complessità del dolore e di conoscere ed essere competente in tutte le tecniche per prevenirlo, controllarlo e combatterlo.

Compatire e mantenere il proprio equilibrio

La presa in carico del sofferente sfida l'infermiere non solo dal punto di vista delle conoscenze e delle competenze professionali, ma anche nella capacità di stabilire e saper mantenere una relazione terapeutica con il malato. Per questo è fondamentale la capacità di ascolto del sofferente, di "compatire" (nel senso di sentire la sua sofferenza come autentica, bisognosa di tutta l'attenzione possibile da parte nostra). In quanto infermieri siamo tenuti ad affinare la nostra sensibilità per ascoltare, sia quando il malato parla e tocca argomenti difficili (e in questo caso va aiutato a esprimere i propri sentimenti, dubbi, opinioni), sia quando ci parla con il suo silenzio eloquente. È prezioso in tal senso il consiglio di Sergio Quinzio, quando invita a stare in silenzio e a rinunciare a clichés e frasi fatte, riconoscendo così la nostra impotenza a fornire spiegazioni ideologiche ("Accanto a chi soffre: la parola che offende, il silenzio che avvicina"). La vicinanza al malato traduce la nostra solerte presenza in una sene di gesti affettuosi che dicono l'unica cosa che è possibile dire: "Sono qui, vicino a te, non sei solo in questo letto".

È demandato alla responsabilità di ogni professionista il compito di realizzare il difficile lavoro di garantirsi l'equilibrio fra i due atteggiamenti estremi e antitetici della totale indifferenza e del totale coinvolgimento. La ricerca di questo interiore equilibrio, che, pur giovandosi di letture, di esperienze e di discussioni, deve crearsi nell'intimo di ciascuno di noi, ci mette nella condizione di partecipare al dolore dei malati che prendiamo in carico; ma ci deve anche consentire di non rimanerne schiacciati. Molti infermieri potrebbero facilmente riconoscersi nel caso del giovane Luca e del "grande disagio" che la sua sofferenza pone a tutti gli operatori del reparto ("Una giovane vita devastata").

Dimostrare attenzione e rispetto nell'uso necessario del dolore

L'infermiere è spesso, in ragione del suo ruolo professionale, fonte di dolore per il malato. Il confine tra l'uso necessario e l'abuso è quanto mai incerto e labile, correndo facilmente il rischio, dato che comunque indossare un camice è potere, di far pagare agli inermi la nostra insensibilità o peggio le nostre frustrazioni. Evitare questo rischio estremo dipende dalla nostra maturità di persone adulte e responsabili, che hanno pensato, discusso, provato dolore e che hanno elaborato un proprio progetto di vita e di valori a cui fare riferimento.

Dipende dalla volontà e capacità di evitare i comportamenti offensivi che manifestano disinteresse, disprezzo o addirittura aggressività nei confronti dell'assistito e di porre in essere comportamenti caratterizzati dall'uso di una adeguata e preventiva informazione del malato, dall'attenzione alla comunicazione verbale e non verbale, dal contatto fisico. Molto può essere fatto da semplici gesti: una spiegazione, una parola, un sorriso, una carezza. In questi casi sarà

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opportuno ancora che l'infermiere si mostri deciso e sicuro di sé, sia per dare un adeguato rinforzo alle scelte del malato, sia al fine di evitare che l'incertezza e la disorganizzazione vengano scambiati dal malato per incompetenza e imprudenza, che costituirebbero nuove e ulteriori fonti di inutili sofferenze.

Tutelare le proprie convinzioni morali

Abbiamo più volte invocato il principio dell'autonomia nelle decisioni che riguardano la persona e la sua vita e che interferiscono con i valori del singolo. Questo principio vale per la persona malata ma si applica, ovviamente, anche all'infermiere, che può essere chiamato a eseguire azioni che contrastano con i suoi valori fondamentali.

Se il contrasto tra i valori dell'ammalato e quelli dell'infermiere si realizza nell'ambito di un rapporto libero-professionale e se questo contrasto si rivela insanabile, è opportuno interrompere il rapporto fiduciario. Qualora il conflitto etico si manifestasse in una situazione nella quale l'infermiere è dipendente di una pubblica struttura e la legge o le norme dell'ospedale gli impongono comportamenti che contrastano con le sue convinzioni morali, deve essere garantita anche all'infermiere la possibilità di sollevare obiezione di coscienza, senza danneggiare il malato e in modo tale che la struttura conservi tutta la sua capacità di intervento efficace.

Diverso è il caso dell'infermiere professionale che sia costretto con l'imposizione violenta a diventare strumento per infliggere deliberatamente dolore attraverso, ad esempio, la tortura dei prigionieri o dei condannati. Le scelte etiche che la professione da sempre ha fatto, di difendere la vita e lenire il dolore, inviteranno la sua coscienza a opporre un netto e totale rifiuto, assumendo e accettando per amore del bene morale a cui si aderisce anche le inevitabili ritorsioni del patire rifiuto di prestare la sua opera professionale in condizioni ritenute eticamente inaccettabili.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Dostoevskij F., I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1992, pp. 338-341.

Ghirotti G., Il coraggio di vivere, La Nuova Italia, Firenze, 1978, pp. 58-59.

Lukas E., Dare un senso alla sofferenza, Cittadella, Assisi, 1983, pp. 103-104 e 108-109.

Magli I., Il dolore fisico: un'esperienza incomunicabile, in Professioni Infermieristiche n.3, anno 37, luglio-settembre 1984, pp. 182-183.

Natoli S., Giobbe: lo scandalo del dolore in Martini C.M., Cattedra dei non credenti, Rusconi, Milano, 1992, pp. 37-40.

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Spinsanti S., La lotta contro il dolore, in Goffi T. - Piana G., Diakonia (Etica delle persone), Queriniana, Brescia, 1983, pp. 264-266.

Verspieren P., Eutanasia, Dall'accanimento terapeutico all'accompagnamento dei morenti, Paoline, Milano, 1985, pp. 102-103.

PER APPROFONDIRE

Cinà G., La ricerca di senso nella sofferenza negli scritti di V. Frankl, Ed. Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1992.

Gutierrez G., Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell'innocente, Queriniana, Brescia, 1986.

Leone S., Oltre il dolore, Edi Oftes, Palermo, 1993.

Natoli S., L'esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano, 1986.

Twicross R.G. e Lack S.A., Terapia sintomatica del cancro avanzato. Controllo del dolore, Ed. Internazionali, Roma, 1986.

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FATTI

Una vita attaccata a una bombola

È difficile dimenticare

Una decisione difficile

IDEE

Ripensare la medicina, a partire dall'"area critica"

Una linea di confine difficile da tracciare

L'infermiere e l'umanizzazione dell'assistenza nelle strutture intensive

Placebo tecnologico o alleanza terapeutica?

Frammenti di ricerche sul burnout

NORME

● Diritti Umani

I diritti della persona malata

● Norme Morali

Il rispetto dovuto

La rinuncia a trattamenti sproporzionati

COMPORTAMENTI

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FATTI

UNA VITA ATTACCATA A UNA BOMBOLA

Paride, 70 anni, celibe, con una sorella, viene ricoverato in rianimazione per una riacutizzazione di una broncopatia cronica ostruttiva (BPCO) e sottoposto a respirazione meccanica. Bronchitico cronico, con una cifoscoliosi accentuata con deviazione della trachea, il sig. Paride era conosciuto dall'équipe perché seguito per ossigenoterapia domiciliare. Ricoverato d'urgenza per stato confusionale consecutivo a carbonarcosi, viene intubato; al risveglio, incomincia ad agitarsi per il disagio dovuto all'intubazione tracheale e alla ventilazione meccanica. Con dei colpi di tosse cerca di togliersi il tubo, fa dei tentativi di respirazione spontanea contrastando con il ventilatore, i cui allarmi incominciano a suonare, cerca di cambiare decubito, morde il tubo endotracheale provocando ostruzione respiratoria e aumento delle secrezioni che tracimano dalla bocca per l'impossibilità a deglutire. Si rende così conto della sua condizione di completa dipendenza dal ventilatore.

L'infermiere Alberto effettua le procedure assistenziali osservandolo di continuo e, per tranquillizzarlo, gli dice: «Non si preoccupi, vedrà che tra qualche giorno migliorerà!». Come risposta Paride disegna una inequivocabile smorfia di stizza e lo fulmina con lo sguardo. Alberto in seguito, cerca di far utilizzare a Paride la scrittura come mezzo di comunicazione; ma i tentativi non raggiungono lo scopo per le grosse difficoltà del paziente.

Dopo circa 15 giorni, grazie a una certa autonomia ventilatoria, a Paride viene tolto il tubo endotracheale. Pur avendolo preparato all'evento, egli reagisce con paura, angoscia, pianto, felicità, affaticamento, iperventilazione, tachicardia, sudorazione. Viene così reintubato e si inizia una strategia ventilatoria che alterna periodi di ventilazione meccanica a periodi di spontanea, dapprima di breve durata, successivamente protratta per le ore diurne. Finalmente Paride, estubato da un paio di giorni, riprende a parlare con voce rauca. Le sue condizioni generali però lasciano presupporre il verificarsi di un nuovo accesso asmatico che si verifica all'improvviso con necessità di ventilazione meccanica.

Paride diventa così particolarmente depresso, senza più voglia di lottare, rifiuta di mangiare e, nello stupore generale, riesce a scrivere con grafia tremolante: «Avrei preferito morire, non voglio più essere torturato!». Nonostante gli sforzi congiunti dell'équipe con la sorella, egli è spesso con gli occhi fissi sul soffitto, manifesta indifferenza per gli infermieri e le sue condizioni fisiche non migliorano.

Alberto, nonostante l'alternarsi dei turni di lavoro, continua a occuparsi di lui con la solerzia di chi vuole riuscire e propone di allungare le visite della sorella del paziente. Per Paride la sorella è una persona significativa e per Alberto una preziosa alleata. Paride ha nuovamente una crisi e viene trattato, tra la rabbia di molti e l'ostinazione di altri che affermano: «Qui si fa troppa filosofia e poca clinica!». I due schieramenti non si identificano attraverso il profilo professionale di appartenenza, bensì con l'idea di persona che ciascuno ha in mente.

Dopo più di 40 giorni dal ricovero, Paride è vivo e trasferito in un centro di fisiopatologia respiratoria. Avvenuta la dimissione, trascorre le giornate in giro per la sua campagna, ha ricominciato ad andare in motorino, con nello zainetto una bombola di ossigeno da cinque litri. Ha un'autonomia limitata ma grande vitalità, tanto da dare preoccupazioni alla sorella, che vorrebbe una bombola più piccola per vederlo più a casa.

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È DIFFICILE DIMENTICARE

Monica lavora come infermiera in una Unità di terapia intensiva coronarica, collegato a un servizio di terapia semintensiva. Significativo per lei fu il ricovero di un insegnante di circa 45 anni, sposato con due figli adolescenti. Egli era stato ricoverato d'urgenza per un infarto miocardico acuto anteriore esteso, sottoposto agli esami di routine, collegato ai monitor, trattato farmacologicamente. In seconda giornata dal ricovero, si aggiunse una pericardite che però non fece perdere la speranza di miglioramento.

Quest'uomo, di carattere mite, era riuscito a conquistare tutta l'équipe perché dimostrava di vivere la malattia con disinvoltura. La moglie e i figli si distinguevano per lo stesso stile, ma soffrivano per l'impossibilità di rimanere più a lungo al suo capezzale. Col passare dei giorni, nonostante cercasse di reagire, sembrava rendersi progressivamente conto della gravità della situazione. Dopo una settimana dal ricovero, le sue condizioni sembravano talmente migliorate, da permettere il suo trasferimento nel servizio di post-intensiva.

Dopo neppure tre giorni, venne colpito da un arresto cardiocircolatorio controllato da un tempestivo massaggio cardiaco esterno. In seguito si presentarono delle tachicardie ventricolari incontrollabili farmacologicamente. Aveva frequenze cardiache elevate, ma era cosciente e comunicava la sua sensazione di staccarsi, stanco, pallido, sudato; e il personale soffriva con lui. L'unica terapia possibile era la defribillazione elettrica. La tachicardia si trasformò in fibrillazione ventricolare e il paziente venne defribillato.

Monica è colpita da quel corpo inerte, quasi inanimato, dove l'aspetto tecnico si sovrappone in maniera imponente al risvolto psicologico; osserva la perdita di motilità degli arti, lo vede saltare alle scosse elettriche sul letto, cerca di essere efficiente ma si sente presa dai dubbi. In questi istanti, che sembrano durare anni luce, per essere in perfetto sinergismo con la richiesta di abilità, ella cerca di dimenticare di avere di fronte un essere umano, esegue ubbidendo a ordini visivi, agognando l'obiettivo previsto. Dopo, si rilassa completamente se il risultato è positivo, altrimenti si sente delusa. Monica è soddisfatta alla fine del turno, se è riuscita ad avvicinarsi ai pazienti considerandoli persone, è ferita invece da quelle mezze frasi di certi colleghi, come: «Aveva dei fattori di rischio, se l'è voluta!... era vecchio!».

Le condizioni di Pietro peggiorarono. L'équipe era in allarme; il malato venne defibrillato più volte. Quella notte Monica era in turno in UTIC e venne chiamata nell'altro reparto, dove trovò i colleghi che avevano già iniziato a massaggiarlo. Il suo sguardo, nei periodi di coscienza, sembrava dire: «Vi ringrazio per quello che fate, ma non ce la faccio più!». I parenti erano presenti in sala d'attesa, chiamati telefonicamente. Pietro rimase in l'TIC per una settimana per poi essere trasferito in semintensiva; questa altalena sembrava non avere fine. Le sue condizioni erano talmente compromesse che l'unica speranza era un trapianto. Venne deciso, con il suo consenso, il trasferimento nel vicino centro cardiochirurgico. Con un'autoambulanza attrezzata Monica lo accompagnò con un medico. Al momento dei saluti, il paziente non le lasciava la mano, gliela stringeva con l'espressione di chi vuole credere nel futuro. In seguito, si venne a sapere che Pietro era morto in rianimazione, dopo una settimana dall'intervento.

UNA DECISIONE DIFFICILE

Luigi è un paziente di 60 anni, vedovo, con enfisema e una grave insufficienza respiratoria. Subisce diverse degenze in medicina, fino al ricovero in rianimazione, dove viene sottoposto a ventilazione

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meccanica. Lo svezzamento dal respiratore richiede la tracheotomia. Successivamente, Luigi viene dimesso con una cannula tracheostomica.

Per alcuni anni viene seguito dal servizio dove si presenta per la sostituzione della cannula. A causa di uno scompenso cardiaco, le sue condizioni si aggravano, viene così nuovamente ricoverato e collegato al ventilatore. Si ritiene opportuno trasferirlo in un centro specializzato in riabilitazione respiratoria, da cui però viene ritrasferito in rianimazione.

Luigi ha una funzionalità polmonare così ridotta che necessita di assistenza respiratoria continua. Rifiuta il dialogo, chiede alla figlia di dire ai medici di staccarlo dalla "macchina", perché vuole morire. All'interno della famiglia i pareri sono discordi: la figlia è d'accordo con la richiesta del padre, ma il fratello insiste per il trattamento. I medici rifiutano questa responsabilità e, con frustrazione, attendono l'evolversi degli eventi. Dopo circa dieci giorni, per una complicanza, Luigi muore.

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IDEE

RIPENSARE LA MEDICINA, A PARTIRE DALL'"AREA CRITICA"

Contrariamente al diffuso trionfalismo, che vede nella medicina solo una sequenza ininterrotta di trionfi, Graziano Martignoni ― medico psichiatra e psicanalista svizzero, docente presso la scuola di specializzazione di cure intense e delle urgenze ― delinea per la medicina una "stagione declinante", a causa della sua povertà antropologica. Ma da questo indebolimento si aspetta una medicina più consapevole e più attenta all'umano. L'"area critica" viene presentata come il punto di partenza per rifondare la medicina.

La stagione della "gaia medicina" sembra oramai al tramonto. I segni di un disagio e i nodi di alcune aporie del suo pensiero e della sua pratica si moltiplicano sia sul piano del dispositivo epistemico, sia dentro le sue procedure tecnico-terapeutiche, sia infine dentro l'"immagine sociale" che la alimenta e la legittima dall'esterno. La medicina contemporanea appare dunque come una sorta di "vincitore assoluto" dentro la crisi più generale della razionalità del "moderno", prigioniero al suo interno dai percorsi ritualizzati e stereotipati di una parte della sua ricerca e dei suoi programmi di formazione e all'esterno dell'aumento di domande che la società e il pubblico le pone pressantemente. È in questo iato che l'attesa fideistica in un suo "illimitato'' potere si coniuga spesso con la aggressività pubblica nei confronti del suo apparato organizzativo e dei suoi operatori.

Il "pensiero medico" sembra dunque attraversare questo crepuscolo della modernità e paradossalmente questo quasi-compimento della civiltà della "tecnica" con un sentimento di afasia o almeno di povertà narrativa e conoscitiva rispetto alla complessità del soggetto, che ha forse la sua ineludibile radice nel progetto di "separatezza" di un "sapere pratico", che si accompagna alla caduta di una sorta di implicita autolegittimazione teorica e tecnica, alla rinascita di domande radicali, che il mondo della tecnica non ha potuto certo esaurire e alla crescita conseguente di una nuova "sensibilità" e di una diversa "cultura" generale che si fonda e genera una crisi epistemica e strategica complessiva. Dentro di essa trovano posto nuove esperienze (le medicine naturali, la crescita di "saperi" e di "credenze" diverse e nello stesso tempo antichissime rispetto alla salute e alla malattia, che riecheggiano in un certo senso un mondo pre-scientifico...) e categorie rifondative, di cui l'"area critica", rappresenta sicuramente un orizzonte teorico e clinico privilegiato.

Un'area, quella "critica", che rappresenta una sorta di frontiera teorica e clinica situata spesso tra la vita e la morte, tra la coscienza e la non-coscienza sino ai territori misteriosi del coma, tra psiche e soma, tra natura e artificio, tra la "voce" che rimanda ad un "altrui" e alla dimensione dell'attesa e dell'incontro e la "macchina" che diviene supporto tra integrità-identità del corpo ferito..., e ancora tra crisi e catastrofe, tra acuto e cronico, costituendo un "regno intermediario" per una fenomenologia dell' "evento", in cui certo il "sapere" e il ruolo infermieristico assumono spesso in modo ancora inconsapevole una posizione centrale...

... Così nel momento di maggiore splendore tecnologico della medicina, nel momento in cui ci si appella alla sua "potenza" per riempire i vuoti sulle domande ultime, che altri apparati ideologici-religiosi non riescono più ad assumere, nel momento stesso che la "salute-integrità" come nuova categoria politico-ideologica diviene un principio di appartenenza alla polis e di identità per l'uomo sovrapponendosi spesso al tema della felicità e della salvezza, nel momento in cui il progresso tecnico si

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coniuga e nutre una nuova sensibilità e una nuova "cultura", proprio qui il "pensiero medico", il suo orizzonte pragmatico, mostra il suo più grande disagio, le sue aporie e la sua crisi di conoscenza del reale.

Graziano MartignoniLe modificazioni della medicina

UNA LINEA DI CONFINE DIFFICILE DA TRACCIARE

I nostri doveri morali nei confronti dei vivi sono diversi da quelli che abbiamo verso i morti. Ma tracciare la frontiera tra i due stati è diventato difficile, da quando la medicina in area critica ha modificato il processo del morire. L'etica deve tener conto di questa situazione, che produce numerosi conflitti e perplessità.

La linea di confine tra la vita e la morte non è sempre facile da tracciare. Fino a non molto tempo fa la morte veniva determinata in modo empirico, in base alla cessazione del battito cardiaco e all’arresto della respirazione. Nel giro di un paio di generazioni questi risultati per stabilire il decesso sono diventati preistorici. L'elemento determinante è stato lo sviluppo in medicina delle tecnologie di rianimazione. La respirazione e circolazione sanguigna artificiali suppliscono l'autoregolazione dell'organismo umano quando la persona è in coma; una quantità di vite umane possono essere salvate in questo modo. La frontiera tra la vita e la morte si è spostata: non risiede più nella capacità di respirare autonomamente, ma nell'assenza di danni cerebrali irreversibili, che annullano la possibilità di vita sensitiva e cognitiva. La paura predominante dei nostri contemporanei è quella di essere trasformati in un "vegetale", che langue per un tempo indefinito in quella terra di nessuno che la terapia intensiva ha creato tra la vita e la morte.

Il termine della vita è diventato un’area scottante, dove confluiscono sfide antropologiche tra le più radicali. Ciò obbliga l'etica biomedica contemporanea a ripensare, in considerazione del bene stesso dell'uomo, le norme morali che in passato hanno validamente regolato questo ambito. L'intervento massiccio delle nuove tecniche ha cambiato volto alla morte. Questa ha perso la sua "naturalezza": avviene ormai quasi esclusivamente in un contesto medico, per lo più in ospedale, sotto terapia intensiva di rianimazione. Grazie a questa disciplina medico-chirurgica, tanto spettacolare quanto efficace, la durata della vita ha potuto essere notevolmente prolungata. Ma il tenere m scacco la morte si è rivelato una benedizione ambigua. La possibilità di rendere la vita vegetativa indipendente dai livelli superiori della coscienza diventa, almeno in alcuni casi, un dono malefico.

Sandro SpinsantiEtica bio-medica

L'INFERMIERE E L'UMANIZZAZIONE DELL'ASSISTENZA NELLE STRUTTURE INTENSIVE

Il testo riportato riproduce il punto di vista di un infermiere sulle sofferenze collegate alle terapie intensive. Proprio per la sua attenzione alla dimensione globale dell'assistenza prestata alle persone in condizioni vitali critiche, l'infermiere è in grado di vedere quanta sofferenza "inutile" ― nel senso che è gratuita e non giustificata ― accompagna le terapie intensive (da una relazione presentata al 1° Corso internazionale di aggiornamento: "Dolore e assistenza infermieristica").

Affrontare il tema della sofferenza significa prendere in considerazione la persona nei suoi vari aspetti costituitivi: una personalità, un proprio passato, una famiglia ed una cultura, un proprio ruolo

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sociale, una propria specificità, un proprio modo di comportarsi ed una propria vita intima o segreta o proprie sicurezze o credenze.

Il campo delle sofferenze possibili è dunque molto vasto perché può investire ciascuno di questi aspetti. Alcuni decenni fa gli operatori sanitari ritenevano di essere responsabili solo di controllare i segni del dolore. Gli infermieri hanno contribuito grandemente a modificare questa concezione e a passare ad una diretta azione di limitazione del dolore e più in generale delle sofferenze.

Ciononostante ancora, ricerche dimostrano che nelle terapie intensive la sofferenza è una realtà per la maggior parte dei malati, è un'esperienza comune per i loro parenti e la sofferenza dei malati costituisce un problema rilevante anche per gli infermieri che non si sentono adeguatamente preparati ed organizzati ad affrontarla ed a trovarvi metodicamente valide soluzioni.

Appaiono come tristemente e drammaticamente inutili tanti episodi di quotidiana sofferenza delle nostre realtà operative. Alcuni esempi:

― La signora con insufficienza respiratoria per complicazioni infettive polmonari intervenute in una grave deformazione toracica, che non aveva mai dormito in tutta la sua vita senza un familiare, tantomeno fuori casa, ricoverata m terapia intensiva, con il divieto di avere il fratello vicino, senza poter essere adeguatamente seguita dagli infermieri per mancanza di tempo, deceduta dopo un mese di sedazioni farmacologiche, stress, terrore, spossatezza fisica per impossibilità di riposo ed incapacità di adeguarsi allo svezzamento del respiratore.

― Il signore in ventilazione meccanica per sclerosi a placche, confinato in un angolo della terapia intensiva, che dopo un mese rifiuta definitivamente la comunicazione con il personale e, cosciente quasi fino alla fine, muore dopo tre mesi.

― Il bambino che esprime il suo terrore per l'esperienza di ricovero in terapia intensiva con un disegno in cui il suo cagnolino lo difende dall'infermiere visto come il nemico ed in cui il pensiero ricorrente durante la degenza è rivolto al papà ed alla mamma che non possono stare con lui.

― La moglie che ha potuto baciare suo manto solo al decesso dopo un mese di sofferenze per una vasta ustione, per una frattura del femore mai ridotta, per una ventilazione meccanica e per complicazioni da decubito di cui all'epoca non si conoscevano nel reparto le reali possibilità di prevenzione.

― Il signore con trauma toracico con una inadeguata ed incostante copertura analgesica.

― Il ragazzo fatto oggetto di aggressioni, contenzione ed intimidazioni da parte del personale per le esigenze espresse, per il disorientamento e per la richiesta di maggiore libertà ed assicurazioni.

― Interi organici di infermieri di reparti intensivi in burn-out o che chiedono di essere trasferiti di fronte a problemi dei malati che non riescono a risolvere o nei quali non gli è concesso di interferire anche per le loro competenze.

Vi deve essere nel processo di soluzione dei problemi che creano sofferenza ai malati in terapia intensiva un necessario ed ineludibile concorso di competenze di tutti gli operatori sanitari e dei parenti. Compito del medico è di individuare la diagnosi e definire la terapia adeguata, anche con l'applicazione di attrezzature tecnologiche se necessario. L'infermiere è deputato a stimolare le risorse del soggetto malato per riacquistare la salute, compensando nel caso l'eventuale carenza o limite temporaneo di tali risorse.

Non è di poco conto considerare il fatto che l'infermiere, nonostante tutto è, per la propria specificità professionale e per l'ottica olistica con cui si pone in relazione al malato, il maggior esperto in fatto di "sofferenza".

L'infermiere è quindi potenzialmente il più importante agente di cambiamento di questa realtà.

Elio Drigo, La sofferenza inutile nelle terapie intensive

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PLACEBO TECNOLOGICO O ALLEANZA TERAPEUTICA?

La professione infermieristica incontra particolari difficoltà nell'assistenza ai pazienti in terapia intensiva. Non si tratta solo di problemi organizzativi ma anche ― come mette in luce un contributo di riflessione centrato sull'esperienza dell'infermiere ― alcuni interrogativi di natura antropologica ed etica.

Ci chiediamo in che senso si deve considerare il rapporto infermiere e paziente come rapporto tra soggetti; in che senso occorre avere rispetto per il paziente privo di coscienza. Altre problematiche: tutela dell'autonomia "residua" del paziente (diminuzione della capacità di intendere e volere); ruolo dell'infermiere nel "dire-comunicare la verità al paziente"; rischio di eccessiva medicalizzazione della cura; è giusto continuare terapie anche costose quando il paziente è terminale? è legittimo insistere nella terapia? Nel campo delle cure intensive: qualora ci si trovi di fronte a morte certa e imminente, verificandosi un arresto cardiaco, lo staff medico e infermieristico è obbligato a tentare di rianimare il paziente, o viceversa può decidere per un non trattamento?

Si registra un generale accordo nel riconoscere l'esistenza di obbligo morale di rianimare solo se la rianimazione è considerata come mezzo ordinario quando c'è garanzia di un certo beneficio per il paziente e quando ciò non comporta particolare sofferenza per lui e gli altri ad un'analisi costi-benefici, (ha senso prolungare di poco la vita se non c'è comunque speranza di recupero e con il rischio di grandi sofferenze?); nel caso di somministrazione di supporti artificiali: è adottare un mezzo ordinano o un mezzo straordinario? Di fatto non si può dire a priori se un mezzo è ordinario oppure no. Esso è più o meno proporzionato alla circostanza e all'individuo. Terapie come: 1) rianimazione; 2) cura intensiva e supporto vitale tra cui ventilazione meccanica; possono essere sia ordinarie sia straordinarie, a seconda che siano proporzionate o meno all'obiettivo la terapia intensiva sembra essere una pratica volta all'obiettivo di propiziare il prolungamento artificiale delle funzioni vitali. Si tratta invece di una misura effettivamente terapeutica solo qualora sia volta a rianimare, a "ridar l'anima".

Il problema sta nella definizione di che cosa è la vita, di che cosa sia la qualità della vita, la differenza tra mera sopravvivenza e vita "degna di essere vissuta". Fine della cura è il massimo bene della persona integralmente considerata: questo deve costituire il criterio per giudicare l'opportunità o meno di un trattamento medico atto a prolungare la vita. Ci si trova di fronte a situazioni di confine, in cui è più importante la cura della guarigione, un accompagnamento il più umano possibile in questo si caratterizza la professione infermieristica per la peculiarità di approccio al malato, la differenza tra "l'aver cura" (to take care of) e il "prendersi cura" (caring about), tra il cure e il care: nel primo caso si tratta degli aspetti tecnici e medici dell'assistenza, nel secondo dell'aspetto umano oltreché tecnico dell'assistenza, del coinvolgimento e dell'empatia: una alleanza terapeutica.

Roberta SalaUmanizzazione e interrogativi etici del rapporto infermiere e paziente in terapia intensiva

FRAMMENTI DI RICERCHE SUL BURNOUT

Negli ultimi tempi sono state condotte numerose ricerche sulle conseguenze psicologiche prodotte negli operatori dal lavoro nell'ambito delle terapie intensive. L'infermiere che presta assistenza in area critica deve essere consapevole che, essendo personalmente a rischio, ha bisogno di un appropriato supporto.

Lo stress è stato definito da Selye come una risposta non specifica dell'organismo ad uno stimolo. Questo concetto è stato ampliato integrandolo con il modello interazionale e transazionale con l'ambiente:

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è importante cioè la percezione individuale dello stimolo pericoloso. Il burnout è stato definito come "esaurimento emotivo a causa di un'eccessiva richiesta di energie, resistenza o risorse"; Cherniss lo definisce invece come un processo transazionale che dallo stress lavorativo porta all'accomodamento psicologico in termini di difesa e di auto-rinforzo.

Quali sono i fattori analizzati nelle strutture intensive che determinano stress e burnout? La relazione infermiere-paziente con pazienti gravemente ammalati o morenti è considerata uno stressore importante a causa dell'impatto emozionale aumentato a seguito dì una relazione di maggiore intensità, della continuazione delle cure malgrado l'esito sia probabilmente la morte, della contraddizione tra l'immagine che l'infermiere "salva vite", e risultare quindi una minaccia alla stima di sé. La natura stessa del lavoro intensivo non permette all'infermiere di rallentare ì contatti con il paziente poiché "non c'è posto dove nascondersi", dando la sensazione all'infermiere di sentirsi in trappola. Altrettanto dicasi per il rapporto infermiere-parente, dove, anche quando vengono identificati i bisogni e le necessità dei parenti, l'infermiere può essere o sentirsi troppo indaffarato o esausto per offrire il supporto richiesto. La carenza di conoscenze e di abilità viene indicata come un potente stressore per chi si avvicina a questi servizi. Tra ì fattori interpersonali vanno sicuramente menzionati i conflitti con il personale medico dovuti alla meno netta distinzione dei ruoli (...).

