Chi decide in medicina?

Book Cover: Chi decide in medicina?

Sandro Spinsanti

CHI DECIDE IN MEDICINA?

in Manuali di Janus

Zadig-Roma editore, Roma 2002

pp. 203

4

INDICE

pg

7         Introduzione

13       Test: cose vere, cose false sul consenso informato

19       Ma chi ha inventato il consenso informato?

       Un'americanata che non ci riguarda...

       Le critiche americane al consenso informato

       La cultura quale habitat del consenso informato

29       In quali ambiti è necessario dare il consenso?

       Sperimentazione e ricerca biomedica

       Conoscere rischi e benefici dei trattamenti

       Il coinvolgimento del paziente nelle scelte terapeutiche

45       Come è applicato il consenso informato in Italia?

       Il mito del consenso informato

       Alcune ricerche empiriche

       Le risposte ufficiali degli organismi medici

57       Quali cambiamenti culturali richiede il consenso informato?

       Il superamento dell'etica medica

       La modernizzazione dell'etica, ovvero la bioetica

       Il modello dell’empowerment del cittadino

73       A che cosa sono tenuti i medici?

       L'informazione medica nelle leggi italiane

       La Convenzione europea di bioetica

87       Il consenso informato serve a proteggersi in ambito giudiziario?

       Tribunali e dintorni

       Difendersi con rapporti di qualità

99      L'informazione rende la medicina più sicura?

       L'errore in medicina: dal fatalismo alla prevenzione

       Informazione, per prevenire gli errori

111     Quali vincoli la privacy pone all'informazione?!

       La via italiana alla privacy

       Il contesto europeo

       Tutela della privacy: i nuovi obblighi per i sanitari

127     L'informazione: al paziente o ai familiari?

       Parlare? tacere? mentire?

       Quale ruolo per la famiglia nelle decisioni cliniche?

141     Informazione e comunicazione: quali rapporti reciproci?

       Comunicare senza informare

       Informare senza comunicare

       Il consenso scritto serve alla comunicazione?

155     Che valore hanno le direttive anticipate?

       Decidere per quando non saremo in grado di decidere

       La proposta della Carta di autodeterminazione

171     A che età si diventa adulti?

       I minorenni e la legge

       Il medico e l'alleanza terapeutica con il minore I

181     Ma chi mi dà il tempo per fare informazione?

       I cittadini domandano informazione

       Che cosa si intende per sanità aziendalizzata?

       Riorganizzare i processi

191       Appendice: Check list per la qualità del consenso informato

199       Test di ingresso: soluzioni

6

7

Introduzione

Riportiamo alla memoria la scena che si svolge tra il medico curante di un personaggio e il figlio di questi, in una celebre fiction. L'anziano genitore è appena tornato a casa da un soggiorno di sei settimane in una clinica, dove si è recato per accertamenti. L'accompagna l'annuncio trionfale da parte della moglie: l'operazione esplorativa ha dimostrato che non ha niente, solo un piccolo spasmo al colon. Più gioioso di tutti è il diretto interessato, che festeggia in quel giorno 65 anni: «Mi hanno detto che vivrò. C'è un milione di sensazioni che voglio ancora provare. Tutte voglio gustarle!».

Ma il medico confida, in privato, al figlio minore un'altra verità. Il referto è di segno del tutto opposto: è un tumore maligno ed è inoperabile. Non c'è speranza. Quando il giovane contrappone le buone notizie diffuse dal medico stesso, questi non esita a riconoscere: «Bugie. Ho mentito. Anche a lui ho mentito. Etica professionale». Alla timida protesta del figlio: «È giusto illudere così il padre?», non c'è risposta. Il richiamo dell'etica professionale è risuonato come una sanzione superiore, senza appello, che non permette di mettere in discussione il comportamento del medico.

Qualcuno avrà riconosciuto il riferimento letterario: si tratta del dramma di Tennessee Williams La gatta sul tetto che scotta, del 1955, trasposta nel 1958 in un film celebre, con Paul Newman ed Elisabeth Taylor nei ruoli principali. Le coordinate cronologiche sono importanti. Per quanto non siano trascorsi ancora cinquant'anni, le norme comportamentali alle quali si fa riferimento suonano del tutto arcaiche. Ai nostri giorni, nessuno potrebbe riproporle con la tranquilla sicurezza che esibisce il medico nel dramma di Williams. E non solo negli Stati Uniti: anche nella più conservatrice Europa le

8

regole che sovraintendono al rapporto tra medici e pazienti, e i loro familiari, sono cambiate in modo irreversibile. L'etica professionale dei medici non prescrive più la menzogna come espressione della pietas del sanitario nei confronti del malato su cui incombe una diagnosi a prognosi infausta, né i costumi sociali attribuiscono ai familiari il compito di gestire l'informazione al posto della persona interessata, quali diretti interlocutori del medico. Queste regole del gioco sono franate, a dispetto della loro secolare tenuta nel tempo: nel giro di pochi anni sono state riscritte, delineando un nuovo profilo di diritti e doveri tra le parti coinvolte.

La trasformazione che è avvenuta non è stata solo repentina nel tempo ma anche radicale nel modo di concepire i rapporti tra chi eroga professionalmente cure e chi le riceve. Potremmo illustrare anche questo aspetto del cambiamento appoggiandoci a un prodotto letterario, la novella Rip van Winkle dello scrittore americano Washington Irving. Apparso nel 1819; il racconto aveva come protagonista un colono della Nuova Inghilterra. Di temperamento vagabondo, va a cacciare nelle Catskill Mountains di New York. Incontra degli strani abitanti della foresta che gli danno da bere un liquore. Beve e si addormenta. Quando si sveglia torna al villaggio nativo, ma non lo riconosce più: la moglie è morta, la figlia bambina si è sposata... Rip aveva dormito vent'anni! La pointe del racconto, che l'ha reso così popolare in America, è costituita dal momento in cui avviene il lungo sonno di Rip. Lo scrittore lo colloca a ridosso dell'indipendenza degli Stati Uniti. Quando Rip si addormenta, era ancora suddito dell'Inghilterra, quando si sveglia era già avvenuta, nel 1776, la sollevazione che dava origine al nuovo stato democratico e federale.

Forzando appena l'analogia, possiamo dire che ciò che è avvenuto nell'ambito dei rapporti medico-paziente non è dissimile da quella clamorosa trasformazione politica. Chi si svegliasse dopo un sonno di vent'anni o, più realisticamente, chi fosse vissuto per questo tempo in missione in Africa, senza rapporti quotidiani con le trasformazioni culturali che stavano avendo luogo nelle società occidentali, troverebbe, come Rip van Winkle, un mondo sanitario tutto diverso: alla monarchia

9

ha fatto seguito un tessuto repubblicano, il paternalismo è stato sostituito da rapporti egualitari, le regole etiche che riguardano l'informazione sono state riformulate.

Chi amasse scenari drammatizzati potrebbe immaginare un novello Rip van Winkle che, ricoverato in ospedale per un intervento, si vedesse sottoposto un modulo di consenso informato da firmare. Avrebbe tutte le ragioni per domandarsi che cosa è avvenuto durante il sonno. Ma non meno stupiti sono i nostri concittadini che, in un periodo di tempo non superiore al sonno attribuito al personaggio letterario, hanno vissuto la trasformazione di rapporti consolidati nel tempo. Questi rapporti, appunto, saranno l'oggetto della esplorazione che stiamo per intraprendere.

Il cambiamento in corso riguarda tutti: i professionisti sanitari, i cittadini nel ruolo di pazienti e i loro familiari. Possiamo considerare come guida al percorso alcune convinzioni di carattere generale che esplicitiamo fin dall'inizio:

● il rapporto tra medico e paziente, implicito nell'aspirazione condivisa ad avere una "buona medicina", non è più quello tradizionale. Si è avviata una rapida e profonda trasformazione delle attese dei cittadini nei confronti dei sanitari, che richiede da costoro comportamenti diversi, soprattutto nell'ambito dell'informazione

● il termine "consenso informato" è entrato nell'uso, ma non è una scelta felice. Ancor più: può essere fuorviante quando è utilizzato per indicare il cambiamento in corso, se lascia intendere che il problema centrale sia quello di ottenere il consenso

10

del paziente, mettendo in ombra l'informazione che lo precede

● la pratica attuale del consenso informato non solo non migliora i rapporti con i pazienti, ma rischia di provocare un ulteriore scollamento tra chi eroga servizi alla salute e chi li riceve

● l'etica medica tradizionale, sintetizzata talvolta con il termine paternalismo medico, non è sbagliata e non va rinnegata; deve però combinarsi con il rispetto dell'autonomia del paziente, tendendo verso il modello di una decisione consensuale

● non esistono ricette universali, né un libro di cucina del consenso informato. I nuovi rapporti tra medici e pazienti saranno il risultato di un lavoro culturale lungo, che implica trasformazioni sia da parte dei sanitari, sia dei cittadini

● anche un cammino lungo inizia con un primo passo. Per quanto riguarda i nuovi rapporti tra sanitari e cittadini è bene, fin dal primo momento, fermarsi e chiedersi se le pratiche che si stanno diffondendo nelle strutture sanitarie non ci stiano portando fuori strada.

Il libro nasce da un prolungato lavoro di formazione condotto con medici e infermieri. Presuppone numerose ore di ascolto delle domande che si pongono i professionisti rispetto al consenso informato, di dibattiti, di ricerca comune di soluzioni eticamente giustificabili. Non a caso la suddivisione dei contenuti prende la forma di risposte a precise domande.

L'etica ha molto da dire sul profilo che deve assumere la nuova relazione terapeutica. Ma non saranno gli esperti di etica a realizzarla: gli artefici potranno essere solo i professionisti sanitari. Questo sapere pratico è loro, non devono lasciarsene espropriare né dai magistrati, né dai filosofi, né dai moralisti. Per questo è necessario che si riapproprino di questo importante ambito della medicina costituito dalla qualità del rapporto con il paziente.

11

Il libro è pensato come uno strumento che stimola la ricerca di soluzioni appropriate. Per diventare più consapevoli di come individualmente ci si colloca (le conoscenze relative alle norme, le opinioni, gli atteggiamenti) può essere utile, prima di iniziare la lettura, rispondere alle domande del test che trovate nelle prossime pagine. Terminato il libro, provate a rifare il test. Se le risposte sono le stesse, la lettura è stata inutile e si è perso tempo (ma poco, il libro è piccolo!). Se invece le risposte cambiano, vuol dire che la pausa di riflessione ha portato i suoi frutti.

12

13

Test

COSE VERE, COSE FALSE

SUL CONSENSO INFORMATO

14

Test

Che cosa si intende per consenso informato?

□ dare informazioni sul proprio stato di salute al paziente che lo desidera

□ favorire una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano

□ far firmare un modulo a un paziente prima di un intervento diagnostico o terapeutico

□ informare il paziente dei rischi connessi con i trattamenti sanitari

□ chiedere al paziente il permesso di intervenire terapeuticamente

-------------

vero / falso

□ □ Nel giuramento di Ippocrate e nell’etica ippocratica che a esso si ispira è presente il concetto di consenso del paziente ai trattamenti

□ □ Secondo l’etica medica tradizionale il trattamento medico eseguito lege artis è da considerarsi lecito anche in assenza di consenso

□ □ Nel codice di Norimberga (1946) il riferimento al consenso riguarda la sperimentazione con gli esseri umani

Nella dichiarazione di Helsinki (1962) si afferma a proposito della ricerca in medicina:

□ □ Gli interessi dell'individuo devono sempre prevalere su quelli della ricerca e della società

□ □ Gli interessi della ricerca e della società devono sempre prevalere su quelli dell'individuo

-------------

Negli anni 1970-80 i giudizi penali in Italia per violazione del consenso sono stati:

□ meno di 5 □ tra 5 e 50 □ tra 50 e 100 □ oltre 100

-------------

«In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto da parie di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona ove non ricorrano le condizioni per le quali sia previsto dalla legge il trattamento sanitario obbligatorio».

Questo testo è tratto da:

□ La carta dei diritti del malato della regione Toscana

□ Una sentenza penale (Verona, 1991)

15

□ Il codice deontologico della Federazione nazionale dell'ordine dei medici (1998)

-------------

«Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve anzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell'intervento e sulle conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso». (Convenzione europea sui Diritti dell'uomo e la biomedicina, Oviedo 1996, articolo 5).

vero / falso

□ □ La Convenzione europea obbliga gli stati dell'Unione Europea che la ratificano, ad applicare le norme all'interno dei singoli ordinamenti nazionali

□ □ La Convenzione europea non ha valore normativo, ma solo esortativo proponendo un modello a cui gi stati sono liberi di uniformarsi

□ □ Le norme della Convenzione europea sono state respinte dal Parlamento italiano, in quanto non applicabili sul proprio territorio

-------------

vero / falso

□ □ La Federazione nazionale dell'ordine dei medici ha promosso e diffuso il documento del Comitato nazionale per la bioetica: Informazione e consenso all'atto medico (1992)

□ □ Il medico è tenuto a prendere le decisioni cliniche in scienza e coscienza e non deve rendere conto di esse a nessuno

□ □ Il paziente autonomo è quello che sceglie al posto del medico

□ □ Il concetto di consenso informato è entrato esplicitamente nella legislazione italiana solo con la legge 107/1990 sulle trasfusioni di sangue

□ □ Il paziente, una volta firmato un modulo di consenso informato, si assume ogni responsabilità sull’andamento e l’esito della procedura

□ □ Nel caso di un traumatizzato in stato di incoscienza, il medico deve ottenere il consenso dai parenti per le cure del caso

□ □ Il paziente si può affidare al medico per un intervento specifico, rinunciando a una precisa informazione sull’intervento stesso

□ □ Se il medico lo ritiene necessario, può cambiare tipo di intervento senza consultare nuovamente il paziente

□ □ La comunicazione delle alternative terapeutiche costituisce un elemento irrinunciabile per esprimere un consenso valido

16

□ □ Se il paziente rifiuta di firmare il modulo di consenso informato, il medico può smettere di assisterlo

□ □ Il principio del consenso informato si applica a ogni singola procedura diagnostica o terapeutica

□ □ Il Codice deontologico dei medici italiani (1998) consiglia il consenso informato in forma scritta quando «si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà della persona»

□ □ Il consenso in forma scritta è integrativo e non sostitutivo del processo informativo

□ □ Un atto medico in cui sia stato espresso un consenso informato è sempre eticamente giusto

□ □ Un atto medico in cui sia stato espresso un consenso informato è sempre giuridicamente lecito

□ □ Il modulo di consenso informato fornisce una prova di corretta informazione al paziente

□ □ Il consenso informato riguarda solo i maggiorenni; per chi non abbia compiuto 18 anni non è necessario ottenere il consenso dell’interessato

-------------

I seguenti brani sono tratti da diverse stesure del codice deontologico dei medici. Si chiede di segnare la data corretta per ciascun brano:

«Il medico potrà valutare l’opportunità di tenere nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti»

□ 1998 □ 1995 □ 1989 □ 1978

«Una prognosi grave e infausta può essere tenuta nascosta al malato, ma non alla famiglia»

□ 1998 □ 1995 □ 1989 □ 1978

«L'informazione ai congiunti è ammessa solo se il paziente la consente»

□ 1998 □ 1995 □ 1989 □ 1978

«L’informazione a terzi é ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente»

□ 1998 □ 1995 □ 1989 □ 1978

-------------

Il Codice deontologico dell’infermiere (1999) fa riferimento alla partecipazione dell’infermiere al consenso informato. La sua presenza serve a:

17

vero / falso

□ □ Testimoniare la conformità dell'atto medico alle norme che regolano il consenso

□ □ Collaborare per l’informazione del paziente

□ □ Controfirmare il modulo di consenso informato

-------------

vero / falso

□ □ L'infermiere professionale e il/la caposala possono informare il paziente sulle modalità di esecuzione di esami a rischio, purché siano autorizzati dal medico

□ □ Raccogliere la firma del paziente sul modulo è compito del personale infermieristico

[Consulta le risposte al test a pagina 199]

18

19

CAPITOLO UNO

MA CHI HA INVENTATO IL CONSENSO INFORMATO?

Un'americanata che non ci riguarda...

Le critiche americane al consenso informato

La cultura quale habitat del consenso informato

20

Un'americanata che non ci riguarda...

Una delle obiezioni al consenso informato che capita più di frequente di sentire tra coloro che si oppongono a questa pratica è che si tratti di qualcosa di estraneo alla nostra cultura; è un'americanata! E la qualifica vuol essere l'equivalente di una bocciatura senza appello. Quasi che il consenso informato, come una pianta esotica, non possa attecchire alle nostre latitudini mediterranee. È pur vero che gli Stati Uniti hanno introdotto dei cambiamenti rilevanti nel rapporto tradizionale tra operatori sanitari e pazienti, svolgendo in questo ambito un ruolo pionieristico. La linea teorica che privilegia l'autonomia del paziente rispetto al diritto del medico di decidere unilateralmente secondo quanto ritenga apportare un beneficio al paziente si è spinta fino a riconoscere per legge il diritto all'autodeterminazione del cittadino di fronte al sanitario.

La Legge sull'autodeterminazione del paziente (Patient Self Determination Act), entrata in vigore il 1° dicembre 1991, stabilisce che ogni istituzione sanitaria che riceve pazienti assistiti dai due programmi federali Medicare e Medicaid è tenuta a fornire ai pazienti in modo sistematico, al momento della loro ammissione in ospedale, informazioni riguardo alle leggi statali relative alle advance directives (vale a dire le disposizioni previe che la persona impartisce per il caso in cui non sia più in grado di intendere e di volere) e sollecitare l'autodeterminazione del paziente.

Il senatore Danforth, proponente della legge e suo accanito difensore durante il travagliato iter parlamentare e l'acceso dibattito che l'ha accompagnata, l'ha giustificata sostenendo: «Per la prima volta ai pazienti adulti viene fornita la conoscenza dei loro diritti legali per prendere le decisioni relative ai trattamenti sanitari».