L'infermiere sotto stress tende ad avere schemi comunicativi alterati e il "collasso comunicativo" viene anch'esso indicato come stressore assai importante. La modalità gestionale dell'unità viene percepita come uno stressore primario. Esiste una correlazione negativa tra burnout e la soddisfazione. Questo punto è stato dimostrato in altri studi che hanno evidenziato una correlazione tra la "considerazione" della caposala ed il burnout del personale (...).

Esiste evidenza scientifica che il burnout influenza negativamente la salute degli operatori e incide negativamente sui livelli di assistenza. Sono state infatti descritte risposte psico-fisiologiche come fatica estrema, raffreddori cronici, ulcera; risposte psicologiche quali esaurimento emotivo, attitudini negative al lavoro, perdita di interesse per ì pazienti, depressione; risposte comportamentali come il ritirarsi fisicamente o psicologicamente dai pazienti, essere negligenti quando si commettono errori, trattare ì pazienti in modo disumanizzato, paura di recarsi al lavoro, ritardi, assenteismo e abbandono del posto di lavoro per altre soluzioni, alta incidenza di infortuni sul lavoro possono anch'essi essere indici indicativi di burn-out.

Roberto TorreLo stress nell'impegno professionale dell'area intensiva

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NORME

DIRITTI UMANI

I DIRITTI DELLA PERSONA MALATA

Autodeterminazione e rispetto della volontà

Per ogni trattamento sanitario e per qualsiasi tipo di cura è sempre necessario il consenso del diretto interessato:

― per esprimere un consenso valido è necessario essere prima informati. I sanitari devono spiegarti in termini il più possibile semplici il tipo di malattia (diagnosi) e la sua possibile evoluzione (prognosi), i tipi di terapia possibili, il perché della scelta di una certa terapia, i rischi e i possibili esiti.

Se non sei cosciente

Vi sono casi in cui, anche se maggiorenne, ti trovi però in una condizione di incoscienza così da non poter esprimere la tua volontà. Se le terapie non sono urgenti i medici devono aspettare che tu riprenda coscienza e che, adeguatamente informato, esprima il tuo consenso o rifiuto. Se le terapie sono invece necessarie e urgenti, i medici intervengono anche in mancanza di consenso, secondo il tuo interesse a ricevere tutte le cure del caso.

La volontà espressa prima (Il living will)

È possibile però che prima della perdita di coscienza il paziente abbia espresso la propria volontà in ordine alle cure. Quale valore debba avere tale volontà non è previsto esplicitamente dalla legge ed è controverso tra i giuristi. L'atteggiamento tradizionale, ancora oggi prevalente, porta a non tenerne conto. Ciò viene giustificato giuridicamente con le teorie dello stato di necessità (art. 54 CP, che non considera reato quanto viene fatto per la necessità di salvare qualcuno dal pericolo attuale di un danno grave non altrimenti evitabile) o del consenso presunto sulla base di quanto accade il più delle volte (istinto di conservazione) o della necessità di un consenso o dissenso attuale (la volontà manifestata prima non è più "attuale" nel momento in cui il paziente ha perso coscienza). È poi diffusa tra i medici l'idea (non esatta) che non intervenire" comporti responsabilità civile e penale. Questo atteggiamento interventista può costituire, in alcune situazioni, una grave violazione della tua persona e della tua libertà di determinazione. È necessario distinguere.

Tra le situazioni che possono crearsi ne segnaliamo due.

1) Il paziente ha espresso la sua volontà in epoca prossima alla perdita di coscienza e dopo essere stato informato della diagnosi, della prognosi e delle conseguenze per la sua salute se non vengono attuate determinate terapie. In tali casi non si vede perché non debba essere rispettata la volontà manifestata liberamente e consapevolmente dal paziente, specie se è espressione di convinzioni etiche o religiose radicate (tra i giuristi questa opinione è di minoranza, ma autorevole).

2) Il paziente ha espresso una volontà ma non di recente e comunque prima di conoscere la malattia da cui è affetto e gli effetti della mancata esecuzione di determinate terapie. Si pensi ai documenti che portano con sé i Testimoni di Geova oppure a certi "living will" (testamenti di vita): si tratta di dichiarazioni di rifiuto di terapie (trasfusioni per i Testimoni e accanimento terapeutico nel caso dei l.w.) che hanno una forma ipotetica, del tipo "Se un giorno nella mia vita dovesse accadere...". Queste dichiarazioni sono importanti come manifestazioni del pensiero e di credo religioso, ma per il medico costituiscono soltanto un'indicazione non vincolante.

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Il consenso dei congiunti

Il consenso dei congiunti, che viene talora raccolto dai medici, non ha alcun valore giuridico. Non rende lecito un trattamento in sé illecito né giustifica, in casi di diniego di consenso da parte dei congiunti, il fatto che non sono stati praticati quegli interventi tecnicamente e giuridicamente possibili.

Accanimento terapeutico

Si parla di accanimento terapeutico quando nei confronti di un paziente affetto da malattia incurabile, con prognosi infausta a breve termine (malato terminale), vengono attuati trattamenti sanitari in grado solo di rallentare l'approssimarsi dell'evento morte, ormai imminente. È vero in generale che il medico non ha, né potrebbe avere, l'obbligo di impedire la morte. Suo compito è infatti quello di proporre al paziente e di attuare terapie che possono risultare di qualche utilità in presenza di un processo morboso suscettibile di miglioramento. Se quindi il miglioramento è impossibile e le terapie sono inutili, il medico può lecitamente interrompere quei trattamenti terapeutici atti solo a differire l'evento morte. Restano invece doverosi per il medico tutti quegli interventi capaci di migliorare in qualche modo la qualità della vita pur in fase terminale. È oggetto di dibattito scientifico-filosofico quale sia l'atteggiamento da tenere nei confronti dei pazienti in coma irreversibile. Secondo alcuni accreditati studiosi nel caso di paziente in coma nel quale non vi sia speranza di recupero della coscienza, anche se siano conservate le funzioni vitali (attività respiratoria, cardiaca e cerebrale), il medico può interrompere le pratiche di rianimazione o non intraprendere trattamenti straordinari.

Amedeo SantosuossoGuido per conoscere e salvaguardare i tuoi diritti

NORME MORALI

Il rispetto dovuto

Occorre evitare di voler guarire a qualsiasi costo allorquando la malattia non è più guaribile. Occorre evitare l'errore dell'accanimento terapeutico, che è uno sbaglio medico frutto di cocciutaggine intellettuale. L auspicio di qualsiasi essere umano, è di evitare di diventare un oggetto e di rimanere un soggetto fino all'ultima tappa della vita. Il rispetto della persona e della sua dignità richiede che si eviti il prolungamento di una vita che non è più vita, della morte lenta. I malati vogliono vivere a tutti i costi, ma non vogliono vivere a qualsiasi costo.

Comitato nazionale per la BioeticaParere sulla proposta di risoluzione sull'assistenza ai pazienti terminali

La rinuncia a trattamenti sproporzionati

L’uomo che vive nei Paesi sviluppati si sente spinto dai continui progressi della medicina e dalle sue tecniche sempre più avanzate. Mediante sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati, la scienza e la pratica medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi precedentemente insolubili e di lenire o eliminare il dolore, ma anche di sostenere e protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, di rianimare artificialmente persone le cui funzioni biologiche elementari hanno subito tracolli improvvisi, Quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte.

Papa Giovanni Paolo IIEvangelium Vitae

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COMPORTAMENTI

Nell'area del sostegno alla vita minacciata la tecnologia ha assunto aspetti preponderanti, tanto da rischiare di porre in secondo piano i rapporti interumani. Si creano così dilemmi etici e nuove sofferenze, come nel caso del coma vegetativo persistente e dell'insufficienza respiratoria cronica. Il primo contatto è spesso drammatico, a causa dell'urgenza; continua caratterizzato da sofferenza acuta, con il paziente dipendente e spaventato; termina con illusioni e dubbi, come nella storia di Pietro ricoverato in UTIC ("È difficile dimenticare").

L'équipe è caricata da situazioni impegnative, sia tecniche che psicologiche; prova sentimenti intensi e contradditori. Le attese sociali nei suoi confronti sono così alte che il fallimento spesso crea delusione e rabbia. Gli operatori oscillano tra sentimenti di onnipotenza e di impotenza circa il proprio intervento. Questa situazione è potenziata dall'impossibilità di elaborare i sentimenti e di poter approfondire il rapporto. Quest'ultimo è angosciante e non gratificante, distanziato anche a causa della gerarchizzazione dei ruoli, benché in queste aree si evidenzino discreti rapporti di gruppo e rituali condivisibili.

I medici hanno difficoltà ad accettare la responsabilità di una decisione circa l'eventuale interruzione della cura. Emblematico è il caso di Luigi, il paziente affetto da broncopatia cronico ostruttiva ("Una decisione difficile"). Il carico di responsabilità provoca frustrazione nell’équipe. Un impegno di tale tipo presuppone investimenti emotivi che possono sfociare in un frequente turn-over del personale.

La figura infermieristica ha un ruolo paradossale: deve essere razionale e, contemporaneamente, dare calore e partecipazione. Si rifletta, ad esempio, sulle emozioni provate da Monica, infermiera che opera in UTIC e che non riesce a dimenticare ("È difficile dimenticare"). Infatti l'infermiere in questi settori affronta la morte più frequentemente e i confini della sua responsabilità professionale sono più sfumati, in quanto è addestrato ad agire in urgenza. È indubbio che esistano anche difficoltà di comunicazione tra paziente e operatori, che spesso utilizzano meccanismi di difesa per far fronte allo stress. Un esempio è l'utilizzo di frasi ciniche, per controbilanciare la mancata riuscita dell'intervento (come nel caso dell'UTIC). I rapporti tra l'équipe e il paziente costituiscono un intreccio di reazioni e controreazioni spesso inconsce.

È opportuno che la professione infermieristica perda lo stereotipo di figura ancillare e senza capacità critica, bensì allarghi i propri orizzonti culturali, interrogandosi sull'eticità delle proprie azioni. Si richiede una coscienza della necessità di dominare la tecnologia per la salvaguardia del paziente, per controllare condizionamenti anche inconsci che possono allontanarla dal rapporto. Queste tecniche, al contrario, possono diventare quasi strumenti di oppressione perché rendono difficili i rapporti interumani. Il paziente non è interessato agli aspetti tecnicosanitari della sua malattia, ma all'impatto che questa ha per la sua vita (si chiede solo quando verrà dimesso e che cosa ne sarà di lui). Si visualizza nella sua mente un ambiente sconosciuto, con regole ferree a cui deve attenersi e che non comprende; il suo corpo sofferente diventa il centro della sua attenzione e ne influenza la psiche.

Un approccio medico distorto è quello che considera il corpo come qualcosa di isolato e cerca di scomporlo analizzandolo nelle sue singole componenti biologiche, mentre la psiche viene considerata come qualcosa di separato. Stati d'animo, paure, angosce, desideri, depressioni

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sono ricondotti a sintomatologia o affidati ad altri ruoli professionali. Le scienze infermieristiche o si contrappongono a questa visione, oppure subiscono la subalternità. La scissione corpo-psiche rispetto alla visione olistica dell'uomo può essere osservata nei ruoli professionali, nelle aree disciplinari, negli standard assistenziali.

In un ambiente caratterizzato dal sovradimensionamento tecnico, la scienza medica evidenzia i limiti del proprio potere. Nella prospettiva in cui il malato grave venga considerato come aggregato biologico, le conseguenze prevedono il non rispetto della persona, del suo consenso e autonomia decisionale. Nel caso del paziente con broncopatia cronica ostruttiva, in cui lo svezzamento dal respiratore non riesce e la sua situazione si cronicizza con la dipendenza dal respiratore ("Una vita attaccata a una bombola") viene illustrata la grande sofferenza a causa del ricovero prolungato, in attesa della morte.

Alcune linee guida di comportamento indirizzano la riflessione nell'affrontare queste difficili situazioni:

1) Consenso informato:

è importante il coinvolgimento del paziente nelle decisioni che lo riguardano, anche se questo diritto contrasta con le difficoltà di comunicazione (in quanto il paziente può essere incosciente, intubato, depresso, oppure l'evoluzione rapida degli eventi impone di intervenire urgentemente senza possibilità di chiedere il consenso).

2) Comunicazione della verità:

a) vi sono casi in cui non è opportuno comunicare subito la verità al paziente circa la diagnosi e la prognosi, per il pericolo che ciò possa peggiorare le sue condizioni. Per esempio in ambito cardiologico ― come nella storia del paziente colpito da infarto: "È difficile dimenticare" ― si deve tener conto del peso che potrebbe avere l'informazione del paziente sul piano emotivo;

b) nell'ipotesi di un rischio elevato, può essere utile comunicare la verità circa le prospettive future, al fine di permettergli delle scelte e prepararlo alle possibili evoluzioni. Questo avrebbe potuto evitare la sfiducia nei confronti dell'équipe, come avvenuto nel caso "Una decisione difficile".

3) Rapporti con i familiari:

a) può accadere che il consenso del malato sia viziato dall'informazione distorta data dai parenti; ottenere la collaborazione dai familiari del paziente non è sempre facile, perché spesso chiedono di intervenire comunque per essere certi di aver fatto tutto il possibile;

b) i familiari hanno però un ruolo importante per la cura del malato: lo si evince in tutti e tre i casi illustrati, benché in modi diversi. Essi sono portatori di una notevole carica di angoscia che è necessario elaborare. Pertanto, dovrebbero essere pianificati sin dall'inizio, con l'aiuto di uno psicologo, colloqui atti a prepararli all'ambiente, parallelamente agli interventi effettuati sui pazienti. Una interazione più collaborativa da parte dell'équipe con i parenti potrebbe aiutarli a passare dalle fantasie dell'attesa alla realtà operativa. Questo faciliterebbe il confronto, la circolazione delle angosce e la loro elaborazione, con la supervisione di uno psicologo che ne controlli le dinamiche. I parenti possono, se aiutati, essere dei "terapeuti", creando un'importante mediazione tra il paziente e gli operatori, con sostegno reciproco;

c) per i parenti dovrebbero essere allestite sale d'attesa più confortevoli, eliminando gli elementi ambientali così asettici dei nostri ospedali. Per migliorare l'assistenza ai pazienti è importante progettare ambienti atti non solo al ripristino dei ritmi biologici o facilitatori

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di riposo, ma rispettosi della loro intimità.

4) Costi/benefici:

questo parametro dovrebbe suggerire al medico se astenersi o interrompere un trattamento, o se una terapia causa sofferenze inutili senza migliorare le condizioni cliniche del paziente.

Tenendo conto che chi opera in questi settori spesso deve prendere la decisione più giusta in condizioni drammatiche e che le situazioni non possono essere sempre standardizzabili, è possibile esprimere alcune raccomandazioni generali:

● il concetto di cura sta lentamente assimilando la concezione olistica dell'uomo e dei suoi diritti; parallelamente, i concetti tradizionali di salute e malattia stanno evolvendo, influenzati da questa diversa cultura;

● nell'esempio del paziente ricoverato con BPCO l'intervento assistenziale non può solo focalizzarsi sulla cura del sintomo, ma deve occuparsi di tutta la persona, prevedendo anche il suo reinserimento nel contesto sociale ("Una vita attaccata a una bombola" Paride esprime la sua voglia di vivere girando per la sua campagna);

● il concetto di cura non si concretizza solo con il supporto alle funzioni vitali: bisogna chiedersi se c'è un possibile beneficio oppure quanto si fa fonte di sofferenze eccessive; i diritti della persona prevedono il rispetto della dignità, dell'integrità fisica e della salute (la decisione di staccare dal respiratore Luigi "Una decisione difficile" poteva rientrare in questa linea);

● la vita costituisce un bene supremo e pertanto deve essere tutelata; di conseguenza gli interventi devono essere controbilanciati da un certo livello di qualità della vita;

● alcuni interventi assistenziali sono vissuti come aggressivi dal malato; è pertanto opportuno salvaguardare il rispetto della dignità della persona, perché possa ritrovare un nuovo equilibrio; nell'esempio del caso del paziente in BPCO, il rapporto rischi/benefici è cosi instabile da rischiare di mettere al primo posto la salvaguardia della vita contro l'integrità fisica e psichica dell'individuo;

● l'informazione delle prospettive diagnostico-terapeutiche del paziente in BPCO dovrebbe essere data nelle prime fasi di aggravamento della malattia o alla dimissione dopo il primo ricovero in rianimazione;

● è importante rapportarsi con la famiglia e il medico di base, per trovare una comunione di intenti e non rischiare di far violenza alla reale volontà del paziente (i medici che si sono occupati di Luigi, si sono trovati di fronte a un dilemma: rispettare l'opinione del paziente o aspettare l'evolversi degli eventi);

● nell'interesse del paziente, è opportuno implementare un rapporto di fiducia collaborativa tra medico-paziente-infermiere-famiglia;

● comunicare solo alla famiglia le decisioni e richiederne il consenso, escludendo il paziente, non è corretto e provoca un aumento di sofferenze;

● escludere completamente i familiari è scorretto, se si considera un reinserimento del malato nel suo ambiente per una diagnosi infausta e una sua probabile morte;

● è necessario sia essere degli efficaci comunicatori, sia professionisti di una medicina al servizio della persona e non del solo corpo;

● per quanto concerne il consenso, in condizioni di emergenza è impossibile conoscere la volontà del paziente e spesso una valutazione sull'utilità del trattamento potrà essere fatta solo posteriormente;

● quando è possibile conoscere il paziente, è bene decidere insieme la strategia; egli potrà

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esprimere la sua volontà in termini di rianimazione a ogni costo, o di astensione dal trattamento (cfr. "La rinuncia a trattamenti sproporzionati");

● la comunicazione, un approccio orientato alla "compliance" e partecipazione, alla dignità e volontà del paziente rispetto al rapporto costi/benefici costituiscono parametri verso cui ispirare l'assistenza per migliorare la qualità della vita dei pazienti;

● è fondamentale programmare interventi rivolti al personale per migliorare il clima emotivo in cui opera e che può provocare forti tensioni. L'intervento potrebbe riguardare come prima tappa una risposta formativa alle esigenze tecniche e maggiore attenzione organizzativa da parte del servizio infermieristico ai problemi causati dai carichi di lavoro (aggiornamento periodico, selezione psico-attitudinale, rotazione degli operatori per contrastare il burn out). In seguito, potranno essere attuati interventi allo scopo di affrontare i problemi psicologici legati alla situazione particolare delle aree critiche per far sì che l'équipe arrivi ad accettare: a) i limiti di un progresso medico che può allungare la vita ma non eliminare la morte; b) la distanza fra ciò che si vorrebbe e ciò che invece si può; c) il dramma di chi sta soffrendo e morendo, partecipandovi in modo impotente e angosciante; d) i limiti dell'immagine ideale e onnipotente che si confronta quotidianamente con la propria impotenza e morte;

● una strategia potrebbe essere quella di prevedere l'intervento di uno psicologo, sviluppare gruppi di discussione e di sostegno, dove il terapeuta funga da facilitatore alla comunicazione tra i componenti dell'équipe o come supporto nelle decisioni difficili di interrompere o meno la terapia intensiva o nel caso di rapporto difficile con pazienti collegati al respiratore;

● essere promotori di indicatori di qualità nell'assistenza a favore della personalizzazione, coinvolgendo nel progetto di cura tutti quei professionisti in grado di sviluppare la partecipazione dell'utente (rappresentante del culto, fisioterapista, logopedista, psicologo, parenti, ecc.);

● è auspicabile la creazione di comitati etici (composti da tecnici, esperti di varie discipline, cittadini, ecc.) in grado di svolgere una costante funzione formativa, di sostegno, di documentazione e consulenza, nei confronti di tutti coloro che devono prendere decisioni difficili nell'interesse del paziente;

● la formazione di base dell'infermiere dovrebbe essere improntata a congiungere la teoria e la prassi, seguendo l'ipotesi del "problem-based curriculum" dove si supera il modello dell'etica dogmatica, a vantaggio di un approccio orientato alla discussione e soluzione di casi assistenziali da cui, successivamente, il discente ricaverà i principi etici.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Comitato nazionale per la BioeticaParere del Comitato Nazionale per la Bioetica sulla proposta di risoluzione sull'assistenza ai pazienti terminali, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l'informazione e l'editoria (30 aprile 1991), p. 12.

Comitato nazionale per la BioeticaDefinizione e accertamento della morte nell'uomo, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l'informazione e l'editoria (15 febbraio 1991), p. 9.

Comitato nazionale per la BioeticaBioetica e formazione nel sistema sanitario, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l'informazione e l'editoria (7 settembre 1991), p. 15.

Drigo E., La sofferenza inutile nelle terapie intensive, in Scenario, 1 (1992), pp. 9-11.

Martignoni G., Le modificazioni della medicina, Di alcune aporie del pensiero medico contemporaneo, in Area critica dall'ipotesi alla realtà, IX Congresso Nazionale Aniarti, Assoc. Naz. Inf. di Area Critica, Riva del Garda, 14-17 Novembre 1990, pp. 15-16.

Papa Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae, 1995, Piemme Spa, Casale Monferrato (Al), pp. 127-128.

Sala R., Umanizzazione e interrogativi etici del rapporto infermiere e paziente in terapia intensiva. Alcuni suggerimenti di metodologia, in Infermieristica Neurochirurgica, 3 (1992), p. 155-161.

Spinsanti S., Etica bio-medica, 1988, 2a ed., Paoline, To.

Torre R., Lo stress nell'impegno professionale dell'area intensiva, in Scenario, 1 (1992), p. 13-14.

PER APPROFONDIRE

Campione F., Guida alla assistenza psicologica del malato grave. Ama il prossimo tuo come te stesso, Patron, Bologna, 1986.

De Bartolini C. e Rupolo G., La sofferenza psicologica in rianimazione, Pàtron, Bologna, 1986.

Guerra G., Psicosociologia dell'ospedale. Analisi organizzativa e processi di cambiamento, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1992.

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FATTI

«Fatemi vivere in pace la vita che mi resta»

A casa o in ospedale: qual è il buon luogo per morire?

Il caso di Nancy Beth Cruzan

La morte oggi: demografia della morte naturale

IDEE

Il tabù della morte sostituisce quello del sesso

La morte medicalizzata

«Non mi lasciate in preda alle belve»

La congiura del silenzio

La casa, un buon luogo per morire

Il concetto di morte: tre posizioni

Quando una persona domanda la morte

NORME

● Norme Giuridiche

● Norme Deontologiche

● Norme Morali

COMPORTAMENTI

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FATTI

«FATEMI VIVERE IN PACE LA VITA CHE MI RESTA»

Il signor Francesco, un paziente di 84 anni, venne ricoverato in un reparto di oncologia perché affetto da un tumore polmonare con metastasi ossee. Aveva tre figli, due maschi e una femmina, che gli avevano regalato sei nipoti dei quali andava molto fiero. La moglie era morta dieci anni prima. Dopo essere stato per quindici anni emigrante in Francia, era rientrato, si era costruito la casa per sé e aveva aiutato i suoi figli a sistemarsi in modo decoroso.

Due anni fa, dopo un periodo di tosse stizzosa, mentre lavorava nell'orto si sentì poco bene rientrò in casa e si accorse di avere del sangue misto al catarro. Il suo medico curante lo inviò a fare una radiografia, che evidenziò una massa polmonare della dimensione di un'arancia. Durante l'immediato, successivo ricovero furano compiuti ulteriori accertamenti diagnostici e identificato un tipo di tumore ad alta malignità e già metastatizzato al polmone controlaterale e alla colonna. Nel frattempo il signor Francesco si era accorto di essere dimagrito di qualche chilo, di essere spesso molto stanco e aver forti dolori alla schiena che egli attribuiva al reumatismo.

I medici dell'ospedale comunicarono la diagnosi ai figli e prognosticarono una speranza di vita tra i sei mesi e i due anni, in considerazione dell'avanzata età del paziente che rendeva il male meno aggressivo. Esclusero, data la disseminazione, la terapia chirurgica, ma consigliarono quella radiante e chemioterapica. Il figlio maggiore e il medico di reparto decisero di non riferirgli la diagnosi; gli dissero che aveva una grave broncopolmonite e che avrebbe dovuto essere curato con un lungo ciclo di antibiotici in vena. Il signor Francesco rispose semplicemente: «Se c'è la possibilità di guarire, facciamo pure...». Tuttavia quella notte non dormì. Nonostante gli anni era perfettamente lucido, molto informato perché leggeva spesso i giornali e, soprattutto, si ricordava bene dell'esperienza della moglie, morta anche lei di cancro. A lei era stato proprio lui a dire che aveva una brutta "ulcera" e che bisognava fare una lunga cura antibiotica. No, lui questa storia non l'avrebbe bevuta.

Nel frattempo, a casa, la figlia, parlando con i fratelli, disse chiaramente di non essere d'accordo con le scelte fatte dal fratello maggiore, perché la chemioterapia avrebbe significato per il papà solo sofferenze in più, mentre i benefici erano alquanto nebulosi e incerti. All'indomani, all'ora di visita, Francesco anticipò tutti, rivolgendosi direttamente ai figli: «Sentite ragazzi, io ho fatto la mia vita. Ho avuto la gioia di vedervi sistemati e di godere dei miei nipoti, anche se molto mi è dispiaciuto di aver perso Maria (la moglie). Quando dite che io ho la bronchite mi imbrogliate, perché sono molto dimagrito e quasi non riesco ad alzarmi dal letto per la debolezza. Non voglio né operarmi, né fare quelle fleboclisi che ti fanno cadere i capelli e vomitare. Preferisco vivere in pace la vita che mi resta. Perciò dite ai medici che mi tolgano questi maledetti dolori di schiena e che la smettano di ridurmi i glutei come un colabrodo ».

Nessuno dei tre fratelli riuscì a dire parola. Dopo un momento di commozione decisero di comunicare la decisione al medico del reparto. In quei giorni gli furono vicini a turno, portando da casa qualche bevanda e qualche fetta di prosciutto crudo a lui tanto gradita. I medici decisero, come d'accordo, di limitare il trattamento alla terapia radiante e, dopo un consulto anestesiologico, iniziarono la terapia del dolore mediante l'inserimento di un catetere.

Uno dei problemi che davano fastidio a Francesco e creavano difficoltà nei famigliari era la stanza a sei letti. La presenza dei parenti creava, ovviamente, qualche difficoltà agli altri malati, così come gli altri malati disturbavano il riposo del signor Francesco. I suoi figli pensarono subito di

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portarlo a casa perché avrebbero potuto meglio organizzare le attività assistenziali. Ma il fatto che doveva sottoporsi alla radioterapia e il recente inserimento del catetere fecero rimandare la decisione di qualche tempo.

Dopo una settimana di ricovero, la domenica pomeriggio era estremamente prostrato e stanco e si sentì improvvisamente male. L'infermiera di guardia lo trovò sudato, pallido, tachicardico e ipoteso; procedette subito a somministrargli l'ossigenoterapia d'urgenza e a chiamare il medico. Quando il medico arrivò in stanza ― era il medico di guardia di un altro reparto e non conosceva il malato ― la situazione precipitò. L’infermiera applicò l'elettrocardiografo e mentre effettuava la rilevazione Francesco andò in arresto cardiaco. L'infermiera aveva fornito tutte le informazioni cliniche al medico ed era evidente che il malato era nella condizione di attendere la morte nel giro di pochi giorni od ore. Il medico decise ugualmente di procedere alla rianimazione cardio-polmonare. Dopo alcuni tentativi, l'attività cardiaca riprese forza.

Francesco è vissuto ancora due giorni, sempre assistito dai propri cari e sempre in terapia antidolorifica che provocava uno stato di sonnolenza e alcune volte obnubilazione. La morte sopravvenne per arresto cardiaco, ma il medico e l'infermiera presenti decisero di non intervenire e di lasciarlo morire in pace.

A CASA O IN OSPEDALE: QUAL È IL BUON LUOGO PER MORIRE?

Quattro anni fa Fabio, dopo aver effettuato alcuni prelievi ematici di routine in quanto donatore di sangue, si accorse di essere sieropositivo. Trentaseienne, non sposato e senza figli, viveva con i suoi genitori di 70 e 74. Era laureato in economia e commercio e viaggiava spesso per conto della banca da cui dipendeva.

La sua prima preoccupazione dopo la diagnosi di sieropositività fu quella di informarsi, il più precisamente possibile sull'Aids. Comperò alcuni libri e, dopo averli letti, decise di sentire il parere del suo medico, al quale comunicò la sua situazione. Non avvertì i suoi genitori per non preoccuparli prematuramente. Dopo due anni di relativo benessere ― si sentiva un po’ stanco ed aveva notato una leggera febbricola serale ― ebbe un improvviso rialzo termico, tosse e febbre. Consultato il suo medico, questi gli propose, vista la sua condizione, l'immediato ricovero. A quel punto Fabio decise di comunicare alla sua famiglia la sua condizione.

Il ricovero si rivelò un'esperienza difficile. Il malessere aumentò notevolmente e la dispnea gli rendeva difficoltosa ogni attività. Si sentiva molto a disagio all'interno del reparto, perché gli pareva che tutto il personale lo guardasse o lo giudicasse. Poche erano le occasioni per poter scambiare due parole con le infermiere, estremamente affaccendate.

Iniziò subito la terapia antibiotica che, in alcuni giorni, portò alla remissione della febbre. Fabio chiese al medico curante di essere dimesso. Il medico di reparto si dimostrò contrario a questa decisione e spiegò in modo chiaro che la sua situazione di salute era estremamente precaria e le sue difese pericolosamente indebolite. L'infermiera presente al colloquio intervenne affermando che per lui il rischio era consistente anche in ospedale, considerato che la struttura del reparto non aveva stanze singole e che i servizi erano promiscui e, come tutto il reparto, molto affollati.

Fabio chiese al medico se corrispondeva al vero che la speranza di vita di un malato di Aids è compresa fra uno e tre anni. Il medico spiegò che negli ultimi tempi si sono fatti molti progressi nella terapia, ma che comunque era vero. Fabio decise che avrebbe cercato di vivere meglio possibile il tempo che gli sarebbe rimasto e firmò la cartella per la dimissione.

L'infermiera del reparto segnalò la sua dimissione alla collega del distretto, che procedette a far visita a Fabio e a fornire a lui e ai suoi familiari alcuni consigli preziosi per organizzare l'assistenza

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e per la sicurezza sua e dei suoi familiari. Spiegò loro anche quali erano le pratiche per avere a disposizione un letto particolare, il materasso ad acqua che avrebbe evitato lesioni da decubito, nel caso in cui Fabio avesse dovuto trascorrere a letto lunghi periodi. I genitori, pur nella gravità della situazione, si sentirono sollevati: non disponevano di un auto, per cui con difficoltà riuscivano a recarsi in ospedale, mentre a casa avrebbero potuto organizzare molto meglio la loro giornata in finizione del figlio.