La legge per l'autodeterminazione obbliga, infatti, gli ospedali e le case di riposo per anziani a istituire dei meccanismi per rendere edotti i pazienti dei loro diritti legali, che prevedono la facoltà di accettare

21

o rifiutare il trattamento medico. Qualora diventassero incapaci di prendere le decisioni per sé, sono state approvate dai diversi stati americani procedure giuridiche volte a individuare in modo chiaro chi è autorizzato a parlare in nome del paziente e a prendere le decisioni al posto suo (come il living will, noto in Europa come "testamento biologico", e varie forme di direttive anticipate: advance directives, il durable power of attorney, ecc.).

Sullo sfondo della legge americana che obbliga le istituzioni sanitarie a sollecitare l'autodeterminazione del malato sta la necessità di avere delle indicazioni chiare circa la volontà del paziente, qualora questi non sia più in grado di esprimerla. Il dato con cui bisogna fare i conti è la statistica fornita dall'American Medicai Association: negli Stati Uniti ormai il 70 per cento delle morti sopravviene dopo la decisione di rinunciare a un possibile trattamento medico o di interrompere quello in corso.

È facile immaginare i dilemmi e le angosce che questo tipo di decisione suscita nei sanitari e nei familiari, nonché i possibili risvolti legali, in un paese in cui la litigiosità giudiziaria in campo sanitario raggiunge livelli impensabili nella nostra tradizione.

Periodicamente, l'opinione pubblica americana si appassiona o per un caso in cui i familiari vogliono interrompere un trattamento che prolunga la vita, ritenendo di esprimere o interpretare la volontà del proprio congiunto (famosi i casi di Karen Ann Quinlan e di Nancy Cruzan), o per casi di segno opposto: come lo scontro tra i medici che vorrebbero interrompere un trattamento ormai "futile" (oltre che inutilmente costoso), mentre i congiunti si oppongono, adducendo la volontà del congiunto che non si intraprenda niente che potrebbe abbreviare la vita.

La legislazione americana relativa all'autodeterminazione non è solo una risposta alla diffusione di cause per malpractice o una misura per prevenirle: alla base c'è

Il consenso

informato è

nato negli Stati Uniti sull'onda

dei movimenti

per i diritti

civili.

Ed é

diventato legge

più di dieci anni fa

22

anche una preoccupazione etica. Soprattutto in America il movimento della bioetica ha operato uno spostamento d'accento dalla prospettiva centrata sul giudizio espresso dai professionisti sanitari (autorizzati a valutare il "bene del paziente" e a perseguirlo con ogni mezzo appropriato) a una tutela della volontà del malato, dei suoi valori e delle sue preferenze. Da questo punto di vista, la legge sull'autodeterminazione può essere considerata uno dei frutti tardivi del movimento per i diritti civili, che tante innovazioni ha portato nella vita civile del paese nelle ultime tre decadi (quasi che, dopo i neri, le donne e gli omosessuali, fossero arrivati i pazienti a emanciparsi, facendo valere i propri diritti...!).

Il consenso informato nella pratica medica è l'equivalente dell'esercizio della libertà nel movimento dei diritti civili. Esso è costituito da tre importanti elementi: l'informazione (con il problema connesso della capacità del soggetto di comprendere l'informazione medica). La libertà da coercizione o da pressioni nelle scelte, con i due corollari dell'autonomia del paziente e del paternalismo professionale dei medici. La capacità del paziente di prendere una decisione in modo competente.

Le critiche americane al consenso informato

La scelta americana di imporre il consenso informato per legge (con il rinforzo di un meccanismo di sanzione economica: le istituzioni sanitarie non sono rimborsate se non dimostrano di aver ottemperato alle procedure previste dalla legge sull'autodeterminazione) ha suscitato molti contrasti. L'aspetto più preoccupante è il pericolo che l'attenzione alla volontà e ai valori del paziente in questo modo slitti dal piano dell'etica, dove a guidare l'azione è ciò che si ritiene buono o giusto, o della "parenetica" (ovvero l'esortazione che induce l'altra persona a fare ciò che ai nostri occhi è meglio o più appropriato; si tratta di quel genere di interazioni per le quali oggi si ricorre all'espressione moral suasion) a quello della legge, in cui i comportamenti sono vincolati dai diritti e doveri formalmente riconosciuti. Il consenso informato diventa un documento legalmente vincolante.

I fautori della legge hanno voluto vedervi il punto di arrivo di due decenni di bioetica, tesa a portare dentro la pratica della medicina i valori dell'autonomia e dell'autodeterminazione, in accordo con l'aspirazione molto presente nella cultura americana a salvaguardare in

23

ogni caso la libertà individuale. Ma è sufficiente che un'idea sia buona, perché lo diventi anche la legge che la traduce in pratica? Un consenso legalmente valido può non coincidere con uno moralmente valido. Lo strumento legislativo è troppo grossolano per cogliere tutte quelle sfumature intermedie della capacità di intendere e di volere, e quindi di prendere delle decisioni relative alla vita e alla salute, che si collocano tra i due estremi del paziente riconosciuto ufficialmente incapace e di colui che gode del più pieno possesso delle sue facoltà.

I casi quotidiani più numerosi e controversi con cui si devono confrontare i professionisti sanitari sono invece quelli che prevedono una capacità di autodeterminarsi dubbia o mutevole. Il rischio peggiore è che il consenso informato imposto per legge si traduca in un ulteriore atto burocratico. È facile fare dell'ironia a proposito. Conosciamo tutti, per averla ripetutamente vista al cinema, la procedura della polizia americana che consiste nel leggere al cittadino che viene arrestato la lista dei sui diritti. Nel gergo della polizia, l'arrestato viene "mirandizzato" (dal nome della cosiddetta norma Miranda, stabilita dalla Suprema Corte nel 1966, che ha introdotto la tutela di questo tipo di diritti).

Sappiamo che si tratta di una procedura, è importante eseguirla (altrimenti qualsiasi avvocato può contestare l'arresto per vizio di forma), ma non è essenziale che la persona interessata vi prenda parte in modo consapevole: la forma viene rispettata anche se l'indiziato non sa l'inglese e quindi non capisce una parola di ciò che gli viene letto. Si può ipotizzare che, in modo analogo, per la burocrazia ospedaliera possa diventare rilevante solo sapere se il paziente è stato debitamente "danforthizzato" (il senatore del Missouri Danforth ha legato, come abbiamo menzionato, il suo nome alla legge sulla autodeterminazione), senza curarsi del senso e del modo in cui la procedura viene realizzata... Il rischio che si profila è quello di un ulteriore impoverimento del tessuto relazionale che costituisce la dimensione umana della professione medica.

Il rischio

di un consenso

stabilito

per legge è che

venga utilizzato

come un atto

burocratico qualsiasi

24

La cultura quale habitat del consenso informato

Pur con la debita considerazione delle critiche e delle riserve che hanno accompagnato il consenso informato nel paese che gli ha dato il maggior rilievo sociale, fino a introdurlo per legge nella pratica della medicina, resta il fatto che non tutti sono disposti ad aprire le porte a comportamenti così innovativi rispetto a quelli che in medicina si tramandano da secoli. Nella qualifica di americanata possiamo leggere non solo una svalutazione di carattere spregiativo, ma anche una considerazione più costruttiva: il consenso informato è un elemento di una cultura, non lo si può prendere isolatamente, isolandolo dal contesto di valori e comportamenti che costituiscono un tutto organico. Più specificamente, qualificando il consenso informato come americano, si intende affermare che è di casa nella cultura individualistica e giuridica degli Stati Uniti, mentre è estraneo alla nostra cultura latina, e a quella italiana in particolare.

È ben vero che una cultura presuppone un modo coerente di concepire e dare valore ai rapporti sociali. Quando passiamo da una cultura all'altra, non è solo la diversità della lingua che crea un certo spaesamento, ma il modo in cui è organizzata la società. La lingua potrebbe essere la stessa, ma la cultura diversa: per questo un inglese si sente straniero negli Stati Uniti, pur parlando approssimativamente la stessa lingua inglese, e un italiano sente di essere capitato in un'altra cultura quando va nel Canton Ticino, malgrado vi si parli italiano.

Un modo efficace di mettere in evidenza le differenze culturali è la comparazione sincronica: considerare in parallelo due comportamenti che avvengono nello stesso tempo, ma in due contesti diversi. Prendiamo per esempio l'anno 1991. Abbiamo visto come la legge dell'autodeterminazione, entrata in vigore negli Stati Uniti, richieda che il paziente sia pienamente informato, per poter rendere effettivo il suo diritto a determinare il corso delle azioni terapeutiche in conformità con i suoi valori e preferenze. Possiamo trovare un esempio di comportamento completamente diverso, eppure qualificato come "buona" medicina, nel contesto italiano. Il numero di maggio-giugno 1991 della Rivista italiana di psico-oncologia riportava un articolo che nasceva da un'apprezzabile attenzione agli aspetti umanistici della medicina: stabiliva, infatti, una comparazione tra tre diversi protocolli terapeutici per pazienti con carcinoma polmonare inoperabile, per vedere se, dal

25

punto di vista della qualità della vita, le tre diverse modalità di intervento avessero degli effetti più o meno tollerabili, o migliori dal punto di vista del paziente.

L'articolo riporta il disegno dello studio, i diversi protocolli nei quali sono stati distribuiti tutti i cinquanta pazienti affetti da carcinoma polmonare inoperabile, le procedure che hanno guidato la ricerca. La procedura è descritta in questi termini: «La raccolta dei dati anagrafici e l'indagine psico-diagnostica sono state effettuate, per tutti i pazienti, prima dell'inizio della chemioterapia nei locali del day hospital oncologico. Nessun paziente era a conoscenza della diagnosi, né al momento della prima somministrazione, né al momento del follow up. I pazienti erano stati informati di avere una malattia grave di tipo infiammatorio, che necessitava di cure intensive ed efficaci». Non possiamo impedirci di chiederci: quale malattia può essere chiamata malattia grave di tipo infiammatorio e necessita di cure intensive ed efficaci? Una broncopolmonite, per esempio!

A questo punto, comparando sincronicamente i due comportamenti descritti, possiamo immaginare due scenari, che nascono da due diverse culture circa l'informazione che va data al paziente e al suo ruolo nelle scelte terapeutiche. Negli Stati Uniti, nel 1991, si ricovera un paziente con la broncopolmonite, al momento dell'ammissione in ospedale gli viene detto: «Guardi che le cose potrebbero anche andare male. Qualora lei dovesse entrare in coma e non potesse più decidere per se stesso, a chi attribuisce la facoltà di prendere le decisioni al posto suo?». In Italia, nel 1991, un paziente ha un carcinoma inoperabile, i medici gli garantiscono una cura chemioterapica secondo lo standard attuale delle conoscenze e delle capacità mediche; anzi, ci sono anche degli psiconcologi che si preoccupano di stabilire quale tra tre protocolli chemioterapici produca una migliore qualità di vita. Ma al paziente dicono: «Non è niente, è una broncopolmonite, insomma, qualcosa che si risolve con le cure efficaci che le facciamo». La differenza tra i due comportamenti non potrebbe essere maggiore.

26

È una questione di cultura? Certamente!

Ci tratteniamo dall'esprimere un giudizio positivo sull'uno e negativo sull'altro. Al fondo troviamo modi diversi di rappresentarsi il ruolo del medico e soprattutto che cosa è dovuto al malato, qual è l'informazione giusta. La comparazione non fa che accentuare la relatività dei comportamenti, in quanto riferibili a un contesto: essendo il consenso informato un'espressione culturale, non può essere trasferito da una cultura all'altra senza provocare profondi cambiamenti. Ed è pienamente legittimo propendere per la cultura in cui siamo nati e cresciuti.

Tuttavia sarebbe illusorio pensare che la cultura italiana sia così omogenea, così compatta e solida, come amiamo rappresentarcela. Uno stimolo alla riflessione in questo senso viene dalla ricerca condotta in Toscana da un'antropologa, Deborah Gordon, e da un epidemiologo, Eugenio Paci, su come reagiscono medici e infermieri relativamente al problema dell'informazione del paziente con carcinoma o con malattie a prognosi infausta (D. Gordon, e E. Paci, "Parlare o tacere? Narrazioni culturali e cancro", in L'Arco di Giano, 14, 1997, pp. 83-99). La loro conclusione è che in Toscana non esiste una sola cultura che guida i comportamenti di tutti gli attori coinvolti, chiedendo a tutti di conformarsi su un modello unanimemente ritenuto giusto, ma esistono quantomeno due subculture, che vengono chiamate narrazioni culturali: la narrazione di "autonomia e controllo" e quella di "protezione sociale". In queste due narrazioni è diverso ciò che ci si aspetta dai medici, dai familiari, dal malato stesso. Diverse sono le narrazioni riguardo a chi ha la priorità, se l'individuo o il gruppo, la famiglia. Quali sono i modi più appropriati di affrontare la sofferenza e il pericolo, quali sono i modi migliori per comunicare. In un modello il primato spetta all'individuo, nell'altro al gruppo; in uno prevale la comunicazione diretta, nell'altro invece il lasciar capire o il nascondere. In uno viene riconosciuto all'individuo il diritto di controllare il proprio destino, e quindi il dovere di dargli le informazioni necessarie per farlo, nell'altro invece è il gruppo (la famiglia) che conforta, consola, minimizza, tranquillizza, non fa stare in pena.

Per la questione del consenso informato è di particolare importanza determinare chi deve prendere le decisioni relative alla terapia. Nel modello autonomia-controllo le decisioni le prende il paziente, o il medico più il paziente, mentre nel modello di protezione sociale le decisioni le prende il medico, oppure il medico più la famiglia («Dottore, non dica a lui, dica a noi, decidiamo noi per lui»).

27

Le due diverse narrazioni culturali, riscontrate in un territorio omogeneo come la Toscana, collocano l'informazione in due contesti che divergono nel significato da attribuire ai comportamenti. La narrazione della protezione sociale potrebbe cominciare così: «In principio c'erano Dio e la famiglia, che hanno creato i bambini e proteggono i deboli nei momenti di difficoltà». La vita e le persone sono fondamentalmente fragili e bisognose di protezione. La sofferenza non può essere eliminata, ma può e deve essere ridotta al minimo, in parte attraverso la protezione del gruppo sociale: qualsiasi mezzo utilizzato dal gruppo a questo fine è buono, anche inventare storie e mentire. Ai duri colpi della vita si fa fronte mantenendo la continuità della vita quotidiana. La maturità non è un processo lineare: si rimane bambini per tutta la vita di fronte a Dio, ai genitori, alle persone più anziane.

Questo comporta che in caso di malattie ci saranno altri che assumeranno in toto la responsabilità delle cure. Il primo dovere è proteggere gli altri dalla sofferenza, non dare "dispiaceri". Lo stile comunicativo predilige il silenzio, l'ambiguità dei messaggi, la comunicazione indiretta. Il campo sociale è immaginato come un'efficace difesa di fronte a verità che farebbero soffrire (come, appunto, una diagnosi di cancro). Per questo la narrazione della protezione sociale tende a una pratica comunicativa in cui chi detiene le informazioni sulla malattia (il medico e la famiglia) non le trasmette al malato.

La narrazione sottostante alla pratica della comunicazione aperta della diagnosi, che in ambito medico si traduce soprattutto nella promozione del consenso informato, potrebbe iniziare il suo racconto della creazione con: «In principio c'era l'individuo». Nella narrazione culturale di autonomia-controllo, infatti, l'individuo è sovrano: sulla sua vita, sul suo corpo, sulla propria identità personale.

Solo la persona coinvolta sa cosa è meglio per se stessa ed è davvero capace di prendere le decisioni che la riguardano. L'autonomia e l'autodeterminazione sono

Ambiti culturali

diversi

definiscono

prassi diverse,

ma nessuna

cultura è

monolitica e

immutabile

28

valori primari e rappresentano dei diritti fondamentali di ogni essere umano. L'informazione è essenziale per poter scegliere. Per questo è necessaria una comunicazione chiara ed esplicita. Dunque anche nella nostra società la cultura non è monolitica, ma porosa, frastagliata e lascia convivere sistemi di riferimento diversi. Inoltre la cultura italiana è in cambiamento: la passività con cui i cittadini hanno accettato finora di essere esclusi dall'informazione oggi è sempre più rimessa in discussione da parte dei pazienti stessi. Una recente ricerca Censis sul rapporto tra paziente e medico di medicina generale (confrontando i dati 2001 e 2002 del Monitor biomedico) vede le esigenze dei pazienti in tema di informazione sanitaria così distribuite:

● la maggioranza del campione (62,7%) pretende che l'informazione sia approfondita e non superficiale o generica e la collega a un modello di relazione con il medico che si fondi sulla collaborazione e che consenta al paziente di partecipare alle decisioni terapeutiche

● molto più ridotta (21,4%) è la quota di coloro che rivendicano il diritto alla decisione autonoma e che pretendono di ottenere a questo fine tutte le informazioni necessarie

● più bassa in assoluto (15,9%) la percentuale di coloro che attribuiscono tutto sommato un ruolo marginale all'informazione e dicono di pretendere solo informazioni essenziali, in quanto le decisioni sulle scelte terapeutiche sono di competenza esclusiva del medico (Censis-Forum per la ricerca biomedica: Le garanzie per la salute fra globalizzazione e localismo, FrancoAngeli, Milano 2003).

Inoltre più del 60 per cento degli intervistati concepisce il nuovo modello di relazione con il medico fondato sulla "collaborazione reciproca in vista della salute": un rapporto che implica fiducia, un buon livello di comunicazione e rispetto reciproco tra i due partner della relazione. Questa e analoghe ricerche confermano, in sostanza, che anche la cultura italiana relativamente all'informazione e al rapporto con il medico si sta modificando e differenziando. Non è più giustificato il cliché che riservava l'informazione ai pazienti anglosassoni, mentre quelli di cultura latina non vogliono sapere. La globalizzazione non riguarda solo l'economia: anche i comportamenti medici si stanno modellando su standard condivisi a dimensione mondiale.

29

CAPITOLO DUE

IN QUALI AMBITI È NECESSARIO DARE IL CONSENSO?

Sperimentazione e ricerca biomedica

Conoscere rischi e benefici dei trattamenti

Il coinvolgimento del paziente nelle scelte terapeutiche

30

Sperimentazione e ricerca biomedica

Nell'inventario delle situazioni che hanno modificato il rapporto tradizionale tra medico e paziente, il primo posto spetta agli interventi che devono essere qualificati come ricerca biomedica. La priorità è anzitutto cronologica, in quanto il problema del consenso è stato sollevato originariamente in rapporto ad atti e procedure finalizzate non a ottenere una guarigione, ma a perseguire conoscenze biologiche, eventualmente utilizzabili a fini terapeutici.