Fabio passava le sue giornate leggendo, ascoltando musica e ricevendo i suoi amici che, salvo qualche rara eccezione, mantennero i contatti con lui e gli furono di molto aiuto nel superare i momenti di malinconia, di solitudine e di depressione. Man mano che passavano i giorni, il suo fisico diventò sempre più debole e alcune ulcerazioni alla bocca gli resero difficile l'alimentazione. Improvvisamente una notte la febbre salì e la guardia medica, chiamata d'urgenza, consigliò un nuovo ricovero in ospedale. Fabio non avrebbe voluto, ma si rese conto che la situazione era difficilmente controllabile per i genitori e che loro stessi non si sarebbero dati pace al pensiero di non aver fatto tutto il possibile per aiutarlo.

L'indomani mattina Fabio si ricoverò. La caposala lo mise in una stanza da solo, cosa che consentì alla mamma di stargli vicino. Nel pomeriggio venne a fargli visita il cappellano dell'ospedale. Pur essendo credente non era certo un praticante, ma rimase a lungo a parlare con il prete e accolse di buon grado la proposta di ricevere la comunione. La visita medica di quella sera ebbe un momento molto difficile quando Fabio chiese al medico, senza mezze parole, se fosse vicino alla morte. Il medico e l'infermiera si guardarono, imbarazzati, e per un momento silenziosi. L'infermiera gli disse: «Fabio devi continuare a lottare ». Il medico annuì. Poi tutti tacquero: era la risposta. Prima di uscire dalla stanza il medico guardò Fabio e gli disse: «La tua situazione è molto seria....» ma non riuscì a dire altro, né era necessario.

Nella notte l'insufficienza respiratoria precipitò e divenne ingravescente. Il medico chiamato d'urgenza decise di sottoporre il paziente, che oramai era in stato soporoso, a ventilazione meccanica assistita. Fu quindi trasferito nell'unità di cure intensive e sottoposto ad alimentazione enterale. La mamma non poté, ovviamente, seguirlo e fu invitata dall'infermiera a tornare a casa garantendole che, se fosse successo qualche cosa, l'avrebbero chiamata. Otto ore più tardi Fabio cessò di vivere per arresto cardiaco irreversibile.

IL CASO DI NANCY BETH CRUZAN

Nella notte dell'11 gennaio 1983 Nancy Cruzan, una giovane donna di 25 anni, mentre era alla guida della propria auto, percorrendo una strada della contea di Jasper (Missouri), perde il controllo della vettura e finisce fuori strada. Il veicolo si capovolge e la donna viene ritrovata dai primi soccorritori in un fossato, con assenza di funzione cardiaca e respiratoria. L'intervento rianimatorio immediato sul posto è in grado di ripristinare la respirazione e il battito cardiaco, ma non lo stato di coscienza, per cui viene trasportata in ospedale in stato di coma. Il neurochirurgo che la visita ipotizza una contusione cerebrale associata a una grave anossia (mancanza di ossigeno). Viene stimato che la Cruzan sia rimasta priva di ossigenazione per 12-14 minuti. Considerando che un danno permanente dell'encefalo si determina dopo 6 minuti di anossia, la prognosi per la donna è molto grave.

Nancy rimane in coma per circa 3 settimane, successivamente, pur rimanendo priva di coscienza, è in grado di deglutire e quindi di alimentarsi per via orale. Per facilitare l’alimentazione e quindi il recupero delle funzioni i chirurghi realizzano una gastrostomia per l’alimentazione e un tubo per l'idratazione, chiedendo il consenso per questo a suo marito. Nel corso dei mesi e degli

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anni successivi, tutte le terapie riabilitative adottate risultano, però, inefficaci. La donna rimane in uno stato vegetativo persistente nell'ospedale di stato "Mount Vemon" del Missouri, il quale si fa carico di tutte le spese.

Sembrando che Nancy Cruzan non abbia più teoricamente alcuna possibilità di riprendere le sue facoltà mentali, i suoi genitori, dopo l'abbandono da parte del marito, con il supporto di una larga partecipazione emotiva popolare e di una vasta campagna dei mass-media pro e contro il "removal of life support" (il distacco dalle misure di supporto vitale), chiedono allo staff medico di interrompere le procedure di alimentazione e idratazione. I medici sono del parere che tale manovra avrebbe determinato la morte della paziente, per cui si rifiutano di effettuare tale interruzione. I genitori si affidano a dei legali, i quali avanzano formale richiesta di sospensione del'alimentazione e idratazione di Nancy alla Corte della contea di Jasper, entro la cui giurisdizione entra l'ospedale "Mount Vemon", sostenendo che Nancy avrebbe affermato in vita che non avrebbe voluto essere mantenuta in una condizione di sopravvivenza artificiale.

I giudici della Corte della contea accolgono l'istanza e decretano la sospensione del nutrimento e della idratazione nel marzo 1988. La direzione dell'ospedale "Mount Vemon" si appella a tale sentenza. Da allora è un susseguirsi di ricorsi e di sentenze, Uno all'ultima decisione del 14 dicembre 1990, da parte della corte suprema degli Stati Uniti, che accetta la richiesta di sospendere alimentazione e idratazione. Nancy Cruzan cessa di vivere nella notte del 26 dicembre dello stesso anno.

Antonio PucaIl caso di Nancy Cruzan

LA MORTE OGGI: DEMOGRAFIA DELLA MORTE NATURALE

Per meglio mettere in evidenza il cambiamento dell'esperienza e della percezione della morte verificatosi in poco più di cent'anni, ricorriamo a una finzione capace di esprimere adeguatamente i mutamenti avvenuti in questo settore della vita sociale di un paese occidentale. Consideriamo cioè un'ipotetica città (o un suo quartiere) di centomila abitanti, sufficientemente grande perché le cifre che analizzeremo siano significative, ma non troppo affinché i fenomeni che in essa accadono siano verosimilmente conosciuti dalle persone che vi abitano (Tabella 10.1). Nel 1881 in questa ipotetica città morivano 749 neonati e altrettanti (751) erano i morti di età compresa tra 1 e 14 anni; i giovani e giovani adulti (compresi tra 15 e 44 anni) deceduti erano complessivamente 399; i morti ultrasessantacinquenni erano in tutto 479. Nella medesima città 50 anni dopo morivano 281 neonati, 186 altri bambini sotto i 15 anni, 207 persone tra i 15 e i 44 anni, mentre gli ultrasessantacinquenni erano già saliti a 570. Ma nel 1988 la situazione nella nostra ipotetica città è radicalmente mutata: in quell'anno infatti muoiono 9 neonati, 3 bambini sotto i 15 anni, altre 40 persone tra 15 e 44 anni, mentre i decessi sopra i 65 anni arrivano a 723, di cui poco meno della metà ultraottantenni.

In poco più di cent'anni il modo di nascere e di morire nelle nostre società occidentali è fortemente cambiato. Le nascite si sono rarefatte, ma con esse anche le morti dei neonati, dei fanciulli, degli adolescenti, dei giovani adulti. Nel contempo si assiste alla massificazione della grande anzianità e aumentano (nonostante la diminuzione dei tassi specifici di mortalità) i decessi, sia in valore assoluto sia ancor più in valore relativo, delle persone anziane e massimamente dei grandi vecchi. Lungo l'esistenza di ognuno di noi la nascita e la morte sono divenuti eventi rari da osservare, il che ha pure portato a una diversa percezione e concezione non solo della vita e della morte, ma anche del bambino e del vecchio, che da entità rispettivamente frequenti e rare un tempo hanno visto ribaltare completamente i loro rapporti numerici.

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TABELLA 10.1 - Numero di morti per età al 1881, 1931, 1988.

In una ipotetica città di centomila abitanti

classi di età

1881

1931

1988

0 - 1

1 - 4

5 - 9

10 - 14

15 - 19

20 - 24

25 - 29

30 - 34

35 - 39

40 - 44

45 - 49

50 - 54

55 - 59

60 - 64

65 - 69

70 - 74

75 - 79

80 - 84

85 - 89

90 e più

TOTALE

749

579

125

50

59

75

67

64

66

68

73

85

104

121

135

130

104

71

29

10

2761

281

143

28

15

31

39

35

33

33

36

41

50

63

83

116

141

143

107

51

11

1480

9

1

1

1

4

5

6

6

8

11

18

28

47

73

88

107

168

165

121

74

941

La rarefazione delle morti alle età più giovani rende scandalose tali morti: sia perché non sono più consuete come un tempo, sia perché (nel caso di adolescenti e giovani) interessano famiglie che spesso hanno solamente un figlio e, datti l'età dei coniugi, difficilmente vorranno o potranno generarne un altro. Inoltre le morti che colpiscono le età più giovani (escluse quelle dei neonati, in massima parte causate da malformazioni congenite o traumatismi da parto) sono sempre più dovute a cause improvvise e violente, ovvero a morti procurate: incidenti del traffico o altri incidenti, suicidi od omicidi.

Si muore di meno, a tutte le età. Si muore sempre più vecchi. E si vorrebbe non morire. La morte così presente in altri tempi, sta svanendo e scomparendo. Essa diventa vergognosa e oggetto di interdetto. Si conclude così, proprio in concomitanza di una mortalità bassa e concentrata nelle età estreme del corso di vita, la trasformazione iniziatasi nel XV secolo, quando la "morte primitiva” risultato di un intervento esterno della divinità, diventa "morte naturale", definita per negazione del suo contrario: "la morte anormale è l'opposto della morte naturale, perché è causata dalla malattia, dalla violenza o da turbe meccaniche e croniche". La morte è quindi considerata inopportuna e scandalosa se non sopraggiunge rapida, e per individui ancora ben portanti e vecchi. Muore "male" chi muore giovane, chi muore in seguito a violenza o traumatismo, ma anche ehi muore dopo una lunga malattia.

Giuseppe Micheli - Walter MaffeniniDemografia della marre naturale

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IDEE

IL TABÙ DELLA MORTE SOSTITUISCE QUELLO DEL SESSO

Lo storico francese Ph. Ariès ha tracciato l'evoluzione delle idee e degli atteggiamenti nei confronti della morte dal Medioevo ai nostri giorni. La sua ricostruzione fa apparire l'attuale, diffuso imbarazzo nei confronti della morte, trattata come un tabù nei confronti del quale non si deve avere nessun rapporto, come una regressione culturale.

La morte è divenuta tabù, una cosa innominabile e, come una volta il sesso, non si deve nominarla in pubblico. Non bisogna più obbligare gli altri a nominarla. Gorer mostra in modo impressionante come, nel XX secolo, la morte abbia sostituito il sesso come principale tabù. Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, però essi assistevano alla grande scena degli addii, nella camera e al capezzale del morente. Tuttavia, a cominciare dalla seconda metà del XIX secolo, questa presenza suscitò un malessere, e si cercò non di sopprimerla, ma di abbreviarla (...)

Oggi i bambini vengono iniziati, fin dalla più tenera età, alla fisiologia dell'amore e della nascita, ma, quando non vedono più il nonno e chiedono perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese molto lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti a scomparire tra i fiori. I parenti dei morti sono quindi costretti a fingersi indifferenti. La società esige da loro un autocontrollo che corrisponde alla decenza o alla dignità imposta ai moribondi. Nel caso del morente, come in quello del superstite, importa soprattutto non lasciar trasparire in alcun modo le proprie emozioni. Tutta quanta la società si comporta come l'unità ospedaliera. Se il moribondo deve al tempo stesso superare il suo turbamento e collaborare gentilmente col medico e le infermiere, il superstite affranto deve nascondere il suo dolore, rinunciare a ritirarsi in una solitudine che lo tradirebbe e continuare senza pause la sua vita di relazioni, di lavoro e di svaghi. Altrimenti sarebbe escluso, e questa esclusione avrebbe tutt'altra conseguenza della reclusione rituale del lutto tradizionale. Chi vuol risparmiarsi questa prova deve perciò tenere la maschera in pubblico, e deporla soltanto nella più sicura intimità: "si piange solo"(...) "in privato, così come ci si spoglia o si riposa in privato", di nascosto, "as if it were an analogue of masturbation".

Philippe ArièsStoria della morte in occidente

LA MORTE MEDICALIZZATA

Il saggio sociologico di Ivan lllich è meritatamente famoso. È apparso in un'epoca in cui vigeva una diffusa euforia nei confronti del progresso della scienza e della tecnologia applicata alla cura della salute, Illich in modo polemico ne mise in luce, invece, le contraddizioni. Sia per la salute in generale, sia per la morte in particolare, denunciò l'"espropriazione" causata dalla medicina.

La paura moderna della morte sguarnita di presidi sanitari fa apparire la vita come una corsa verso una zuffa finale, e ha spezzato in maniera unica la fiducia delle persone in se stesse. Ha spinto a credere che l'uomo ha ormai perso la capacità autonoma di riconoscere quando è arrivata la sua ora e di

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farsi carico della propria morte. Rifiutando di riconoscere il punto in cui non è più utile come guaritore e di tirarsi indietro allorché la morte compare sul volto del paziente, il medico si è trasformato in un agente di evasione o di sfacciata dissimulazione. Non volendo morire da solo, il paziente è caduto in uno stato di patetica soggezione. Ha ormai perso la fede nella propria capacità di morire, cioè nella forma estrema che la salute può assumere, e ha fatto un grosso problema del diritto di essere ammazzato in forma professionale.

Nell'orientamento culturale che porta alla morte in clinica si intrecciano vane aspettative non vagliate. Si crede che il ricovero in ospedale riduca la sofferenza, o aiuti a sopravvivere più a lungo. Ma né l'una né l'altra cosa ha molte probabilità di avverarsi (...)

In una società dove la maggioranza muore sotto il controllo dell'autorità pubblica, la corsia terminale si adorna delle solenni formalità che una volta caratterizzavano l'omicidio legalizzato o esecuzione. Le sontuose cure dedicate ai comatosi prendono il posto di quello che in altre culture era l'ultimo pasto del condannato a morte.

Ivan IllichNemesi medica

«NON MI LASCIATE IN PREDA ALLE BELVE»

La scrittrice Simone De Beauvior ci ha lasciato un toccante resoconto autobiografico relativo alla morte della madre. La qualità della morte della madre ― una morte da privilegiata ― viene contrapposta alle condizioni che contraddistinguono la morte in ospedale, nell'anonimato e nella indifferenza. La differenza è costituita dai caldi rapporti umani che la famiglia è in grado di garantire.

Di fronte a mamma, eravamo soprattutto colpevoli, in questi ultimi anni, di negligenze, omissioni, astensioni. Ci sembrò di averne meritato il perdono dedicando a lei quelle giornate, dandole pace con la nostra presenza, riportando una vittoria sulla paura e sul dolore. Senza la nostra vigilanza ostinata, mamma avrebbe sofferto assai di più. Poiché in realtà, se la paragoniamo a quella che avrebbe potuto essere, la sua morte fu dolce. «Non mi lasciate in preda alle belve». Pensavo a tutti quelli che non possono rivolgere a nessuno questa invocazione: che angoscia sentirsi una cosa indifesa, interamente alla mercé di medici indifferenti, d'infermiere sovraccariche di lavoro. Non una mano sulla loro fronte quando li afferra il terrore, non un calmante appena il dolore li attanaglia, non un balbettio menzognero per colmare il silenzio del nulla. «È invecchiata di quarant'anni in ventiquattr'ore». Questa frase mi aveva ossessionata. Vi sono ancora oggi ― perché? ― orribili agonie. E poi, nelle corsie degli ospedali, quando l'ultima ora è vicina, circondano con un paravento il letto del moribondo; ed egli lo ha veduto, quel paravento, intorno ad altri letti, che l'indomani erano vuoti: egli sa. Immaginavo mamma accecata per ore e ore da quel sole nero che nessuno può guardare in faccia; il terrore dei suoi occhi sbarrati, dalle pupille dilatate. Fu una morte dolcissima, la sua; una morte da privilegiata.

Simone de BeauvoirUna morte dolcissima

LA CONGIURA DEL SILENZIO

Un medico oncologo, che ha accompagnato molti pazienti fino alle soglie della morte, fa un bilancio: spesso si muore anche perché tutti i protagonisti ― il medico, i familiari, il malato stesso ― preferiscono recitare una commedia, invece di affrontare la verità.

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È raro che i malati ripongano assoluta fiducia nel loro medico. Molti di essi credono che in questa valle di lacrime non esista bugiardo più grosso e patentato del medico, e che del resto egli eserciti l'unica professione nella quale la menzogna è d'obbligo. Inutile dire che a volte costoro hanno ragione. Ma dubbi e sospetti possono travalicare il medico stesso. Ve n'è che sospettano un complotto tra i loro stessi familiari, da parte dei loro amici. E, ancora una volta, spesso hanno ragione. La moglie o il marito, a volle il figlio maggiore che svolge il ruolo di capofamiglia ha deciso che «non bisogna dirglielo. Non possiamo farlo. Significherebbe ammazzarlo». E il medico dal canto suo non osa spingersi più in là e a sua volta si inchina alla volontà della famiglia. Purtroppo, però, accade che la maggior parte di noi medici si sia attori da quattro soldi, bugiardi da poco. Il malato avverte perfettamente che non tutti coloro che lo circondano sono sinceri con lui, lo legge loro in faccia, lo coglie dai loro silenzi più ancora che dalle loro parole, lo capisce dai loro errori, dai lapsus, dagli impappinamenti, si sente al centro degli argomenti che non vengono mai abbordati. Tutti recitano male, mentono peggio. Il malato, questo lo sa; e il medico ha il sospetto che il malato sappia. Ed ecco così istituirsi quel rapporto convenzionale, di perfetta cortesia: il malato sa che il medico sa che il malato sa, ma non ne parla.

Leon SchwartzenbergCambiamo la morte

LA CASA, UN BUON LUOGO PER MORIRE

La qualità della morte spesso dipende in modo decisivo dal luogo in cui avviene il decesso. L'ospedale, la casa, l'hospice: ognuno di questi luoghi presenta vantaggi e svantaggi. La scelta migliore è frutto di un abile discernimento.

Per chi, dopo aver avviato una riflessione sulla morte e sul morire, ha anche cercato di combinare le aspirazioni a una cura e un'assistenza ottimali con la pratica quotidiana accanto alle persone morenti, la scelta del domicilio quale luogo dove trascorrere gli ultimi giorni di vita appare come scontata. Questa è d'altronde l’opinione più diffusa anche nel pubblico: tanto le persone sane quanto i malati preferiscono la casa all'ospedale per vivere il segmento finale della vita. La realtà però presenta percentuali non trascurabili di casi e situazioni che non consentono di concludere che morire a casa sia sempre un fatto auspicabile. Alcuni studi recenti sull'argomento portano infatti a risultati discordanti ed aprono la discussione proprio sulle variabili che influiscono sul luogo del decesso. (...) Tra queste vengono segnalati i parametri socio-demografici (età, stato civile, livello socioculturale, ecc.), le variabili istituzionali (nascita di luoghi dedicati: hospice, unità di cure palliative) e quelle relative al profilo delle patologie. Ma secondo la maggior parte degli studi il principale fattore che porta alla scelta della casa è quello relativo alla presenza di un supporto familiare. (...)

Per secoli le persone morenti hanno trascorso i momenti della loro fine accanto a una persona cara, nel letto che era stato simbolo di vita: rimandava all'amore, al riposo dalle fatiche quotidiane, alla sofferenza legata alle affezioni fisiche e alla morte. La morte, alla stregua di altri momenti importanti della vita ― come l'incontro degli amanti, la nascita, il matrimonio ― era segnata da una precisa ritualità, che aveva il significato di rendere accessibili e "leggibili" a tutti gli estremi istanti dell'esistenza.

Giorgio Di MolaLa casa: un buon luogo per morire

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IL CONCETTO DI MORTE: TRE POSIZIONI

Il riconoscimento della morte tradizionalmente non ha presentato problemi, né concettuali, né pratici. La situazione è cambiata con l'avvento della rianimazione, che interferisce con il corso naturale degli eventi. Un neurologo, esperto di problemi di bioetica, presenta le diverse scelte filosofiche che si aprono quando si rapporta la morte alla condizione cerebrale. Si indovinano, sullo sfondo, le conseguenze per la pratica clinica.

In molta recente letteratura medica italiana, ivi compreso il documento "Definizione e accertamento della morte nell'uomo" del Comitato Nazionale di Bioetica, il concetto di morte cerebrale (MC) è presentalo come un mero portato dello sviluppo della scienza e della tecnologia medica. Ad esempio nel documento su citato si parla delle "modificazioni provocate dalle moderne tecnologie biomediche, fra cui la più sconvolgente è la definizione di un'entità nosografica del tutto sconosciuta all'era precedente la rianimazione e cioè l'identificazione della morte dell'individuo con la cessazione definitiva, irreversibile, della completa funzione di un singolo organo, il cervello". In questa frase, e più in generale in molta di questa letteratura, vi è un'evidente confusione concettuale: la definizione di una nuova entità nosografica (e cioè il quadro clinico risultante dalla cessazione irreversibile dell'attività nervosa centrale, il c. d. coma depassé di Mollaret e Goulon o coma irreversibile del Comitato di Harvard) non è affatto equivalente alla proposta di identificare questa situazione clinica con la morte.

In altre parole: è ben vero che lo sviluppo della tecnologia medica ha creato una nuova situazione clinica, ma la decisione di considerare questa situazione come equivalente alla morte non costituisce affatto una nuova acquisizione scientifica, bensì rappresenta una scelta di ordine etico-filosofico.

Storicamente, la prima descrizione clinica del "coma depassé" risale al 1959, mentre la proposta di considerarla come "un nuovo criterio di morte" fu avanzata solo nove anni dopo, in un celebre articolo pubblicato negli Stati Uniti ad opera del Comitato ad hoc di Harvard, non molto tempo dopo i clamori suscitati dal primo trapianto cardiaco di C. Barnard. In questo lavoro venne espresso un parere, certo assai autorevole, ma non si presentò, in senso stretto, alcun nuovo dato scientifico. In realtà la proposta di Harvard ha suscitato un vivace dibattito sul piano teorico-filosofico in ambito internazionale e l'assenza di un riferimento a tali discussioni costituisce una grave lacuna, sia del documento su citato, sia di molta letteratura italiana, che sembra dare per scontato che sul problema ci sia un'unanimità che invece di fatto è inesistente. In realtà, mentre la tesi del Comitato di Harvard è ben argomentata e difendibile, bisogna riconoscere la legittimità di opinioni diverse in materia, opinioni che sono espressione di diverse scelte etiche.

A questo proposito il dibattito internazionale vede gli Autori fondamentalmente schierati su tre posizioni. Secondo la prima, che possiamo definire "conservatrice", non è opportuno modificare il concetto tradizionale di morte (basato sull'arresto di circolazione dei fluidi corporei) per diverse ragioni: anzitutto si introdurrebbero margini di incertezza in un campo in cui deve invece esserci il massimo di verificabilità e di sicurezza; in secondo luogo non sembra lecito che la morte dell'uomo sia accertata con criteri diversi da quelli che valgono per tutte le forme viventi; si teme infine che la nuova definizione di morte apra la via all'uso strumentale del cadavere e delle sue parti (come di fatto è avvenuto con la pratica del trapianto). Questa posizione è autorevolmente sostenuta, tra gli altri, dal filosofo H. Jonas. Le altre due posizioni sono invece favorevoli al cambiamento, ma sì distinguono tra loro per il tipo di motivazione invocata: secondo il primo punto di vista, che è stato argomentato in modo assai esauriente, tra gli altri, da un neurologo (C. Pallis) e da un filosofo (D. Lamb), la morte cerebrale si identifica con la morte dell'individuo in quanto, il cervello essendo il centro integrativo dell'intero organismo, la sua distruzione rappresenta la definitiva perdita della capacità

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dell'organismo di funzionare come un tutto (secondo questa posizione il fatto decisivo è l'arresto di una vita fisiologica integrata e il locus specifico della morte è il tronco encefalico), mentre la posizione alternativa argomenta che il punto cruciale è l'irreversibile perdita della capacità di coscienza (il momento decisivo è dunque la fine della vita mentale e il locus specifico della morte è la corteccia cerebrale). Entrambe le teorie concordano sulla opportunità di stabilire l'equazione morte = morte cerebrale, ma esse differiscono radicalmente tra loro secondo il livello (fisiologico o psicologico) che ritengono decisivo. Un'importante conseguenza di questo secondo modo di vedere è che in base ad esso si può considerare morto non solo l'individuo che ha subito la distruzione totale del cervello (morte cerebrale in senso stretto), ma anche chi è stato vittima di una lesione distruttiva degli emisferi cerebrali e in particolare della corteccia: questo individuo è definitivamente privato delle capacità mentali, mentre conferma le funzioni vegetative (e in particolare il respiro), il cui substrato anatomico è il tronco cerebrale. Si tratta dei pazienti che si trovano nel cosiddetto stato vegetativo persistente. Questa condizione morbosa si identificherebbe dunque con la c. d. morte corticale o personale. Tra i fautori di questa concezione ricordiamo alcuni filosofi americani, quali H.T. Engelhardt e R.M. Veatch. Essi propongono di spostare l'accento sulla morte "personale", intesa come cessazione definitiva dell'esistere dell'attività psicologica propria della persona.

Carlo Alberto De FantiSugli stati di confine

QUANDO UNA PERSONA DOMANDA LA MORTE

Bisogna o no accondiscendere alla domanda di un malato, quando chiede che lo si aiuti a morire? Sia le persone favorevoli, in linea di principio, all'eutanasia, sia quelle contrarie, dovrebbero preliminarmente cercare di rispondere a un'altra domanda: sappiamo veramente che cosa ci sta domandando il malato che chiede la morte?

Quando una persona domanda la morte, spesso si limita a far proprio lo sguardo con cui si sente considerata nel proprio ambiente. Ratifica una sentenza di svalutazione che la società intera ha già fatto cadere tacitamente su di lei. Concedere l'eutanasia ha, in tale contesto di rapporti sociali, il significato di una tragica beffa: prima la società ― in concreto: i datori di lavoro, i sanitari, i conoscenti, ì familiari stessi ― decidono che il malato che non guarisce è un essere finito, solo un peso; questi allora, accettando su di sé quello sguardo e facendo proprio il giudizio di valore trasmesso, decide di farla finita, perché non vale la pena di vivere: le anime compassionevoli del fronte dell'eutanasia, a questo punto, prendono a cuore la richiesta e gli fanno trovare un bicchiere di cianuro di potassio a portata di mano...

Questo meccanismo perverso non si smonta con la semplice denuncia. Così come non basta, per disinnescarlo, dichiararsi contrari all'eutanasia. La non disponibilità personale a procurare la morte per compassione può essere un alibi per "anime belle", allo stesso modo in cui il sentimento di compassione può indurre altre "anime belle" a facilitare la morte di coloro che la chiedono. Nell'uno come nell'altro caso, il "sentirsi morali" non cambia la situazione di oggettiva immoralità, quella cioè di un malato inguaribile, spinto dal gioco dei rapporti sociali fuori dell'ambito in cui può sentirsi ancora un essere umano.

Sandro SpinsantiLa comunicazione con il malato come imperativo etico

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NON PIANGETE SULLA MIA TOMBA

È la conclusione poetica di una vicenda straziante: la vana lotta, durata cinque anni, di una donna contro un carcinoma. Senza sentimentalismi, lei stessa (il suo diario) e suo marito (il celebre psicologo e filosofo Ken Wilber) ripercorrono quei cinque anni, descrivendoli come un cammino di crescita, dove la morte non è sconfitta, ma piena realizzazione.

Non piangere sulla mia tomba;

Non sono qui. Non sto dormendo.

Io sono mille venti che soffiano;

Sono lo scintillìo del diamante sulla neve.

Sono il sole che brilla sul grano maturo;

Sono la lieve pioggia d'autunno.

Quando ti svegli nella calma mattutina,

Sono il rapido fruscio

Degli uccelli che volano in cerchio.

Sono la tenera stella che brilla di notte.

Non piangere sulla mia tomba,

Io non sono lì...

Ken WilberGrazia e grinta

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NORME

NORME GIURIDICHE

Tutela della vita e della dignità della persona umana

La persona umana ha come sommo bene la vita e l'integrità psico-fisica, beni tutelati, insieme alla salvaguardia della dignità personale, dalla Costituzione art. 2, cfr. anche artt. 3, 27, 32, 41.

L'importanza e il valore personale e sociale che tali beni hanno fanno sì che l'ordinamento giuridico li dichiari fra i beni indisponibili; dei quali, cioè, la persona ha il diritto di fruire ma non di disporne illimitatamente (cfr. art. 5 C.C.). Il cittadino ha dunque diritto alla vita, ma non sulla vita. Il principio della indisponibilità della persona umana comporta una distinzione tra: 1) la disponibilità "manu propria", che è tollerata dal diritto (il suicidio non è punito dalla legge); 2) la disponibilità "manu alius", cioè da parte di un soggetto terzo, pubblico o privato, che è giuridicamente illecita.

Diritto e dovere di curarsi

La salute costituisce diritto per tutti i cittadini ai sensi: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività" (art. 32, Cost.). All'affermazione di questo diritto corrisponde il dovere di curarsi, poiché la salute della persona fonda la premessa per "l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, politica, economica e sociale" (art. 2 Cost.).

Tale dovere, tuttavia, non impone l'obbligo di sottostare a terapie sperimentali o tali da essere giudicate troppo onerose dal malato stesso e sproporzionate rispetto ai benefici attesi, poiché "nessuno può essere sottoposto ad un determinato trattamento sanitario se non in forza di legge. La legge non può violare in nessun caso i limiti imposti dal rispetto della persona umana" (art. 32 Cost.). In relazione al rispetto della dignità e della libertà personale ("la libertà personale è inviolabile", art. 13 Cost.), la volontà dei singoli è, quindi, sovrana nell'accettare o rifiutare qualsiasi trattamento sanitario. Particolari motivi di interesse sociale rendono alcuni trattamenti sanitari obbligatori a vantaggio dell'interesse pubblico; gli stessi, tuttavia, sono soggetti a riserva di legge (art. 32 Cost., legge 180/78).

Consenso dell'avente diritto

I sanitari, quindi, trovano giustificazione per il loro agire nel valido consenso dell'avente diritto, (art. 50 C.P.) che così recita: "non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della persona che può validamente disporne", fatti salvi i casi di necessità ed urgenza regolati dall'art. 54 C.P.: "Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui iRjn volontariamente causato né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo" e quelli espressamente previsti dalla legge. Tale consenso è norma del loro operare. La carenza del consenso dell'avente diritto può configurare i reati di lesione personale (art. 582 C.P.), violenza privata (art. 610 C.P.), sequestro di persona (art. 605 C.P.) o omicidio colposo (art. 589 C.P.).