La società nel suo insieme, accettando l'introduzione del metodo scientifico in medicina, ha implicitamente avallato la sperimentazione come via per la crescita del sapere. I primi seri interrogativi sulle regole etiche che devono guidare la ricerca biomedica risalgono al trauma avvenuto nell'opinione pubblica quando si è venuti a conoscenza, all'indomani della seconda guerra mondiale, delle sperimentazioni crudeli e insensate, espressione di sadismo più che di amore per la scienza, eseguite da medici nazisti su prigionieri nei lager. La fiducia incondizionata nell'ethos professionale dei medici, come garante contro la possibilità di abusi, è stata scossa.

Sull'onda dell'emozione e nel ricordo dell'orrore, si è fatta strada la convinzione che fosse necessario procedere a una severa regolamentazione in questo ambito. Frutto di questa presa di coscienza è stato il cosiddetto Codice di Norimberga, elaborato nel 1946: un documento in dieci punti inteso a limitare le possibili sperimentazioni mediche su soggetti umani.

Come condizioni necessarie per giustificare moralmente un esperimento con esseri umani, il Codice di Norimberga prevede esplicitamente, oltre all'utilità e all'innocuità dell'esperimento, il consenso del soggetto sperimentale. Il consenso è, precisamente, il primo dei dieci punti che costituiscono il documento:

Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale. Ciò significa che la persona in questione deve avere

31

capacità legale di dare il consenso, deve essere in grado di esercitare il libero arbitrio senza l'intervento di alcun elemento coercitivo, inganno, costrizione, falsità o altre forme di imposizione o violenza; deve avere sufficiente conoscenza e comprensione degli elementi della situazione in cui è coinvolto, tali da metterlo in posizione di prendere una decisione cosciente e illuminata.

Successivamente l'Associazione Medica Mondiale si è occupata a più riprese di formulare norme deontologiche per i medici che conducono ricerche con soggetti umani. La Dichiarazione sulle ricerche biomediche (nota come dichiarazione di Helsinki, promulgata nel 1964, rivista poi a Tokyo nel 1975, a Venezia nel 1983, a Hong Kong nel 1989, fino alla più recente rielaborazione adottata dall'Assemblea generale di Edimburgo nell'ottobre 2000) è più analitica del Codice di Norimberga. Tra le regole centrali troviamo ancora quella del consenso:

● Art. 9

Al momento di ogni ricerca sull'uomo, l'eventuale soggetto sarà informato in modo adeguato sugli obiettivi, metodi, benefici attesi e sui rischi potenziali e sugli svantaggi che potrebbero derivargliene. Egli (ella) dovrà anche essere informato (a) che è libero (a) di disimpegnarsi in qualsiasi momento. Il medico dovrà ottenere il consenso libero e cosciente del soggetto, preferibilmente per iscritto.

Nei vari sviluppi della normativa (dichiarazioni internazionali e linee guida) risulta evidente che l'interesse è rivolto alla protezione del soggetto, soprattutto sul versante della sua libera partecipazione alla sperimentazione. Quello che si vuol prevenire è l'arruolamento di soggetti in ricerche cliniche e sperimentazioni mediante la costrizione, l'inganno, le intimidazioni o le incentivazioni che utilizzano la debolezza di persone che si trovano in posizione di vulnerabilità (detenuti, militari, persone

Dal Codice

di Norimberga

in poi, il

consenso è

diventato un

punto nodale

di ogni norma

per la

sperimentazione sull'uomo

32

che versano in condizioni di estrema indigenza ecc.).

Tra le condizioni che devono essere rispettate, affinché una ricerca possa essere considerata etica, c'è anche quella della tutela dell'individuo su cui viene condotta la sperimentazione:

● Art. 6

Il diritto del soggetto alla salvaguardia della sua integrità e della sua vita privata deve sempre essere rispettato. Tutte le precauzioni devono essere prese per ridurre le ripercussioni dello studio sull'integrità fisica e mentale del soggetto e sulla sua personalità.

Ne consegue che, per quanto grandi possano essere i vantaggi per il progresso delle conoscenze e l'avanzamento delle possibilità terapeutiche della medicina, nessuna ricerca è eticamente accettabile se sacrifica qualcuno al bene della collettività: «Gli interessi del soggetto debbono sempre prevalere su quelli della scienza e della società».

Progressivamente nella riflessione etica l'accento si è spostato dalla libertà del consenso alla qualità dell'informazione che lo precede. È evidente, infatti, che lo scienziato e il soggetto sperimentale non si trovano su due posizioni equiparabili, quanto a conoscenze e a potere decisionale. È facile estorcere un consenso, sottraendo o manipolando le informazioni. L'autonomia dell'individuo è rispettata solo se, prima di acconsentire a essere arruolata nell''esperimento, la persona coinvolta ha ricevuto le informazioni necessarie, le ha comprese e ha valutato tutta la portata della sua partecipazione alla ricerca. Questo insieme di condizioni viene per lo più evocato dalla dizione abbreviata consenso informato (traduzione letterale dell'inglese informed consent).

Gli accordi protocollari hanno ormai una dimensione internazionale: le regole della sperimentazione con gli esseri umani sono uguali in tutto il mondo. Nell'ambito della ricerca è stata raggiunta per prima la consapevolezza che l'affidamento fiduciario che tradizionalmente si richiedeva al paziente non è più compatibile con lo spirito del nostro tempo, quando si tratta di ricerca e trattamenti sperimentali. È diritto del soggetto essere informato ― a cominciare dall'informazione fondamentale: che ciò a cui sta per essere sottoposto non è il trattamento standard per la patologia da cui è affetto, ma è per l'appunto una ricerca, da cui ci si attende un aumento delle conoscenze scientifiche ― e dare il proprio consenso.

È dovere del ricercatore chiedere il consenso, dopo aver fornito le

33

informazioni che rendono finalità e metodi della ricerca trasparenti.

Fin dal 1985 la Comunità Economica Europea ha elaborato un documento destinato a essere il naturale punto di riferimento per il mercato unico europeo dei farmaci. Il documento, Norme di buona pratica clinica nei trial su prodotti farmaceutici condotti nella Comunità Europea, in sigla: Good Clinical Practice, dopo diverse revisioni, è stato pubblicato nella sua forma definitiva l'il luglio 1990. Il documento della Cee recepisce gli elementi fondamentali della strategia di protezione dei soggetti umani coinvolti nella sperimentazione, e cioè il consenso informato e la revisione dei protocolli sperimentali a opera dei comitati di etica. Inoltre fornisce una dettagliata concretizzazione dei principi sul piano operativo.

L'Italia ha recepito il documento della Cee con un decreto del ministero della Sanità (27 aprile 1992): Disposizioni sulle documentazioni tecniche da presentare a corredo delle domande di autorizzazione all'ammissione in commercio di specialità medicinali per uso umano, in attuazione della direttiva n° 91/507/CEE. Il decreto ministeriale fornisce anzitutto alcune definizioni, che dovrebbero entrare nel lessico non solo dei ricercatori, ma anche dei cittadini, per poter essere coinvolti consapevolmente nelle sperimentazioni. Come norme di buona pratica clinica si intende lo standard in base al quale gli studi clinici sono programmati, eseguiti e relazionati, in modo che vi sia pubblica garanzia di attendibilità dei dati e di protezione dei diritti, dell'integrità e della confidenzialità dei soggetti.

Per consenso informato si intende l'assenso volontario di un soggetto a partecipare a uno studio e la relativa documentazione. Tale assenso dovrebbe essere richiesto solo dopo aver fornito le informazioni sullo studio che includano i suoi obiettivi, i potenziali benefici, rischi e inconvenienti, nonché i diritti e le responsabilità del soggetto. Il lessico premesso alle linee guida ci porta anche a fare la conoscenza di una struttura di recente istituzione nell'ambito biomedico: il comitato etico.

La Comunità

europea

ha elaborato

nel 1985

il primo

documento

sulla buona

pratica clinica.

Il recepimento

italiano risale

al 1992

34

Questo è definito come una struttura indipendente, costituita da medici e non, il cui compito è di verificare che vengano salvaguardati la sicurezza, l'integrità e i diritti umani dei soggetti partecipanti a uno studio, fornendo in questo modo una pubblica garanzia.

I comitati etici debbono essere istituiti e operare in modo tale che l'idoneità degli sperimentatori, delle strutture e di protocolli, i criteri di selezione dei gruppi di soggetti per tali studi e l'idoneità delle salvaguardie di riservatezza possano essere obiettivamente e imparzialmente esaminati, indipendentemente dallo sperimentatore, dallo sponsor e dalle autorità coinvolte.

Dal documento ministeriale con cui vengono recepite le norme di buona pratica clinica europee (G.C.P.) appare evidente che sono finalizzate soprattutto a fornire salvaguardia ai soggetti che partecipano alle ricerche:

● l'integrità personale e il benessere dei soggetti coinvolti in uno studio è responsabilità primaria dello sperimentatore in rapporto allo studio; ma una garanzia indipendente che i soggetti sono tutelati è fornita da un comitato etico e dal consenso informato liberamente ottenuto

● nessun soggetto può essere obbligato a partecipare a uno studio. Ai soggetti e ai loro parenti o, se necessario, rappresentanti legali deve essere data ampia opportunità di informarsi sui dettagli dello studio. L'informazione deve chiarire che il rifiuto di partecipare allo studio o l'abbandono di esso in qualsiasi momento non andrà a scapito delle successive cure del soggetto. Ai soggetti dovrà essere dato tempo sufficiente per decidere se vogliono o no partecipare allo studio

● se un soggetto acconsente a partecipare dopo una completa ed esauriente esposizione dello studio (che includa i suoi scopi, i benefici attesi per i soggetti o altre persone, i trattamenti di confronto/placebo, rischi e inconvenienti e, quando appropriato, una illustrazione della terapia medica alternativa standard riconosciuta), il consenso deve essere registrato in modo appropriato

● il consenso deve essere documentato o dalla firma datata del soggetto o dalla firma di un testimone indipendente che attesta l'assenso del soggetto

35

● il consenso deve sempre essere firmato dal soggetto nel caso di studio non terapeutico, cioè quando non è beneficio clinico diretto per il soggetto.

Le linee guida dell'Unione Europea riguardanti la Good Clinical Practice sono state aggiornate negli anni '90. Anche la versione più recente è stata recepita dall'Italia mediante decreto del ministero della Sanità n. 191 del 18 agosto 1997.

L'innovazione di maggior impatto nel controllo etico della sperimentazione è il decentramento dei comitati etici, deliberato con decreto ministeriale del 18 marzo 1998: Linee guida di riferimento per l'istituzione e il funzionamento dei comitati etici. Questi organismi, indipendenti per natura, vengono istituiti in ciascuna azienda sanitaria locale e in ciascuna azienda ospedaliera. La loro composizione deve garantire che all'interno del comitato ci siano globalmente le competenze necessarie per valutare gli aspetti sia etici sia scientifico metodologici delle ricerche proposte. È prevista a questo fine la presenza di componenti estranei alla professionalità medica e alle professionalità tecniche (compresi anche rappresentanti del volontariato e dell'associazionismo di tutela dei pazienti).

Ai comitati etici passano compiti che prima erano gestiti centralmente dal ministero della Sanità, come il cosiddetto "giudizio di notorietà" relativo a farmaci di non nuova istituzione, per i quali si certifica che si conosce sia la composizione, sia la non nocività. L'orientamento è quindi verso un minore impegno autorizzativo centrale, a favore di una maggiore responsabilizzazione delle strutture di controllo locali.

Il mandato principale del comitato etico è di valutare gli aspetti etici delle ricerche sottoposte alla sua attenzione:

I soggetti coinvolti a qualunque titolo nella sperimentazione non possono essere sottoposti a indagini o terapie non necessarie per la loro patologia, se tali indagini o terapie arrecano danno, o sofferenza, o espongono a rischi. Essi non possono

La scelta di

decentrare

i comitati etici

assegna

autonomia alle

aziende

sanitarie e

ospedaliere,

responsabilizzandole

36

essere inclusi in una sperimentazione se non avranno dato preliminarmente un consenso informato, ritenuto idoneo dal comitato etico per contenuti informativi e per modalità di richiesta.

Conoscere rischi e benefici dei trattamenti

Uno scenario diverso si crea nell'ambito di procedure diagnostiche e trattamenti a carattere non sperimentale, quindi in un contesto terapeutico, ma che comportano un certo grado di pericolosità e di effetti collaterali negativi. Una trasfusione sanguigna, per esempio, è quanto di più standardizzato si possa immaginare in medicina, eppure non è esente da rischi (come potrebbe essere un contagio con il virus dell'epatite). Ci rendiamo sempre più conto che, pur avendo il medico la delega da parte della società a fare per il paziente ciò che secondo lo stato dell'arte medica risulta appropriato, e magari anche da parte del paziente la richiesta esplicita a fare tutto il possibile in vista del risultato terapeutico, non sarebbe corretto nei confronti del paziente nascondergli i rischi.

Per alcune di queste procedure esiste un vero e proprio obbligo formale di informare il paziente e di chiedergli il consenso alle procedure (così nel caso delle trasfusioni sanguigne). Per tutte, possiamo parlare di obbligo morale. Indipendentemente dall'intenzione, più che legittima, del medico di mettersi al riparo da future possibili rivendicazioni del paziente per via giudiziaria, non è accettabile che il medico si assuma in prima persona la responsabilità di decidere un intervento che potrebbe essere dannoso per il paziente. Per esempio, anche se sottoporre le gestanti quarantenni alla diagnosi prenatale è una procedura ormai standardizzata, non sarebbe corretto dal punto di vista morale ― indipendentemente da qualsiasi obbligo giuridico ― da parte del medico non informare la donna della percentuale di rischio per la vita del feto insita nell'intervento dell'amniocentesi. Allo stesso modo in cui non sarebbe corretto non informare la paziente della rilevanza statistica di avere un bambino malformato.

Talvolta tentare "il tutto per tutto", anche in condizioni di incertezza sull'esito, può essere sollecitato dal paziente stesso, indotto dalla situazione a giocare anche la carta della disperazione. Ma il consenso del paziente a tentativi terapeutici che abbiano un carattere sperimentale non può essere semplicemente presunto. Le differenze da

37

persona a persona possono essere molto marcate, e anche per la stessa persona la volontà di sottoporsi a terapie estreme può variare nelle diverse fasi del decorso della malattia. Lo stato di avanzamento della patologia può indurre il malato a rinunciare a trattamenti dai quali si aspetta un aumento delle sue sofferenze; oppure, al contrario, il malato potrebbe richiedere un intervento sperimentale che prima, in condizioni migliori, aveva escluso. Non si può assumere che "tutto il possibile" sia la misura giusta per tutti. Il consenso esplicito del paziente a ciò che gli viene proposto è la condizione che rende umanamente e moralmente giustificabili gli interventi terapeutici di questo genere.

Un'illustrazione chiara di questa modalità di rapporto con il paziente e della specifica informazione che essa richiede si può trovare in alcune pubblicazioni concepite a uso degli specialisti, per fornire loro sussidi didattici nelle procedure diagnostiche e interventi terapeutici di loro competenza.

Citiamo, per esemplificare, Il consenso informato in cardiologia, a cura del Progetto di educazione sanitaria A. Menarini. Ognuna delle procedure diagnostiche (quali test ergometrici da sforzo, test farmacologici nel contesto di procedure diagnostiche ecografiche e scintigrafiche, periocardiocentesi, biopsia endomiocardica, coronarografia, angiografia) e degli interventi terapeutici (cardioversione elettrica, impianto di pace-maker, angioplastica coronarica, trial clinici, by-pass aorto-coronarico, sostituzione valvolare, fino al trapianto cardiaco) sono analizzati dal punto di vista medico e descritti, anche con l'aiuto di appropriate figure, per il paziente. Al medico vengono ricordate le indicazioni e controindicazioni di ciascuna procedura o intervento, compresi i rischi connessi e le eventuali alternative. Si tratta, in pratica, di ciò che il clinico deve sapere, in base allo stato attuale delle conoscenze specialistiche.

Il paziente a sua volta riceve un'informazione precisa riguardo alla finalità della procedura diagnostica o terapeutica e alla modalità di esecuzione, ai rischi e alle

Il consenso

del paziente

non può mai

essere

presunto.

Anche perché

le opinioni

del paziente

possono

cambiare nel

corso della

malattia

38

alternative, comprese le conseguenze della non esecuzione dell'indagine o dell'intervento. La firma posta in calce a un modulo, accanto a quella del medico che ha fornito l'informazione, è il momento conclusivo di tutto il processo informativo, finalizzato a suscitare una partecipazione consapevole del paziente alla decisione clinica.

Per quanto riguarda l'impianto di pace-maker, per entrare in alcune esemplificazioni specifiche, è corretto informare il paziente della possibilità, che varia dallo 0,1 allo 0,6 per cento, di complicanze e rischi, ma anche che attualmente non ci sono alternative specifiche al pace-maker. Il paziente che rifiuta di sottoporsi all'intervento mantiene, perciò, un alto rischio di mortalità altrimenti non controllabile. Se consideriamo l'angiografia in generale, bisognerà informare il paziente che esistono valide alternative all'angiografia classica, che permettono di acquisire immagini delle cavità cardiache e dei vasi in modo meno invasivo e con minori rischi.

Un esempio impressionante di come la quantità e la qualità dell'informazione fornita al paziente modifichi la disponibilità di quest'ultimo all'intervento è offerto da una ricerca condotta da Gianfranco Domenighetti nel Canton Ticino (G. Domenighetti, "Il conflitto originale: attese versus realtà", in L'Arco di Giano, 23, 2000, pp. 31-40). Lo studio intendeva valutare se e quanto l'informazione riferita alle prove di efficacia modifichi la disponibilità delle persone a sottoporsi allo screening per la diagnosi precoce di determinate patologie. A un campione di 1000 persone è stato chiesto se accettavano le procedure di screening per la diagnosi precoce del cancro al pancreas. A un gruppo la domanda è stata posta nel modo seguente: «Durante una visita di routine, il medico le chiede se è disposto ad accettare un test diagnostico (che consiste in un semplice esame del sangue) che è in grado di diagnosticare precocemente se lei ha un cancro al pancreas (ciò vuol dire che la malattia sarà identificata prima che lei avverta qualsiasi sintomo)». Il 60% degli intervistati ha risposto che accettava; solo il 32% non accettava il test e l'8% desiderava avere un secondo parere.

A un altro gruppo, oltre all'indicazione di base, è stata fornita un'informazione più estesa, che includeva le seguenti precisazioni:

● il test non è molto accurato: solo il 30% di quelli che risultano positivi al test hanno veramente un cancro al pancreas

39

● di conseguenza, tutte le persone positive devono sottoporsi a esami supplementari per confermare la diagnosi di cancro, che richiedono il ricovero di qualche giorno in ospedale

● ogni anno in Svizzera solo 11 persone su 100.000 hanno una diagnosi di cancro pancreatico confermata

● il cancro al pancreas praticamente non può essere guarito: di 100 persone diagnosticate, a cinque anni solo tre sono ancora in vita.

Il gruppo che ha ricevuto un'informazione più accurata ha reagito diversamente rispetto al primo: solo il 13,5% accetta il test, il 72% non accetta, mentre il 14,5% vorrebbe il parere di un altro medico.

Risulta da alcuni studi che, quando si fornisce ai pazienti un'informazione più ampia, che comprenda anche i possibili effetti negativi di interventi invasivi e aggressivi, i pazienti tendono a scegliere in modo diverso da quanto farebbero i medici.

Questa, ad esempio, è la conclusione di una ricerca il cui obiettivo era quello di coinvolgere direttamente i pazienti nella scelta di trattamenti alternativi per la cura dell'ipertrofia prostatica benigna:

I livelli correnti di utilizzazione di tecnologie mediche molto sofisticate sono più alti di quelli voluti dai pazienti, perché quando occorre sottoporsi a un rischio per ridurre i sintomi o per migliorare la qualità della vita, i pazienti tendono a essere più riluttanti di quanto lo siano i medici. Se viene loro offerta una possibilità di scelta, i pazienti optano in genere per strategie meno invasive di quanto facciano i medici. Se così è, la libera espressione di preferenze del paziente dovrebbe comportare un abbassamento della domanda. Ciò sembrerebbe vero anche nelle cure rivolte ai pazienti terminali,

40

in quanto di fronte all'inevitabilità della morte i pazienti, in molte situazioni, preferiscono che si faccia di meno piuttosto che di più. Una migliore informazione sugli esiti clinici, un migliore dialogo tra pazienti e medici sulle opzioni possibili può, dunque, far diminuire la domanda di trattamenti più costosi (J.E. Wennberg, "Outcome research, cost containment and the fear of health care rationing", in New England Journal of Medicine 1990, 223 (17), pp. 1202-1204).

Paziente informato... mezzo salvato? Forse è così. In ogni caso sembra certo che, quando il paziente è informato, risulta molto meno invaso dalla più aggressiva tecnologia medica.

Il coinvolgimento del paziente nelle scelte terapeutiche

Ma non siamo ancora all'ultimo scenario del nuovo rapporto tra medico e paziente. Questo non si limita alla situazione in cui esistono alternative terapeutiche con diversa ricaduta sulla quantità e sulla qualità di vita del paziente. La nuova frontiera della relazione terapeutica è la partecipazione attiva della persona cui le cure sanitarie sono rivolte, in modo che possa essere un soggetto responsabile e coinvolto nelle scelte che lo riguardano.

È la prospettiva fatta propria dal documento del Comitato nazionale per la bioetica: Informazione e consenso all'atto medico (1992), che inserisce la pratica del consenso in un ampio movimento che sta cambiando la nostra società:

Il consenso informato, che si traduce in una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano, è sempre più richiesto nelle nostre società; si ritiene tramontata la stagione del "paternalismo medico" in cui il sanitario si sentiva, in virtù del mandato da esplicare nell'esercizio della professione, legittimato a ignorare le scelte e le indicazioni del paziente, e a trasgredirle quando fossero in contrasto con l'indicazione clinica in senso stretto.

Il nuovo rapporto non si applica alle sole procedure a rischio: questo scenario è piuttosto quello proprio della medicina nel suo esercizio quotidiano. Sempre più spesso, infatti, le scelte terapeutiche si divaricano in diverse direzioni. Per andare sul concreto, prendiamo il trattamento

41

del cancro alla mammella. Gli specialisti, ai quali è riconosciuto il maggior credito nella comunità scientifica, riconoscono oggi che la malattia si può aggredire con diverse strategie terapeutiche. Ognuno di questi protocolli di trattamento ha delle ripercussioni di grande portata sia sulla speranza di vita, sia sulla qualità della vita (in quanto più o meno mutilanti, più o meno invasivi o provanti per l'organismo).

La partecipazione attiva del paziente a scelte di così grande importanza non è un optional: è indispensabile dal punto di vista non di una medicina difensiva, ma di una medicina rispettosa dei valori personali dell'individuo. Per assumere un esempio anche in ambito maschile, pensiamo alla prostatectomia. È vero che l'asportazione chirurgica può essere una decisione clinica indicata in caso di ipertrofia prostatica, forse anche altamente raccomandata. Tuttavia non sarebbe corretto non informare il paziente che uno degli effetti secondari può essere l'impotenza. Riguardo alla prospettiva di essere privato dell'esercizio della sessualità per il resto della propria vita, le reazioni sono diverse da persona a persona: per qualcuno può essere un prezzo da pagare per una prospettiva di vita più lunga, per qualcun altro no.

Se l'intento è quello di assicurare la partecipazione del paziente, in quanto protagonista delle scelte che lo riguardano, il baricentro si sposta sull'informazione, più che sul consenso. Mentre il consenso a un trattamento non è difficile da ottenere, specialmente se il medico sa fare un uso accorto delle emozioni del paziente, dare informazioni utili e necessarie perché il paziente possa essere il regista delle decisioni che lo riguardano è molto arduo. Ci rendiamo conto che l'esigenza della partecipazione del paziente alle scelte di natura clinica ci introduce in una strutturazione nuova del rapporto tra medico e paziente, che conservi i tratti essenziali di quello che in passato era ritenuto un rapporto di buona qualità, ma che sostanzialmente è da inventare.

Il ruolo del medico di medicina generale, affinché si

Se si vuole la partecipazione del paziente

alle scelte

sulla sua

salute, è

fondamentale una

comunicazione

efficace

42

realizzi questa modalità di rapporto che renda il malato attivo e responsabile, è cruciale. Si potrebbe sostenere che i problemi legati alle alternative terapeutiche, che hanno una diversa incidenza sulla speranza di vita e sulla sua qualità, vengono per lo più discussi nell'ambito della medicina specialistica, e non nello studio del medico di medicina generale. Ma la partecipazione attiva del paziente alle decisioni che lo riguardano è un processo, più che un atto isolato.

Se il processo non viene ben avviato, attraverso la comunicazione che si instaura con il medico che è il punto di riferimento primario del paziente, e ben proseguito, anche dopo l'intervento della medicina ospedaliera e specialistica, è possibile che i problemi di rapporto con il paziente vengano a trovarsi su un binario morto, in una situazione che li fa diventare insolubili.

La comunicazione con il paziente, che rende possibile quel modello di medicina in cui la giusta decisione va presa in due, deve incominciare a monte. Essa dipende in modo determinante dal rapporto che si instaura con il medico di fiducia, in una situazione che ha fondamentalmente un valore educativo. Dato che il modello di buona medicina che ci viene richiesto dalla cultura contemporanea è un modello inedito, che nessuno degli interlocutori possiede in proprio, si tratterà di una co-educazione: medico e paziente dovranno educarsi insieme.

Per dare un esempio concreto di quale tipo di informazione il medico di medicina generale dovrebbe fornire al suo assistito, riportiamo da un manuale recente (V. Caimi e M. Tombesi, Medicina generale, Utet, Torino 2003) che cosa il medico di fiducia dovrebbe dire in merito allo screening dei tumori della prostata con il PSA.

Screening dei tumori della prostata con il PSA:

informazioni per gli assistiti

Le più importanti società scientifiche raccomandano ai medici di spiegare bene ai loro assistiti i dubbi sul test del PSA, per permettere una decisione informata. Molte persone infatti rinunciano a farlo quando vengono a conoscenza dei limiti di questo esame, mentre altre decidono ugualmente di farlo.

Il PSA è un'analisi del sangue che può permettere, in combinazione con l'esame manuale rettale, di scoprire una parte (il 70-80%) dei tumori della prostata in uno stadio precoce. Alcuni tumori, tra cui spesso quelli più aggressivi, sfuggono all'indagine.

43

Il PSA può, però, anche aumentare in assenza di tumore.

Diversamente da altri casi, molti tumori della prostata non sono aggressivi e rimangono localizzati nella ghiandola senza dare nessun disturbo per tutta la vita: ovviamente scoprire questi tumori crea solo problemi, perché non si può prevederne l'evoluzione e si è costretti a intervenire o (nei casi che sembrano più tranquilli) a seguire rigorosi controlli a lungo termine.

Anche scoprire con il PSA un tumore aggressivo prima che dia dei sintomi non è sempre utile: può essere già diffuso, ma anche in questo caso può crescere molto lentamente senza dare gravi disturbi e senza diminuire la durata della vita.

A seconda dell'età, dal 15 al 40% dei soggetti che si sottopongono all'esame del PSA, dovrà sottoporsi a biopsia, per confermare o smentire la presenza di un tumore e per capire se è una forma aggressiva o no. Spesso ci si trova in situazioni incerte e si può essere costretti a un'operazione (o alla radioterapia) per non rischiare o a ripetuti controlli e biopsie nel tempo con conseguenze psicologiche a volte molto pesanti.

L'operazione in caso di tumore non è la stessa che si fa per il comune ingrossamento della prostata nelle persone anziane: è più radicale e comporta impotenza sessuale dal 40 al 60% degli operati e incontinenza urinaria dal 10 al 25% (anche se spesso lieve), oltre ai rischi dell'intervento chirurgico (circa 0,5-1% di mortalità operatoria).

La radioterapia espone a complicazioni simili, salvo la mortalità operatoria, ma ha in più la possibilità di lesioni intestinali (nel 10% dei casi).

Il PSA non è raccomandato nelle persone di oltre 70-75 anni, perché i risultati delle ricerche finora disponibili mostrano che in questa fascia di età si

44

hanno più svantaggi che benefici.

Il PSA potrebbe ridurre il rischio di morire di tumore alla prostata, ma può diminuire la qualità della vita in molte persone senza apportare dei reali benefici.

Una particolare sottolineatura merita la conclusione relativa al ricorso a questo screening: «La migliore decisione non è uguale per tutti, ma è quella che ciascuno prende dopo essere stato informato». Questa indicazione viene a coincidere, in pratica, con quanto il direttore del British Medical Journal, Richard Smith, suggerisce in un suo recente editoriale. Consiglia agli studenti di medicina, interrogati su quale sia il miglior trattamento per la malattia X, di non rispondere "Y". La risposta corretta è piuttosto: «Ciò che il paziente sceglie insieme a me, dopo essere stato pienamente informato sui vantaggi e svantaggi di tutte le opzioni». ("Abusing patients by denying them choice", Bmj 2004; 328, 14 febbraio, 7436).

L'obiettivo a cui mira il consenso informato inteso come una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano comporta, in pratica, una medicina di migliore qualità, per la modalità in cui vengono prese le decisioni: dal medico e dal paziente insieme, in modo consensuale.

45

CAPITOLO TRE

COME È APPLICATO IL CONSENSO INFORMATO IN ITALIA?

Il mito del consenso informato

Alcune ricerche empiriche

Le risposte ufficiali degli organismi medici

46

Il mito del consenso informato

Qualche anno fa al Comitato di bioetica di un grande ospedale di cui faccio parte, giunse la richiesta di esprimere un parere sui moduli del consenso informato in uso presso un'importante divisione. Spinto dalla curiosità e dall'esigenza di produrre una riflessione capace di prendere le mosse dalla realtà, incominciai a raccogliere questi supporti cartacei e a domandare, informalmente, della pratica in uso circa l'informazione e il consenso. Ecco, in estrema sintesi, i risultati di questa investigazione.

Anzitutto, la carta: ho raccolto e conservo ancora, a futura memoria, una miriade di fogli di tutte le dimensioni, colori e grafica. Si va dal modello-lapide al modello-dichiarazione dei redditi. Il primo è la testimonianza dell'inutilità per difetto: in un campo bianco poche righe prestampate e lo spazio per una firma di accettazione che avrebbe più o meno questo senso: «Di quello che ho non so nulla, ma ti autorizzo a fare di tutto».

Il secondo esprime l'inutilità per eccesso: una o più pagine fitte di parole, dal significato pressoché oscuro, dove anche l'imprevedibile è preventivato, ma con un risultato finale simile a quello rappresentato nella situazione precedente: «Di quello che ho e potrebbe accadermi è scritto tutto, non ci capisco nulla, ma ― in ogni caso ― ti autorizzo a fare di tutto».

Alla fine la sensazione è quella di aver raccolto due espressioni di inutilità o, forse più correttamente, di dannosità: si è perduto del tempo e si sono sprecate delle occasioni. Ma allora qual è il modulo perfetto? È forse la via di mezzo tra l'eccesso e il difetto? Tra lo scrivere troppo e lo scrivere troppo poco? Ricordo che, nella circostanza che mi vide allora coinvolto, proposi di modificare le regole del gioco mettendo in evidenza la necessità di non considerare primariamente le questioni della carta, quanto piuttosto quelle relative a quella vicenda intricatissima che è il rapporto interpersonale fra medico e paziente, senza trascurare le figure che ruotano intorno e al fianco di questi due soggetti primari.

47

Perché insistere su una pratica autentica del consenso informato? La risposta ora potrebbe cominciare a delinearsi, almeno nei suoi contorni fondamentali: libertà e diritti degli individui, universalmente conosciuti beni fondamentali, possono e anzi debbono trovare una sempre più adeguata possibilità di realizzazione in e per ogni spazio e situazione della vita degli uomini e delle donne. Se rinunciamo a questo ambizioso obiettivo l'inciviltà, come una foresta lussureggiante, avanzerà sino a soffocare ogni cosa. A soffocare i valori a noi tanto cari e perciò ― anche se non sempre praticati ― sempre evocati e invocati come compito mai concluso. A oscurare il richiamo che viene dalla figura del bene in cui credo e a cui mi affido e che mi induce a scegliere, ad agire risolutamente e senza rinviare ad altri e a dopo.

E dei moduli cosa facciamo? Se un rogo avesse la possibilità di provocarci al punto tale da farci considerare le cose fondamentali poco sopra accennate... bruciamoli tutti!

Camillo Barbisan "Il mito del consenso informato" in Janus 6 (2002), pp. 114-116.

Alcune ricerche empiriche

La proposta di un esperto di bioetica, impegnato in un comitato etico, ha un valore di provocazione: bruciare tutti i moduli di consenso, per arrivare a porsi le domande vere, che hanno a che fare con le relazioni che si instaurano tra sanitari e cittadini.

Vale anche come forma di protesta nei confronti della pratica invalsa. Tutti, sia sanitari sia cittadini consapevoli, sono in grado di citare episodi che li hanno visti come protagonisti nei quali le procedure che chiamiamo consenso informato risultano molto carenti: il consenso non è un vero consenso perché l'informazione che lo deve precedere non ha le caratteristiche di una buona informazione. Per passare dalle conoscenze aneddotica

Da un modulo

sintetico o da

una pletora di

dati acritici non

può nascere

un vero

consenso

informato

48

che ad altre più estese e generalizzabili, avremmo bisogno di ricerche sistematiche sulla pratica del consenso informato nelle nostre realtà sanitarie. Tra le pochissime esistenti, ne segnaliamo due: una a valenza nazionale e l'altra a dimensione locale. La prima è stata promossa dalla Commissione etica dell'Anmco, l'Associazione dei medici cardiologi ospedalieri: "Modalità di informazione e acquisizione del consenso informato" (It. Heart J. Suppl, vol. 3, gennaio 2002, pp. 45-57). L'indagine si è proposta di raccogliere dati sulla realtà clinica quotidiana, senza toccare l'ambito del consenso alla ricerca.

È stata realizzata mediante un questionario comprendente due serie di domande (18 riguardanti l'informazione e 20 l'acquisizione del consenso) inviato alle 653 cardiologie ospedaliere. I questionari tornati sono stati 480, pari al 73,5%. Inoltre, il 40 per cento di coloro che hanno risposto ha inviato un commento libero sul tema del consenso informato.

Riportiamo alcune conclusioni della ricerca:

Il nostro studio non si è occupato del tema del consenso informato osservandolo dal lato del paziente, ma ha voluto tracciare una fotografia delle modalità di informazione e di acquisizione del consenso nelle strutture cardiologiche italiane. Hanno risposto circa tre quarti delle strutture cui era stato inviato il questionario.

L'informazione

Per quanto riguarda le figure professionali impegnate nel processo di informazione, va sottolineato che il ruolo del primario è più importante al centro e al sud rispetto al nord, e inversamente accade per l'infermiere professionale. Purtroppo, solo in meno della metà delle UO si presta attenzione a fornire le informazioni al paziente in un ambiente riservato.

Un nodo molto delicato è rappresentato dal contenuto dell'informazione, in particolare riguardo ai rischi. Quasi la metà di coloro che hanno risposto dichiara di fornire l'informazione in modo generico, e dunque solo una metà si riferisce a dati tratti dalla letteratura scientifica e/o dalla propria esperienza.

A proposito della variabilità con cui i rischi sono presentati numericamente, emerge come la soggettività e la discrezionalità giochino un ruolo molto importante nel processo di informazione:

49

per esempio, vi sono marcate differenze nell'interpretazione di parole quali "eccezionale" o "molto raro" (...). La soluzione non sta certo nel non fornire i dati sull'incidenza dei rischi, magari invocando una difesa del paziente da possibili reazioni ansiose: non è infatti documentato che fornire dati in merito ai rischi aumenti l'ansia del paziente.