Qualora la persona non fosse in grado di esprimere valido consenso all'atto sanitario, perché priva di capacità giuridica, stante la mancanza di coscienza e volontà, il medico è l'unico depositario della volontà del paziente. Egli scientemente e coscientemente può e deve mettere in atto o sospendere i trattamenti che ritiene più opportuni. Il consenso dei famigliari ha, in questo caso, mero valore supplettivo; dove esista una divergenza di volontà fra gli stessi e il medico curante, la questione è di competenza del magistrato.

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Azioni od omissioni volte a procurare la morte

Nessun trattamento e nessuna omissione può essere posta in essere dal sanitario allo scopo di procurare in maniera attiva e voluta la morte di una persona. Tale evenienza espone chi la compie al reato di omicidio volontario (art. 575 C.P.), se l'ucciso non è consenziente o non è in grado di esprimere consenso, o al reato di omicidio di consenziente (art. 579 C.P.), se l'uccisione è a richiesta di colui che la subisce. Ancora, se il malato è stato indotto, rafforzato o aiutato all'autosoppressione si può configurare per il sanitario il reato di istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 C.P.). Dove ricorressero, possono essere invocate come eventuali aggravanti la premeditazione, la parentela e l'impossibilità di difesa da parte della vittima. Tuttavia all'autore del delitto, salvo che si possano ravvisare moventi d'interesse, potrà essere riconosciuto il movente della pietà di fronte a uno stato di sofferenza insopportabile e tormentosa e pertanto l'attenuante generica prevista dall'art. 62 C.P. "di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale".

Interruzione dei trattamenti sanitari sproporzionati

Non è in contrasto con la norma dell'art 32 Cost. la possibilità di interrompere le cure straordinarie ed il trattamento delle complicanze (interventi chirurgici, terapie intensive, trasfusioni, cure antiblastiche) qualora l'interessato le rifiuti o sia, incombendo la morte certa, palesemente inutile la loro continuazione, fonte soltanto di ulteriori sofferenze per il malato.

È consentito l'uso generoso di sedativi, anche se da questo potrebbe derivare una accelerazione del determinismo del decesso. Non è invece consentito sospendere in nessun caso l'assistenza di base (nutrimento, igiene, ecc.). Tale sospensione potrebbe configurare i reati di omissione di atti d'ufficio (art. 328 C.P.), omissione di soccorso (art. 593 C.P.) e abbandono d'incapace (art. 591 C.P.). L'ordinamento giuridico, tuttavia, non definisce quali siano i trattamenti sproporzionati la cui valutazione è rimessa alla discrezionalità dei singoli professionisti.

La legislazione sull'eutanasia

Rilevante e attuale nell'ordinamento giuridico è il tema dell'eutanasia. Attualmente solo l'Olanda ha approvato nel 1993 una legge che depenalizza l'eutanasia, non procedendo di fatto contro il medico che l'ha commessa qualora ricorrano le seguenti condizioni:

1. volontaria richiesta da parte del paziente di procedere ad eutanasia;

2. malattia incurabile;

3. reiterata richiesta del paziente;

4. sofferenze insopportabili;

5. consulto con un altro medico.

Negli Stati Uniti numerosi stati, al seguito della California che ha approvato il Naturai Death Act, riconoscono ad ogni adulto di disporre, mediante apposito atto (liwing will), per la non applicazione o per la interruzione delle "terapie di sostentamento vitale" nel caso l'interessato versi all' "estremo delle condizioni assistenziali". Per terapia di sostentamento vitale s'intende ogni mezzo o intervento medico che sia in grado di supplire, sostituire, riattivare o rinforzare una qualche funzione vitale, senza tuttavia procurare la guarigione. Per estremo delle condizioni esistenziali s'intende la condizione terminale della vita di una persona, quando l'impiego di terapie particolari servirebbe solo a posticipare la morte.

NORME DEONTOLOGICHE

L'orientamento tradizionale della deontologia sia infermieristica che medica è sempre stato costantemente volto alla difesa assoluta del principio dell'intangibilità della vita.

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Codice della Federazione Nazionale Collegi IP.AS.VI (anno 1977)

L'infermiere è al servizio della vita dell'uomo; lo aiuta ad amare la vita, a superare la malattia a sopportare la sofferenza e ad affrontare l'idea della morte. L'infermiere rispetta la libertà, la religione, l'ideologia, la razza, la condizione sociale della persona.

Giuramento di "Florence Nightingale"

Solennemente mi impegno davanti a Dio e alla presenza di questa assemblea di trascorrere la mia vita integra e di esercitare fedelmente la mia professione. Mi impegno di astenermi da qualsiasi pratica dannosa e malvagia, e di non somministrare scientemente medicamenti nocivi.

Il Codice italiano di deontologia medica (anno 1995)

Art.13. Accanimento diagnostico-terapeutico. Il medico deve astenersi dal cosiddetto "accanimento diagnostico-terapeutico", consistente nella ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita.

Art. 14. Resistenza fisica o psichica. I trattamenti che comportino una diminuzione della resistenza fisica o psichica del malato possono essere attuati previo accertamento delle necessità terapeutiche, al fine di procurare un concreto beneficio clinico al paziente o di alleviarne le sofferenze.

Art. 29. Informazione e consenso del paziente. Il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo livello di cultura e di emotività e delle sue capacità di discernimento, la più serena e idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e della mancata terapia, nella consapevolezza dei limiti delle conoscenze mediche, anche al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte diagnostiche-terapeutiche.

Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere comunque soddisfatta. Le informazioni relative al programma diagnostico e terapeutico, possono essere circoscritte a quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire e accettare, evitando superflue precisazioni di dati inerenti gli aspetti scientifici.

Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste, o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti, senza escludere mai elementi di speranza.

Art. 35. Divieto eutanasia. Il medico, anche se richiesto dal paziente, non deve effettuare trattamenti diretti a menomarne la integrità psichica e fisica e ad abbreviarne la vita o a provocarne la morte.

Art. 36. Accertamento della morte. In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta e pervenute alla fase terminale, il medico può limitare la sua opera, se tale è la specifica volontà del paziente, all'assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutile sofferenza, fornendogli i trattamenti appropriati e conservando per quanto possibile la qualità di vita. In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ragionevolmente utile. In caso di morte cerebrale il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la morte nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge. È ammessa la possibilità di prosecuzione del sostegno vitale anche oltre la morte accertata secondo le modalità di legge, solo al fine di mantenere in attività organi destinati a trapianto e per il tempo strettamente necessario.

Giuramento di Ippocrate

(...) Non mi lascerò indurre dalla preghiera di nessuno chiunque sia a propinare un veleno, o a dare il mio consiglio in una simile contingenza.

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Principi di etica medica europea

Conferenza degli Ordini dei medici della Comunità Economica Europea (anno 1987)

Assistenza ai morenti.

Art. 12. La medicina comporta in ogni circostanza il rispetto costante della vita, dell'autonomia morale e della libera scelta del paziente. Tuttavia il medico può, in caso di malattia incurabile e in fase terminale, limitarsi a lenire le sofferenze fisiche e morali del paziente fornendogli i trattamenti appropriati e conservandogli per quanto possibile la qualità di una vita che si spegne. È dovere imperativo assistere il morente sino alla fine ed agire in modo da consentirgli di conservare la sua dignità.

NORME MORALI

Il manifesto sull'eutanasia

Affermiamo che è immorale accettare o imporre la sofferenza. Crediamo nel valore e nella dignità dell'individuo; ciò implica che lo si lasci libero di decidere ragionevolmente della propria sorte (...)

Non può esservi eutanasia umanitaria aU'infuori di quella che provoca una morte rapida e indolore ed è considerata come un beneficio dell'interessato. È crudele e barbaro esigere che una persona venga mantenuta in vita contro il suo volere, quando la sua vita ha perduto qualsiasi dignità, bellezza, significato, prospettiva di avvenire. La sofferenza inutile è un male che dovrebbe essere evitato nelle società civilizzate. Raccomandiamo a quanti condividano il nostro parere di firmare le loro ultime volontà di vita, di preferenza quando sono in buona salute, dichiarando che intendono far rispettare il loro diritto a morire degnamente... deploriamo la morale insensibile e le restrizioni legali che ostacolano l'esame di quel caso etico che è l’eutanasia. Facciamo appello alla opinione pubblica illuminata, affinché superi i tabù tradizionali e abbia compassione delle sofferenze inutili al momento della morte. Ogni individuo ha il diritto di vivere con dignità e di morire con dignità.

"The Humanist", luglio 1974

La morale cattolica

L'eutanasia. E necessario ribadire con tutta fermezza che niente e nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di un'offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l'umanità.

L'uso degli analgesici. E molto importante, che gli uomini non solo possano soddisfare ai loro doveri morali e alle loro obbligazioni famigliari, ma anche e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all'incontro con il Cristo. (....) "non è lecito privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo".

L'uso proporzionato dei mezzi terapeutici. In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell'ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l'ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell'umanità.

È anche lecito interrompere l'applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere, si dovrà tenere conto del giusto desiderio dell'ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici veramente competenti; costoro potranno senza dubbio

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giudicare meglio di ogni altro se l'investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche messe in opera impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre.

È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può, quindi, imporre a nessuno l'obbligo di ricorrere a un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività.

Nell'imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha molto di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza a una persona in pericolo.

Congregazione per la Dottrina della FedeDocumento sull’eutanasia (1980)

Considerazioni etiche sul dolore e sull'eutanasia

È eticamente giustificabile ridurre o sospendere i presidi di supporto vitale che non siano consoni ai desideri del paziente, quando tali presidi non siano in grado di invertire il corso della malattia ma solo prolungare il processo del morire della persona.

È anche eticamente giustificato, per i medici, dopo consultazione dei membri della famiglia, dei procuratori o dei tutori, la sospensione di tali mezzi straordinari per conto di un paziente non cosciente o incapace di decisioni.

I farmaci ai dosaggi richiesti per controllare il dolore e gli altri sintomi non dovrebbero essere sospesi unicamente perché possono abbreviare la vita di un paziente.

L'eutanasia (l'accelerazione attiva della morte ottenuta con farmaci) non dovrebbe essere legalizzata.

Commissione di esperti dell'O.M.S., Dolore da cancro e cure palliative

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COMPORTAMENTI

La rilevanza del tema e l'impegno che questo richiede alla professione infermieristica nascono dalla constatazione che molti malati ai quali è rivolta l'assistenza sanitaria hanno la morte come prossimo e irrinunciabile destino. Ad essi va garantita la possibilità di vivere gli ultimi periodi della loro esistenza e di morire con la dignità di uomini. Questa è una sfida per l'infermiere che è chiamato, come afferma il Codice deontologico, ad aiutare le persone "a sopportare la sofferenza e ad affrontare l'idea della morte ".

Il compito è fatto gravoso dalla situazione socio-culturale (Ariès: "Il tabù della morte sostituisce quello del sesso"; Illich: "La morte medicalizzata") e dal fatto che i recenti progressi della medicina, con l'aiuto della tecnologia, hanno introdotto nuove possibilità di sopravvivenza e di cura, ma al tempo stesso hanno aperto numerosi problemi relativi al prolungamento artificiale della vita, alla condizione del morente e alla definizione stessa del momento in cui considerare morta una persona.

La riflessione etica deve dare la possibilità all'infermiere di tradurre in pratici comportamenti il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo, accompagnandolo a una morte dignitosa e per quanto possibile serena e priva di inutili sofferenze.

LE CURE PALLIATIVE E L'ASSISTENZA AL MORENTE

Nell'esperienza professionale gli infermieri possono constatare il fatto che le persone hanno più paura del dolore che della morte in sé. Ciò che angoscia è soprattutto il come si morirà, per quanto tempo durerà l'agonia e quanti dolori e menomazioni si dovranno patire prima di arrivare alla fine della propria esistenza.

È innanzitutto necessario eliminare la confusione tra malato "inguaribile" e malato "incurabile". Se l'inguaribilità è una condizione clinica definita e accettabile, essendo legata alla constatazione che non vi sono conoscenze e mezzi per combattere e avere il sopravvento su una certa malattia, la definizione di incurabilità non è accettabile né dal punto di vista clinico, né da quello etico. In ogni condizione il malato può essere assistito e ricevere cure specifiche.

La constatazione della irreversibilità e dell'ingravescenza progressiva di uno stato di malattia, e quindi dell'avvicinarsi della morte, unita a una mutata sensibilità del comune sentire che ha ridimensionato il significato e il valore di una medicina esclusivamente vitalistica, in favore di una medicina capace di considerazione per "tutto l'uomo" e per la qualità della sua vita, hanno portato i sanitari a considerare, nel caso dei malati terminali, le loro conoscenze e i loro strumenti come orientati non verso l'obiettivo della guarigione o del prolungamento a tutti i costi della vita, quanto a garantire la qualità della vita residua e la dignità della morte. Gli stessi mezzi sono, dunque, posti a servizio di obiettivi radicalmente diversi.

Questa nuova impostazione filosofica e di orientamento clinico è fatta propria dalle "cure palliative". Queste cure, come afferma la parola stessa (dal latino "pallium": mantello), avvolgono il malato inguaribile come un mantello, sull'esempio conosciuto di san Martino, vescovo di Tours, il quale, dando la metà del suo mantello al povero incontrato per la strada, non ha risolto alla radice il problema di quell'uomo, ma gli ha dato conforto e sollievo. Così, le cure

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palliative non risolvono la situazione di malattia della persona, se con ciò s'intende la guarigione, ma circondano il malato di una serie di attenzioni specifiche affinché conservi il massimo delle sue potenzialità fisiche, emotive, spirituali, sociali, professionali e affinché gli siano evitati tutti i disagi, ì dolori e ogni altro sintomo fastidioso possibile, pur nell'inevitabile progressione della malattia e nell'avvicinarsi della morte.

Le cure palliative si caratterizzano, dunque, per il fatto che :

a) prendono atto che la guarigione del malato non è possibile;

b) assumono come obiettivo la qualità della vita piuttosto che la sopravvivenza e cercano di controllare i sintomi della malattia, con l'unico e fondamentale scopo di garantire al malato il massimo comfort possibile.

Esse risolvono alla radice e in favore della qualità della vita il dilemma morale tra prolungare la vita a tutti i costi e vivere nel miglior modo possibile l'ultima fase della vita. Ciò in forza di una visione e considerazione della persona umana che valorizza i beni parziali della persona, nel contesto di quello che è il bene totale della stessa. La vita fisica è dunque condizione e garanzia per lo sviluppo del singolo, ne garantisce la possibilità di presenza nel tempo e nello spazio; ma il suo prolungamento a tutti i costi non può essere un bene in assoluto se non è considerato e valorizzato nel contesto della globalità della persona.

La professione infermieristica assume le cure palliative come parte integrante del suo patrimonio etico, culturale, scientifico e della sua prassi.

La personalizzazione dell'assistenza

Se nessun intervento infermieristico può essere standardizzato, le cure palliative e l'assistenza al morente richiedono in misura molto maggiore la personalizzazione dell'intervento infermieristico. Il malato terminale, infatti, si differenzia da ogni altro assistito per quella particolare e complessa situazione di sofferenza che è stata definita "dolore totale".

Gli effetti della malattia e la vicinanza della morte producono nel malato il deterioramento progressivo della sua identità personale, toccando profondamente l'aspetto fisico, relazionale, sociale, socio-economico e spirituale. La risposta ai bisogni e ai problemi espressi dal malato terminale e dal morente non può essere che personalissima, capace di considerare tutte le dimensioni della persona. Il malato stesso, adeguatamente informato e supportato, sapendo che non potrà più guarire, orienterà le sue attese e le sue richieste verso la domanda del massimo comfort possibile. L'équipe curante si premurerà di recepire questa istanza e di modificare gli obiettivi terapeutici dall'interesse per le cause a quello per il controllo dei sintomi e quindi per la palliazione.

Di fronte al morente assume valore centrale l'assistenza di base e l'umanità della prassi professionale dell'infermiere, il quale non abbandona il morente ma lo circonda di premurosa sollecitudine. Non aspetta che sia il malato o i familiari a chiamare per recarsi al suo letto; è attento a quei piccoli e semplici particolari che hanno grande valore per la persona che si trova nell'ultima fase dell'esistenza: la biancheria pulita, il traverso privo di pieghe, l'acqua fresca, il fiore sul comodino, una bibita o un pasto personalizzato come forma umana di costante e vigile attenzione, il contatto fisico, primo dei bisogni umani e ultimo a scomparire. Al morente viene così consentito di vivere anche gli ultimi istanti come esperienza piena di vita, con gli affetti, le speranze, ì risultati ottenuti e le attese incompiute rivisitati nella sofferenza e consegnati ai propri cari che restano e che devono continuare a vivere.

Il lavoro di équipe

La complessità delle richieste terapeutiche fatte dal malato terminale rende evidente che nessuna

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professionalità è in grado, da sola, di dare risposte adeguate. L'assistenza personalizzata e olistica richiede il contributo di varie professionalità che sappiano tra loro riconoscersi, rispettarsi e integrarsi, e quindi la valorizzazione del ruolo dell'équipe. La professione infermieristica riconosce al medico il ruolo di integratore dell'équipe e partecipa al processo terapeutico con il suo contributo specifico e autonomo.

Il ruolo delle persone significative

Il ruolo delle persone significative per il paziente terminale (moglie, parenti, amici...) è fondamentale (cfr. Simone de Beauvoir: "Non mi lasciate in preda alle belve" e Di Mola: "La casa, un buon luogo per morire"). Perciò, in qualsiasi situazione si realizzi l'assistenza al paziente, va riconosciuto un ruolo significativo alle persone a lui care, garantendo tempi e modi per una loro presenza costante, confortevole e integrata nel processo assistenziale.

Il ruolo dei familiari diventa insostituibile nell'accompagnamento del morente lungo l'ultimo tratto della sua esistenza. La possibilità di una camera riservata rende dignitosa l'esperienza del morire e favorisce la rispettosa espressione degli ultimi affetti. Semplici gesti non sminuiscono la professionalità dell'infermiere ma esprimono la sua solidarietà e attenzione ai parenti : una parola di conforto, un cuscino o uno sgabello per allungare le gambe, un caffè bevuto insieme, magari di notte, nelle lunghe e terribili notti che per i pazienti e per chi sta loro vicino non passano mai.

La valorizzazione del volontariato

La presenza del volontario assume significato particolare e specifico come parte integrante dell'équipe. È responsabilità dell'infermiere, congiuntamente con gli altri membri professionisti, definire preliminarmente il ruolo del volontario, precisare le condizioni alle quali il suo specifico contributo diventa valido e integrato con il programma terapeutico stabilito, vigilare sulle sue attività, favorire e contribuire alla sua formazione preliminare e permanente.

Il luogo dove assistere il morente

Sul problema relativo a dove sia meglio vivere gli ultimi periodi di una malattia terminale e morire non esiste una soluzione unica, in quanto, in relazione alle condizioni cliniche, ai supporti familiari ed economici disponibili e alle aspettative del morente, si può considerare preferibile l'ospedale, l'hospice o la casa (Di Mola: "La casa, un buon luogo per morire").

L'ospedale è il prodotto tipico della medicina tradizionale, tendenzialmente orientata alla lotta o oltranza contro la malattia e vincolata da esigenze economicistiche che, massimizzando il rapporto costi/benefici, portano alla standardizzazione degli interventi. Questa impostazione, se è accettabile o sopportabile da chi ha la possibilità di guarire, certamente non si rivela né opportuna né accettabile per il malato che dai progressi della medicina si attende unicamente che lo aiutino a vivere nel miglior modo possibile gli ultimi istanti della sua vita e a morire in pace. L'ospedale e i professionisti che vi operano si trovano, spesso, impreparati sotto l'aspetto filosofico, culturale, clinico ed organizzativo ad accogliere la sfida lanciata dal malato terminale. Sono incapaci di superare preconcetti acquisiti nel tempo, condizioni organizzative standardizzate e immutabili.

Le esigenze di questi malati possono trovare efficace risposta anche nell'ambito ospedaliero, per esempio attraverso l'istituzione delle Unità di cure palliative. Un'alternativa extraospedaliera è l'hospice. Si tratta di un tentativo, nato negli anni 60 in Inghilterra, di conciliare la necessità di poter disporre di una tecnologia e di una clinica sofisticata (medica, infermieristica, riabilitativa, ecc.) con un ambiente che conservi le caratteristiche della casa e che consenta ai

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familiari di rimanere vicini ai loro malati. In queste istituzioni la presenza dei familiari è molto valorizzata; essi hanno a disposizione spazi specifici per riposarsi e cucinare e non hanno limitazioni d’orario. Nell'hospice i problemi del malato vengono, dunque, affrontati sotto l'aspetto medico, infermieristico, spirituale e psicologico.

La propria casa rappresenta il luogo, ovviamente, più gradito al malato; tuttavia in alcuni casi può essere preferibile il ricovero in una istituzione. Infatti non sempre a domicilio è possibile garantire un intervento competente e sollecito, soprattutto in particolari situazioni di malattia, e non sempre i malati possono contare su familiari disponibili a prendersi cura di loro. In questi casi, comunque, deve essere assicurato alla famiglia il necessario supporto economico, organizzativo e assistenziale.

La decisione relativa alla scelta del luogo è frutto di una serie complessa di valutazioni di natura clinica, organizzativa ed economica, che hanno come presupposto la volontà e le aspettative del paziente e dei suoi familiari. Le decisioni assunte non devono mai essere considerate come definitive e irrevocabili. Infatti, l'orientamento a essere assistito a domicilio può essere cambiato in relazione ad alcune difficoltà sopravvenute (difficoltà nel controllo dei sintomi, necessità di supporti sofisticati, necessità di riposo per i familiari), che possono imporre per un breve periodo o stabilmente un ricovero in ospedale.

Ovviamente, il luogo dove si muore è di fondamentale importanza per programmare l'assistenza al morente. Ciò che più conta, in qualsiasi situazione, oltre al rispetto dei requisiti sanitari e igienici, è la possibilità che l'ambiente sia il più possibile personalizzato. L'infermiere favorirà, coinvolgendo i familiari del malato, soprattutto se opera nell'ambito dell'ospedale, questo processo di personalizzazione dell'ambiente, attraverso, ad esempio, l'utilizzo di un cuscino personale o di un copriletto portato da casa, oppure mediante la possibilità di avere sul comodino o sulla parete delle foto di familiari o di amici. Le stanze di degenza degli ospedali, tradizionalmente spoglie e nella maggior parte dei casi dipinte di bianco, dovrebbero essere rese più calde e accoglienti mediante l'utilizzo terapeutico dei colori e mediante l'affissione di quadri o poster colorati.

Non sta al personale sanitario esprimere valutazioni personali relativamente alle scelte che i malati o i loro parenti compiono circa il luogo dove organizzare l'assistenza al morente, per rispetto dovuto alle persone e alla loro autonomia e in ragione della complessità e della diversa valutazione che i vari fattori implicati possono avere. Tuttavia, gli infermieri hanno l'obbligo morale di intervenire quando la decisione che il malato assume non si rivela idonea a garantirgli un adeguato controllo del dolore o dei sintomi correlati con lo stato di malattia. Hanno ancora il dovere di informare adeguatamente e obiettivamente i loro assistiti circa le possibilità che la decisione presa può definitivamente precludere.

Il rispetto del "principio di avvocatura" del malato obbliga il sanitario a intervenire anche nel caso in cui i familiari, approfittando della condizione di malattia dell'assistito, omettano la dovuta assistenza o pongano in essere tentativi di manipolare la volontà o ì beni del malato, per i propri interessi. Una tale problematica dovrà essere affrontata non dal singolo professionista ma preferibilmente da tutta l'équipe, che potrà discutere francamente la situazione con i famigliari o, nei casi in cui la violazione dei diritti fosse palese e reiterata, dovrà dare informazione dei fatti all'autorità giudiziaria.

L'assistenza spirituale

In forza della considerazione globale dei bisogni della persona, che abbiamo assunto come fondamento morale dell'etica professionale, va riconosciuta al malato la possibilità di prepararsi spiritualmente alla morte. Se il malato appartiene a una determinata confessione religiosa, la

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qualità del morire implica la possibilità di prendere contatto con il rispettivo ministro del culto e di espletare, nei limiti concessi dalla situazione, le proprie pratiche religiose.

Lo stesso ministro del culto va considerato a tutti gli effetti facente parte dell'équipe curante; come tale partecipa, ove l'interesse del paziente lo richieda, alle previste riunioni dell'équipe. L'infermiere garantisce la possibilità del contatto, predispone l'ambiente affinché risulti dignitoso e riservato, accompagna e assiste il malato durante le sue pratiche religiose.

L'IMPEGNO TERAPEUTICO

I progressi della medicina e delle tecnologie biomediche hanno posto a disposizione dei curanti una serie di mezzi diagnostico-terapeutici che erano impensabili fino a poco tempo fa e che consentono di vicariare lungamente alcune fondamentali funzioni vitali. Tuttavia, tali mezzi hanno spesso il limite di imporre al malato penose sofferenze, in cambio di un precario prolungamento della vita.

Criteri di proporzionalità dell'intervento terapeutico

La considerazione del rispetto della persona, della sua autonomia, del dovere di beneficità, di non nuocere al malato, del principio di proporzionalità, unitamente al rispetto delle vigenti disposizioni di legge ci consentono di precisare alcuni orientamenti morali di fondo, per offrirli alla coscienza dei professionisti in vista delle decisioni che possono o devono prendere.

Certamente in situazioni cosi delicate e con malati la cui autonomia è provata dalla ingravescenza della patologia e dalla persistente sofferenza il compito di stabilire quale sia la cura proporzionata e quale no è estremamente difficile e oneroso, soprattutto nei casi in cui le conoscenze diagnostiche e prognostiche e le acquisizioni terapeutiche sono recenti, imprecise e incomplete. In considerazione della molteplicità delle opinioni, alcuni sostengono che una tale materia dovrebbe essere regolata da precise disposizioni di legge. A costoro si oppongono quanti ritengono che il giudizio sulla proporzionalità dei mezzi deve essere riservato ai curanti, in quanto appartiene alla loro specifica e irrinunciabile competenza e responsabilità e comporta la contestuale considerazione di una sene complessa e integrata di elementi, soggettivi ed oggettivi, rappresentati da:

● la volontà, le attese e le aspirazioni legittime del malato;

● le condizioni cliniche di reversibilità o di irreversibilità della malattia;

● il rapporto esistente tra rischi, in termini di costi umani: sofferenze e menomazioni che il paziente deve sopportare, e benefici terapeutico-assistenziali attesi;

● il rapporto costi economici-benefici e la disponibilità di mezzi straordinari;

● la necessità di superare una crisi momentanea.

La corretta considerazione di questi criteri ci consente di proporzionare il nostro intervento terapeutico, evitando il rischio, da una parte di scivolare verso l'abbandono, dall'altra di cadere nell'accanimento terapeutico. Si tratta di accettare il sopravvenire della morte senza volerla né anticipare, né posticipare.

Quanto affermato ci porta a considerare accettabili le seguenti soluzioni:

a) previo consenso dell'avente diritto, è lecito far uso di terapie sperimentali o rischiose, qualora ci si trovi, in mancanza di altri rimedi, di fronte a una malattia grave e altrimenti irreversibile;

b) è lecito sospendere tali mezzi quando si rivelino infruttuosi o siano giudicati dal malato troppo onerosi e non conformi alle sue aspettative;

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c) nessuno può essere obbligato a intraprendere cure che per lui si rivelino troppo onerose o a carattere sperimentale;

d) nella fase terminale di una malattia, quando è possibile prevedere la morte del paziente entro un breve tempo, è doveroso attuare tutti gli interventi per migliorare il comfort del malato e sospendere tutti i trattamenti che provocherebbero soltanto un penoso prolungamento della vita, essendo esclusa l'eventualità di una guarigione o quanto meno di una remissione della malattia, accettando così il naturale sopravvenire della morte.

La situazione in cui si ritiene sproporzionata una cura e si decide la sua sospensione va chiaramente distinta dall'eutanasia passiva. Infatti, incombendo la morte certa, l'interruzione della terapia causale non può essere considerata causa o concausa della morte, poiché si è preso atto della naturale e irreversibile evoluzione della malattia. Tale situazione non richiede la produzione di specifiche norme legislative, in quanto appartiene al limite logico e umano della vita.

L'accanimento terapeutico

L'applicazione di terapie intensive o di trattamenti particolari in alcune situazioni rende evidente a tutti che ciò che si sta prolungando artificialmente è soltanto l'irreversibile processo del morire. Tali interventi vengono definiti "accanimento terapeutico" e si riferiscono a trattamenti di documentata inefficacia e di evidente gravosità rispetto al fine perseguito, tanto da farli ritenere palesemente sproporzionati ai benefici attesi. L'adesione al principio dell'intangibilità della vita, senza un adeguato discernimento, induce a non riconoscere i limiti della medicina e a non sviluppare il necessario rispetto per l’individualità della persona umana, le cui risorse fisiche e spirituali sono limitate.

L'accanimento terapeutico si configura, dunque:

a) nell'applicazione di mezzi terapeutici su un paziente che dal punto di vista clinico è morto, ma le cui funzioni vitali, per un certo periodo di tempo, possono, comunque, essere vicariate;

b) l'uso di terapie in modo tale che risulti un'evidente sproporzione tra mezzi impiegati, sofferenze inflitte e benefici attesi.

Proponiamo alcuni orientamenti per evitare i rischi sopra menzionati:

● in caso di coma ritenuto irreversibile, cioè nel caso in cui il giudizio clinico escluda in modo certo e definitivo il recupero della coscienza e della capacità di relazione, è lecito sospendere tutti i mezzi straordinari, garantendo l'assistenza di base. Il giudizio sulla irreversibilità del coma è rimesso al medico curante;

● in caso di coma ritenuto reversibile, è doveroso applicare tutti i mezzi a disposizione al fine di guarire il paziente o perlomeno di consentirgli un probabile o minimamente possibile recupero;

● nel caso che la morte sia stata accertata nei modi previsti dalla legislazione vigente, è fatto obbligo, salvo i casi di trapianto e per il tempo strettamente necessario alla sua effettuazione, sospendere tutte le cure e prendere atto dello stato di morte.

Il principio dell'"avvocatura" obbliga l'infermiere a difendere il malato da rischi e dolori chiaramente inutili. Tuttavia, se l'affermazione teorica di questa proposizione trova universale consenso, la sua pratica attuazione risulta particolarmente difficile in relazione alla complessa valutazione clinica delle situazioni considerate e alla difficoltà di disporre in questi casi di un consenso informato e sereno.

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L'infermiere non può accettare di collaborare o di porre in essere interventi terapeutici onerosi per l'assistito, se previamente non si è accertato della proporzionalità delle cure. Tale accertamento deve essere effettuato non casualmente rispetto a singoli atti ma, deve essere un momento fondamentale e preliminare a tutto il processo terapeutico: nella discussione di équipe, infatti, si devono decidere, prima di iniziare i trattamenti, le scelte e gli orientamenti da attuare.

Nel caso del signor Francesco ("Fatemi vivere in pace ia vita che mi resta") l'applicazione di misure di carattere rianimatorio pare effettivamente sproporzionata, poiché non gli avrebbe portato nessun beneficio, prolungandogli inutilmente una già dolorosa agonia. Proporzionati possono essere ritenute la cura delle lesioni da decubito e la stessa alimentazione parenterale, perché hanno lo scopo di evitare dolori e disagi inutili.

La terapia delle infezioni micotiche e batteriche, o addirittura altre procedure diagnostiche anche cruente, nel caso di Fabio ("A casa o in ospedale: qual è il buon luogo per morire?") possono essere considerate proporzionate in relazione all'obiettivo non di prolungare la vita, ma di evitare l'insorgenza di complicanze che comporterebbero ulteriori dolori. Di più difficile valutazione è il problema della ventilazione meccanica assistita nel corso della polmonite. La sua messa in atto può considerarsi accettabile in relazione al superamento di una crisi momentanea, oltre la quale si ritiene che il paziente possa avere realisticamente ancora un minimo di aspettativa di vita e che questa vita residua non sia gravata da ulteriori prevedibili sofferenze. A tal fine occorre considerare, nel caso presentato, la distinzione tra malattia terminale e paziente morente o prossimo alla morte. L'Aids, infatti, si qualifica come malattia terminale poiché porta a morte certa entro un breve lasso di tempo (da 1 a 3 anni), ma questa situazione non va confusa con la situazione del paziente morente. Diversa è quindi la valutazione morale della ventilazione assistita messa in atto durante il decorso della malattia o nella fase in cui la morte è prevista come certa, nell'intervallo di pochi giorni o ore.

Alimentazione (enterale e parenterale), idratazione, igiene della persona, cura delle lesioni da decubito e terapia del dolore, in relazione al fatto che sono orientati a aumentare il comfort dei malati, appartengono sempre ai mezzi ordinari e proporzionati da assicurare a tutti gli assistiti in relazione al fondamentale rispetto dovuto alla vita umana. Ovviamente, tali mezzi non devono essere applicati nei casi in cui il paziente sia dichiarato clinicamente morto.

Ventilazione meccanica, particolari terapie chirurgiche invasive o chemioterapie possono facilmente configurare accanimento terapeutico. In questi casi l'infermiere, qualora implicato, chiederà che l'équipe discuta il caso e presenterà le sue obiezioni verbali e scritte al medico curante o al responsabile medico gerarchicamente sovraordinato. Tuttavia, non potrà rifiutare l'applicazione dei trattamenti correttamente prescritti dal curante, a meno che non vi ravvisi gli estremi di un danno grave. Nel caso in cui la situazione diventi per l'infermiere fonte di grave stress o si riveli inaccettabile dal punto di vista morale, potrà chiedere di essere sostituito nell'assistenza a quel malato o sollecitare l'intervento chiarificatore del Comitato di bioetica eventualmente presente nell'ospedale.

Il concetto di vita umana e di morte

La complessità delle situazioni, come quella esemplificata da Nancy Cruzan ("Il caso di Nancy Beth Cruzan"), e la progressiva sofisticazione dei trattamenti diagnostico-terapeutici rendono evidente che, preliminarmente alla definizione di regole morali che siano in grado di dare chiaro orientamento alle scelte terapeutiche, bisogna affrontare alcune questioni di natura antropologica (vale a dire, riferite alla natura dell'uomo):

Quale vita può essere considerata pienamente umana?

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Quando si muore?

Decidere il momento della morte è una questione solo medica o anche filosofica?

Le persone in stato vegetativo permanente sono vive o sono morte?

La decisione di considerarle morte, quali prospettive apre?

Gli interrogativi e i problemi morali sollevati da queste questioni sono tali da stimolare e richiedere la riflessione non solo dei sanitari ma di giuristi, filosofi, teologi e di tutti i cittadini, perché la risposta ad essi definisce il quadro valoriale di fondo entro cui si svolge la vita della comunità umana. In particolare, la definizione del concetto di morte è questione che investe filosofi, moralisti, medici, giuristi e teologi. Le posizioni sono tutt'altro che concordi, come illustra De Fanti (cfr. "Il concetto di morte: tre posizioni"). Questa mancanza di uniformità genera notevoli dubbi, confusione e crisi non solo nei parenti, ma anche nei sanitari. Si avverte la necessità di usare una definizione unica di morte: la morte è caratterizzata dalla perdita totale e irreversibile dell'unitarietà funzionale dell'organismo, situazione che coincide o con l'arresto del battito cardiaco (per almeno venti minuti primi), o con la totale irreversibile sospensione dell'attività del sistema nervoso centrale (corteccia e tronco).

Per l'accertamento di morte è dunque inaccettabile la morte funzionale del tronco encefalico, poiché in questo caso l'assenza di funzione nel resto dell'encefalo è occasionata ma non causata e la prognosi di questo evento non può essere confusa con il suo avverarsi. Così nelle condizioni di stato vegetativo persistente (S.V.P.), caratterizzato dalla morte della corteccia cerebrale e dal permanere delle strutture tronco encefaliche che, rimanendo integre, garantiscono l'espletamento delle funzioni centrali omeostatiche e vitali (respirazione), non si può parlare di morte. In riferimento a questa posizione si può affermare che alle persone in S.V.P., come Nancy Cruzan, debbano essere assicurate tutte le cure ordinarie, equivalendo la loro sospensione a un atto eutanasico.

Le responsabilità dell'infermiere

Gli argomenti trattati mettono in questione una serie complessa di attività terapeutiche che sono proprie degli infermieri e rispetto alle quali l'obbligazione a fare o a omettere non proviene solo dalle norme o dalla prescrizione medica, ma anche dai valori della propria coscienza. Si tratta qui, infatti, di definire lo statuto di persona, questione chiara in linea di principio, ma che diventa difficile quando ci si avvicina agli stati di confine, sia che questi riguardino l'inizio o la fine dell'esistenza di una persona.

L'infermiere dovrebbe essere capace di riconoscere, accettare e accompagnare il naturale processo del morire, facendo sì che sia il più sereno possibile. Ma deve anche proteggere la vita umana resa debole e indifesa da un'infinità di situazioni cliniche, pur rimanendo sempre depositaria della dignità propria della persona.

LA VERITÀ AL MALATO TERMINALE

Il problema della verità al malato terminale e al morente può essere meglio posto come il problema di fornire al malato un'informazione obiettiva, senza togliere la speranza. Molti sono gli argomenti che vengono portati in campo dai sostenitori dell'una e dell'altra tesi: la necessità di non turbare il malato, la paura di effetti disastrosi o di gesti disperati, da chi ritiene che la diagnosi infausta non si debba dire; la necessità di rispettare l'autonomia della persona nell'assumere le decisioni che ritiene più opportune e di adempiere con dignità i suoi doveri ultimi, da chi è convinto che il malato debba essere informato.

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Nell'ambito della deontologia medica il Codice, approvato nel 1995, all'art.29 prevede per il medico l'obbligo di fornire le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste «con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti, senza escludere mai la speranza». Tale obbligo deontologico determina un riorientamento della diffusa pratica, comune nella nostra cultura, di tacere al malato e di comunicare queste informazioni ai familiari più stretti, creando quella situazione ben descritta da Schwartzenberg ("La congiura del silenzio").

È ovvio che anche in questo caso non ci sono soluzioni morali preconfezionate. Ma tutta l’équipe dovrà, caso per caso, riflettere e discutere per trovare le soluzioni che più sono in grado di dare efficace tutela agli interessi del malato. I criteri di seguito proposti possono aiutarci nell'analisi dei casi e orientare le nostre decisioni.

a) Ogni atto umano può essere definito, dal punto di vista morale, come buono solo se assume la verità come criterio di fondo.

Tuttavia sappiamo bene che la cruda verità, soprattutto se espressa con parole che sono in grado di colpire l'immaginario collettivo ― come la parola cancro ― può provocare effetti tremendi sulla condizione psicologica, peraltro già provata, del malato. Ecco perché il criterio della verità non può essere assoluto ma deve essere considerato congiuntamente con una serie di altri elementi. Certamente la menzogna crea una situazione artificiale che è difficilmente sopportabile dal malato e dai suoi familiari, soprattutto quando la progressione della malattia rende palese che i miglioramenti attesi non arrivano, mentre si rendono evidenti i segni del male ingravescente. Chi ha esperienza di assistenza ai malati terminali non può scordarsi l'immagine del malato che osserva il proprio corpo e dice: «Guarda come sono ridotto! Sono sempre più magro! Non ho più neanche un muscolo nella gamba!».

C'è un ulteriore aspetto collegato con il tema della verità. Infatti, chi conosce o può prevedere fino in fondo la "verità della malattia", se con ciò s'intende la sua entità, progressione e prognosi? La verità che noi desumiamo dalla letteratura e dalle statistiche deve fare i conti con la singolarità della persona e, forse, con qualche altro fattore che a noi sfugge. Ecco perché il medico e l'infermiere devono essere prudenti nell'assumere e nel comunicare questi dati.

b) Il malato ha diritto di ricevere con gradualità tutte quelle informazioni che le sue condizioni cliniche e psicologiche gli consentono di capire e sopportare.

Il rispetto di questo criterio richiede ai sanitari un'approfondita conoscenza della persona assistita, dei meccanismi psicologici del malato terminale, nonché la capacità di relazionarsi che è frutto di conoscenze, attitudini e esperienza. Perciò medici e infermieri porgeranno le informazioni con discrezione e gradualità, sapendo quando è bene fermarsi e attendere. L'informazione richiede ancora un linguaggio che sia accessibile e chiaro sia per il paziente che per i suoi familiari, e una preliminare valutazione delle condizioni del malato fatta da tutta l’équipe e nella quale ciascuno porta il suo valido contributo.

È bene ricordare che le informazioni che vengono fornite dai membri dell'équipe devono essere univoche e uniformi, in modo tale da non destare nel malato paura, sfiducia o sospetto, costringendolo a cercare con mille espedienti brandelli di verità che, conosciuti in questa maniera, si rivelano ancora più tragici e difficili da sopportare, in quanto il malato si sente solo e tradito. L'infermiere sa comunicare con gradualità, rispettando il processo di maturazione interiore del malato e riconoscendo quando è venuto il momento di dire ciò che è essenziale e grave.

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c) Le informazioni fornite debbono dare al malato una realistica visione della sua condizione di malattia e non devono nascondere la gravità della situazione.

L'obiettività della situazione può essere data anche omettendo o fornendo con molta cautela termini tecnico-scientifici di difficile comprensione e la comunicazione di dati statistici dei quali la ricerca scientifica fa comune uso, ma che per il singolo malato possono contribuire a rendere la decisione più nebulosa e difficile, producendo ulteriore ansia. La letteratura e la pratica clinica ci indicano chiaramente che, in generale, se il malato è informato nel dovuto modo, questa situazione produce una reazione positiva sul paziente e sui suoi familiari, spronandoli nella lotta e rendendoli più forti nella sopportazione del male e nella ricerca della migliore qualità della vita residua. Quanto gli viene comunicato non deve escludere elementi di speranza. Il fatto che in medicina non ci siano previsioni assolute ci consente e ci consiglia di non escludere mai dall'orizzonte del paziente elementi di speranza. La speranza non è illusione, ma la possibilità di basarsi su elementi anche minimi per attendere, se non la guarigione, almeno la stabilizzazione della malattia e il controllo del dolore e degli altri sintomi fastidiosi.

Il malato deve essere messo nella condizione di adempiere ai suoi doveri ultimi, in relazione a situazioni giuridiche, patrimoniali o familiari che deve sistemare o in relazione alla necessità di prepararsi, dal punto di vista psicologico o religioso, a una buona morte. Le situazioni da considerare possono riguardare sia la predisposizione delle ultime volontà testamentarie, sia la regolazione di situazioni patrimoniali, le indicazioni eventuali per la gestione di un'impresa familiare, il rispetto di obbligazioni assunte, la chiarificazione o la regolamentazione di situazioni morali. È dovere dell'infermiere, in accordo con gli altri membri dell'équipe sanitaria, mettere il malato nella condizione di provvedere a quanto detto, affinché possa disporre della presenza di notaio, avvocato, ministro del culto, psicologo o di altre persone significative e di un ambiente che consenta tali incontri, garantendo rispetto e riservatezza.

LA VOLONTÀ DEL MALATO

Diritto, morale e deontologia sono concordi nell'affermare che la decisione ultima circa le attività terapeutiche da intraprendere spetta sempre al malato, mediante la manifestazione del suo valido consenso. Tuttavia, in presenza di malati terminali o morenti, la manifestazione valida dell'atto di volontà di un malato può essere difficilmente accertabile e diversamente valutata dai sanitari.

Numerosi conflitti si possono presentare. Il maggiore è quello fra il principio di beneficità, e quindi il dovere per i sanitari di agire sempre "pro vita", e il principio di autonomia del malato. Per tentare una prima risposta, precisiamo preliminarmente i criteri di validazione della volontà del malato. L'atto con cui essa si esprime deve essere :

● personale: espresso direttamente dalla persona stessa;

● informato: basato sulla conoscenza della situazione sufficientemente chiara da rappresentare, in modo essenziale, la gravità della diagnosi, della prognosi, le caratteristiche della terapia, i suoi benefici e rischi e le conseguenze probabili o certe relative agli atti che il malato decide di assumere;

● palese e autentico: chiaramente, obiettivamente e consapevolmente scelto;

● libero: esente da ogni coartazione o suggestione;

● valido: dato da persona capace di intendere e volere, non interdetta dalla malattia o da altre cause;

● attuale; dato nel momento in cui il problema si pone.

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L'autentica espressione di volontà di un malato richiede la soddisfazione di tutù i criteri sopraindicati. In pratica, è molto difficile riscontrare che tutti i criteri siano soddisfatti.

I limiti del consenso

Bisogna riconoscere dei limiti alla volontà del malato di disporre della sua persona? Dal punto di vista morale vi sono due posizioni nettamente distinte. La prima ritiene possibile, in relazione al principio di autonomia, la piena e totale autonomia nella disponibilità circa la propria persona, che si estende fino alla richiesta di soppressione. La seconda, coniugando il principio dell'autonomia con quello dell’intangibilità della vita, ritiene che la validità del consenso possa disporre unicamente della possibilità di rifiutare interventi sproporzionati, sperimentali o dolorosi e di chiedere tutte le cure necessarie a controllare il dolore e gli altri sintomi fastidiosi del male, anche con la previsione che la vita sia abbreviata.

La volontà dei familiari

La volontà dei familiari ha, dal punto di vista giuridico, mero valore suppletivo. In forza del rapporto professionale fiduciario, il depositario della volontà del malato, qualora questi sia impedito a farlo, è sempre il medico curante che, nel dubbio, deve agire "pro vita" e impegnarsi a togliere ogni dolore.

La manifestazione di volontà dei familiari, pur essendo necessario elemento di valutazione dei sanitari, deve essere considerata criticamente, tenendo presenti le seguenti considerazioni:

a) la decisione dei familiari è soggetta a forti emozioni ed è legata alla visione che essi hanno della qualità della vita, che può non corrispondere con quella del loro congiunto;

b) le informazioni cliniche che hanno ricevuto possono essere di difficile comprensione ed interpretazione;

c) vi possono essere degli interessi personali di varia natura che mettono in discussione l'obiettività della decisione.

Queste considerazioni fanno si che dal punto di vista morale la volontà dei familiari sia sentita e tenuta in grande considerazione; tuttavia, il rispetto dell'autonomia del malato e il dovere dei sanitari di difendere i suoi interessi giustificano che la scelta debba essere fatta dal curante in scienza e coscienza.

Più forza può avere il valore dei familiari se il medico non ha potuto avere un rapporto diretto con il malato che ha in cura, perché, ad esempio, è giunto già in coma in ospedale. Tale forza assume il valore di vincolo qualora il medico ritenesse di sottoporre il malato a terapie sperimentali, rischiose o dolorose. La non infrequente divergenza di parere tra curante e familiari potrebbe, a questo proposito, trovare equa composizione nel parere del Comitato etico dell'ospedale.

Il contrasto tra il principio di beneficità e di autonomia

Nella pratica clinica si possono, talvolta, configurare situazioni in cui il principio di beneficità, cioè il dovere di fare il bene del malato, è in conflitto con il principio dell'autonomia, cioè il diritto che l'uomo ha di compiere le scelte che ritiene migliori per se stesso. Il malato, infatti, potrebbe rifiutare non solo i trattamenti straordinari e rischiosi ma anche quelli ordinari di supporto vitale. In questo caso si realizza un conflitto tra la volontà del malato di morire e la volontà del sanitario, vincolata dall’esigenza morale di rispettare la vita.

Piuttosto che opporre i due principi come conflittuali, devono essere considerati nella loro reciproca e contemporanea integrazione. La negazione della vita non può appartenere in nessun caso all'interesse legittimo di una persona; non può mai essere il suo bene supremo, in quanto

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non realizza e non porta a compimento la sua piena umanità. Una scelta del malato che sia, dunque, in palese contrasto con il bene della persona non può essere accolta dall'infermiere.

Il "living will" (testamento biologico)

Per favorire la tutela dell'autonomia della persona è stata promossa la sottoscrizione di un "living will", cioè di un testamento biologico mediante il quale il paziente esprime le sue generali volontà e orientamenti relativamente ai trattamenti cui può essere sottoposto nella fase terminale della vita. In linea di principio, è moralmente significativo che il paziente esprima la sua autentica volontà quando ancora è in grado di farlo. Tuttavia, bisogna tener conto di due questioni. La prima è legata al momento in cui viene sottoscritto l'atto. In genere la persona si trova in una condizione di salute, lontano dall'incombente evento di una malattia letale, che può riservare, comunque, ampi margini di incertezza diagnostica, terapeutica e prognostica.

La seconda è relativa al bene che è oggetto di disposizione mediante il "living will". In base alle affermazioni fatte e alle scelte valoriali proposte, possiamo affermare che la disponibilità esercitabile dalla volontà del singolo esclude, dal punto di vista morale e giuridico, la possibilità di richiedere l’omissione delle cure ordinarie; comprende, invece, l'applicazione costante e immediata della terapia del dolore e del controllo dei sintomi fastidiosi e l’esclusione di terapie sperimentali o di interventi ad alto rischio e onerosi per il malato e per i suoi familiari.

L'EUTANASIA

Posizioni morali

Il tema dell'eutanasia si va fortemente imponendo nella nostra civiltà, motivato da pressanti sentimenti di pietà nei confronti dei sofferenti. Per eutanasia intendiamo la deliberata soppressione, mediante un atto attivo o omissivo, di una vita umana, allo scopo di porre fine alla sua sofferenza (eutanasia individualistica o pietosa). La pietà verso il sofferente è, dunque, all'origine della pratica eutanasica, nota a molte civiltà passate e ora ritornata attuale per l'evidente difficoltà che ha la società di oggi nel trovare le ragioni e i fini per sopportare il dolore e la stessa visione dei suoi membri deboli e malati.

L'uomo di oggi fatica a trovare le ragioni del coraggio di vivere anche nella piena salute; a maggior ragione di fronte alla malattia si trova sprovvisto di forze e di possibilità di senso, così che, per lui o per chi gli sta vicino, la soluzione più ovvia, veloce e definitiva è quella di farla finita. A determinare questa situazione in cui "non vale la pena di vivere" concorre anche il senso dell'inutilità sociale del malato e il suo costo che grava sulla famiglia e sulla collettività (cfr. "Quando una persona domanda la morte"). Dal punto di vista sociale le politiche sanitarie di uno stato hanno un ruolo rilevante.

Nei confronti del problema dell'eutanasia le posizioni morali, in generale, sono differenti e contrastanti:

a) vi è chi interpreta in maniera assoluta il principio dell'autonomia della persona, riconoscendo alla stessa la possibilità di rinunciare alla vita come forma ultima suprema di libertà;

b) vi è chi, in nome del valore della vita e della sua dignità, ritiene intangibile l'esistenza della persona, attribuendole in alcuni casi un valore assoluto, in altri un valore che deve essere conciliato con quello della qualità della vita residua, considerando che il bene della persona deve essere riferito alla considerazione della stessa nella sua totalità;

c) a questo riguardo estrema importanza assumono le varie appartenenze religiose, peraltro allineate, in generale, sul fronte della difesa dell'intangibilità della vita. La posizione cattolica ritiene inaccettabile l'eutanasia in nome della sacralità della vita umana, la cui signoria è

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posta unicamente nelle mani del Creatore (cfr. "Dichiarazione sull'eutanasia").

Il ruolo e le responsabilità dell'infermiere

L'infermiere fa ogni sforzo perché a ogni malato siano garantite le cure necessarie, al fine di perseguire il massimo benessere possibile, anche quando il corso della malattia è al termine e si avvicina alla morte. Così si previene che il malato invochi la morte come liberazione dal dolore e da altri sintomi insopportabili. Davanti al malato che ci chiede di morire dobbiamo chiederci se è stato fatto tutto il possibile per alleviare le sue sofferenze. Può essere che il suo grido di aiuto in verità voglia dire: «Mettimi nella condizione di sopportare tutto questo e di morire in pace». Il dolore dei malati terminali va trattato e controllato (cfr. il capitolo 12 "Dolore e sofferenza").

La deontologia infermieristica, dal giuramento di Nightingale al Codice odierno, è compatta nell'indicare come dovere imprescindibile la difesa della vita e quindi il rifiuto di ogni atto eutanasico attivo od omissivo. Questo dovere è esercitato in forma personale e diretta nell'attività clinica, ma ha anche un risvolto significativo nell'impegno politico e pubblico volto a favorire un orientamento collettivo che valorizzi la vita umana in tutte le sue espressioni e che dia ad essa l'opportuna difesa normativa e assistenziale. Qualora l'infermiere, in ragione della sua professione, si trovasse ad assistere a un atto eutanasico, che non rientra nella discrezionalità degli atti sanitari professionali consentiti dal nostro ordinamento, è obbligato a fare quanto in suo potere per impedirlo e a informare del fatto avvenuto l'autorità giudiziaria e i suoi diretti superiori (la valutazione del fatto non vuol dire un giudizio morale nel colpevole).

L'INFERMIERE DI FRONTE AL MALATO TERMINALE E AL MORENTE:

PROBLEMI E RESPONSABILITÀ

La questione della morte ci interpella in modo radicale, sia come persone che come professionisti. La natura stessa della professione, che si qualifica come professione di aiuto e prende in considerazione i bisogni fondamentali di pertinenza infermieristica per garantire il loro soddisfacimento, trova nell'assistenza ai pazienti terminali e morenti un campo di piena applicazione.

La complessità delle situazioni da affrontare richiede che gli infermieri, come tutti i sanitari, siano adeguatamente preparati a svolgere il proprio ruolo mediante una formazione approfondita delle discipline mediche e infermieristiche, ma anche in quelle etiche e relazionali. La formazione si deve realizzare nelle scuole di base e deve proseguire nella formazione complementare e permanente.

Ci rendiamo conto della difficoltà incontrata dagli infermieri di vivere contemporaneamente atteggiamenti antitetici, riuscendo in queste situazioni a mantenere il proprio equilibrio. Essere vicini al malato terminale e morente dimostrando empatia, rientrare a casa dal coniuge e dai figli dimostrando serenità per la vita che scorre, ripropone costantemente l'ambiguità della vita, che porta inevitabilmente con sé i giorni della gioia e del dolore, della crescita e della morte.

Questo mandato di essere vicini ai sofferenti e ai morenti senza rimanere schiacciati dallo stress e dall'angoscia e senza schiacciare a sua volta i nostri cari è un risultato difficile da perseguire e mai acquisito definitivamente. Fondamentale resta la preliminare elaborazione di senso che la persona deve fare per se stessa, poiché il raggiungimento del giusto equilibrio è sempre questione del singolo e della possibilità che lui stesso si ponga la domanda, trovi una accettabile risposta e la traduca in scelta di vita.

Il personale sottoposto a questi stimoli stressogeni ― come gli infermieri dei reparti di

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oncologia, oncologia infantile, cure intensive o delle unità di cure palliative ― dovrebbe avere la possibilità di partecipare sistematicamente a corsi di formazione ad hoc e a gruppi di discussione condotti da psicologi esperti. Un corretto utilizzo delle risorse umane a livello di istituzione dovrebbe prevedere anche la rotazione di questo personale, o almeno la possibilità di prestare servizio per brevi e definiti periodi in reparti con minori implicazioni emotive. Quando un infermiere chiede di essere trasferito da un reparto di questo tipo, motivando la richiesta con difficoltà di coscienza o psicologiche, il responsabile del servizio ha l'obbligo di approfondire le ragioni di tale richiesta, di programmare eventualmente un colloquio con lo psicologo del lavoro e di accogliere la domanda del professionista con la massima sollecitudine consentita.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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PER APPROFONDIRE

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Di Mola G. (a cura di), Cure palliative. Approccio multidisciplinare alle malattie inguaribili, Masson, Milano, 1988.

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Thomas L.V., Antropologia della morte, Garzanti,Milano, 1976.

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FATTI

Il dilemma di una madre

Una nuova possibilità di vita

Una figlia morta, che vede ancora tramonti

IDEE

Capire la morte cerebrale

Cosa dicono le statistiche?

Immaginario simbolico e trapiantologia

Contratto (compravendita) o dono?

Il dono di rene tra viventi

Un circuito di solidarietà

NORME

● Legislazione

Prelievi da vivente

Prelievo di rene

Prelievi da cadavere

Accertamento della morte

● Norme Morali

Donazione e trapianto di organi

COMPORTAMENTI

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FATTI

IL DILEMMA DI UNA MADRE

Dopo tanti anni come infermiere in un servizio di rianimazione, Antonio ricorda ancora il caso di un giovane di circa 22 anni, ricoverato per emorragia cerebrale da rottura di aneurisma. La TAC aveva rivelato l'impossibilità di effettuare l'intervento chirurgico per un ematoma intracerebrale esteso. Il paziente era in coma depassé; i suoi segni vitali erano mantenuti a livelli normali per mezzo del respiratore automatico e di altri macchinari. La famiglia del giovane, soprattutto la madre e il fratello, erano costantemente presenti nella sala di attesa dei parenti e ricevevano la visita di amici convenuti per offrire conforto. Ad Andrea erano state praticate tutte le terapie utili a mantenerlo in vita, ma la valutazione delle sue condizioni cliniche aveva evidenziato coma profondo ed edema polmonare acuto.

Il personale infermieristico, sopraffatto dalle emozioni, con ancora pochi casi trattati alle spalle, si chiedeva che cosa fare per Andrea, oltre a soddisfare i suoi bisogni vegetativi mediante le attrezzature a cui era collegato. Nonostante ciò aveva chiaro, grazie anche al livello di preparazione tecnico-scientifica dato durante l'addestramento precedente, che si deve guardare in faccia la realtà e affrontare la morte quando si presenta. Andrea era in coma depassé, una dimensione indietro dalla quale nessuno è mai tornato: così recita la letteratura scientifica in materia. Il suo cervello era morto e l'unica cosa che gli infermieri potevano fare era quella di non abbandonarlo. Sul piano clinico, l'équipe medica aveva individuato gli elementi necessari per formulare una accertata diagnosi di morte cerebrale e discusso la scelta del professionista atto a comunicare la notizia ai familiari e a chiedere, nel contempo, l'autorizzazione a un espianto d'organi.

Chi sarebbe stato il medico che avrebbe dovuto cimentarsi con il duplice ruolo di messaggero di morte e di vita altrui? Forse chi non prova, come il personale addetto a questi servizi, prima l'ebbrezza dello sconforto e poi l’ipotesi di un paradosso di vita, può vedere tutto ciò in una arida prospettiva utilitaristica, come se si volesse per forza riciclare anche il corpo di un morto per ottenere un certo risultato. Gli infermieri, invece, pensavano che la grandezza dell'uomo è anche là dove dalla morte può derivare la vita in uno sconosciuto e speravano, quindi, che fosse anche il desiderio dei familiari di Andrea.

Venne deciso che il prescelto fosse il medico più anziano, accompagnato dal caposala Antonio. I colleghi, intanto, presi dalla cura di Andrea e degli altri malati, erano in attesa degli eventi e delle notizie portate al ritorno dal colloquio. Il sanitario anziano comunicò ai familiari la diagnosi di morte cerebrale con la maggiore delicatezza possibile e cercò di rispondere ai congiunti arsi dal dubbio di un eventuale miglioramento. Egli iniziò così: «Mi dispiace, è stato fatto tutto il possibile... ma Andrea, già al suo arrivo nel nostro servizio, si presentava in gravissime condizioni... ce ne stiamo ancora occupando ma è ormai in coma profondo... Probabilmente il suo cervello è morto... pertanto potrebbe essere espiantato e donare gli organi ad altre persone ancora in vita ma sofferenti... Pensateci. Per legge siete voi a doverci dare l'autorizzazione alla fine delle sei ore. Potete comunicarci la vostra opinione anche prima dello scadere di questo termine, cercando di rispettare le volontà di Andrea».

I familiari chiesero a intervalli regolari di vedere Andrea, si confrontarono tra di loro perché il loro figlio, quando era in vita, non aveva mai espresso un fermo diniego sulla questione dei trapianti. Intanto l'osservazione del paziente a scopo di accertamento di morte per eventuale espianto

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era iniziata: doveva essere protratta, a norma di legge, per sei ore, intervallate da tre osservazioni della durata di trenta minuti. La diagnosi espressa hi precedenza non sarebbe cambiata, tanto che il referto di morte poteva fare riferimento a diverse ore prima.

Ogni volta che i familiari suonavano il campanello per ricevere le informazioni circa il loro congiunto, oltre quelle comunicate ogni due ore, a turno un operatore diverso usciva. Inoltre, venivano fatti entrare al capezzale di Andrea. Era difficile per gli infermieri, pur credendo ciecamente alla scienza, spiegare loro che il suo cervello era morto e che quel corpo non riceveva più segnali, ma che quei movimenti incoercibili, quando veniva toccato, erano dovuti ai riflessi spinali in un corpo in cui l'essenza non c'era più, ma dove il cuore scandiva ancora il suo battere! La madre, sofferente e attonita, lo guardava, lo toccava, lo chiamava e attendeva una risposta.

In seguito la mamma suonò il campanello e venne fatta accomodare nello studio del medico che giunse poco dopo. La donna, con tutta la forza che le era rimasta, chiese ancora del figlio; quindi si rivolse al medico anziano e guardandolo negli occhi gli disse: «È inutile aspettare ancora. Ho parlato con mio marito e mio figlio: non diamo l'autorizzazione. Ho paura che soffra... che senta male... Se devo firmare qualcosa adesso sono pronta... Povero Andrea!».