L'acquisizione del consenso

Relativamente alle modalità di acquisizione del consenso, va sottolineato come vi sia ancora molta confusione tra il significato del "modulo" e quello della "scheda informativa". Il modulo di registrazione del consenso non dovrebbe avere un contenuto informativo, anzi i due momenti (quello dell'informazione e quello del consenso) dovrebbero essere il più possibile distinti: invece in tre quarti dei casi il modulo è risultato diverso a seconda delle procedure, in particolare nelle UO con emodinamica.

La confusione tra modulo e scheda informativa porta talora a infarcire i fogli che vengono consegnati al paziente di una serie di notizie di scarsa comprensibilità, la quale diminuisce all'aumentare delle informazioni contenute nel foglio stesso.

La dimensione dell'urgenza non risulta modificare la modalità di acquisizione del consenso nella stragrande maggioranza dei casi, in particolare al nord. Sappiamo però che, in non pochi casi di procedure diagnostico terapeutiche in urgenza emergenza, percorrere l'iter formale articolato per l'acquisizione del consenso informato potrebbe arrecare sia un nocumento diretto al paziente per un extra stress emotivo quando c'è già intenso stress psicofisico, sia un nocumento indiretto per perdita di tempo prezioso (vedi il caso della trombolisi nell'infarto miocardico acuto).

Che il modulo rivesta spesso un significato burocratico lo si evince dall'aumento della prevalenza

L'indagine

dell'Anmco ha

rilevato che

le pratiche di

acquisizione del consenso

in uso negli

ospedali sono

molto varie

50

dell'infermiere professionale nella consegna e nel ritiro dello stesso (17%) rispetto al suo ruolo nel processo informativo (3%). La deriva legalistica, difensivistica del significato del modulo appare poi evidente quando si analizza la prevalenza del testimone, che scende dal 38% dei casi di consenso informato orale al 25% dei casi di consenso informato scritto: è evidente il significato di delega che viene attribuito al modulo in sé. E, nonostante ciò, la prassi stessa lascia alquanto a desiderare, dato che nell'86% delle UO non viene fornita al paziente copia del modulo di consenso informato appena firmato.

Inoltre il 90% dei casi (e si tratta comunque di coloro che sono più sensibili al tema, in quanto hanno risposto...) non va ad approfondire se il paziente ha realmente compreso l'oggetto dell'informazione per il quale ha appena espresso il consenso.

C'è sicuramente molta strada da percorrere sul terreno dell'educazione dei medici a comprendere il vero significato del consenso informato, se è vero che più della metà degli intervistati ha risposto che i moduli del consenso informato rappresentano una protezione legale per il medico e considera i moduli necessari e sufficienti a garantire un'informazione (...).

Schematizzando al massimo, si possono fornire alcuni messaggi sintetici:

● il consenso informato è un processo complesso e non un semplice atto formale

● il consenso informato comprende due fasi tra loro distinte: quella dell'informazione e quella del consenso. È auspicabile, laddove possibile a seconda del contesto clinico, separare temporalmente le due fasi

● deve essere valorizzata la partecipazione attiva del paziente nella fase di acquisizione del consenso: uno strumento possibile è quello della verbalizzazione del colloquio, apponendo contemporaneamente le due firme (quella del paziente e quella del medico) in calce al modulo, una copia del quale deve essere consegnata al paziente

● deve essere riconosciuto e documentato anche il diritto del

51

paziente a non essere informato.

Una seconda ricerca empirica riguarda le esperienze e le opinioni di un gruppo di infermieri.

Va notato, preliminarmente, che il corpo professionale infermieristico italiano ha percorso di recente un vistoso cammino culturale, che l'ha portato a superare la concezione che vedeva nell'infermiere una professione "ausiliaria" rispetto a quella medica.

Nella definizione della nuova professionalità dell'infermiere un alto rilievo è attribuito alla sua partecipazione autonoma al processo diagnostico-terapeutico, insieme ad altre professionalità, quella medica, ovviamente, in primo luogo. Rispecchia la nuova concezione il ruolo che il recente Codice deontologico degli infermieri (elaborato nel 1999, in sostituzione del precedente del 1977) attribuisce all'informazione:

L'infermiere ha il dovere di essere informato sul progetto diagnostico-terapeutico, per le influenze che questo ha sul piano di assistenza e la relazione con la persona (4.4).

Molto lontana da questa concezione è la pratica del consenso informato, vista con gli occhi degli infermieri, come emerge da uno studio condotto nella Azienda sanitaria di Grosseto (cfr. Donatella Della Monica: "Gli infermieri e il consenso informato: un'indagine alla Asl 9 di Grosseto", in L'Arco di Giano, 25 (2000), pp. 157- 165). La ricerca era finalizzata a conoscere il reale coinvolgimento degli infermieri nella prassi del consenso informato e a valutare la percezione del problema da parte loro, nonché la coscienza del ruolo che spetta agli infermieri. Al questionario ha risposto il 71% degli infermieri dell'Asl.

Oltre il 90% degli intervistati ha dichiarato che nella struttura in cui presta servizio è previsto l'uso della modulistica per la documentazione del consenso informato, tuttavia la stessa proporzione (91%) ha espresso un giudizio negativo sulla capacità di detta modulistica di fornire un'adeguata informazione al paziente.

Secondo gli

infermieri,

i moduli attuali

sono inefficaci

e sarebbero

usati al solo

scopo di

coprire le

spalle ai

medici

52

Le motivazioni fornite possono essere così riassunte:

● i moduli risultano poco o addirittura del tutto incomprensibili per i pazienti, in quanto il linguaggio utilizzato è estremamente tecnico

● i moduli in uso prevalentemente hanno come obiettivo non di informare il paziente, quanto di fornire una protezione al medico e alla struttura (alcuni consistono in vere e proprie "dichiarazioni liberatorie")

● la presenza stessa del modulo e soprattutto la firma che il paziente vi appone rappresentano una forma di esonero per il medico, che talora trascura l'informazione

● la modulistica viene sbrigativamente presentata al paziente, spesso al momento dell'accettazione (reparti chirurgici), magari insieme al modulo relativo alla protezione dei dati sensibili (privacy) e alla scelta del menù, per cui il paziente, confuso, li firma senza neppure soffermarsi a riflettere

● l'utilizzo della modulistica è stato introdotto da troppo poco tempo e i pazienti non conoscono bene il suo significato: molti lo considerano un atto burocratico connesso alla degenza

● i moduli sono presentati ai pazienti esclusivamente in ospedale, anche quando ciò sarebbe evitabile (interventi chirurgici o atti diagnostici programmati), in una situazione quindi di grande tensione ed emotività, che spesso incute soggezione e sottomissione.

Gli infermieri registrano inoltre la tendenza a delegare al personale infermieristico l'acquisizione del consenso (raccolta della firma del paziente sul modulo). La consegna e il ritiro della modulistica si accompagnano sovente a un supplemento di informazioni e chiarimenti, soprattutto su aspetti quali: tipo di preparazione per un determinato esame diagnostico o indagini strumentali (circa 25% del campione); possibilità di sentire dolore o fastidio durante l'esecuzione dell'esame o della tecnica (15%); qualità di vita nel periodo postoperatorio (65%). Le ricerche che abbiamo riportato non sono esaustive. Si avverte anzi il bisogno di indagini empiriche più ampie, che ci consentano di tracciare un quadro esauriente della pratica del consenso

53

informato nella nostra realtà nazionale. Quanto emerge, tuttavia, è indicativo di una diffusa resistenza del mondo sanitario ad abbandonare la modalità tradizionale di rapportarsi al paziente, prendendo sul serio i cambiamenti intervenuti nella società.

Le risposte ufficiali degli organismi medici

Il cambiamento nella relazione medico-paziente, presupposto del consenso informato, è stato autorevolmente proposto dal Comitato nazionale per la bioetica con il documento Informazione e consenso all'atto medico (20 giugno 1992). Il Comitato affronta il problema del consenso agli atti medici di diagnosi e cura, portando l'attenzione sulla quantità e qualità dell’informazione necessaria affinché il consenso sia moralmente valido. Il documento vero e proprio è accompagnato da un'ampia relazione, che tocca i più diversi aspetti del tema: i modelli di medicina a cui il binomio informazione/consenso può essere riferito; l'esperienza clinica relativa al consenso informato; la giustificazione dell'atto medico dal punto di vista dei fondamenti giuridici; la posizione dei codici deontologici dei vari paesi circa l'informazione e il consenso; l'applicazione di queste tematiche all'età pediatrica.

Il solido impianto di documentazione sembra essere una tacita manovra di supporto per far passare una concezione del rapporto medico-paziente molto innovativa rispetto a quella trasmessaci dalla tradizione.

Il documento constata che, sotto il profilo sociologico, il nuovo contesto culturale, di cui la bioetica è espressione, richiede non tanto l'aggiunta di qualche nuova procedura, quanto la rimessa in discussione dei presupposti stessi dell'atto medico: definendo come obiettivo del consenso informato quello di favorire "una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano" ― la terza accezione di consenso informato che abbiamo considerato più sopra ― lo colloca in un contesto

Il Comitato

nazionale

di bioetica ha

registrato un

mutamento

culturale:

quello del

rapporto

medico

paziente

54

che prevede da parte del sanitario comportamenti diversi rispetto al passato.

L'informazione che il Comitato vuol promuovere:

è finalizzata non a colmare l'inevitabile differenza di conoscenze tecniche tra medico e paziente, ma a porre un soggetto (il paziente) nella condizione di esercitare correttamente i suoi diritti e quindi di formarsi una volontà che sia effettivamente tale; in altri termini, porlo in condizione di scegliere. Un'informazione corretta è perciò soprattutto chiara nell'indicare i passaggi decisionali fondamentali in una direzione o in un'altra, e cioè le alternative che si presentano: spetterà al curante presentare le ragioni per le quali viene consigliato un determinato provvedimento piuttosto che un altro.

La proposta del Comitato non si identifica con la sostituzione dell'impianto paternalistico tradizionale, a vantaggio di un modello di rapporto di tipo contrattuale-autonomistico. Al contrario, il documento mette in guardia dalle interpretazioni burocratiche del principio di autonomia applicato al rapporto tra medico e paziente:

Nella ricerca sistematica, e quasi ossessiva, di un'adesione a ogni atto medico si può giungere a un ricorso indiscriminato a "moduli" in cui raccogliere il "consenso informato scritto": una modulistica del genere, pure se redatta con diligenza, non copre tutte le imprevedibili situazioni della realtà clinica e rischia di burocratizzare e di distorcere il peculiare carattere della fiducia a cui è improntato il rapporto.

Al Comitato sta a cuore la difesa dell'alleanza terapeutica e l'ideale di piena umanizzazione dei rapporti in sanità, cui aspira la società attuale. L'informazione necessaria per garantire al consenso il suo carattere etico, e non soltanto giuridico, è quella che passa attraverso una comunicazione interpersonale («Non basta una informazione fredda e distaccata, pur se legalisticamente precisa»).

Malgrado la continuità sostanziale di quanto proposto dal documento del Comitato per la bioetica con le esigenze da sempre associate a una "buona medicina", il modello soggiacente a Informazione e consenso all'atto medico si distacca da quello abitualmente coltivato dai medici. La diversità si rivela in alcuni snodi fondamentali, come quello del rapporto con i familiari. Il documento è esplicito al riguardo: «È indiscutibile che un paziente adulto e in condizioni di intendere e di volere sia

55

l'interlocutore vero (e talvolta l'unico) del medico». Il rapporto con i familiari o fiduciari è importante per acquisire elementi utili a comprendere la psicologia del paziente e a inquadrare la situazione personale; non può essere invece il foro dove si prendono le decisioni "per il bene" del malato, a sua insaputa. Quando il medico viene invitato dai familiari a non fornire informazioni veritiere o complete al malato, non deve accedere al loro desiderio.

Secondo il Comitato, il medico è tenuto a fornire al paziente le informazioni che lo riguardano, seppur nelle modalità suggerite dalla prudenza: «Notizie esatte ma prive di drammaticità, caratterizzate dal corredo di elementi che facciano intravedere al paziente qualche speranza nel futuro che sarebbe disumano negare».

In occasione della pubblicazione del documento si è espressa una divergenza di vedute tra il presidente del Comitato, Adriano Bompiani, e il presidente della Federazione nazionale che rappresenta gli Ordini dei medici, Danilo Poggiolini, in merito alla competenza del Comitato nazionale per la bioetica a intervenire sul tema. Il punto centrale della discussione può essere ricondotto alla domanda: l'etica medica è competenza esclusiva degli Ordini professionali, oppure anche altre istituzioni sono legittimate a prendere posizione in merito? Il punto di vista del presidente delle Federazione degli Ordini tendeva a dare il massimo rilievo all'autonomia della professione, attraverso la deontologia e la medicina legale, nel normare i comportamenti dei sanitari. Una nota ufficiale apparsa nell'organo della Federazione Il medico d'Italia dichiarava che i medici italiani non sono tenuti a osservare quanto proposto dal Comitato nazionale per la bioetica, in quanto sono vincolati solo dalle norme di deontologia medica, oltre che dalle leggi dello Stato. L'intervento del Comitato in tema di informazione e consenso è stato recepito come un'indebita intrusione.

Attraverso il suo presidente, il Comitato nazionale per la bioetica ha ribadito che i pareri del Comitato hanno

Il documento

del Comitato di

bioetica è stato

letto da alcuni

medici come

un'illecita intrusione

56

un valore solo consultivo, non normativo: il rilievo e l'autorevolezza che tali pareri potranno acquisire presso il potere legislativo e in genere nella società civile dipenderanno essenzialmente dal loro rigore e dalla loro coerenza intrinseca. Tuttavia il Comitato non esclude che i suoi interventi, provenendo da un organismo interdisciplinare, possano toccare ambiti limitrofi a quelli della bioetica: questa eventualità deve essere intesa «come riprova e conferma del carattere ultimativamente unitario dei problemi della medicina contemporanea».

57

CAPITOLO QUATTRO

QUALI CAMBIAMENTI CULTURALI RICHIEDE IL CONSENSO INFORMATO?

Il superamento dell'etica medica

La modernizzazione dell'etica, ovvero la bioetica

Il modello dell'empowerment del cittadino

58

Il superamento dell'etica medica

Il consenso informato presuppone un cambiamento rilevante in quelle concezioni di fondo, per lo più non esplicite, che abbiamo presenti quando portiamo un giudizio su una pratica medica, definendola buona o cattiva. Sinteticamente possiamo dire che è avvenuto un cambiamento nell'etica sottostante alla medicina, intesa come quel sistema di regole che determinano in che modo devono comportarsi i diversi protagonisti del sistema delle cure: i medici, i malati, le varie professioni sanitarie, i familiari del malato, la società nel suo insieme.

L'insieme dei comportamenti attesi rispondeva al seguente schema:

Epoca premoderna

etica medica

La buona medicina

L’ideale medico

Il buon paziente

Il buon rapporto

Il buon infermiere

Chi prende le decisioni

Principio-guida

Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?

Paternalismo benevolo

Obbediente (compliance)

Alleanza terapeutica (il dottore con il suo paziente)

Paramedico. Esecutore delle decisioni mediche; supporto emotivo del paziente

Il medico, in “scienza e coscienza”

Beneficità

Il modello ha caratteristiche di grande antichità e di forte tenuta nel tempo. La sua antichità è indiscussa, in quanto in Occidente risale almeno a Ippocrate. Ma anche la sua forza è notevole: non esiste in tutta la tradizione occidentale un modello culturale che abbia resistito tanto a lungo. L'Occidente ha cambiato una quantità di cose nell'organizzazione

59

sociale, l'economia, la famiglia, la religione, il diritto, la politica, dall'antichità greco-romana a oggi. La medicina stessa si è profondamente modificata nel corso del tempo, sia nei modelli teorici sia nel modo di fornire aiuto ai malati. Tra il medico seguace di Galeno, che interpreta le malattie secondo la teoria degli umori, il medico scienziato dell'ottocento, che ricorre al metodo della scienza sperimentale per spiegare come funziona l'organismo sano o malato, e il medico della nostra epoca, che è capace di ricondurre le malattie a un difetto del corredo genetico, così da prevederne l'insorgenza con anni di anticipo, le differenze sono enormi. La stessa cosa si può dire sul versante dell'arsenale terapeutico, che è passato dal ricorso a salassi, ai vaccini e oggi all'ingegneria genetica. La diversità tra questi mezzi terapeutici, quanto a efficacia ed efficienza, è incolmabile.

Per l'etica, invece, non è avvenuto così. Le convinzioni su ciò che è bene o male fare in medicina, sui comportamenti giusti o ingiusti nei confronti del malato sono rimaste relativamente stabili per secoli. Praticamente si tratta di una tradizione ininterrotta che in Occidente è durata per più di 25 secoli, dalla medicina greca fino ai nostri giorni. In tutto questo tempo non abbiamo mai sentito il bisogno di modificare il concetto, condiviso dai medici e dai pazienti, di quelle pratiche di cura della salute a cui attribuire un valore morale positivo.

Ci possiamo riferire a quest'epoca come alla stagione premoderna dell'etica in medicina. Sinteticamente la denominiamo etica medica. L'aggettivo è giustificato. L'etica a cui ci riferiamo, infatti, è sostanzialmente l'etica "del medico". È il medico che la determina e la professione medica che se ne fa garante. In questa etica sono prescritti comportamenti per i malati, per i familiari, per le professioni che collaborano con il medico. Tutti svolgono, tuttavia, funzioni subordinate e sono chiamati a modellarsi sulle richieste che provengono dai medici, i quali hanno un ruolo decisivo nello stabilire che cosa sia buona medicina, sia in senso clinico che

60

in senso etico. La qualifica di "paramedici" data a coloro che esercitano professioni sanitarie non mediche rispecchia bene questa situazione di centralità del medico. Anche l'etica dei non medici in questa stagione è un'etica paramedica.

La domanda fondamentale a cui risponde la medicina di qualità dell'epoca pre-moderna è: «Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?». Troviamo questa preoccupazione già nel giuramento di Ippocrate, nella cosiddetta clausola terapeutica:

Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa.

Tutta l'azione del medico è diretta a procurare un beneficio al paziente, in quanto mira a risolvere i problemi posti dalla malattia. Le risorse che il medico utilizzerà sono ovviamente quelle che la scienza del tempo gli mette a disposizione: per il medico dell'antichità era la dieta (cioè il regime terapeutico che tendeva a ristabilire nella vita del malato l'equilibrio turbato), per il medico dei nostri giorni i trattamenti appropriati potranno essere gli antibiotici o i trapianti di organo. Qualunque sia la scienza di riferimento, il modello rimane tuttavia lo stesso: il medico si impegna a fare il bene del paziente.

I principi fondamentali di questa etica, riconducibili all'imperativo di procurare un beneficio alla salute del paziente, presuppongono un modello ideale del medico fondamentalmente paternalista: il medico è colui che sa qual è il bene del paziente e vuole realizzarlo, mettendovi tutto il suo impegno e tutta la dedizione. È la scienza in continuo progresso che lo guida nel percorso della terapia, mentre la coscienza gli impedisce di trarre profitto dalla debolezza del paziente (per esempio, strumentalizzandolo ai fini di ingiusto lucro o di fama). Questa duplice guida è riassunta da una formuletta, molto amata e citata dai medici, quando rivendicano a se stessi l'obbligo di prendere le decisioni in scienza e coscienza. Nel linguaggio della bioetica americana, si parla a questo proposito di una medicina ispirata al principio di "beneficità" (in inglese beneficence).

Il malato contribuisce alla buona medicina impegnandosi a essere docile e osservante delle prescrizioni, in un rapporto di affidamento fiduciale. Egli non ha, di per sé, nulla da dire in merito all'atto terapeutico, che rimane affidato a quanto il medico stabilisce per il suo bene. Tutto quello che il malato ha da fare, è di diventare "paziente",

61

in tutti i significati del termine (anche in senso morale, in quanto la pazienza è la principale virtù che è chiamato a esercitare). Il buon paziente è il paziente osservante. A lui si richiede di entrare nel trattamento mediante la compliance. Come affermava l'illustre medico spagnolo Gregorio Maranon, che ha rappresentato nella prima metà del XX secolo il permanere dell'ideale ippocratico: «Il malato che non sa essere paziente diminuisce le sue possibilità di guarire. Obbedire al medico è incominciare a guarire».

In questo modello il buon rapporto è l'alleanza terapeutica tra colui che si dedica all'opera della guarigione e chi riceve questo servizio. Il termine alleanza fa parte della tradizione religiosa. Il rapporto medico-paziente ha, di fatto, una connotazione fortemente religiosa in senso ampio, in quanto, allo stesso modo dell'alleanza che è il pilastro centrale della religione ebraico-cristiana (l'alleanza è berîth in ebraico, diatheke nella Bibbia in greco e testamentum nella vulgata latina), mette in relazione due fondamentali diseguaglianze.

Nell'alleanza religiosa si tratta del legame che si instaura tra la divinità, in quanto fonte della potenza che produce la salvezza, e la situazione di necessità propria del popolo che ha bisogno di redenzione. L'unione dei due mediante l'alleanza salva dalla condizione di bisogno (schiavitù, peccato...). Analogamente, la guarigione in medicina, nel modello tradizionale, si ottiene mediante l'unione tra la scienza-coscienza del medico (che include il suo sapere, la filantropia, la volontà di fare il bene del paziente) e la volontà del paziente di mantenersi dentro questo rapporto di alleanza. Questo modello continua ancora a strutturare i nostri comportamenti sociali, sia come medici che come pazienti. Soltanto quando si diventa "moderni" il modello entra in crisi.

L'osservanza della prescrizione medica è la condizione essenziale perché l'alleanza possa esplicare i suoi effetti benefici, e quindi procurare la guarigione. Il contraente dell'alleanza, che è il malato, si deve affidare e accettare le condizioni che gli vengono poste per la

Il rapporto alla

base della

tradizionale

alleanza

terapeutica

nasce tra un

medico

paterno e

un paziente

obbediente

62

guarigione, il medico, che concede l'alleanza, lo guida verso il suo proprio bene. Dai collaboratori del medico, in quanto paramedici, ci si attende che collaborino anche a indurre i malati a essere "osservanti".

L'informazione fornita al paziente non entra come un elemento costitutivo della buona medicina secondo il modello premoderno. Tutt'al più può essere utile, strumentalmente, per ottenere una maggiore collaborazione da parte del paziente (compliance), ma non si può in alcun modo parlare di un diritto del paziente a essere informato, né di un corrispettivo dovere del medico di informare.

La modernizzazione dell'etica, ovvero la bioetica

Quando comincia l'epoca moderna? I manuali di filosofia e di storia generalmente fanno iniziare la modernità con l'Illuminismo, nel XVIII secolo. Ci dicono che nella cultura dell'Occidente è avvenuto un cambiamento profondo, una di quelle fratture che hanno ripercussioni generalizzate su tutta la struttura dell'esistenza. L'Illuminismo ha progressivamente modificato l'insieme della vita politica e sociale. Solo in un ambito non è entrato: in medicina.

Nei rapporti sociali che si stringono attorno a chi somministra e a chi riceve le cure sanitarie, l'epoca moderna non è incominciata fino a pochissimo tempo fa. Soltanto da una ventina di anni sono diventati visibili i segni di una frattura che indica la "modernizzazione" della medicina. Di conseguenza, cambiano tutti i parametri che costituiscono il modello di buona medicina caratteristico dell'epoca premoderna. Indichiamo la transizione come il passaggio dall'epoca dell'etica medica a quella della bioetica.

Come si vede nella pagina a fianco, lo schema al quale ci stiamo riferendo, che prevede i comportamenti adeguati di tutte le parti in gioco, ci aiuta a mettere delle parole chiave attorno a questi cambiamenti. Lo scopo generale della medicina non è più soltanto quello di portare il maggior beneficio al paziente. Perché un trattamento medico abbia un carattere di qualità, ci dobbiamo anche domandare se tratta il malato come persona adulta moralmente autonoma, rispettandolo nei suoi valori e promuovendo la sua partecipazione attiva alle decisioni che lo riguardano. Nell'epoca moderna, infatti, il malato va fondamentalmente considerato come una persona capace di autodeterminare le proprie

63

Epoca Premoderna

etica medica

Epoca Moderna

bioetica

La buona medicina

Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?

Quale trattamento rispetta il malato nei suoi valori e nell’autonomia delle sue scelte

L’ideale medico

Paternalismo benevolo

Autorità democraticamente condivisa

Il buon paziente

Obbediente (compliance)

Partecipante

(consenso informato)

Il buon rapporto

Alleanza terapeutica

(il dottore con il suo paziente)

Partnership

(professionista-utente)

Il buon infermiere

Paramedico. Esecutore delle

decisioni mediche; supporto

emotivo del paziente

Il medico e il malato insieme

(decisione consensuale)

Chi prende le decisioni

Il medico,

in "scienza e coscienza

Il medico e il malato insieme: decisione consensuale

Principio guida

Beneficità

Autonomia

scelte. L'autonomia della persona è un pilastro fondamentale della modernità. Così lo ha espresso Immanuel Kant nel saggio Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo? (1784). L'Illuminismo comincia quando si decide di uscire dallo stato di minorità dovuta all'uomo stesso, intendendo per minorità «l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro». Il primo paragrafo dello scritto, che sintetizza il programma di vita dell'uomo moderno, termina con l'esortazione:

64

Sapere aude, abbi il coraggio di servirti dell'intelletto come guida. L'epoca moderna comincia in medicina quando il programma generale dell'emancipazione si estende anche a quella "minorità non dovuta" che vige tra il medico e il paziente.

Il malato dell'epoca moderna è quello che ha la capacità e il coraggio di non farsi trattare come una persona eterodeterminata, ma assume il peso e la responsabilità delle decisioni che lo riguardano. Ciò mette in crisi il modello secondo cui, nella medicina tradizionale, il malato è per definizione uno che non può determinare da solo i fini e i mezzi per conseguirli. Riconosciamo l'influenza di concezioni antiche, come quelle che ha espresso Aristotele quando ha affermato che il malato, proprio per la sua condizione, non è capace di dare giudizi razionali, in quanto è turbato dalle passioni, come per esempio la paura per la propria vita. Nello stato di malattia deve quindi subentrare la struttura paternalistica di contenimento: qualcun altro prende le decisioni per il bene del malato, dal momento che questi non lo può fare. La decisione medica è vista come un processo del logos, che contrasta il pathos. Dire che la medicina entra nell'epoca moderna significa prima di tutto rimettere in discussione questo paradigma profondo, che presuppone una fondamentale diseguaglianza tra le persone autonome e quelle che non lo sono (le scelte di queste ultime essendo determinate dalle prime). La condizione di malato non fa di noi delle persone prive di autonomia, e quindi del diritto/dovere di prendere le decisioni che ci riguardano.

Quando la medicina si modernizza i valori del malato, intesi come quadro di riferimento che guida l'autonomia delle sue scelte, diventano un momento fondamentale di un'attività sanitaria eticamente giustificabile. La potente ed efficace medicina che la scienza, abbinata alla tecnologia, ci mette oggi a disposizione non assomiglia in niente alla medicina del passato, povera di risposte terapeutiche. L'arsenale medico è potente e vario, e ci pone frequentemente di fronte ad alternative create dai valori soggettivi. A seconda del concetto personale di buona vita, ovvero dei valori che vogliamo realizzare, della qualità che vogliamo dare alla nostra esistenza, un intervento medico può essere appropriato o no.

Perché si abbia buona medicina non ci si può limitare a rispondere alla domanda: «Questo intervento porta oggettivamente un beneficio al paziente?». Non basta stabilire, per esempio, che l'atto medico ha la potenzialità di prolungare la vita del paziente. Se quanto il medico

65

intraprende va contro i suoi valori e le sue decisioni, non possiamo giustificare eticamente l'intervento, anche se è rivolto a tutelare il bene della salute o della vita stessa. L'autodeterminazione del paziente, in quanto articolazione fondamentale dei suoi diritti (per capire la differenza del paradigma, basti pensare che nel modello tradizionale si parla solo di doveri del medico e non di diritti del paziente) diventa un criterio di qualità. L'intervento sanitario non può essere più deciso unilateralmente dal medico in base al suo sapere professionale, ma deve essere individuato insieme al paziente, spesso con un faticoso processo di contrattazione.

Superato il paternalismo benevolo, l'ideale medico in questo modello diventa un'autorità democraticamente condivisa: il buon paziente è un paziente partecipante alla decisione. Il cardine di questa strutturazione concettuale è il consenso informato, nel senso proposto dal Comitato nazionale per la bioetica, in quanto si traduce in una maggiore partecipazione alle decisioni che lo riguardano. L'idea di qualità dell'atto medico si arricchisce di una nuova componente: è buono l'intervento sanitario non solo se è rivolto a fare il bene del paziente, ma deve rispettare anche una correttezza formale, vale a dire le procedure volte a far partecipare il paziente alle scelte diagnostiche e terapeutiche.

Nella prospettiva della modernità il paziente non ha solo il diritto di essere curato bene, ma ha anche dei nuovi doveri. E non solo l'antico dovere di esercitare la pazienza ed essere obbediente. La sua posizione non è esclusivamente di privilegio, ma anche di scomoda responsabilità, in quanto deve partecipare al processo decisionale. Non possiamo escludere che talvolta il paziente potrebbe preferire di delegare la decisione e di demandarla al medico («Faccia quello che è necessario: il dottore è lei, non io!»). Il paziente partecipante nelle scelte ha il compito di essere un buon paziente.

Per diventarlo non basta che si limiti a non far storie, non porre troppe domande, essere docile e seguire le prescrizioni mediche. Il buon paziente ha anche un

Nella medicina

moderna

il paziente

partecipa alle

decisioni

mediche

e per questo

assume diritti e

doveri

66

compito etico: deve accettare il coinvolgimento nelle scelte che lo riguardano, condividendo l'orizzonte di incertezza che è proprio delle decisioni cliniche. Il buon rapporto è una partnership, che si instaura tra professionista e utente.

Il termine utente può suscitare delle associazioni che sembrano fuori luogo in sanità. Per ricondurlo entro l'ambito appropriato, basta pensare al senso etimologico della parola. L'utente è colui che usa la competenza del medico. In quanto utente, ha il dovere di usarla bene, responsabilmente, per fare insieme al professionista le scelte appropriate. La buona relazione terapeutica, dunque, ai nostri giorni include il concetto di partecipazione attiva del paziente. Il termine bioetica, che usiamo per designare questo modello di qualità dell'atto medico, è un neologismo, adatto a un modello di qualità in medicina veramente inedito. È la buona medicina appropriata per la stagione dell'etica in medicina che abbiamo chiamato moderna (non nel senso di maggiore attualità, ma con riferimento alla modificazione culturale promossa dall'introduzione dei diritti della persona nei rapporti sociali, ovvero dalla rivoluzione liberale).

Sentiamo il bisogno di cambiare etichetta anche perché non ci troviamo più nell'ambito dell'etica medica, cioè del medico, concentrata sul medico, elaborata dalla professione medica a beneficio anche del malato. La bioetica implica uno spostamento dell'accento, per cui la qualità non è più determinata in maniera unica ed esclusiva dal sapere e dal potere del medico, ma viene stabilita in modo dialogico, insieme al paziente, il quale deve partecipare alle decisioni con i suoi valori, nell'ambito del consenso sociale. Quindi nella bioetica entra la società, l'etica civile, l'accordo ottenuto trasversalmente alle diverse comunità morali di appartenenza, includendo anche gli "stranieri morali".

Questo modello di qualità, che nella nostra cultura non abbiamo nemmeno ben cominciato ad articolare, si diffonde con estrema difficoltà. Lo contrasta una profonda resistenza, sia da parte del mondo medico, sia da parte dei cittadini. Si avverte che è necessario accrescere le conoscenze e mobilitare tutte le energie concettuali e morali, al fine di entrare nel modello. Tanto i professionisti della sanità quanto i pazienti sono obbligati a cambiare modelli di riferimento che hanno una lunghissima tradizione. È un passaggio epocale, spostandosi da un modello all'altro i valori si modificano, tanto che possiamo affermare che stiamo assistendo all'inaugurazione di una nuova epoca

67

della qualità e dell'etica nella medicina.

Per evitare facili equivoci e smantellare almeno alcune riserve (quelle che nascono dal timore che si intenda abbandonare il modello dell'etica medica tradizionale) è necessario sottolineare che i due modelli non sono diacronici, ma sincronici. In altre parole, non si susseguono nel tempo, sostituendo con il modello moderno i valori tradizionali, ma sono chiamati a convivere e a integrarsi.

Il modello dell'empowerment del cittadino

In medicina la modernizzazione introdotta dalla bioetica sta portando a una modifica di fondo dei rapporti tra coloro che erogano le cure e i cittadini che le ricevono. Con una parola che sintetizza tutto il processo, ci si riferisce al fenomeno nel suo insieme come a un empowerment del paziente. La parola inglese contiene la nozione di potere (power). L'aspetto più visibile è proprio quello di uno spostamento di potere tra le persone coinvolte nella relazione.

Il potere a cui ci si riferisce non è quello di natura politica o, nei rapporti interpersonali, ciò che autorizza qualcuno a dare ordini, aspettandosi che altri obbediscano. Il potere in questione è quello che entra in gioco quando qualcuno si prende cura di persone a lui affidate. Tutte le relazioni di cura e assistenza prevedono un potere, utilizzato in modo benefico a vantaggio di un altro: pensiamo al rapporto tra genitori e bambini, insegnanti e allievi, medici e malati, appunto.

L'analisi di questo tipo di transazioni raggruppa rapporti di natura molto diversa nella categoria di "relazioni complementari". Queste presuppongono una differenza tra le persone coinvolte.

Funzionano bene quando ognuno si attiene al suo ruolo e non pretende di fare la parte dell'altro. Dal punto di vista grafico, il modello che le rappresenta prevede due

La bioetica

ha spostato

il potere di

scegliere,

rendendolo

condiviso

tra il medico

e il paziente

68

posizioni: una sovrastante (one up) e una di sottomissione (one down):

one up
one down

Diverse invece sono le "relazioni simmetriche", nelle quali i protagonisti hanno uguale potere e non si comportano secondo ruoli fissi. Ce li possiamo immaginare l'uno di fronte all'altro, faccia a faccia, senza poter dire chi comanda e chi obbedisce.

Il senso del processo di empowerment del paziente non è di mettere quest'ultimo in posizione one up e il medico in posizione one down, invertendo i rapporti di potere che siamo soliti associare con l'esercizio della medicina (dove il medico è considerato tanto più bravo quanto più esercita un'autorità indiscutibile e induce il paziente a essere osservante o compliant). Non sarebbe un progresso se il medico diventasse l'esecutore nelle decisioni del paziente; anzi, ciò costituirebbe una minaccia per la salute, perché al paziente verrebbe a mancare il bagaglio di conoscenze proprie del sapere professionale del medico. L'empowerment è invece un cambiamento di rapporti complesso, che ha luogo su diversi piani. Lo schema grafico che proponiamo prevede dei cambiamenti significativi su tre diversi piani: sul piano sociale (o della cultura), nel rapporto clinico tra professionisti sanitari e pazienti, nell'ambito dei valori condivisi o dell'etica.

Il modello dell'empowermenf proposto rispecchia la definizione che troviamo nell'Enciclopedia della Gestione della Qualità in Sanità (a cura di P. Morosini e F. Perraro, Centro Scientifico ed., Torino 1999):

Termine entrato in uso e di difficile traduzione in italiano per indicare la tendenza a dare più potere, più coinvolgimento nelle decisioni ai pazienti, al di là del consenso informato.