Ad Andrea non vennero più praticate terapie intensive. Non avrebbe avuto alcun senso protrarre il trattamento: egli era morto da diverse ore, tenuto in vita vegetativa artificialmente. Gli infermieri si misero a prepararlo per il dopo.

UNA NUOVA POSSIBILITÀ DI VITA

«Mi chiamo Gianni, ho 29 anni, sono stato in terapia con dialisi peritoneale dall'età di 26 anni e ho subito da poco il trapianto renale. La mia storia risale al 1987 quando, per un mal di gola persistente, il medico di famiglia mi fece fare degli esami dai quali risultò che l'urina presentava delle anomalie. Gli esami furono ripetuti più volte e la situazione precipitò. Mi fecero varie visite specialistiche e poi la biopsia renale, che diagnosticò inesorabilmente una glomerulonefrite melangioproliferativa allo stato cronico. Avevo 20 anni, avrei dovuto fare diversi controlli e seguire una dieta aproteica, ma purtroppo, ho continuato la mia vita di sempre.

Nel periodo che risale al Natale del 1991 mi accorsi che da qualche tempo al mattino avevo mal di testa e disturbi visivi. Una mattina stavo peggio del solito e decisi di recarmi dal medico, che mi riscontrò una pressione arteriosa di 260 su 120, con 150 di frequenza cardiaca. Mi ricoverarono immediatamente in terapia intensiva. Avevo 16 di creatinina, stavo veramente male. In un attimo vidi scorrere tutta la mia vita e pensai: è finita! Quindi mi trasferirono in un altro reparto a fare la dialisi. Da quel giorno iniziò la mia avventura attaccato alla macchina, fino al trapianto.

Per alcuni giorni mi fecero l'emodialisi; poi mi inserirono un catetere di Tenkoff, in quanto volevano indirizzarmi verso la dialisi peritoneale per rendermi indipendente. Mi istruirono per una settimana su come fare a eseguire la terapia a domicilio e così iniziò una nuova vita, scandita dalla dialisi solo durante la notte. Fortunatamente il lavoro mi aiutò a non pensare e il mio datore mi venne incontro, dandomi la possibilità di utilizzare l'infermeria della ditta quando era necessario.

Per quanto riguarda le relazioni sociali, potevo uscire solo al sabato perché, andando a lavorare durante la settimana, alle 20.30 ero obbligato a stare nel letto per fare la dialisi, con la televisione, lo stereo, i libri. È difficile accettare questa situazione, avere difficoltà di rapporto con gli amici e con la ragazza per gli obblighi da seguire. Cercai di reagire, ma per la mia famiglia fu un dramma: ero io a consolare loro.

L'unica alternativa era il trapianto, e così detti il mio consenso. Mi misero in lista al Nord Italian Trasplant in un grande ospedale vicino, dove mi visitarono e mi fecero molti esami. Per

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conto mio, mi misi in lista a Torino e anche a Nizza, dal momento che accettavano un certo multerò (li stranieri. La mentalità della Francia è diversa per quanto riguarda la donazione. Infatti, quando mi dettero il foglio del ricovero per farmi gli esami fui obbligato a barrare diverse caselle per dati anagrafici e altro; poi, in uno spazio colorato, era specificato che se non avessi apposto la mia firma, in caso di morte, si sarebbero ritenuti autorizzati a espiantarmi gli organi. Si tratta del famoso silenzio-assenso!

Iniziò per me una estenuante trafila burocratica con prelievi e controlli periodici. Mi reputo fortunato, perché ho aspettato solo sette mesi per fare il trapianto presso il primo ospedale dove ero in lista. Mi chiamarono una prima volta, ma il rene non era compatibile, la seconda invece era tutto a posto. Non ho mai saputo sulla provenienza del rene e io non ho mai chiesto, per evitare di creare imbarazzo. Questa domanda però me l'ha fatta molta gente. Per qualcuno, invece, sapere di avere un organo di uno sconosciuto è un problema ossessivo, difficile da sopportare.

Ho una sorella e quando iniziai la dialisi, essendo ella al termine della gravidanza, non la informai per non turbarla. Naturalmente, ella venne a sapere tutto e insistette molto per donarmi un rene. Io non accettai perché lei ha una famiglia, tre figli e, con tutti gli scongiuri, se fosse successo qualcosa a me, mi avrebbero espiantato, ma se fosse successo qualcosa ad entrambi, oppure solo a lei? Non me la sentii di accettare il suo rene, forse perché avevo conosciuto una ragazza che aveva ricevuto il rene dalla madre e dopo qualche tempo aveva avuto il rigetto e la madre seri problemi. Feci la riflessione che, se il donatore era un cadavere, anche se io avessi avuto il rigetto sarebbe stato un problema solo mio. Non sarei mai stato disposto a comprarmi un rene, nonostante lo sconforto nel vedere la mia camera sommersa da scatole e dalle apparecchiature. Spesso ho pensato alla mia vita, a quello che non potevo fare e che non potevo mangiare. Purtroppo un dializzato non può bere nulla, nemmeno acqua e ci sono stati dei momenti, soprattutto d'estate, in cui sognavo delle cascate...

Che emozione ho provato dopo il trapianto! Tralasciando tutta la trafila e preparazione chirurgica, per me è iniziata una nuova vita soprattutto quando, prima di uscire dall'ospedale, mi tolsero il catetere peritoneale. Che emozione al ritorno a casa: ho persino baciato il pavimento! Adesso è diverso, mi sembra di essere un'altra persona e devo dire grazie a quello sconosciuto che, nel donarmi un rene, mi ha dato una nuova possibilità di vita!».

UNA FIGLIA MORTA, CHE VEDE ANCORA TRAMONTI

Vedere la signora Rossi per la strada mi ricordò la dolorosa esperienza in rianimazione, quando sua figlia Paola morì. La donna che adesso mi ringraziava non era la donna devastata dal dolore che io ricordavo nell'unità di terapia intensiva, nei momenti tragici in cui era maturata la decisione di prelevare gli organi della figlia, ormai in stato di morte cerebrale. Ora era in grado di ricordare e parlare della sua bellissima figlia. «Non posso ringraziarvi abbastanza per tutto quello che lei fece per Paola e fa nostra famiglia», mi disse prendendomi la mano, «Lei è stata spesso nei nostri pensieri. La voglio ringraziare soprattutto per averci dato l'opportunità di aiutare tante persone. Questo ci ha dato la forza di continuare ad andare avanti,specialmente quando ci ritrovavamo a chiederci perché Paola morì così tragicamente». La signora Rossi continuò dicendo che il conforto al loro dolore era anche sapere che il cuore di Paola stava dando la vita a qualcuno la cui famiglia altrimenti sarebbe stata addolorata come fo erano loro. «Lo sa che ci sono persone che vedono con i suoi occhi? Pensiamo veramente che ella possa vedere ancora la bellezza di un tramonto!».

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IDEE

CAPIRE LA MORTE CEREBRALE

Un presupposto fondamentale per avviare il discorso sulla pratica dei trapianti di organo è quello di stabilire il confine tra la vita e la morte. Questo problema è stato tradizionalmente risolto con criteri che sono stati scardinati dall'introduzione della rianimazione. Il confine non passa più per le vie del respiro e della circolazione sanguigna, ma per quelle del funzionamento del cervello. L'osservazione e l'esperienza dei sensi sono state sostituite da criteri che dipendono dalla tecnologia medica. Le riflessioni di due infermieri americani qui riportate ci richiamano la difficoltà per le famiglie dei donatori a comprendere la morte del loro congiunto attraverso i criteri neurologici.

La maggior parte delle persone crede che la morte avvenga quando il cuore smette di battere e cessa la respirazione. Questo non è il caso della morte cerebrale. L'apparenza della vita continua, ma solo perché un ventilatore sta simulando ciò che sembra una normale respirazione e porta abbastanza ossigeno al cuore da permettere di continuare a battere. La pelle del paziente è ancora calda al tatto, ma clinicamente egli è cerebralmente morto. Il ventilatore viene tenuto in funzione fino a quando viene proposta alla famiglia la possibilità di donare gli organi e i tessuti. Se la famiglia acconsente alla donazione, un'équipe chirurgica provvede al prelievo. Qual è la differenza tra il coma (o stato vegetativo persistente) e la morte cerebrale? Un paziente in coma non è morto. Le onde cerebrali e le principali funzioni cerebrali sono presenti, e il corpo è ancora in grado di mantenere le funzioni omeostatiche vitali quali la regolazione della temperatura, la pressione sanguigna e la respirazione. La morte sopravviene quando il paziente è privo di onde cerebrali e delle principali funzioni cerebrali. Questo porta all'impossibilità di mantenere le funzioni omeostatiche senza l'aiuto meccanico.

Frank Chabalewski, Gaedke Norris,

The gift of life: talking to families about organ and tissue donation

COSA DICONO LE STATISTICHE?

L'attività dei trapianti in Italia è frenata soprattutto dalla scarsità delle donazioni da cadavere. Ce lo ricorda la maggiore agenzia italiana per il coordinamento dei trapianti, fornendo le cifre del ritardo italiano nei confronti di una delle frontiere più avanzate della medicina tecnologica.

Nel 1993, nonostante si sia rilevato un incremento di trapianti, l'Italia, con 6,2 donatori cadavere per milione di abitanti all'anno, si colloca all'ultimo posto in Europa, che presenta invece una media di 15,2. Il soddisfacimento del fabbisogno 1994 è stato nei Centri Italiani inferiore al 30% nel caso dei trapianti di rene, del 45% per cuore e fegato, da cui un aumento delle liste d’attesa con conseguente elevata mortalità. In Italia la sopravvivenza dei pazienti trapiantati arriva a valori a tre anni dell'80% per il cuore e del 70% per il fegato.

Esiste una disomogeneità per quanto riguarda le modalità operative, le liste d'attesa e la conoscenza di quanto realmente accade nel paese che ha determinato una progressiva divaricazione tra la domanda e l'offerta, con liste di attesa interminabili (alcuni mesi per il trapianto di fegato e cuore, alcuni anni per

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il trapianto del rene). L'insufficiente offerta dei trapianti induce a cercare il trapianto all'estero, con disagio dei pazienti e costi superiori. Alcuni paesi stranieri hanno limitato l'ingresso in lista per i pazienti italiani o avviato programmi di donazione mercenaria con conseguenti complicazioni cliniche.

Nord Italian Transplant - 1993

IMMAGINARIO SIMBOLICO E TRAPIANTOLOGIA

L'autore del testo è un antropologo. In quanto tale, è condotto dalla sua disciplina a considerare i comportamenti umani come dipendenti dallo specifico sistema di valori culturali di una popolazione. Ciò vale anche per pratiche come il dono del sangue o degli organi. Mentre nel linguaggio comune il dono significa la cessione di un bene che ci appartiene senza pretendere nulla in cambio, l'osservazione etnografica e gli studi antropologici, a partire da quelli prioristici di Marcel Mauss, hanno mostrato che in pratica ogni dono è di fatto seguito da un dono reso in cambio (contro-dono) e che questo movimento alterno di doni crea la reciprocità sociale.

Come altri tipi di dono culturalmente rilevanti, la donazione d'organi costituisce, per usare l'espressione di Mauss, un fatto sociale totale: vi si sovrappongono, infatti, e vi si intrecciano, fattori di ordine diverso, che vanno dagli aspetti medici della questione a quelli psicologici, economici, giuridici, etici, politici e religiosi. La donazione d'organi è inoltre un fenomeno morfologico, che presuppone adeguate strutture sociali e sanitarie, precisi accordi nazionali ed internazionali, banche di dati e reti di comunicazione. Un rigoroso approccio antropologico al problema non potrà dunque che essere globale, e dovrà necessariamente prendere in considerazione i diversi elementi in gioco, insieme alle loro molteplici correlazioni.

Gli studi antropologici sui problemi, estremamente attuali, della donazione e del trapianto conoscono oggi, a dire il vero, un notevole ritardo rispetto a quelli medici. Ciò è perfettamente comprensibile, in quanto il fenomeno dei trapianti è relativamente recente e il lavoro di ricerca convergeva inizialmente sulle questioni di più stretta pertinenza biomedica. Le stesse ricerche di psichiatria e di psicologia su questi temi sono ancora relativamente scarse, benché di estremo interesse per le interpretazioni e le ipotesi cui aprono la strada: la donazione di organi e i trapianti chirurgici costituiscono in effetti un nuovo, drammatico regno dell'esperienza umana e offrono importanti opportunità di studio del comportamento umano.

Credo che l'importanza di un approccio antropologico ai fini di una corretta campagna di informazione e di educazione sui temi del trapianto e della donazione di organi risieda proprio nella prospettiva globale che l'antropologia adotta, e nella particolare attenzione prestata alle implicazioni culturali del problema. Noi sappiamo che il migliore dei programmi non approda a nulla o incontra quanto meno delle formidabili resistenze se non tiene conto dell'opinione pubblica e non si inserisca in un clima economico favorevole.

Dovremo interrogarci sulle rappresentazioni e i valori culturali che si accompagnano, in una determinata società, al dono ― e al trapianto ― di una specifica componente del corpo umano, sia essa il sangue o un organo solido. E chiederci quali, fra questi valori e rappresentazioni, possano costituire degli ostacoli, delle resistenze non solo in rapporto al dare, ma allo stesso ricevere.

Le resistenze che si registrano nel campo della donazione e del trapianto di organi hanno radici e motivazioni profonde, la cui comprensione è indispensabile, perché il superamento di questi ostacoli possa compiersi nel massimo rispetto della libertà e della soggettività umana.

Roberto LionettiAspetti socio-culturali nella donazione e nel trapianto di organi

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CONTRATTO (COMPRAVENDITA) O DONO?

Il dono può sembrare qualcosa di arcaico, rispetto a una società in cui tutto viene ridotto a merce, cioè a un bene dì consumo acquistabile sul mercato. Il sociologo Godbout, invece, ci induce a osservare che esiste ancora uno scambio di doni che regola e punteggia le relazioni quotidiane dell'uomo contemporaneo. Se questo è vero per l'offerta di un caffè al bar, lo è molto di più quando si tratta del dono di organi.

A differenza di quel che accade per il sangue, il commercio di organi è in generale proibito, anche se di fatto viene praticato. Esiste un mercato nero. Si trova in India un mercato aperto di reni e anche di occhi di donatori viventi. Le persone ricche vengono da tutto il mondo per acquistare. I paesi anglosassoni sono tentati dalla prospettiva della legalizzazione della vendita.

Se la parola chiave dei giuristi anglosassoni è il contratto, quella dei giuristi e delle autorità della bioetica francesi sarebbe il dono. Il direttore di France-Transplants si preoccupa della diminuzione del numero dei donatori dichiarati e vorrebbe che si desse la possibilità di fare iscrivere il proprio rifiuto di donare in uno schedario centrale consultabile tramite computer. Questa proposta permetterebbe ai medici che prelevano gli organi di opporsi con maggiore efficacia che non oggi alle reticenze delle famiglie.

Ma se tutti sono automaticamente donatori, dov'è il dono? Non è proprio perché si tratta sempre meno di dono che il numero di donatori spontanei diminuisce? E perché le famiglie riaffermano di essere le vere proprietarie dei corpi morti? Ma in modo più sostanziale il principio del dono presunto permette l'affermazione della preminenza dello Stato nazionale su tutti gli altri soggetti di diritto e tende a operarsi insensibilmente uno slittamento dal dono presunto alla percezione di una sorta d'imposta.

Jacques T. GodboutLo spirito del dono

IL DONO DI RENE TRA VIVENTI

Inizialmente, questo rapporto consiste nella maggior parte dei casi in un legame personale... di parentela diretta, di sangue, perché in tal caso la compatibilità biologica è massima e minima la probabilità di rigetto. Al di fuori della famiglia, questo dono rischia dunque di non essere "ricevuto"! Per i donatori, si tratta nella maggior parte dei casi dell'atto più importante della loro vita: per tutti coloro che hanno donato un rene, questo gesto si è rivelato come l'esperienza più significativa della loro vita. Quel dono non sarà mai restituito nel senso contabile, economico; nonostante questo carattere unilaterale, le testimonianze stanno a indicare che la restituzione è immensa. I donatori sono trasformati: le loro testimonianze ricordano i testi che descrivono i riti d'iniziazione, di ''nuova nascita" ecc. Ciò avvicina in modo inatteso il dono dì organi e lo scambio arcaico. Per un atto così importante e grave come il dono di un rene, si constata che l'uomo non si comporta conformemente ai postulati utilitaristici, che non calcola.

Jacques T. GodboutLo spirito del dono

UN CIRCUITO DI SOLIDARIETÀ

L'esortazione morale a essere generosi, mettendo a disposizione i propri organi dopo la morte per salvare la vita di un altro essere umano, ma sembra essere sufficiente

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a creare una disponibilità di organi in misura proporzionata ai bisogni. Di fronte alla situazione di carenza, alcuni propongono una specie di appropriazione degli organi delle persone decedute da parte della società, che così procederebbe quasi d'ufficio a rendere praticabile la solidarietà. Il senso della proposta qui ripresa, invece, è quello di indurre in modo pedagogico ad essere solidali, creando percorsi privilegiati per coloro che si dichiarano per la solidarietà.

I trapianti di organo soffrono di mancanza di misura. Prima un entusiasmo acritico: non abbiamo ancora dimenticato gli anni in cui Barnard, dopo aver eseguito il primo trapianto di cuore, è diventato dall'oggi al domani una celebrità. Oggi, al contrario, un'ondata di condanne senza appello, influenzata soprattutto dalle notizie relative a comportamenti condannabili dal punto di vista morale: commercio di organi, prelievi non autorizzati, addirittura omicidi perpetrati per avere "pezzi d'uomo". Quante di queste notizie sono fondate e attendibili? Quanto va, invece, addebitato alla fiorente fabbrica delle "leggende metropolitane", quelle storie false ma verosimili che si diffondono a macchia d'olio tra la gente? Coloro che per mestiere devono fornire le informazioni, nei giornali o alla televisione, molto spesso non sono d'aiuto per rispondere a queste domande.

I trapianti hanno cattiva stampa nel duplice significato dell'espressione: se ne parla male, e se ne parla in modo incompetente. Giornalisti e conduttori televisivi non si impegnano a riportare il discorso sulla terra ferma dei fatti e della ragione. Rimestano nelle emozioni, aggiungendo tocchi di colore. Si diffonde così presso il pubblico ― che in Italia non ha mai brillato per il grado di informazione scientifica ― un'immagine grossolana delle pratiche dei trapianti. Il coma viene confuso con la morte cerebrale. Si accredita la fantasia di pratiche di prelievo di organi fatte artigianalmente nelle camere mortuarie, quando invece proprio la tecnologia richiesta impedisce la clandestinità. Cresce così la diffidenza verso ogni forma di trapianto. I medici che li eseguono sentono crescere il malessere attorno a sé, quasi fossero dediti a un'attività riprovevole. La disponibilità a donare organi decresce. Siamo già in Europa il Paese con minor numero di donazioni, seguiti solo dalla Grecia; il futuro è ancora più nero.

Ora che i Paesi europei ai quali eravamo soliti rivolgerci per i trapianti hanno dichiarato che non sono più disponibili a fornirci organi, in assenza di un impegno da parte nostra a favorire le donazioni, dovremo dichiarare conclusa l'epoca dei trapianti?

Finora si è cercato di accrescere la disponibilità alle donazioni di organi mediante esortazioni morali. Resta l'unica via praticabile, dal momento che si è consensualmente esclusa la commercializzazione degli organi. Ma l'educazione non esclude forme lecite di pressione. Una potrebbe essere quella di avviare una specie di circuito della solidarietà. Potremmo forse prevedere che, in caso di necessità, abbiano accesso agli organi coloro che si sono dichiarati disponibili alla donazione dei propri organi dopo la morte. Mentre in tal modo non sarebbe violentata la coscienza di coloro che avversano i trapianti, si creerebbe una ideale rete dì interscambio tra coloro che, essendo disposti a donare gli organi, si candidano a riceverne. Gli organi non piovono dall'alto. Con il circuito della solidarietà si potrebbe indurre i cittadini a giocare un ruolo attivo nella promozione dei trapianti.

Sandro SpinsantiPer i trapianti propongo un circuito di solidarietà

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NORME

LEGISLAZIONE

Prelievi da vivente

Non sono ammessi i soli prelievi che comportino la perdita della vita del donatore (per esempio organi unici o dispari, cuore, pancreas, ecc.) o un danno consistente o irreparabile alla sua salute, anche psichica (vedi art. 5 cc).Sono quindi in tali limiti leciti i trapianti di determinate quantità di sangue e di pelle, frammenti di osso, midollo osseo, segmenti di tendine e di vaso sanguigno. Di tali parti del corpo puoi perciò disporre liberamente, ma solo a titolo gratuito (cioè senza ricevere alcun compenso). È sempre necessario il tuo consenso, che non può essere sostituito da alcuno "stato di necessità" o altra ricostruzione più o meno presuntiva della tua volontà. In nessun caso sei obbligato a dare il tuo consenso.

Amedeo SantosuossoGuida per conoscere e salvaguardare i tuoi diritti

Prelievo di rene

Art. 1 In deroga al divieto di cui all'art. 5 del codice civile, è ammesso disporre a titolo gratuito del rene al fine del trapianto tra persone viventi. La deroga è consentita ai genitori, ai figli, ai fratelli germani o non germani del paziente che siano maggiorenni purché siano rispettate le modalità previste dalla presente legge. Solo nel caso che il paziente non abbia consanguinei di cui al precedente comma o nessuno di essi sia idoneo o disponibile, la deroga può essere consentita anche per altri parenti e per donatori estranei.

Art. 2 L'atto di disposizione e destinazione del rene in favore di un determinato paziente è ricevuto dal pretore del luogo in cui risiede il donatore o ha sede l'istituto autorizzato al trapianto. La donazione di un rene può essere autorizzata, a condizione che il donatore abbia raggiunto la maggiore età, sia in possesso della capacità di intendere e di volere, sia a conoscenza dei limiti della terapia del trapianto del rene tra viventi e sia consapevole delle conseguenze personali che il suo sacrificio comporta. Il pretore, accertata l'esistenza delle condizioni di cui al precedente comma e accertato altresì che il donatore si è determinato all'atto della donazione di un rene liberamente e spontaneamente, cura la redazione per iscritto delle relative dichiarazioni. L'atto, che è a titolo gratuito, è sempre revocabile sino al momento dell'intervento chirurgico e non fa sorgere diritti di sorta del donatore nei confronti del ricevente.

Legge 458/67

Prelievi da cadavere

È ammesso a fine di trapianto terapeutico il prelievo di tutte le parti di un cadavere, a eccezione dell'encefalo e delle ghiandole della sfera genitale e della procreazione, il cui prelievo è vietato. I requisiti della diagnosi di morte cerebrale sono indicati con precisione dalla legge del 1975 (n.644/75).

È vietato il prelievo da cadavere di persona che in vita ha negato esplicitamente il suo assenso. I sanitari devono proporre il prelievo in modo formale al coniuge non separato o, in mancanza, ai figli di età superiore ai 18 anni o, in mancanza di questi ultimi, ai genitori. Ognuno di questi familiari, se interpellato, può proporre opposizione scritta (ai sanitari che hanno proposto il prelievo) entro il tempo di osservazione (12 ore) necessario per la diagnosi di morte cerebrale. In mancanza si procede al prelievo. Il prelievo è sempre possibile dai cadaveri sottoposti ad autopsia disposta dalla magistratura o dai sanitari".

Amedeo SantosuossoGuida per conoscere e salvaguardare i tuoi diritti

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Accertamento della morte

"L'accertamento della morte, è un dovere del medico indipendentemente da qualsiasi altro finalismo (trapianti) e impone, comunque, la sospensione delle terapie. Se sussistono le condizioni è doverosa la segnalazione del possibile donatore e l'inizio delle procedure atte al sostegno della funzione degli organi da trapiantare".

Comitato Nazionale per la BioeticaDefinizione e accertamento della morte nell'uomo

NORME MORALI

Donazione e trapianto di organi nell'insegnamento cattolico

Il progresso e la diffusione della medicina e chirurgia dei trapianti consente oggi la cura e la guarigione di molti malati che fino a poco tempo fa potevano soltanto attendersi la morte o, nel migliore dei casi, un'esistenza dolorosa e limitata. Questo "servizio alla vita" che vengono così ad assumere la dimensione e il trapianto di organi ne delinea il valore normale e legittima la prassi medica. Nel rispetto però di alcune condizioni, relative essenzialmente al donatore e agli organi donati e impiantati (...).

L'intervento medico nei trapianti è inseparabile da un atto umano di donazione. In vita o in morte, la persona da cui si effettua il prelievo deve potersi riconoscere come un donatore, come uno cioè che consente liberamente al prelievo.

Il trapianto presuppone una decisione anteriore, libera e consapevole da parte del donatore o di qualcuno che legittimamente lo rappresenti, di solito i parenti più stretti. È una decisione di offrire, senza alcuna ricompensa, una parte del corpo di qualcuno per la salute e il benessere di un'altra persona. In questo senso l'atto medico del trapianto rende possibile l'atto di oblazione del donatore, quel dono sincero di sé che esprime la nostra essenziale chiamata all'amore e alla comunione.

La possibilità, consentita dal progresso bio-medico, di proiettare oltre la morte la loro vocazione all'amore deve indurre le persone a offrire in vita una parte del proprio corpo, offerta che diventerà effettiva solo dopo la morte. È questo un atto di grande amore, quell'amore che dà la vita per gli altri.

Iscrivendosi in questa "economia" oblativa dell'amore, lo stesso atto medico del trapianto e persino la semplice trasfusione di sangue, non è un intervento come un altro. Esso non può essere separato dall'atto di oblazione del donatore, dall'amore che dà la vita.

Qui l'operatore sanitario diventa mediatore di qualcosa di particolarmente significativo, il dono di sé compiuto da una persona ― perfino dopo la morte ― affinché un altro possa vivere.

Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitariCarta degli operatori sanitari

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Comportamenti

QUALE RELAZIONE CON LA FAMIGLIA?

I familiari, che vivono la tragedia di un loro parente in rianimazione, vedono l'immagine della morte nella rappresentazione simbolica dell'area di degenza strutturata per salvare una vita in pericolo. Gli infermieri hanno un ruolo decisivo nella cura dei potenziali donatori e, nel caso sia accertata la morte, nel collaborare all'informazione sul prelievo di organi.

Uno dei problemi è la difficoltà dei familiari a credere nella morte del proprio parente con cuore battente, polmoni che si espandono ritmicamente, grazie alla respirazione assistita, e una temperatura corporea vicina a quella normale. Essi alternano un'idea di vita a una di morte, aggrappandosi al minimo segno di recupero che può derivare dal calore e dal movimento di quel corpo negando, spesso, la diagnosi di morte cerebrale e rifiutando il consenso all'espianto. La diagnosi di morte, se pur corretta, può essere vista con paura che il personale non si sia impegnato a salvare la vita del malato.

L'informazione incongrua ― nel caso descritto in "Il dilemma di una madre1' il medico dice: «Probabilmente il suo cervello è morto» ― potrebbe essere vista con sospetto. I familiari si pongono tutta una serie di domande: «È realmente morto? Sono stati effettuati tutti gli interventi medici necessari? Qual è il momento esatto della morte?». Emerge la paura della morte, delle esequie premature, dell'esproprio arbitrario di organi (cfrImmaginario simbolico e trapiantologia). Si crea una ambivalenza di sentimenti: gratitudine per le cure prestate al congiunto, aggressività e ansia verso gli operatori che sembrano sottoporre il loro caro a sofferenze.

Uno dei fattori importanti è la relazione instauratasi tra l'équipe e i familiari, soprattutto al momento della richiesta di prelievo. I risultati di una ricerca del Nord Italian Trasplant sottolineano:

1) una figura di donatore di giovane età, di sesso maschile e dalla causa accidentale di morte;

2) il consenso è accordato più frequentemente dai genitori, forse per i "legami di sangue" che aiutano psicologicamente (essi vivono di più il senso di proprietà del corpo di un figlio morto);

3) l'importanza di contattare il maggior numero di congiunti, perché possano appoggiarsi nel dolore e arrivare alla decisione condividendone la responsabilità;

4) sviluppo di dissidi e forme psicopatologiche in alcune famiglie che hanno deciso circa il prelievo degli organi;

5) la necessità che sia sempre lo stesso medico a coltivare questa relazione.

Per chiarire i concetti legati alla morte cerebrale (cfr. "Capire la morte cerebrale") occorre instaurare un rapporto di fiducia fra familiari, medici e infermieri. Nell'équipe si individuerà il medico più sensibile e competente, oppure l'infermiere professionale evidenziatosi per capacità relazionali ed empatiche. Il gruppo dei sanitari dovrà affrontare l'aggressività dei parenti, ponendosi con serietà e umanità, senza distanziarsi emotivamente.

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Nel momento in cui si dà l'informazione dell'irreversibilità della condizione di morte, l'infermiere può assolvere al ruolo di "mediatore interculturale". Questo si attiva quando la famiglia del malato chiede di "tradurre" i termini, le parole comunicate dal medico o quando, posto il consenso, il parente rivolge domande tipo: «Che cosa farebbe se fosse al mio posto?». Infermieri sensibili e preparati dovranno essere coscienti dell'importanza della loro funzione e sostenere nella decisione.

Oltre all'assistenza diretta del potenziale donatore, l'infermiere ha funzione di consigliere, di guida; può offrire counseling, in un rapporto che deve essere costruito e mediato, partecipando con empatia ai problemi che sconvolgono quel nucleo famigliare, con sostegno umano, incoraggiando la riflessione. L'intensità di questi momenti e il valore del binomio morte-vita condizionano in modo drammatico la relazione di aiuto. Per quanto riguarda il donatore, egli viene accolto, accudito come persona, conosciuto dagli infermieri che assistono al suo aggravarsi fino alla compromissione irreversibile della sua specificità di persona umana. Il personale vive direttamente l'esperienza della "perdita" ed è inevitabile che si interroghi sul senso della vita e della morte e si specchi m quella situazione, riflettendo sul proprio destino.

Non è facile provare l'inquietudine per la definitiva separazione dal donatore e, contemporaneamente, prospettare che la fine di quell'esistenza diventerà una nuova possibilità di vita. Chi riesce ad arrivare a una sorta di equilibrio interiore, in questa terapia di frontiera, è passato per un lungo processo di evoluzione personale e professionale. Questa può essere una risposta alle domande che scaturiscono dal primo caso ("Il dilemma di una madre"), in cui emerge un gruppo professionale coinvolto emotivamente. Uno degli ostacoli è l'ansia che medici e infermieri provano nello spiegare la realtà della morte e la successiva richiesta di donazione. La società assegna al medico l'onere di comunicare la diagnosi, all'infermiere quello di condividerlo, senza rendersi conto di quanto sia difficile parlare di morte.