Nella dimensione culturale dell'empowerment individuiamo anzitutto l'adeguamento alla filosofia che ispira l'Oms, nota come Promozione della salute (Health promotion). La carta di Ottawa (1986) l'ha descritta come "un processo che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla". L'autogestione è il contrario di quella "espropriazione della salute" che il classico saggio di Ivan Illich, Nemesi medica (1977), imputava alla medicina, quando

69

EMPOWERMENT DEL CITTADINO NEL PROCESSO DI CURA

I. Dimensione culturale

● Autogestione della salute vs espropriazione della salute (I. Illich), mediante «un processo che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla loro salute e migliorarla» (Oms: Carta di Ottawa)

● Atteggiamento psicologico adulto verso medici, infermieri e altri professionisti sanitari

● Coinvolgimento dei cittadini nel miglioramento dei servizi, sollecitando suggerimenti, anche critici

● Conoscenza dei propri diritti, rappresentanza attiva, anche organizzata (rivoluzione liberale in medicina)

II. Dimensione clinica

● Raccolta sistematica di informazioni sui trattamenti proposti (ricerca: diagnosi; terapia) e sulle alternative Promozione del parere complementare (second opinion)

● Accesso consapevole alle prestazioni sanitarie, grazie alla conoscenza di benefici attesi, effetti collaterali, rischi, complicazioni

● Educazione all’autogestione delle patologie croniche

● Competenza nell’automedicazione semplice

III. Dimensione etica

● L’autonomia come principio etico che bilancia il principio del bene del paziente stabilito unilateralmente dal medico

● Più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano (decisioni consensuali)

● Assumere la responsabilità per le scelte sanitarie e, più in generale, per la propria vita

● Autodeterminazione personale (l’individuo, non la famiglia, come referente delle informazioni e soggetto delle decisioni)

● Promozione delle direttive anticipate: living will o indicazione di persona delegata a decidere; disposizioni per la donazione di organi

70

diventa un'impresa totalitaria gestita dai professionisti sanitari, che pretendono di prendere le decisioni relative alla salute al posto del soggetto. La rivoluzione liberale, quando viene introdotta anche nell'ambito della medicina, presuppone la prospettiva dei diritti nelle relazioni che si instaurano nell'ambito della cura.

Dato il perdurare dell'asimmetria nei rapporti di potere, si tende a dare rilievo ai rappresentanti dei pazienti (gruppi organizzati di pazienti, di ex pazienti o di familiari) o a istituzioni di tutela dei diritti (tribunale dei diritti del malato, gruppi consultivi misti). Iniziative del genere hanno contribuito in modo determinante a modificare l'atteggiamento psicologico di sudditanza che i malati in passato tendevano ad assumere, promuovendo un atteggiamento adulto.

Anche la prospettiva dell'aziendalizzazione ha in sé la potenzialità di modificare socialmente i rapporti tra chi eroga i servizi sanitari e chi li riceve. Nel concetto di "cliente" è implicita la considerazione della soddisfazione di colui che riceve i servizi, nonché il suo coinvolgimento attivo nella valutazione della qualità ― quanto meno della dimensione soggettiva, che può essere percepita dall'utente ― delle prestazioni erogate.

La dimensione del mercato applicata alla società è indubbiamente pericolosa, in quanto può stravolgere l'ethos ippocratico nel quale tradizionalmente la medicina si è riconosciuta, tuttavia può anche potenzialmente arricchire lo spessore sociale di chi riceve servizi sanitari, attribuendogli un ruolo critico e di promozione attiva della qualità.

Sul piano clinico, ovvero nei rapporti che si instaurano tra medici, infermieri e altri professionisti sanitari da una parte, e il paziente e i suoi familiari dall'altra, l'empowerment diventa effettivo solo attraverso un processo informativo sistematico. Il paziente va informato se ciò che gli viene proposto si inquadra in un progetto di ricerca (il consenso alla sperimentazione è diverso da quello che ha per oggetto un trattamento standard), in un'indagine diagnostica (eventualmente, qual è l'ipotesi che guida la ricerca diagnostica) o in un trattamento terapeutico. L'informazione non è completa se non include anche le alternative, i benefici attesi, gli effetti collaterali, i rischi e le complicazioni dei trattamenti proposti.

Nel processo dell'informazione acquista oggi un peso nuovo il parere complementare (second opinion), inteso come un diritto del paziente ad acquisire informazioni diverse presso altri professionisti (per esempio

71

nel caso di un intervento chirurgico elettivo, oppure di ascoltare il parere di un internista, dopo aver raccolto quello di un chirurgo...). L'empowerment implica anche l'acquisizione delle conoscenze che permettono l'autogestione delle malattie croniche (le patologie dalle quali non si guarisce, qualunque cosa faccia il medico, sono oggi l'80%, rispetto a un 20% per le quali si può sperare la restitutio ad integrum). L'Oms ha raggruppato questo tipo di interventi che favoriscono il controllo del paziente sulla propria malattia sotto l'etichetta "educazione terapeutica".

Da non dimenticare, infine, in questa prospettiva che la maggior parte dei problemi di salute sono piccoli disturbi, curabili con farmaci di automedicazione. Lo sviluppo di una cultura di automedicazione, fondata su un dialogo tra consumatore, farmacista e medico, aiuta il consumatore a orientare le sue scelte di cura. Secondo l'Anifa, associazione che raggruppa le industrie dei farmaci di automedicazione, il patrimonio dei farmaci che si rivolgono al pubblico senza l'obbligo della prescrizione medica, pur essendo sottoposti agli stessi controlli previsti per i farmaci da prescrizione, è ancora molto sottoutilizzato in Italia. Nell'ambito clinico l'empowerment può essere fatto equivalere,

72

in sintesi, a un maggiore senso di padronanza della situazione.

Sul piano propriamente etico l'empowerment comporta il passaggio dal modello ideale dell'etica medica a quello della bioetica, che abbiamo descritto. Contro ogni semplificazione del tipo: "prima il potere era tutto del medico, ora è tutto del paziente", sottolineiamo che l'orientamento della medicina a fare il bene del paziente rimane valido, ma si deve combinare con quanto del proprio bene può e deve definire il paziente stesso.

Il paziente non può essere solo passivo, è chiamato a collaborare attivamente con il medico nella definizione degli obiettivi dell'intervento sanitario (compreso il privilegiare le azioni rivolte a salvare e prolungare la vita o quelle finalizzate a risparmiare inutili sofferenze). L'empowerment è fortemente correlato con la responsabilizzazione dell'individuo per le decisioni che lo riguardano.

Coerente con questa visione dei rapporti è il ruolo centrale che spetta al soggetto, anche nei confronti della sua famiglia. Per quanto i familiari possano essere ben intenzionati nei suoi confronti, nessuno meglio della persona stessa può interagire con i professionisti sanitari per giungere alla decisione che meglio salvaguardi tutti i valori in gioco. Nel caso, poi, che il soggetto sia attualmente incapace di esprimere la propria volontà, i familiari possono essere coinvolti in quanto fonte privilegiata per conoscere le preferenze della persona. Tanto più se c'è stata un'esplicita autorizzazione previa a consultare un familiare o un congiunto in caso di propria incapacità. Come nel caso dell'espressione di volontà per la donazione degli organi dopo la morte, l'empowerment tende a valorizzare le preferenze individuali e a rispettarle anche al di fuori del contesto in cui hanno un valore giuridico.

73

CAPITOLO CINQUE

A CHE COSA SONO TENUTI I MEDICI?

L'informazione medica nelle leggi italiane

La Convenzione europea di bioetica

74

L'informazione medica nelle leggi italiane

L'attività medica viene tendenzialmente vista come un'area in cui le normative giuridiche sono inappropriate, in quanto la medicina sa regolare i rapporti tra terapeuti e pazienti in modo autonomo. L'ambito della pratica medica si è sviluppato senza specifiche normative giuridiche. La legge regola attualmente solo alcune poche pratiche tra quelle che creano perplessità etiche e giuridiche. Si tratta della donazione di organi: la legge 458/1967 ha disciplinato il prelievo e il trapianto del rene tra viventi. La legge 644/1975 relativa all'espianto di organi da cadavere ha disposto che, in assenza di un'esplicita dichiarazione di donazione in vita, il coniuge non separato o i figli maggiorenni possano dissentire all'espianto; tutta la materia dei trapianti è stata infine rivista con la legge n. 91, 1 aprile 1999: "Disposizioni in materia di prelievi e trapianti di organi e tessuti". Le nuove norme rispetto alla volontà di donare gli organi post mortem sono centrate sul principio del "silenzio assenso informato".

Le altre aree problematiche che prevedono una legislazione apposita sono quelle del transessualismo (legge 164/1982, che permette la modificazione del sesso fenotipico, autorizzando interventi chirurgici di riassegnazione del sesso); della sterilizzazione volontaria (che risulta in pratica legalizzata dall'abolizione, da parte della legge 194/1978, degli articoli del codice penale che la proibivano); dell'interruzione di gravidanza (regolamentata dalla legge 194/1978). Nel 2004, infine, dopo un lungo iter parlamentare, è giunta al capolinea la legge 40/2004. Una legge molto dibattuta che regola l'ambito della procreazione medicalmente assistita. In tutte queste leggi c'è una considerazione più o meno rilevante dell'autodeterminazione del cittadino malato, al quale viene riconosciuto il diritto di influenzare con la propria volontà le scelte che vengono fatte in medicina sulla sua salute e sul suo corpo.

In realtà, nel dibattito degli ultimi decenni è diventato progressivamente sempre più chiaro che la norma fondamentale che regola i rapporti tra medici e pazienti è costituita dagli articoli della Costituzione

75

che prevedono la libertà dei trattamenti sanitari (articolo 13 «La libertà personale è inviolabile...» e articolo 32 «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»). Molti giuristi avevano interpretato queste norme costituzionali come principi di natura programmatica e di indirizzo per il legislatore, senza ricadute pratiche immediate. Prevaleva l'insegnamento tradizionale sulla indisponibilità della vita e dell'integrità personale, dal quale veniva fatta derivare la dottrina giuridica che attribuiva al medico un potere-dovere di cura senza limiti. In particolare quando veniva riconosciuto lo stato di necessità, il medico era autorizzato a mettere in atto quanto lo stato dell'arte riteneva appropriato, indipendentemente dalla volontà del paziente di ricevere le cure. Impedire che il paziente muoia, qualunque sia l'atteggiamento del paziente rispetto alla vita e alla morte, costituiva la summa degli obblighi medici, dal punto di vista della legge.

Le seguenti affermazioni del giurista Filippo Grispigni, risalenti al 1914 (La volontà del paziente nel trattamento medico-chirurgico) riassumono in modo chiaro ed eloquente la dottrina tradizionale:

Nel caso in cui la malattia costituisca un pericolo grave e imminente alla persona, si può compiere il trattamento medico-chirurgico nonostante che manchi il consenso, ovvero nonostante che questo sia invalido, e perfino nonostante che il paziente opponga un divieto e questo, magari, cerchi di far valere ricorrendo alla resistenza.

Secondo questa impostazione giuridica, al paziente non è riconosciuto il diritto di rifiutare i trattamenti: le cure mediche sono doverose, anche in presenza di un rifiuto consapevole della persona interessata. La necessità obiettiva dell'intervento, stabilita dal medico secondo le "regole ordinarie dell'arte", è sufficiente a giustificare l'azione medica, indipendentemente dalla volontà del paziente. Partendo dal principio morale Nemo dominus membrorum suorum (Nessuno è padrone del proprio

La legge

ha sempre

parlato poco

di medicina,

ritenendo

sufficiente la

sola regola

dell'arte

76

corpo), la dottrina giuridica giungeva a concludere che il soggetto è semplicemente custode del suo corpo: se non lo fa, interviene il medico, la cui opera è paragonabile a quella di Dio. Da buon padre, sa quel che è bene e lo traduce in atto. Questa è la sostanza dell'atteggiamento denominato paternalismo medico. Il dovere morale di operare in favore del paziente, per il suo bene, pilastro centrale dell'etica tradizionale, era dunque in sintonia con l'orientamento giurisprudenziale.

L'evoluzione recente della dottrina giuridica si è mossa invece nella direzione opposta: riconosce che, in base alla Costituzione, la libertà della persona riguarda anche la gestione della salute e del proprio corpo. Ciò implica il diritto di non curarsi e anche la facoltà di lasciarsi morire, quando questa sia l'espressione di una libera, consapevole e autonoma scelta del soggetto maggiorenne interessato.

Rimane, è vero, una parte minoritaria di giuristi che continua a non riconoscere il diritto del paziente di rifiutare consapevolmente le cure. Ma si fa sempre più strada la convinzione che, in base all'articolo 32 della Costituzione, la regola generale in materia di trattamenti sanitari è quella della volontarietà, quindi è richiesto il consenso del paziente, salvo il caso dei trattamenti sanitari obbligatori per legge.

A illustrazione di questo orientamento possiamo citare la sentenza del pretore di Roma (3 aprile 1997) che ha assolto i medici imputati di omicidio colposo per aver omesso la trasfusione di sangue a un Testimone di Geova che l'aveva rifiutata, anche dopo essere stato informato dei rischi per la propria vita.

In presenza di un dissenso manifestato dal soggetto, i medici non sono tenuti a intervenire coattivamente. L'astensione dal trattamento in questo caso non esprime un disinteresse del medico per la salute e la vita del malato, ma il rispetto per la sua persona e la sua scala di valori. Sullo sfondo di questo progressivo chiarimento di come si rapportano reciprocamente la potestà di curare, che il medico consegue con la laurea in medicina, e la libertà di accettare o rifiutare le cure, che fa parte dei diritti civili, possiamo collocare i diversi interventi legislativi che prevedono l'obbligo esplicito di ottenere il consenso del paziente.

Il concetto di consenso informato è entrato esplicitamente nella legislazione italiana solo con la legge 107/1990 sulle trasfusioni di sangue. Per la prima volta nelle norme che disciplinano le trasfusioni di sangue umano e dei suoi componenti per la produzione di plasma-derivati

77

è previsto il consenso informato:

● Art. 3

Per donazione di sangue e di emocomponenti si intende l'offerta gratuita di sangue intero o plasma o piastrine o leucociti previo "consenso informato" e la verifica dell'idoneità fisica del donatore.

Il D.M. del 15 gennaio 1991 specifica che il motivo per cui la trasfusione di sangue necessita del consenso informato del ricevente è che costituisce «una pratica terapeutica non esente da rischio». Lo stesso D.M. precisa ulteriormente che il consenso del candidato donatore «deve essere dato per iscritto, dopo che la procedura è stata spiegata in modo comprensibile per il donatore, ponendolo in condizioni di fare domande ed eventualmente rifiutare il consenso» (articolo 26).

Successivamente il consenso informato è stato previsto in un decreto del ministro della Sanità finalizzato a disinnescare l'emergenza sangue, prima della trasfusione o del trattamento con emoderivati. Il decreto (Gazzetta Ufficiale n. 240, 13 ottobre 1995) riporta anche un modello previsto per il consenso informato (vedi alla pagina seguente).

Tuttavia il decreto ministeriale testimonia la persistenza di resistenze ad accettare il principio della volontarietà dei trattamenti, là dove richiama che nelle condizioni che determinano lo stato di necessità, ovvero qualora vi sia pericolo imminente per la vita, si possa procedere a trasfusioni di sangue anche senza il consenso dell'interessato. Sembra così ventilata la possibilità di violare il dissenso consapevolmente manifestato.

Ambiguità nel modo di intendere il consenso informato si riscontrano anche nel D.Leg.vo n. 230/1995, che prescrive la necessità del consenso scritto delle persone sottoposte all'esposizione a radiazioni ionizzanti a scopo di ricerca scientifica e clinica, previa informazione sui rischi connessi a tale pratica. Da queste norme si potrebbe dedurre, erroneamente, che, al di fuori dell'ipotesi dell'uso

78

Modello per il consenso informato

Consenso informato alla trasfusione allegato al decreto ministeriale

io sottoscritto/a …………………………………………. nato/a a …………………………………………

il …………………………………..

sono stato informato dal dott ……………………………………………………………… che per le mie

condizioni cliniche potrebbe essere necessario ricevere trasfusioni di sangue omologo/emocomponenti*, che tale pratica terapeutica non è completamente esente da rischi (inclusa la trasmissione di virus dell’immunodeficienza, dell’epatite ecc). Ho ben compreso quanto mi è stato spiegato dal dott. ………………………………………………… sia in ordine alle mie condizioni cliniche, sia ai rischi connessi alla trasfusione come a quelli che potrebbero derivarmi se non mi sottoponessi alla trasfusione. Quindi acconsento/non acconsento* a essere sottoposto presso codesta struttura al trattamento trasfusionale necessario per tutto il decorso della mia malattia.

Data ……………………………

Firma ………………………….

*Cancellare quanto non interessa

l'uso di radiazioni ionizzanti, si possa procedere agli esami radiodiagnostici senza il consenso informato. La più ampia accezione di consenso informato, che si traduce nella partecipazione del soggetto alle decisioni che lo riguardano, richiede invece l'informazione fornita correttamente, anche al di fuori di rischi connessi con l'intervento diagnostico.

La norma che prevede la volontarietà dei trattamenti sia diagnostici che terapeutici, e quindi del consenso liberamente espresso, è presente invece nella legge 135/1990 Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta conto l'AIDS. Questa disposizione, che proibisce di procedere ad accertamenti sulla sieropositività del virus dell'HIV all'insaputa e ancor più contro la volontà della persona interessata, è tanto più importante in quanto ha riproposto la dottrina del consenso informato in un momento in cui esistevano forti spinte nella società tendenti a revocare il principio della libertà dei trattamenti e a far prevalere la ricerca della sicurezza.

79

Oltre alle procedure diagnostico-terapeutiche menzionate, la forma scritta di consenso è esplicitamente prevista per legge nelle sperimentazione cliniche (D.M. del 27 aprile 1992) e per le pratiche di riproduzione medicalmente assistita (L. 40/19 febbraio 2004). Possiamo dedurre che negli altri casi, non previsti da leggi apposite, la forma del consenso sia libera. È lasciato alla discrezione del sanitario scegliere se e come documentare il consenso del paziente al trattamento. Scorrendo il dettato di queste norme che prescrivono il consenso esplicito si può rilevare una certa inadeguatezza di fondo dei diversi indirizzi legislativi settoriali a circoscrivere i contenuti etici del consenso informato. Tendono, infatti, a mettere in ombra il valore della comunicazione, diretta a creare un rapporto di fiducia con il paziente e ad accrescere il suo empowerment. Parallelamente prevale la finalità difensivistica, che svuota l'atto medico del suo più importante contenuto etico.

La Convenzione europea di bioetica

In un mondo che va facendosi sempre più piccolo e transitabile in tutte le direzioni, in un'Europa che punta ormai a una completa integrazione culturale, oltre che economica e politica, non è accettabile che in tema di bioetica si possa continuare a procedere in ordine sparso. Da questa convinzione è nato il progetto di una convenzione europea in tema di biomedicina, che orienti lo sviluppo futuro del diritto sanitario, oltre che della deontologia. Dopo quasi cinque anni di lavoro e animati dibattiti (avvenuti, per la verità, più all'estero che in Italia) il Comitato direttivo per la bioetica del Consiglio d'Europa (Cdbi) ha proposto un testo di convenzione che è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 4 aprile 1997 e successivamente sottoposto alla firma degli stati membri del Consiglio d'Europa.