Per ovviare a questa difficoltà si è sentita la necessità di creare un programma europeo di educazione alla donazione, l'"European Donor Hospital Educational Program (EDHEP)", con lo scopo di addestrare il personale a instaurare un clima adatto per discutere la donazione di organi. Nel decorso postoperatorio dei pazienti trapiantati, specie da donatore morto, si può sviluppare una reazione psicologica legata al mutamento della immagine corporea (depressione, deliri, psicosi). L'alterazione dell'identità dell'io può essere legata sia al conflitto vita-morte, sia all'organo trapiantato visto come parte di un altro individuo morto o vivente. Ne è consapevole Gianni, il giovane trapiantato di rene che ci ha raccontato la sua storia "Una nuova possibilità di vita".

Nel ricevente può emergere la paura di aver rubato al donatore parti vitali e pertanto può derivarne una regressione, fino a veri e propri disturbi psicotici. L'alleanza terapeutica medico-infermiere-paziente deve considerare attentamente le componenti psicologiche, organiche e ambientali allo scopo di:

● facilitare l'accettazione psicologica del nuovo organo;

● aiutare il reinserimento nell'ambiente socio-familiare;

● sviluppare l'autonomia cognitiva, affettiva e comportamentale;

● stimolare il progetto della vita futura del paziente.

Per ottenere ciò è necessario un rapporto professionale che tenda alla qualità e che supporti i bisogni, senza sottovalutare le ripercussioni profonde che i trapianti determinano nella psiche e nel vissuto del paziente.

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QUESTIONI ORGANIZZATIVE

L'équipe infermieristica assiste il paziente donatore d'organo con l'obiettivo di preservare dal deterioramento funzionale gli organi, fino a quando verrà eseguito l'intervento di prelievo. I potenziali donatori sono pazienti particolarmente impegnativi, sia perché richiedono un monitoraggio accurato con aggiustamenti terapeutici continui, sia per il coinvolgimento emotivo. La fase che precede l'inizio dell'osservazione delle attuali sei ore risulta molto laboriosa, in quanto prevede tutti ì prelievi atti alla tipizzazione istologica. L'infermiere assume un ruolo primario nella conoscenza del protocollo operativo, nell'instaurare i contatti con i centri e i diversi operatori e nel pianificare le fasi prestabilite. Da ciò deriva un aumento dei carichi di lavoro, con una ricaduta sull'organizzazione dell'assistenza che subisce modificazioni che coinvolgono tutta l'équipe. Non sempre l'aumento di prestazioni infermieristiche è accompagnato da un maggiore numero di personale e da una efficace formazione permanente.

Nel campo trapiantologico l'integrazione tra i membri dell'équipe pluridisciplinare costituisce un punto di forza per il risultato del prelievo d'organo e dell'assistenza degli altri pazienti. E necessario l'adeguamento costante del livello di formazione professionale alle prestazioni erogate: la figura infermieristica assume connotazione di professionalità, ben oltre un ruolo puramente esecutivo. Se il personale infermieristico non ha l'opportunità di approfondire i temi del prelievo e del trapianto, può creare ostacoli vedendo in questo impegno un aggravio lavorativo e psicologico.

Le nostre rianimazioni e terapie intensive, rispetto ad altri paesi, dispongono di un insufficiente numero di letti attrezzati, hanno carenze di personale, difficoltà sia di accesso ad altri servizi di diagnosi e cura dell'ospedale (TAC, elettroencefalografia), sia di convocare la commissione medico-legale per l'accertamento della morte cerebrale. Questo carico assistenziale può essere aggravato, a livello psicologico, da un mancato riscontro obiettivo dei risultati del proprio lavoro, relativamente alle condizioni del paziente. Infatti egli è morto e dovrà subire l'espianto entro poco tempo; quindi non è l'uomo malato che si cura, bensì i suoi organi che potranno essere fonte di vita per altri. Questo passaggio culturale è tutt'altro che facile, perché prevede sia il confronto con i familiari che esprimono il dolore per la perdita subita, sia il massimo impegno per pazienti con cui non è possibile instaurare alcun rapporto aperto al futuro.

LINEE GUIDA

Identificare un potenziare donatore e proporre il consenso a una famiglia addolorata richiede una delicata comunicatività e una completa conoscenza del processo della donazione che solo una formazione continua può dare. La formazione di base e permanente dovrebbe approfondire la tematica del prelievo e trapianto di organi dal punto di vista biomedico, giuridico ed etico, al fine di sviluppare un interesse professionale e culturale. Non basta chiedere: «Volete donare gli organi?». La famiglia ha bisogno di una informazione specifica e l'operatore deve possedere salde conoscenze per interagire.

Una strategia che il caposala, insieme agli infermieri e ai sanitari dell'Unità operativa, può pianificare è quella dell'uso di protocolli atti a favorire una comunicazione adeguata. Sulle seguenti linee guida c'è un ampio consenso:

1) il colloquio con la famiglia dovrebbe essere avviato al più presto;

2) la scarsa disponibilità di tempo spesso rende difficile il colloquio continuo del medico con le famiglie; pertanto, il compito potrebbe essere delegato agli infermieri, concordando precisamente affinché chiariscano che il designato sta parlando per conto del sanitario;

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3) porre domande alle famiglie per stabilirne il livello socio-culturale, identificarne i pregiudizi nei confronti della malattia (molti non conoscono il funzionamento del corpo umano), le aspettative;

4) verificare che capiscano quello è stato comunicato, ponendo domande esplicite per capire, dalle loro risposte, se hanno compreso quanto è stato detto;

5) per far capire che il personale vede il loro caro come persona, è importante usare il nome del paziente;

6) non usare termini complessi e frasi forbite che creano confusione;

7) discutere precocemente il piano terapeutico e le possibili evoluzioni, visualizzando ciò che risulta astratto al fine di far comprendere meglio il danno subito;

8) affermare chiaramente, citando il suo nome, che il paziente è morto, evitando perifrasi quali: «È perso, è spirato, se ne è andato...».

Nel momento in cui si discuterà della morte cerebrale del potenziale donatore, occorre:

a) non insinuare che la morte cerebrale è predittiva di morte, bensì affermare chiaramente che il paziente è già morto;

b) non usare termini come "supporto meccanico delle funzioni vitali" al posto dell'utilizzo del "respiratore", in quanto può indurli a credere che il paziente sia ancora vivo;

c) essere sicuri che capiscano che il paziente è morto, in quanto la presenza del battito cardiaco ed eventuali movimenti possono dare l'impressione di vita, impedendo di credere alla morte.

Anche se questa è un'esperienza difficile, quanto più la richiesta viene espressa correttamente e con sensibilità, tanto più le famiglie ne trarranno beneficio a breve e lungo termine, sia che scelgano di donare o no. Alcune indagini evidenziano, infatti, la frustrazione di coloro a cui nessuno ha prospettato questa eventualità. Tutto ciò richiede uno sforzo congiunto da parte di tutto lo staff, lasciando però il tempo alla famiglia di accettare la realtà della morte.

La morte e la donazione non si dovrebbero mai discutere nello stesso tempo, come invece è avvenuto nel caso rappresentato dal "Dilemma di una madre". La donazione non deve essere prospettata finché i parenti non hanno ancora avuto il tempo di capire che c'è stato un decesso. La donazione potrebbe essere introdotta con frasi tipo: «Io vorrei chiedervi se voi avete mai discusso della donazione con vostro figlio...», «Il nostro ospedale offre alle famiglie la possibilità di donare organi e tessuti...». La famiglia non deve sentirsi obbligata, bensì con possibilità di scelta (cfr. "Un circuito di solidarietà").

Gli aspetti positivi di una donazione di organi sono descritti da "Una figlia morta, che vede ancora tramonti". La madre esprime sollievo e speranza nella certezza che dalla morte improvvisa della figlia altri potranno ancora vivere. Infatti la donazione può avere un effetto positivo sulle famiglie, aiutandole a sopportare la perdita nel rispetto del desiderio implicito o esplicito del loro caro.

Occorre essere coscienti che le paure più frequenti sono:

● una profanazione del corpo a causa dell'espianto. Occorre chiarire che la salma verrà ricomposta con intervento chirurgico e che il prelievo degli organi (ad es. le cornee) non altera l'aspetto del viso;

● l'uso non corretto ed etico degli organi donati. È necessario spiegare che l'assegnazione degli organi viene effettuata da un'organizzazione legale che ne regola la distribuzione, assicurando la trasparenza del sistema, dato che il commercio clandestino di organi è un illecito penale;

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● la sofferenza del proprio caro. Occorre spiegare che il cervello di un paziente morto non ha la capacità di trasmettere dolore.

Riguardo all'aspetto religioso e culturale, gli infermieri dovrebbero sapere anche che tutte le principali religioni permettono la donazione di organi. Per esempio, la religione cattolica ed ebraica considerano la donazione non solo conforme alle esigenze morali, ma estensione di principi teologici della creazione, della giustizia e dell'amore. Tuttavia bisogna sapere che alcune religioni sono contrarie al trapianto di organi, perché considerano l'integrità del cadavere come inviolabile. Tale è la posizione, ad esempio, dell'islamismo. La diffusione nel nostro paese di numerosi islamici deve renderci attenti a non violare la coscienza degli altri mediante pratiche non ammesse. Coloro che pongono quesiti di ordine religioso dovrebbero avere l'opportunità di un colloquio con il rappresentante di culto.

Un aspetto da sviluppare è quello dell'attività di assistenza psicologica alle famiglie dei donatori e ai pazienti trapiantati. Basilare, infine, è la formazione psicologica degli anestesisti-rianimatori e del personale infermieristico mediante riunioni con tecnica ispirata ai gruppi Balint, con l'obiettivo di dare loro supporto nella gestione dei rapporti con le famiglie dei donatori e di valutare il grado di benessere-malessere derivante dall'attività professionale, al fine di prevenire la sindrome del burn-out.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Nord Italian TransplantReport 1993, Centro trasfusionale e di immunologia dei trapianti dell'Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, 1994.

Santosuosso A., Guida per conoscere e salvaguardare i tuoi diritti, 1993, II ed., Hoepli, Milano.

Spinsanti S., Per i trapianti propongo un circuito di solidarietà, in Corriere Salute, 11 aprile 1994.

PER APPROFONDIRE

Antonioli M. e Brenna E., Le regole per l'accertamento di morte, in Prospettive Sociali e Sanitarie, 1994, n. 11.

Bompiani A. e Sgreccia E. (a cura di), Trapianti d'organo, Vita e Pensiero, Milano, 1989.

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Comitato nazionale per la BioeticaDefinizione e accertamento della morte, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1991, Roma.

Comitato nazionale per la BioeticaTrapianti di organi nell'infanzia, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1994, Roma.

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16

RICERCA E TERAPIE SPERIMENTALI

FATTI

Il consenso alla sperimentazione non è un semplice permesso

Dopo un dramma, un'équipe impara a discutere

IDEE

Dall'autobiografia di un malato di Aids

L'angoscia della scelta tra terapie alternative

Un po' di storia

E la storia continua ai nostri giorni

La Comunità Europea regolamenta l'uso dei prodotti farmaceutici a uso clinico

NORME

● Diritti Umani

● Norme Deontologiche

● Legislazione

COMPORTAMENTI

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IL CONSENSO ALLA SPERIMENTAZIONE NON È UN SEMPLICE PERMESSO

Alberto, 18 anni, è entrato a far parte della squadra provinciale di pallanuoto. Si allena regolarmente in piscina fin dall'età di 8 anni e ha sempre ottenuto degli ottimi risultati. Quando è passato alla squadra di categoria superiore, l'allenatore e i suoi amici erano sinceramente dispiaciuti per la perdita di un amico e di un valido giocatore; erano anche soddisfatti perché questo fatto dava "notorietà" alla loro squadra.

Alla prima visita medica sportiva, obbligatoria per poter proseguire nel gioco, l'elettrocardiogramma rivela una aritmia. Da quel momento inizia per Alberto una tormentata storia di controlli settimanali e di sperimentazioni presso il centro cardiologico della città più vicina. Il suo si dimostra fin da subito un caso complesso. I vari trattamenti farmacologici e gli studi a cui viene sottoposto non si rivelano efficaci. Lo studio prevede di portare il cuore di Alberto a una fibrillazione indotta e in questa situazione introdurre il farmaco per via endovenosa; se non si verifica la cardioconversione, sarà necessario rianimare il soggetto col defribillatore. Tutto ciò deve avvenire in breve tempo per far sì che il soggetto non passi alla morte. Per Alberto questi studi sono stati circa otto. Alla fine, visti tutti questi fallimenti, il medico gli consiglia di sottoporsi a impianto di defribrillatore come unica possibilità ormai rimasta.

Per noi infermieri è un caso umano drammatico, sia per la giovane età, sia per il fatto che ormai ci siamo molto affezionati a lui. Durante le sue brevi ma frequenti degenze abbiamo modo di parlare molto con lui e assistiamo con l’andare del tempo a un cambiamento dell'atteggiamento di Alberto verso la medicina. Da un primo iniziale entusiasmo e fiducia verso una possibilità di cura, il suo atteggiamento diventa critico verso tutto. Ha sempre da sottoporci le sue lamentele su aspetti marginali dell'assistenza e non parla mai del vero problema e della paura sempre più pressante di morire e del suo rancore verso quella situazione che lo rende così dipendente dai medici e dalla medicina.

Alla proposta del medico di sottoporsi all'impianto di defribillatore è confuso sul da farsi. Ormai la sua paura di un nuovo insuccesso è grande e anche le garanzie mediche non sono rassicuranti perché quel tipo di intervento è ancora in fase sperimentale e non si hanno dati sicuri sull'efficacia e su eventuali problemi che successivamente all'impianto potrebbero subentrare. Chiede consigli sul da farsi a tutti; alcuni medici dimostrano la loro titubanza verso il trattamento e non incoraggiano Alberto a sottoporvisi, altri lo vedono come un rimedio di sicura efficacia.

Una sera, al termine del turno di servizio, Alberto saluta me e la mia collega perché il giorno dopo avrebbe lasciato l'ospedale firmando la cartella clinica per l'autodimissione: era sicuro che per ora non avrebbe fatto nessun altro intervento, lasciava decidere al suo destino. A distanza di alcuni anni Alberto sta bene, ha lasciato il mondo del nuoto e prosegue negli studi, non ha più arato bisogno di ricorrere alle cure cardiologiche.

Questo caso ci ha aperto molti interrogativi e ha messo in discussione la nostra passività di infermieri verso alcune decisioni mediche importanti per il futuro di pazienti che noi assistevamo quotidianamente. La sperimentazione sui pazienti di trattamenti sia farmacologici che tecnologici era per noi una prassi medica comune nel nostro reparto. Non ci eravamo mai posti interrogativi riguardo il ruolo più attivo che noi infermieri potevamo avere verso le problematiche che queste determinavano sui pazienti, sulle loro possibilità di reale scelta di trattamenti alternativi, sul reale consenso informato alle cure.

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DOPO UN DRAMMA, UN'ÉQUIPE IMPARA A DISCUTERE

Il signor Vittorio ha 79 anni, è vedovo da sei e ha tre figli già sposati da alcuni anni. Da quando è morta la moglie vive da solo, ma questo non gli ha portato nessun problema perché è inserito molto bene nel circolo per la terza età del suo rione; ha molti amici che qualche volta invita a casa sua per la cena, cucinando per loro.

Negli ultimi tempi il signor Vittorio è particolarmente stanco e sente un "malessere" generalizzato. Si rivolge al proprio medico, il quale gli prescrive alcune indagini diagnostiche che evidenziano una diagnosi di "aplasia midollare primitiva". Al signor Vittorio non viene comunicata la diagnosi reale; il medico gli consiglia il ricovero in ospedale per fare altri controlli più approfonditi per una malattia del sangue tipo "anemia".

Al momento del ricovero l’infermiera trova il signor Vittorio molto stanco e debole; presenta petecchie alla mucosa del cavo orale e la temperatura corporea è di 38,5° C. Il medico di reparto durante la visita informa il signor Vittorio che per evitare infezioni, visto il suo stato di debolezza e la sua anemia, dovrà essere isolato in una stanza singola e si dovranno ridurre le visite dei suoi amici. Il signor Vittorio esprime al medico il suo disagio per essere quasi all'oscuro della sua malattia dopo tutti gli esami a cui si è sottoposto: «se l'è cavata sempre da solo» e la sua indipendenza dagli altri è sempre stato il suo orgoglio. Dopo la visita il medico incontra i figli del signor Vittorio, li informa della diagnosi reale e concordano per il momento di non dire la gravità della malattia al padre.

Nei giorni successivi il signor Vittorio viene sottoposto agli esami ematici di controllo, all'aspirato midollare, alla biopsia osteo midollare ed esami colturali che confermano la diagnosi di aplasia midollare. Il signor Vittorio parla poco, ha perso interesse per ciò che lo circonda, è inappetente, nelle attività quotidiane deve essere aiutato dall'infermiere per la sua crescente astenia. Spesso durante gli interventi assistenziali ripete che, piuttosto che dover sempre dipendere dagli altri in quel modo, avrebbe preferito farla finita. La caposala, informata dalle infermiere circa l'atteggiamento del paziente, riferisce la situazione al medico e invita i familiari a passare maggior tempo con il signor Vittorio.

Il medico convoca i familiari e propone un nuovo protocollo sperimentale, che in questi casi viene utilizzato per le crisi di rigetto nei trapianti d'organo. Li informa sui possibili effetti collaterali come shock, trombocitopenia e broncospasmo. I familiari accettano il trattamento e chiedono al medico di informare il padre, senza rivelare la vera diagnosi, in modo da fargli accettare la cura. Il medico informa il signor Vittorio della nuova terapia per l'anemia assicurandogli che se tutto fosse andato bene ben presto sarebbe potuto tornare a casa.

Il paziente accetta la cura proposta passivamente, sembra essere privo della forza di reagire e chiedere chiarimenti: è peggiorata, infatti, la sua apatia verso l'ambiente e le persone che lo circondano. I familiari trascorrono con lui i pomeriggi a turno; non sono consentite altre visite per prevenire gravi infezioni. Sempre più spesso il signor Vittorio riferisce che la sua vita ormai non ha più senso, è umiliato dal fatto di non essere autonomo come prima nelle sue attività, di non vedere pili i suoi amici: vuol mettere fine a "queste torture", come definisce lui le indagini diagnostiche. La caposala chiede ai parenti di aumentare la loro presenza perché seriamente preoccupata ddl'atteggiamento del paziente; organizza le attività del personale di assistenza e degli studenti infermieri per fare in modo che ci sia quasi sempre qualcuno nella stanza del signor Vittorio.

Un mattino verso le 6 il signor Vittorio si getta dalla finestra della sua stanza di ospedale. Per la caposala e gli infermieri questo evento è stato molto destabilizzante verso le sicurezze acquisite con la routine e l'esperienza di reparto. Gli interrogativi maggiori riguardavano il loro ruolo passivo

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verso le scelte mediche, la verità e la menzogna ai malati terminali, il consenso alle cure e ai nuovi protocolli sperimentali, all'atteggiamento di tipo esecutivo da parte degli infermieri nella somministrazione dei farmaci. Nel reparto, da quell'episodio, si sono attivati momenti di confronto programmato fra medici ed équipe infermieristica, cioè maggior scambio e confronto fra le conoscenze e il sapere medico, la realtà soggettiva dei singoli malati e le conoscenze e il sapere infermieristico.

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IDEE

DALL'AUTOBIOGRAFIA DI UN MALATO DI AIDS

Dal momento della certezza di aver contratto l'Aids, Hervé Guibert produce due romanzi (All'amico che non mi ha salvato la vita e Le regole della pietà), che in modo quasi autobiografico testimoniano la sua storia di malato. Il brano qui riprodotto ci permette di entrare nel travaglio interiore a cui è sottoposta la persona coinvolta in una sperimentazione. Prima l'illusione e la speranza di salvezza, poi il dolore e la prostrazione per non essere più un soggetto idoneo alla sperimentazione.

Bill è in uno stato di eccitazione indescrivibile, che si impadronirà della nostra cena e monopolizzerà l'intera conversazione tra noi: ci annuncia chiaro e tondo che in America è appena stato messo a punto un vaccino efficace contro l'Aids, per essere precisi non è veramente un vaccino, perché in linea di principio un vaccino è preventivo, diciamo allora un vaccino curativo, ottenuto dal virus HIV e somministrato a sieropositivi asintomatici, chiamati per il momento i "portatori sani" finché non si rimetta in discussione l'aspetto "sano" di un uomo contagiato dall'Aids, che ne blocca la virulenza, e impedisce al virus di mettere in moto il processo di distruzione; ma è un segreto assoluto, Bill conta sulla nostra totale discrezione per non dare false speranze ai poveri malati che, per giunta, a causa del loro sgomento potrebbero mettere i bastoni tra le ruote alla sperimentazione che presto dovrebbe essere condotta in Francia; «tutti noi che siamo qui naturalmente conosciamo dei malati di Aids, ma va da sé che nessun malato si nasconde tra noi».

Bill proseguiva: Negli Stati Uniti si sono appena avuti i risultati dopo tre mesi di sperimentazioni condotta su sieropositivi asintomatici, ai quali è stata somministrato il vaccino il primo dicembre scorso. Qualunque presenza del virus nel loro corpo, e in ognuno dei fattori di trasmissione, il sangue, lo sperma, le lacrime e il sudore, sembrerebbe essere stata completamente espulsa dal vaccino. Questi risultati sono talmente fantastici che a partire dal primo aprile verrà lanciata una seconda sene di sperimentazioni, in realtà la terza perché una prima serie era stata condotta su malati a uno stadio troppo avanzato della malattia, che oggi sono tutti morti o moribondi, questa volta su sessanta siero positivi asintomatici, raggruppati sotto la denominazione 2B, alla metà dei quali verrà iniettato il vaccino, e all'altra metà il suo doppio cieco. Si dovrebbero avere dei risultati quasi definitivi nel giro di sei mesi, cioè alla fine dell'estate, dopodiché, se sono così favorevoli, come fanno presagire quelli del gruppo 2A, si dovrebbe organizzare in Francia una sperimentazione analoga che dovrebbe permettere, diceva Bill, di tirare fuori dai guai gente come Erik o come tuo fratello Robin.

...La notte non dormii, il mio stato di effervescenza non lasciava spazio al riposo... Ricontai i giorni sulla mia agenda: tra il 23 gennaio quando, in rue du Jura, accolsi la notizia senza appello della mia malattia e quel 18 marzo in cui una seconda notizia poteva rivelarsi decisiva contraddicendo ciò che la prima aveva ratificato come irreversibile per me, erano passati cinquantasei giorni. Ero vìssuto cinquantasei giorni abituandomi, ora con allegria, ora con disperazione, ora nell'oblio, ora in un'ossessione feroce, alla certezza della mia condanna. Entravo in una nuova fase di sospensione, di speranza e di incertezza, che forse era più atroce da vivere che la precedente...

Hervé GuibertAll'amico che non mi ha salvato la vita

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L'ANGOSCIA DELLA SCELTA TRA TERAPIE ALTERNATIVE

In un libro uscito postumo, alla fine di una battaglia durata cinque anni con una malattia oncologica che ha finito per avere il sopravvento, Treya Wilber racconta e commenta, insieme al marito Ken, il lungo travaglio. Nella scelta delle terapie durante il lungo percorso nella malattia ha oscillato tra terapie mediche standard e terapie non convenzionali. Nel passaggio qui riprodotto descrive la difficoltà di un supporto neutrale, anche quando le scelte del malato non sono quelle che l'altro si aspetta.

Talvolta la gente vuole informazioni, in particolare quando pendono sul loro capo decisioni sulle scelte terapeutiche. Vogliono sentir parlare delle terapie alternative o che tu li aiuti nella ricerca delle terapie convenzionali. Una volta scelto il piano di trattamento, di solito non desiderano altre informazioni, benché questa sia forse la cosa più facile e la meno minacciosa che io possa dare. Adesso hanno bisogno di sostegno. Non gli serve sentir parlare dei pencoli della radioterapia o della chemioterapia, né della clinica messicana che hanno scelto, una scelta solitamente compiuta con grande difficoltà dopo una lunga riflessione. Se in questo momento tornassi a proporre altri suggerimenti su guaritori, tecniche e terapie, potrei rigettarli nella confusione, inducendoli a pensare che ho dei dubbi sulla via che hanno scelto, il che alimenterebbe i loro stessi dubbi.

Le decisioni che presi [sui trattamenti da seguire] non furono facili; so che le decisioni che l'individuo deve prendere in questo tipo di situazione sono tra le più ardue che gli capiterà mai di affrontare. Ho imparato che non posso sapere quale scelta farei al posto di un altro e so che questo mi fa dare un sostegno autentico alle scelte compiute da altri. Una mia amica, che mi faceva sentire bella anche quando non avevo più capelli, mi ha detto qualche tempo fa: «Non avevi fatto la scelta che avrei fatto io, ma non importava». Le fui grata per non aver messo questo ostacolo tra noi in quel momento, che fu ovviamente il più difficile della mia vita. Poi le dissi: «Non puoi sapere quale sarebbe stata la tua scelta. Io non ho scelto quello che pensavi tu, ma neppure quello che io stessa pensavo che avrei scelto».

Ken WilberGrazia e grinta

UN PO' DI STORIA

Lindt 1753 programmò una ricerca comparativa dei trattamenti che sembravano essere più efficaci per lo scorbuto. Egli dice: «Io presi 12 pazienti affetti da scorbuto a bordo del Salisburj in navigazione. I casi erano i più simili che potessi avere: essi giacevano insieme nello stesso posto e avevano una dieta in comune per tutti. A due di questi fu ordinato un quarto di sidro al giorno. Altri due prendevano due cucchiai di aceto... due furono sottoposti a un ciclo di acqua di mare... a due altri venivano dati due aranci e un limone ciascuno al giorno... due altri prendevano noce moscata. Si riscontrò che gli effetti positivi più immediati e visivi derivavano dall'uso di aranci e limoni, uno di quelli ai quali erano stati prescritti era in grado di tornare al lavoro... l'altro... fu nominato infermiere fino alla fine della malattia».

Rush 1764 fece questo rapporto del suo trattamento della febbre gialla con il salasso: «Cominciai a aspirare una piccola quantità di sangue alla volta. L'aspetto del sangue e i suoi effetti sull'organismo mi soddisfecero circa la sicurezza e l'efficacia del rimedio. Non avevo mai provato prima una gioia così sublime come quella che sentii nel contemplare il successo dei miei rimedi... il lettore non si stupirà se aggiungo un brano degli appunti del 10 settembre: Dio ti ringrazio dei circa 100 pazienti che ho visitato e curato, oggi non ne ho perso nessuno».

Stuart J. Pocock, Sperimentazioni cliniche

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E LA STORIA CONTINUA Al NOSTRI GIORNI

I farmaci si sono diffusi e hanno preso piede mentre trionfava la visione tecnologica del mondo contemporaneo. A una scienza capace di mandarci sulla luna si chiedeva di farci restare di più e più e meglio sulla terra, ma l'ipotesi tecnologica globale non si è dimostrata percorribile, ha mostrato lati ambigui e inquietanti: invece di migliorare la qualità e la durata della vita rischiava di peggiorarle. È rinata allora la considerazione per i vecchi rimedi mescolati in un gran calderone e in un quadro in cui convergono, come un mostro mitologico, le componenti più diverse, e a volte più contrastanti, di antica saggezza e di filosofia da era delle macchine. Nell'ingenuo rovesciamento dell'ottimismo tecnologico si ipotizza una natura che non esiste più da un pezzo, o che forse non è mai esistita: tutta buona...

Che i farmaci possano avere degli effetti collaterali o essere tossici, in misura variabile da caso a caso, è inevitabile. Si tratta di decidere di volta in volta se sia superiore il rischio connesso alla terapia o il beneficio che ne trarrebbe il paziente. Lo si dimentica troppo spesso, ma il rapporto rischio/beneficio è un criterio di valutazione che, oltre al medico, devono tener ben presente le autorità sanitarie, preposte ad approvare o a proibire l’introduzione di un nuovo prodotto nella farmacopea di ciascun paese... I farmaci nuovi che entrano ogni giorno nella sperimentazione clinica sono oggetto di critiche, in parte comprensibili: a nessuno piace fare da cavia. D'altra parte, le grandi scoperte, anche quelle di cui oggi non sì può neppure immaginare di fare a meno, si pensi ad esempio all'importanza dell'anestetico per la chirurgia occidentale o ai vaccini, sono tutte passate attraverso incerte fasi iniziali: le scoperte non nascono adulte.

Stefano GaglianoDieci farmaci che sconvolsero il mondo

LA COMUNITÀ EUROPEA

REGOLAMENTA L'USO DI PRODOTTI FARMACEUTICI A USO

CLINICO

Fin dal 1985 la Comunità Europea ha elaborato un documento destinato a essere il naturale punto di riferimento per il mercato unico europeo dei farmaci. Il documento ― Norme di buona pratica clinica nei trials su prodotti farmaceutici condotti nella Comunità Europea ― dopo diverse revisioni, è stato pubblicato nella sua forma definitiva l‘11 luglio 1990. Il documento della CEE recepisce gli elementi fondamentali della strategia di protezione dei soggetti umani coinvolti nella sperimentazione, e cioè il "consenso informato" e la revisione dei protocolli sperimentali a opera dei Comitati di etica. Inoltre fornisce una dettagliata concretizzazione dei principi sul piano operativo.

Riportiamo i passi del documento che riteniamo più utili per gli infermieri chiamati a partecipare alla sperimentazione clinica.

La protezione dei soggetti nei trials e la consultazione dei Comitati etici

1.1 L'ultima versione aggiornata della Dichiarazione di Helsinki è la base riconosciuta dell'etica dei trials clinici. La Dichiarazione dovrebbe essere conosciuta e messa in atto per intero da tutti coloro che sono impiegati in ricerche con esseri umani.

1.2. Nel trial, la responsabilità ultima dell'integrità personale e del benessere dei soggetti è del ricercatore; parallelamente, ma in sede separata, la protezione dei soggetti è affidata ai Comitati etici e al consenso informato ottenuto senza costrizione dei soggetti (...)

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La classificazione degli studi clinici controllati (trials)

Gli studi clinici vengono generalmente classificati in fasi che vanno dal I al IV, non è possibile stabilire una precisa linea di confine tra le fasi ed esistono opinioni discordi sui dettagli e sulla metodologia.

Fase 1. Primi studi su un nuovo principio attivo condotti nell'uomo spesso su volontari sani...

Fase II. Studi terapeutici pilota. Lo scopo è quello di dimostrare l'attività e di valutare la sicurezza a breve termine di un principio attivo in pazienti affetti da una malattia o da una condizione clinica per la quale il principio attivo è preposto. Gli studi vengono condotti da un numero limitato di soggetti e spesso, in uno stadio più avanzato, secondo uno schema comparativo (es. Controllo con placebo...).

Fase III. Studi su gruppi di pazienti più numerosi (e possibilmente diversificati) al fine di determinare il rapporto sicurezza/efficacia a breve e lungo termine delle formulazioni del principio attivo, come pure valutarne il valore terapeutico assoluto e relativo... Generalmente le condizioni degli studi dovrebbero essere il più possibile vicine alle normali condizioni di uso.

Fase IV. Studi condotti dopo la commercializzazione del(i) prodotto (i) medicinale(i) anche se sulla definizione di questa fase non vi è un completo accordo... Dopo che un prodotto è stato posto sul mercato, gli studi clinici miranti ad indagare, ad esempio, nuove indicazioni, nuove vie di somministrazione o nuove associazioni, vanno considerati come studi su nuovi prodotti medicinali.

Norme di buona pratica clinica nei trials su prodotti farmaceutici condotti nella Comunità Europea

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NORME

DIRITTI UMANI

Codice di Norimberga

Il documento in dieci punti limita le possibili sperimentazioni mediche su soggetti umani:

1. Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale.

2. L'esperimento dovrà essere tale da fornire risultati utili alla società.

3. L'esperimento dovrà essere impostato e basato sui risultati della sperimentazione su animali e sulla conoscenza della storia naturale del morbo o di altri problemi allo studio.

4. L'esperimento dovrà essere condotto in modo tale da evitare ogni sofferenza o lesione fisica e mentale che non sia necessaria.

5. Non si dovranno fare esperimenti laddove vi sia ragione di credere che possa sopravvenire la morte o un’infermità invalidante, eccetto per quegli esperimenti in cui il medico sperimentatore si presta come soggetto.

6. Il grado di rischio non dovrà superare quello determinato dalla rilevanza sociale.

7. Si dovrà effettuare preparazione particolare per mettere al riparo il soggetto dell’esperimento da possibilità anche remote di lesione, invalidità o morte.

8. L'esperimento dovrà essere condotto solo da persone scientificamente qualificate.

9. Nel corso dell'esperimento il soggetto umano dovrà avere la libera facoltà di porre fine ad esso se ha raggiunto uno stato fisico o mentale per cui gli sembra impossibile continuarlo

10. Durante l'esperimento lo scienziato responsabile deve essere pronto ad interromperlo in qualunque momento.

Sentenza del Tribunale militare di Norimberga. 1946

Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo

Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumani e degradanti.

Assemblea delle Nazioni Unite, 10 dicembre 1948

Carta del malato in ospedale

Il malato ha diritto di accettare o rifiutare ogni prestazione diagnostica o curativa. Ha diritto di essere completamente informato in anticipo dei rischi che può presentare ogni prestazione non routinaria avente scopo diagnostico o terapeutico. Essa deve ottenere il consenso esplicito del malato, che può ritirarlo in ogni momento. Il malato deve potersi sentire completamente libero di dare o rifiutare la sua collaborazione alla ricerca clinica o all'insegnamento; egli può ritirare il suo consenso in ogni momento.

Comitato permanente della CEE, maggio 1979

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NORME DEONTOLOGICHE

Dichiarazione sulle ricerche biomediche dell'Associazione Medica Mondiale

Art. 5 Prima di intraprendere un esperimento, bisogna valutare accuratamente i rischi e i vantaggi prevedibili per i soggetto o per altri. Gli interessi del soggetto devono sempre prevalere su quelli della scienza e della società.

Art. 9 Al momento di ogni ricerca sull'uomo, l'eventuale soggetto sarà informato in modo adeguato sugli obiettivi, metodi, benefici scontati e su rischi potenziali e sugli svantaggi che potrebbero derivargliene. Egli dovrà essere informato che è libero di disimpegnarsi in qualsiasi momento. Il medico dovrà ottenere il consenso libero e cosciente del soggetto, preferibilmente per iscritto.

Art. 10 Quando il medico sollecita il consenso consapevole del soggetto al progetto di ricerca, dovrà prendere delle precauzioni particolari se il soggetto che si trova di fronte a lui in una situazione di dipendenza o deve dare il suo consenso sotto costrizione....

Dichiarazione formulata nel 1962, notificata a Helsinki nel 1964

e sottoposta a revisione a Tokyo nel 1975 e a Trieste nel 1983

Principi di etica e linee-guida per la ricerca che utilizza soggetti umani

Questo documento è divenuto un punto di riferimento per quanti (professionisti, ricercatori, medici, eticisti, operatori sanitari, politici) sono coinvolti a vario titolo e responsabilità nelle problematiche legate alla sperimentazione umana.

La dichiarazione conclusiva della Commissione nazionale americana, nota come "Rapporto Belmont", ha raccolto i contenuti e gli intenti delle diverse dichiarazioni sulla necessità di una regolamentazione della sperimentazione sull'uomo nella società moderna. Tali dichiarazioni, a loro volta, avevano fatto seguito al Codice di Norimberga, che forniva i criteri per giudicare medici e scienziati che erano dati artefici delle sperimentazioni sui prigionieri nei campi di concentramento. Il rapporto contiene norme ― alcune generali, altre specifiche ― che guidano i ricercatori o i comitati di revisione nel loro lavoro.

La dichiarazione è suddivisa in tre parti:

― la distinzione fra la ricerca e la pratica;

― la presentazione dei tre principi etici fondamentali:

1. Il rispetto delle persone

2. La beneficità

3. La giustizia

― le osservazioni sull'applicazione di questi tre principi.

Le frontiere tra la pratica e la ricerca

La distinzione fra la ricerca e la pratica è confusa, in parte perché le due attività hanno spesso luogo contemporaneamente (come avviene con la ricerca che mira a valutare la terapia), e in parte perché vengono qualificati come "sperimentali" delle procedure che si allontanano sensibilmente dalla pratica, senza preoccuparsi di definire accuratamente i termini "sperimentale" e "ricerca".

Per lo più il termine "pratica" si riferisce a interventi che hanno come unico obiettivo quello di migliorare il benessere di un determinato paziente o cliente e da cui si può ragionevolmente attendere un esito positivo (...). Il termine "ricerca", invece, designa un'attività che cerca di verificare un'ipotesi, permette di tirare delle conclusioni e pertanto di elaborare un sapere generalizzabile o di contribuire ad esso (sapere espresso, per esempio, da teorie, principi, enunciati di rapporti). La ricerca di solito è descritta da un rapporto ufficiale che fissa un obiettivo e un insieme di procedure destinate a raggiungere questo obiettivo.

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Il rispetto delle persone

Il rispetto delle persone comprende almeno due fondamentali convincimenti di natura elica: in primo luogo, che gli individui devono essere trattati come agenti autonomi; in secondo luogo, che le persone la cui autonomia è diminuita hanno diritto di essere protette. Il principio del rispetto delle persone si divide quindi in due esigenze morali distinte: riconoscere l'autonomia e proteggere coloro la cui autonomia è diminuita.

La beneficità

Per trattare le persone in modo morale, bisogna non solo rispettare le loro decisioni e proteggerle contro ogni danno, ma anche sforzarsi di assicurare il loro benessere. E il trattamento che viene fatto in nome del principio di beneficità.

La giustizia

Chi dovrebbe ricevere i benefici della ricerca e subirne gli inconvenienti? Questa è una questione di giustizia, cioè di "equità nella distribuzione" o di sapere "che spetta ad ognuno”. Si ha ingiustizia quando un beneficio a cui una persona ha diritto gli è rifiutato senza una ragione valida, o quando gli viene imposto indebitamente un peso. Un altro modo di concepire il principio della giustizia è di dire che le persone uguali dovrebbero essere trattate in modo uguale. Questa affermazione ha bisogno tuttavia di una spiegazione. Chi è uguale e chi non lo è? Quali motivi giustificano che ci si allontani da un'equa distribuzione? Un caso speciale di ingiustizia è quello costruito dal ricorso a soggetti vulnerabili.

Le applicazioni

L'applicazione dei principi generali ai modo di condurre /a ricerca porta ad esaminare le seguenti esigenze:

― il consenso informato;

― la valutazione dei rischi e dei benefici

― la selezione dei soggetti per la ricerca

Commissione nazionale americana (Rapporto Belmont) 1979

Linee guida per ricerche di nursing con soggetti umani

1. Valore scientifico della ricerca

A. Lo studio del problema e le relative domande devono essere moralmente accettabili.

B. Il problema o la domanda deve essere significativo per l'assistenza.

C. Lo schema e i metodi di studio devono essere stabiliti con criteri scientifici (congiungere l'affidabilità con la validità dei criteri, fare ottimo uso del tempo e delle risorse).

D. Lo studio deve essere tracciato con limiti etici accettabili.

2. Consenso, tutela e riservatezza per il soggetto

A. Consenso informato

1. L'informazione deve essere fornita in modo che i soggetti, una volta informati e consapevoli, possano prendere una decisione riguardo la partecipazione, includendo i seguenti punti:

a. Natura/scopo dello studio

b. Scopo, limite e durata della partecipazione

c. Tipo di informazioni richieste

d. Utilizzo della documentazione

e. Utilizzo delle informazioni durante e dopo lo studio

f. Inconvenienti, possibili benefici e rischi ipotizzabili

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g. Trattamento standard a cui possono essere sottoposti i pazienti

h. Libertà di ritirarsi in qualsiasi momento senza conseguenze o recriminazioni

i. Modalità di tutela dell'anonimato e della riservatezza

2. Le persone che sono in grado di dare il loro consenso devono essere libere di farlo senza la minaccia di dover partecipare per avere benefici (assistenza di alta qualità). Se incapaci di fornire il proprio assenso, questo deve essere accordato dal tutore nominato.

3. Il consenso verbale o scritto dovrà essere ottenuto in base ai principi fondamentali dell'etica. I ricercatori dovranno certificare l'identità del soggetto consenziente, le circostanze, le informazioni fornite ai soggetti, senza ricorrere a coercizioni né dirette né indirette ed assicurando la possibilità in qualsiasi momento di ritirarsi.

4. Anche altre persone coinvolte indirettamente nello studio, in quanto legate ai soggetti in studio, devono essere informate sulla ricerca e se necessario, sul consenso ottenuto (per es. medico curante, infermieri domiciliari, coniuge, ecc.).

B. Riservatezza

1. Le informazioni devono essere trattate in modo riservato, mantenendo l'anonimato.

2. Le informazioni non devono essere utilizzate o divulgate oltre i limiti concordati.

C. Protezione dei soggetti

1. I soggetti devono essere protetti da tutti i tipi di inconvenienti possibili.

2. I potenziali benefici devono avere maggior peso rispetto ai rischi possibili.

3. Quando il benessere del soggetto è in contrasto con gli scopi della ricerca, deve essere presa una decisione che favorisca il soggetto stesso.

III. Pianificazione della ricerca

A. Il ricercatore deve inoltrare una specifica richiesta all'istituzione sede della ricerca e fornire alla stessa i dettagli e gli strumenti relativi al consenso informato.

B. L'istituzione ha l'obbligo di fornire un valido sistema per la revisione.

C. Tutti gli infermieri hanno l'obbligo di collaborare nel processo di ricerca con l'incaricato della stessa.

D. I ricercatori hanno la responsabilità di fornire un'informazione adeguata ai membri dello staff coinvolti o interessati dallo studio.

E. I membri dello staff hanno il diritto di partecipare o meno, precisando loro se le attività legate allo studio sono da considerarsi lavorative a tutti gli effetti.

Associazione Canadese degli Infermieri,

Etical guide lines far nursing research involving human subjects, 1983

LEGISLAZIONE

Decreto 27 aprile 1992 Ministero della Sanità

"Disposizioni sulle documentazioni tecniche da presentare a corredo delle domande di autorizzazione all'ammissione in commercio di specialità medicinali per uso umano, in attuazione della direttiva n° 91/507/CEE".

L'obiettivo di queste linee guida è di stabilire i principi dello standard delle norme di buona pratica clinica (G. C. P.) per la sperimentazione nell'uomo di medicinali nell'ambito della CEE.

...I documenti (Audit, scheda raccolta dati o scheda paziente, studio clinico) includono il protocollo, copie delle richieste di autorizzazione e delle approvazioni da parte delle autorità e del comitato etico, il curriculum vitae degli sperimentatori, il modulo del consenso informato, i rapporti di monitoraggio, i certificati di audit, la corrispondenza relativa, i valori normali di riferimento, i dati grezzi, le schede raccolta dati compilate ed il rapporto finale.

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Capitolo 1 Salvaguardia dei soggetti partecipanti allo studio e consultazione dei comitati etici.

L'integrità personale e il benessere dei soggetti coinvolti in uno studio è responsabilità primaria dello sperimentatore in rapporto allo studio; ma una garanzia indipendente che i soggetti sono tutelati è fornita da un comitato etico e dal consenso informato liberamente ottenuto.

Nessun soggetto può essere obbligato a partecipare ad uno studio. Ai soggetti e ai loro parenti o, se necessario, rappresentanti legali deve essere data ampia opportunità di informarsi sui dettagli dello studio. L'informazione deve chiarire che il rifiuto di partecipare allo studio o l'abbandono di esso in qualsiasi momento non andrà a scapito delle successive cure del soggetto. Ai soggetti dovrà essere dato tempo sufficiente per decidere se vogliono o meno partecipare allo studio.

Capitolo 2.5 Responsabilità dello sperimentatore... (punto h): fornire informazioni a tutto il personale coinvolto nello studio o in altri aspetti del trattamento del paziente.

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COMPORTAMENTI

La sperimentazione umana ha assunto in questi ultimi anni una tale portata che non può più essere un tema da discutere esclusivamente nel ristretto ambito del mondo scientifico. Ha invaso il martellante e a volte poco scientifico mondo dei mass media, generando conflitti e distorsioni circa i rivolti positivi e negativi che la stessa sperimentazione comporta. Certo è che, se la pubblicità sugli avvenimenti scientifici porta a una conoscenza mediamente più diffusa nella popolazione, generando nelle persone la consapevolezza dei loro diritti, l'uso distorto delle informazioni generiche o la diffusione dei comportamenti negativi non favorisce nei malati e nelle persone in genere la piena fiducia nell'attività medica e più in generale nell'équipe sanitaria.

Dal punto di vista etico, «non si può più avallare, sotto il titolo nobiliare di ricerca scientifica, qualsiasi tipo di sperimentazione» (S. Spinsanti). Bisogna infatti distinguere diverse forme di ricerca su soggetti umani:

● la ricerca terapeutica, intrapresa con lo scopo primario di beneficio al paziente che vi si sottopone;

● la ricerca non terapeutica, il cui scopo è quello di acquisire nuove conoscenze scientifiche, senza finalità diagnostiche o terapeutiche dirette sul soggetto che si sottopone alla sperimentazione. Quest'ultimo quindi può essere una persona sana e non immediatamente beneficiaria della ricerca.

Le regole morali che guidano le sperimentazioni umane riguardano tre aspetti:

1. La ricerca sull'uomo deve essere preceduta dagli studi di laboratorio e sugli animali. Solo in questo modo è possibile escludere le sperimentazioni irrilevanti o inutili, o che non hanno un progetto razionale (cfr. indicazioni dell'Associazione Medica Mondiale).

2. I benefici di una ricerca sull'uomo devono essere proporzionali al rischio del danno che può essere inflitto. Il Codice di Norimberga stabilisce un principio invalicabile: «Nessun esperimento deve essere condotto quando possa avvenire la morte o un'infermità invalidante». Anche il beneficio che deriva dalla sperimentazione deve essere significativo: se il risultato è così piccolo da essere banale, non ha significato procedere a una sperimentazione.

3. Il consenso di chi si sottopone alla sperimentazione è un obbligo giuridico e morale. Il Codice di Norimberga dispone: «Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale»; specifica inoltre che il consenso deve essere dato senza elementi coercitivi, inganno, costrizione, falsità o altre forme di imposizione o di violenza.

L'Associazione Medica Mondiale afferma con chiarezza: «Al momento di ogni ricerca sull'uomo, l'eventuale soggetto sarà informato in modo adeguato sugli obiettivi, metodi, benefici scontati e rischi potenziali e svantaggi che potrebbero derivargliene». Le modalità concrete con cui il consenso informato alla sperimentazione deve essere raccolto sono state regolamentate dalla CEE nel 1991 (sono note come Good medical practice) e recepite in Italia con il Decreto ministeriale del 27 aprile 1992.

Dal punto di vista etico, il consenso informato del paziente a una procedura sperimentale è un obbligo formale. Non è lasciata al medico la facoltà di scegliere se informare o meno il

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paziente. È obbligo del medico informare il paziente, accertare la reale comprensione e regolarsi secondo il suo consenso "informato". Non richiedere il consenso (informato) dell'avente diritto comporta anche la violazione di una norma di legge penalmente rilevante (art. 610, "violenza privata"; art. 582, "lesioni personali" c.p.).

Nella moderna cultura degli stati democratici c'è un ampio consenso sulla posizione assunta dalla Commissione nazionale americana (Rapporto Belmont, 1979), in cui si esprime che l’autonomia di un individuo è caratterizzata dalla capacità di riflettere sui propri obiettivi personali e di agire lasciandosi guidare da tale riflessione. Fare ricerca su un essere umano senza chiedere il suo consenso significa mancare di rispetto all'autonomia della persona, negando valore ai suoi giudizi ponderati.

Nella ricerca non terapeutica, che ha come scopo primario l'acquisizione di nuove conoscenze che non riguardano direttamente tl soggetto sottoposto alla sperimentazione, il consenso informato della persona è l'unico criterio che dà il diritto allo sperimentatore a procedere alla sperimentazione stessa.

Non è così semplice e definito il consenso richiesto al paziente in situazione di ricerca terapeutica, dove il soggetto coinvolto è anche il beneficiario della cura sperimentale. Si pensi a quelle situazioni in cui la capacità stessa del paziente di prendere una decisione ponderata è compromessa dalla sua specifica situazione di malattia, per esempio il caso in cui non sia possibile od opportuno rivelare al paziente la diagnosi della sua malattia, perché non ancora pronto a riconoscerne la gravità. Potrebbero esistere, come di fatto esistono, situazioni eccezionali, quali quelle riportate da "Dopo un dramma, l'équipe impara a discutere", dove è opportuno attendere una migliore condizione emotiva prima di procedere a una completa informazione, ovvero creare quelle condizioni emotive ottimali affinché il paziente possa esprimere un consenso informato alle cure.

Il consenso di un familiare (per esempio, il figlio di una persona anziana) non autorizza il medico a intervenire sulla situazione clinica con farmaci che sarebbero sperimentali nel caso specifico. La regola generale prevede l'obbligo per il medico di informare il paziente prima di ottenere il suo consenso alle cure, quali esse siano. L'informazione dovrà continuare anche durante e dopo il trattamento (o sperimentazione). Una qualsiasi scelta diversa da questa è soggetta a sopportare tutte le conseguenze del caso, anche quelle penali.

Esiste poi una dimensione del problema che riguarda il rapporto di fiducia fra medico e paziente. Tale rapporto si è notevolmente evoluto in questi ultimi anni: il malato è passato da una assoluta dipendenza dal medico e dalle cure da questi proposte a una partecipazione consapevole. Nel caso della sperimentazione terapeutica questo aspetto di consapevolezza da parte del paziente non è secondario. Infatti il medico che non riconosce e che non si adegua a questa nuova realtà è portato tradizionalmente a richiedere il consenso senza aver dato tutte le informazioni necessarie, generando nel paziente confusione e preoccupazione. Questo problema è rilevato dagli infermieri quando, dopo il colloquio con il medico, lo stesso paziente pone domande di chiarificazione e di consiglio sul da farsi.

È un fatto frequente che il malato grave o con una diagnosi infausta sia anche un soggetto che si aggrappa a qualsiasi speranza di sopravvivenza gli venga proposta. È raro che rifiuti il consenso a una nuova terapia sperimentale, anche se non sufficientemente informato o pienamente convinto sull'utilità innocuità della terapia stessa.

Hervé Guilbert nel suo romanzo racconta con estrema sofferenza intima ma con grande lucidità intellettuale la sua esperienza ("Dall'autobiografia di malato di Aids"). Porta alla luce un atteggiamento positivo verso la sperimentazione; spera di "arrivare in tempo" e di sopravvivere

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fino alla scoperta di un farmaco che lo tolga dall'incubo della morte che lo minaccia. Allo stesso tempo ci fornisce anche l'immagine di un mondo interiore dove la sofferenza, la trasformazione del corpo, la paura della morte, arricchiscono le persone e le rendono capaci di cogliere gli aspetti più veri e i sentimenti più autentici di chi le circonda. Il suo rapporto con il mondo della medicina, con i medici ''ciarlatani'' e inaffidabili e quello con medici che con umiltà seguono quotidianamente i problemi e vivono con i malati le loro esperienze estreme ne esce molto differenziato.

Sembrerebbe, a prima vista, che i dilemmi che riguardano la sperimentazione umana non siano competenza o responsabilità della professione infermieristica. Di fatto, la normativa esistente non contempla nelle responsabilità dirette la figura dell'infermiere professionale come operatore che programma e risponde personalmente di ricerca e di sperimentazione, se non in modo molto sfumato e marginale. L'unico richiamo in tal senso è fatto dal Decreto del Ministero della Sanità del 27 aprile 1992, a proposito della responsabilità dello sperimentatore di informare tutto il personale coinvolto nello studio o in altri aspetti del trattamento del paziente.

Si può sottendere che l'infermiere professionale, in qualità di membro dell'équipe, ha la facoltà di partecipare o di astenersi da pratiche mediche sperimentali qualora non ne fosse sufficientemente e compiutamente informato non ne condividesse i modi e metodi di applicazione sul caso specifico.

Altro aspetto delicato e non secondano della sperimentazione è quello del coinvolgimento dell'infermiere nella richiesta del consenso informato alla sperimentazione. L'infermiere si trova frequentemente in condizioni di fare delle mediazioni fra ciò che il medico ritiene utile per il paziente o per i risultati che ne conseguirebbero a una conoscenza utilizzabile su futuri pazienti e ciò che invece il paziente vuole per se stesso.

Ripercorrendo la situazione descritta da "Dopo un dramma, un'équipe impara a discutere", ci si accorge immediatamente come all'interno dei rapporti professionali del medico e dell'infermiera non vi sia armonia e condivisione degli obiettivi assistenziali. Da una parte un medico che "usa" l'infermiere come mero esecutore delle prescrizioni farmacologiche; dall'altra l'infermiere che gestisce le situazioni personali del malato, le difficoltà e il ripensamento riguardo il consenso alle cure, senza avere dal medico le necessarie conoscenze e informazioni per affrontare adeguatamente la realtà.

Alcune riflessioni su questo tema sono venute proprio dagli infermieri, i quali nel 1990, in occasione del seminario di studio sulla sperimentazione clinica effettuato presso l'istituto di ricerche farmacologiche Mano Negri, hanno ricondotto la loro posizione a questi punti essenziali:

1. Gli infermieri si trovano spesso coinvolti nelle sperimentazioni come realtà di fatto. Raramente sono coinvolti nella scelta dei protocolli di sperimentazione e spesso hanno un ruolo esecutivo di raccolta dati o di compilazione di moduli su richiesta, senza conoscenze poi l'utilizzo (questa situazione è molto ben illustrata dal caso "Il consenso alla sperimentazione non è un semplice permesso").

2. Gli infermieri non sempre si trovano in una posizione contrattuale con il medico sulla scelta e sull'utilità dei protocolli e dei trattamenti. Manca in questo modo la possibilità di sostenere i diritti dei pazienti, qualora ce ne fosse la necessità.

3. Esistono delle pratiche mediche e infermieristiche che ormai fanno parte della routine senza che queste siano state ampiamente sperimentate e documentate. Ad esempio, si utilizzano nuovi prodotti farmacologici (o nuove tecniche) sulla sola prerogativa che, "sperimentati" su alcuni pazienti, abbiano dato risultati di efficacia, e solo per questo motivo inseriti nella routine dei trattamenti di persone con problemi analoghi. Proprio la routine, che non

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ha una verifica scientificamente valida, crea le situazioni in cui il paziente è più indifeso e meno protetto dalla pratica medica e infermieristica.

4. È facile capire che la presenza degli infermieri nel contesto della sperimentazione è marginale, anche se poi formalmente si riconosce l'importanza della presenza degli infermieri nei comitati etici ospedalieri. È anche vero che la sperimentazione è tradizionalmente vista come qualcosa che appartiene al medico, sia nella scelta degli argomenti che nella sua conduzione: è il medico che ha quasi l’esclusivo potere di decidere cosa fare e cosa non fare nella pratica clinica.

5. È necessario che gli infermieri trovino una loro collocazione attiva nella pratica sperimentale con la creazione di reti di ricerca infermieristica parallela o complementare, nei contenuti e nei metodi, a quella medica.

Gli infermieri devono individuare le situazioni di "incertezza" per limitare il rischio che corrono ì pazienti di essere sottoposti a pratiche non appropriate, oppure a pratiche che negano loro interventi che potrebbero meglio rispondere ai loro problemi.

Nella letteratura infermieristica internazionale problemi derivanti dalla partecipazione a ricerche con sperimentazioni cliniche sono stati analizzati e discussi, anche grazie al contributo di alcune importanti associazioni professionali. L'Associazione Canadese Infermieri nel f983 ha elaborato delle linee guida per le figure infermieristiche che si trovano a partecipare a progetti di ricerca. Il documento, individua come responsabilità infermieristiche:

● informare o collaborare all'informazione del soggetto che parteciperà alla sperimentazione clinica, assicurandosi che le notizie date siano complete e chiaramente comprese dall'interessato, avendo preventivamente discusso con l'équipe medica responsabile del progetto le informazioni di cui il paziente deve disporre per non inficiare i risultati della ricerca;

● partecipare alla raccolta del consenso informato, collaborando con il personale medico per fornire alla persona tutte le informazioni per lui necessarie, in primo luogo la libertà di aderire o meno. È opportuno esplicitare, per escludere ogni possibile dubbio del paziente, che la sua scelta di aderire o meno non darà luogo a comportamenti differenziati da parte del personale di assistenza; l'aspetto tutelare in questo caso è la pari dignità di ogni persona, al di là della rispondenza di questa alle aspettative di ricerca clinica medica;

● garantire alla persona interessata dalla sperimentazione che in qualsiasi momento potrà ritirare la sua adesione, senza essere costretta a fornire giustificazioni;

● verificare e assicurare che quanto concordato tra l'équipe dei ricercatori e i soggetti della sperimentazione clinica venga attuato costantemente.

In sintesi, la responsabilità essenziale dell'infermiere, in riferimento al modello bioetico è quello di proteggere i diritti del soggetto implicato nella ricerca. In parallelo ai diritti dei soggetti implicati nella sperimentazione clinica, devono essere considerati anche i diritti degli operatori che collaborano al progetto di ricerca, per esempio infermieri e studenti infermieri. Ogni professionista o tirocinante implicato nella ricerca ha il diritto di essere informato sugli scopi della medesima, per esempio tramite la scheda elaborata dal gruppo promotore per illustrare la ricerca o per richiederne l'approvazione. Gli operatori possono rifiutarsi di svolgere alcune procedure di ricerca o sperimentazione, se queste non coincidono con i principi etici soggettivi del professionista. Pertanto anche il professionista deve sentirsi libero di ritirare la sua adesione al progetto di ricerca, laddove insorgano conflitti di coscienza.

In Italia sono nati numerosi studi infermieristici collaborativi e integrativi dell'attività medica di sperimentazione, su alcuni dei quali sono già disponibili i primi risultati. Si possono citare: il

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"Gissi Nursing", studio sulla qualità della vita e della salute del paziente con infarto del miocardio; l'"i.c.a.i. Nursing", che studia l'evoluzione di alcuni problemi del paziente con arteriopatia cronica; il "Mast-Nursing", che approfondisce l'aspetto dei ritardi evitabili all'arrivo in ospedale e l'epidemiologia degli interventi infermieristici nei pazienti con ictus (cfr. Rivista dell'infermiere 4/93).

I progetti fin qui sperimentati in collaborazione o parallelamente agli studi medici hanno portato alcuni importanti vantaggi nei rapporti fra medico e infermiere, anche questi documentati dagli infermieri che hanno partecipato attivamente alle nuove sperimentazioni:

● sono aumentate le occasioni di reciproca collaborazione e integrazione: molti dei dati raccolti e documentati sono risultati di reciproco utilizzo;

● sono migliorate le modalità di comunicazione e di conseguenza, è migliorata la comprensione e condivisione del protocollo di sperimentazione clinica; i dati e le osservazioni infermieristiche sono risultate, per questo, mirate ai problemi potenziali e agli effetti collaterali indesiderati previsti dallo studio;

● è aumentata la condivisione degli obiettivi assistenziali e di cura e la conoscenza delle potenzialità specifiche delle diverse professionalità; inoltre il gruppo medici e il gruppo infermieri, raccogliendo i dati sugli stessi pazienti, dividono i costi complessivi del progetto ed evitano gli interventi doppi o inutili.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

"Infermieri e ricerca medica" in: Rivista dell'infermiere, Il Pensiero Scientifico Editore, vol. 12, nr. 4, 1993, pp. 221-229.

Gagliano S., Dieci farmaci che sconvolsero il mondo, Laterza Roma-Bari, 1994, pp. 11-13.

Guibert H., All'amico che non mi ha salvato la vita, Guanda, Parma 1990, pp. 130-133.

Pocock S.J. Sperimentazioni cliniche, ed. Centro Scientifico Torinese, Torino 1992, pp. 101-110.

Wilber K., Grazia e grinta, tr. it. Cittadella, Assisi, 1995, p. 302 s.

PER APPROFONDIRE

Benciolini P. e Viafora C., Etica e sperimentazione medica - da cavia a partner, in Quaderni di Etica e medicina, Fondazione Lanza - Gregoriana Editrice, Padova, 1992.

Malherbe J.F., Per un’etica della medicina, Ed. Paoline, Milano, 1989.

Tempesta E., Mennelli P., Iarini L., "Il confine etico in psicofarmacologia", in Medicina e Morale, 1987, n. 5, pp. 817-835.

1 Il case management consiste in una particolare modalità organizzativa dell'assistenza infermieristica, in base alla quale un infermiere fornisce un'assistenza globale a un utente per tutta la durata del turno, ricevendo direttive dal caposala. La visione olistica della persona è alla base di questa scelta organizzativa.

2 Codice di Diritto Canonico, can 1398. "Latae sententiae" vuol dire che non è necessario che la scomunica sia pronunciata dall'autorità in ogni singolo caso. Vi incorre chiunque procura l'aborto, per il semplice fatto di procurarlo volontariamente, e sapendo di incorrervi.

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