Si tratta dei 38 articoli della "Convenzione per la protezione

In Europa,

la Convenzione

di Oviedo è

nata per dare

le stesse

norme

bioetiche a tutti

i paesi membri

80

dei diritti dell'uomo e la dignità dell'essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina", più semplicemente indicata come "Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina". Dalla città in cui è avvenuta l'approvazione, è nota anche come Convenzione di Oviedo.

Una metà circa dei 40 paesi dell'Unione europea ha sottoscritto la Convenzione. Successivamente il documento dovrà essere ratificato dai parlamenti degli stati firmatari. Rispetto, infatti, alle Raccomandazioni del Consiglio d'Europa e ai Trattati, che si limitano alla enunciazione di principi, lo strumento della Convenzione trae la sua forza dal fatto che diviene vincolante per gli stati che la ratificano, obbligandoli all'applicazione delle sue norme all'interno dei singoli ordinamenti nazionali. Il significato della Convenzione non è, dunque, esortativo per gli stati che la sottoscrivono, bensì normativo.

Il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione con la legge n. 145, il 28 marzo 2001.

Dopo le disposizioni generali di apertura, la Convenzione propone subito due grandi temi rilevanti per il nuovo rapporto tra sanitari e cittadini nell'ambito sanitario: il consenso agli atti diagnostici e terapeutici e vita privata e diritto all'informazione.

Capitolo II: Consenso

● Art. 5: Regola generale

Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato.

Questa persona riceve innanzi tutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell'intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi.

La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso.

● Art. 6: Protezione delle persone che non hanno la capacità di dare consenso

Un intervento non può essere effettuato su una persona che non

81

ha capacità di dare il consenso, se non per un diretto beneficio della stessa. Quando, secondo la legge, un minore non ha la capacità di dare consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l'autorizzazione del suo rappresentante, di un'autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge.

Il parere di un minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità.

Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l'autorizzazione del suo rappresentante, di un'autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge.

La persona interessata deve nei limiti del possibile essere associata alla procedura di autorizzazione.

Il rappresentante, l'autorità, la persona o l'organo menzionati ai paragrafi 2 e 3 ricevono, alle stesse condizioni, l'informazione menzionata all'articolo 5.

L'autorizzazione menzionata ai paragrafi 2 e 3 può, in qualsiasi momento, essere ritirata nell'interesse della persona interessata.

● Art. 7: Tutela delle persone che soffrono di un disturbo mentale

La persona che soffre di un disturbo mentale grave non può essere sottoposta, senza il proprio consenso, a un intervento avente per oggetto il trattamento di questo disturbo se non quando l'assenza di un tale trattamento rischia di essere gravemente pregiudizievole alla sua salute e sotto

82

riserva delle condizioni di protezione previste dalla legge comprendenti le procedure di sorveglianza e di controllo e le vie di ricorso.

● Art. 8: Situazioni d'urgenza

Allorquando, in ragione di una situazione d'urgenza, il consenso appropriato non può essere ottenuto, si potrà procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata.

● Art. 9: Desideri precedentemente espressi

I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione.

● Art. 10: Vita privata e diritto all'informazione

Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata allorché si tratta di informazioni relative alla propria salute.

Ogni persona ha il diritto di conoscere ogni informazione raccolta sulla propria salute. Tuttavia, la volontà di una persona di non essere informata deve essere rispettata.

A titolo eccezionale, la legge può prevedere, nell'interesse del paziente, delle restrizioni all'esercizio dei diritti menzionati al paragrafo 2.

Un commento essenziale a queste indicazioni autorevoli della Convenzione ci porta a osservare che con l'articolo 5 viene consacrata, sul piano internazionale, una regola ormai ben chiara: nessun intervento può, in linea di principio, essere imposto a una persona, senza il suo consenso.

L'individuo deve dunque poter liberamente dare o rifiutare il suo consenso a qualsiasi intervento (inteso nell'accezione più ampia, vale a dire ogni atto medico con finalità di prevenzione, di diagnosi, di terapia, di riabilitazione o di ricerca).

È la regola fondamentale che nasce dal riconoscimento del diritto del

83

paziente a una decisione autonoma nel rapporto con i professionisti sanitari.

Il consenso del paziente può essere libero e informato solo se è dato facendo seguito a un'informazione oggettiva fornita dai sanitari responsabili relativamente alla natura e alle conseguenze possibili dell'intervento previsto o alle alternative. Il secondo paragrafo menziona gli elementi più importanti relativi all'informazione che deve precedere l'intervento. I pazienti devono essere informati in particolare sui miglioramenti che possono risultare dal trattamento, sui rischi che comporta (natura e grado di probabilità), nonché sul suo costo. Quanto ai rischi dell'intervento o delle sue alternative, l'informazione dovrebbe riguardare non solo i rischi inerenti al tipo di intervento previsto, ma anche i rischi riferiti alle caratteristiche individuali di ogni persona (come l'età o la presenza di altre patologie). Si deve rispondere in maniera adeguata alle richieste di informazioni complementari formulate dai pazienti.

L'informazione deve essere fornita in un linguaggio comprensibile alla persona che subisce l'intervento medico. Il paziente deve essere messo in grado di misurare, mediante un linguaggio che sia alla sua portata, l'obiettivo e le modalità dell'intervento quanto alla sua necessità o alla semplice utilità, confrontandolo con i rischi, con i disagi o con le sofferenze provocate.

Il consenso può rivestire forme diverse; può essere esplicito o implicito, verbale o in forma scritta. L'articolo 5 della Convenzione ha una portata generale e vuole abbracciare situazioni molto diverse tra loro, per cui non esige una forma particolare. Questa dipenderà dalla natura dell'intervento. È generalmente condiviso che il consenso esplicito sarebbe inappropriato se dovesse essere richiesto singolarmente per tutti i molteplici interventi della medicina quotidiana.

Questo consenso è dunque spesso implicito, purché l'interessato sia sufficientemente informato. Tuttavia in certi casi, per esempio quando si tratta di interventi

La Convenzione

di Oviedo

propone norme

di portata

generale per il

consenso e

per la tutela

della vita

privata

dei malati

84

diagnostici o terapeutici invasivi, si può esigere un consenso apertamente espresso. Per quanto riguarda la ricerca, l'articolo 16 della stessa Convenzione richiede che ci sia sempre un consenso espresso e specifico (la persona che si presta a una ricerca deve essere «informata dei suoi diritti e delle garanzie previste dalla legge per la sua protezione»). Il terzo paragrafo dell'articolo 5 esplicita che la libertà di consenso implica la possibilità per l'interessato in qualsiasi momento di ritirare il suo consenso. La casistica medica può prevedere situazioni in cui il ritiro del consenso del paziente nel caso di un'operazione potrebbe non essere rispettato, se ciò comportasse un grave pericolo per la salute dell'interessato (in questi casi prevalgono le norme e gli obblighi professionali).

Inoltre bisogna considerare l'articolo 7 (Protezione delle persone che non hanno la capacità di dare il consenso) l'articolo 8 (Situazioni d'urgenza) e l'articolo 9 (Desideri precedentemente espressi), che definiscono ipotesi nelle quali l'esercizio dei diritti contenuti nella Convenzione, compresa la necessità del consenso, può subire una restrizione.

L'informazione è un diritto del paziente ma, come prevede l'articolo 10, la sua eventuale volontà di non essere informato deve essere rispettata. Ciò non dispensa tuttavia dalla necessità di ricercare il consenso all'intervento proposto al paziente.

Sulla trama di queste osservazioni di contenuto va inserita qualche annotazione di merito. È anzitutto notevole il fatto che un accordo di fondo di questo genere sia stato realizzato. Non tutti sono d'accordo con la portata stessa della Convenzione, in particolare coloro che avrebbero desiderato delle prese di posizione più marcate su problemi molto dibattuti, come l'ambito della procreazione medicalmente assistita, la clonazione degli embrioni o l'ingegneria genetica. Ma un consenso europeo su una base così ampia di principi ai quali devono ispirarsi le legislazioni nazionali è indice di una notevole maturazione nell'ambito della bioetica. Come ha osservato Carlos De Sola, segretario del Cdbi, «a causa delle difficoltà di trovare un ampio accordo su questa questione molto complessa, l'esistenza stessa della Convenzione è un successo. Alcuni possono trovare il testo insufficiente. Diciamolo chiaramente: è vero che è incompleto su molti aspetti. Tuttavia contiene una serie di principi e di regole (come la preminenza della persona sulla scienza, il rispetto dell'autonomia della persona, la protezione della sua integrità e della sua dignità, la confidenzialità

85

dell'informazione medica e genetica, la non-commercializzazione del corpo umano...) che costituiscono un corpus giuridico coerente, vero diritto comune europeo della bioetica».

Se è vero che la Convenzione merita l'appunto che i suoi contenuti sono stati stabiliti per sottrazione, affidando i punti più controversi a protocolli addizionali (sono già stati previsti, e già in parte elaborati, protocolli relativi alla ricerca medica, al trapianto di organi, alla protezione degli embrioni e di feti umani, alla genetica) viene ancor più evidenziato il valore della base su cui si è trovata un'intesa. Il ruolo attribuito all'informazione da dare al paziente e alla sua partecipazione attiva al processo clinico fa parte appunto di questo nucleo. Nel corso dell'elaborazione della Convenzione, e soprattutto nei dibattiti in assemblea parlamentare, è stato sollevato il dubbio che l'enfasi posta sul diritto di autodeterminazione, che implica la libertà decisionale del paziente, potesse mettere in ombra la libertà professionale e di coscienza del medico.

Il concetto di obiezione di coscienza (o clausola di coscienza) in termini giuridici non è stato espressamente accolto nell'articolato, nel timore che l'appello a tale clausola potesse essere abusato dal medico per sottrarsi indiscriminatamente a obblighi assistenziali gravosi, anche al di fuori del genuino "caso di coscienza". L'obiezione di coscienza è stata ritenuta implicita nello schema contrattualistico che domina l'orientamento prevalente della medicina contemporanea.

Concorda con questa interpretazione la valutazione della Convenzione europea fatta dal nostro Comitato nazionale per la bioetica in un parere datato 21 febbraio 1997. In precedenza il Comitato si era espresso in modo molto critico sulle versioni iniziali del testo.

Il giudizio globale sulla stesura sottoposta alla ratifica è positivo, in particolare per quanto riguarda il ruolo attribuito al soggetto:

Il C.N.B. valuta positivamente la notevole sottolineatura

La Convenzione

di per sé

rappresenta un

successo

politico,

anche se

per alcuni

il suo testo

è insufficiente

86

data al principio della doverosità dell''informazione e del consenso come base giustificativa dell'esercizio della medicina, affermato dalla Convenzione nella linea dell'ormai consolidata dimensione etica dei rapporti medico-paziente e delle elaborazioni contenute nei vari Codici deontologici nazionali.

Valuta inoltre positivamente il fatto che sia stato affermato il principio che ogni persona, come ha diritto a essere informata e a esprimersi liberamente in merito alla tutela della salute del proprio corpo, così ha il diritto di revocare il proprio consenso all'intervento medico qualora lo ritenga opportuno (art. 5 comma 3).

Come già previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, gli Stati possono, al momento della ratifica, formulare riserve su un tema particolare della Convenzione, nel caso in cui una legge in vigore nel proprio territorio non sia conforme alle disposizioni della Convenzione. Realizzando il proprio compito istituzionale, il Cnb si chiede perciò quali disposizioni legislative italiane potrebbero essere in contrasto con lo strumento internazionale. Il Comitato non individua nessun contrasto né per quanto riguarda il consenso informato, così come è stato tratteggiato nella revisione del Codice deontologico dei medici datata 1995, né rispetto alla tutela della privacy.

Il dibattito bioetico ha il compito di chiarire nell'immediato futuro le modalità di applicazione dei principi sui quali si è trovato un accordo. Citiamo, a titolo esemplificativo, l'indicazione dell'articolo 9 sulla considerazione in cui dovranno essere tenuti i desideri precedentemente espressi relativi all'estensione delle cure nella fase terminale della vita. Siccome questo è un tema in cui non sussiste un fondamentale dissidio tra vari orientamenti della bioetica ― in particolare, sia quelli che si ispirano a una visione dell'uomo religiosa, sia quelli di indirizzo laico sono favorevoli al rispetto della volontà della persona nel determinare la misura delle cure in armonia con i propri valori ― sarà relativamente facile trovare strumenti che possano rendere operativo un diritto proclamato in astratto dalla Convenzione.

87

CAPITOLO SEI

IL CONSENSO INFORMATO SERVE A PROTEGGERSI IN AMBITO GIUDIZIARIO?

Tribunali e dintorni

Difendersi con rapporti di qualità

88

Tribunali e dintorni

Esercitare la professione medica non ha mai comportato l'impunità. Anche se la malevolenza diffusa contro i medici ha con piacere insinuato che questi pretendono di porsi su un piano in cui è difficile chiamarli a rendere conto delle loro azioni, la pratica della medicina si è sostanzialmente sentita vincolata dalla volontà dei medici di mettere tutto il loro sapere a servizio della salute dei pazienti. Così è stata interpretata la Clausola terapeutica, contenuta nel giuramento di Ippocrate, che vincola il medico a prescrivere ai malati «ciò che loro convenga»: dunque, ciò che procura un beneficio alla loro salute. Comunque lo si voglia formulare, questo fondamentale dovere ha tradizionalmente regolato la professione medica.

Sulla griglia di fondo del modello ippocratico, suona come inaudita la conclusione di un processo destinato a segnare per la medicina italiana la fine dell'orientamento, pacifico e consensuale, all'ethos che attribuiva ai medici la responsabilità per le decisioni da prendere nel miglior interesse del malato.

Nel 1990 la Corte di Assise di primo grado di Firenze condannava un chirurgo per il reato di omicidio preterintenzionale con riferimento a un intervento chirurgico conclusosi con la morte della paziente. L'addebito non gli veniva sollevato per uno dei classici motivi di ricorso penale: non aveva, cioè, agito con imperizia, imprudenza o negligenza. La motivazione della condanna introduce dei temi nuovi rispetto alla pratica giuridica e medico-legale del passato, in quanto individua come colpa la violazione della volontà espressa dal paziente circa i limiti del trattamento.

I fatti sono noti. Un'anziana signora ultraottantenne era stata ricoverata in ospedale per un intervento di asportazione transanale di un adenoma villoso. Discutendo con il medico prima dell'intervento, la paziente aveva escluso esplicitamente l'ipotesi di un'amputazione del retto. Considerando la propria età e le condizioni generali, rifiutava la prospettiva di dover vivere il resto dei suoi giorni con le limitazioni imposte da un ano preternaturale, preferiva una vita più breve a quella

89

schiavitù. Durante l'esecuzione dell'intervento, invece, il chirurgo aveva proceduto in questa seconda maniera. La paziente aveva risentito profondamente dell'intervento avvenuto contro la sua volontà, era deceduta poche settimane dopo, in condizioni fisiche e psichiche deplorevoli.

Il chirurgo è stato riconosciuto colpevole, leggiamo nella sentenza di primo grado, per un intervento demolitivo «in completa assenza di necessità e urgenza terapeutiche che giustificassero un tale tipo di intervento e soprattutto senza preventivamente notiziare la paziente o i suoi familiari, che non erano stati interpellati in proposito né minimamente informati dell'entità e dei concreti rischi del più grave atto operatorio che veniva eseguito, e non avendo comunque ricevuto alcuna forma di consenso a intraprendere un trattamento chirurgico di portata così devastante».

La linea di difesa del chirurgo, impostata sulla necessità di un intervento finalizzato nelle intenzioni a salvare la vita della malata, è stata esplicitamente rifiutata dal tribunale. La Corte, considerando l'espressa volontà della paziente, che aveva acconsentito solo a un intervento per via transanale, riconosceva a quest'ultima «il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze». Questo atteggiamento non implica il riconoscimento di un diritto positivo al suicidio, ma è invece, sempre secondo la Corte, «la riaffermazione che la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere, o peggio dall'arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell'avente diritto, trattandosi di una scelta che riguarda la qualità della vita e che, pertanto, lui e lui solo può legittimamente fare».

La sentenza del tribunale fiorentino sarà convalidata in tutte le istanze superiori di giustizia. La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5639 del 13 maggio 1992, esplicitava nei termini seguenti la necessità di informazione e consenso per giustificare

Un caso

emblematico

della

giurisprudenza

ha visto la

condanna di

un chirurgo per

omicidio

preterintenzionale

90

l'atto medico del chirurgo:

Il chirurgo che, in assenza di necessità e urgenza terapeutiche, sottopone il paziente a un intervento operatorio di assai più grave entità rispetto a quello meno cruento e devastante, e comunque di più lieve entità, del quale lo abbia preventivamente informato e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo, sotto il profilo psicologico, la finalità pur sempre curativa della sua condotta, sicché egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni sia derivata la morte.

L'orizzonte di argomentazioni e di valori che sta sullo sfondo di queste sentenze diverge notevolmente da quello che ha tradizionalmente regolato la pratica della medicina. Ne deduciamo che sono intervenuti nella nostra cultura cambiamenti importanti, che hanno spostato sensibilmente l'asse dei diritti e dei doveri: la rivoluzione liberale è entrata in medicina. L'onda lunga di questo cambiamento culturale nell'ultimo decennio si è fatta sentire anche nei tribunali, chiamati a valutare i comportamenti dei sanitari in base aH'informazione fornita.

La giurisprudenza legata all'informazione in medicina si è arricchita di recente di alcune sentenze che si muovono in modo molto deciso verso quella riscrittura dei rapporti medico-paziente che è promossa dalla cultura della modernità. Due sentenze hanno, in particolare, avuto ampia risonanza nei mass media. La prima in ordine di tempo è quella della Corte di Cassazione, sezione III civile, n. 364 (30 aprile 1996 - 15 gennaio 1997).

La Cassazione è intervenuta contro la sentenza del tribunale di Ancona che, in data 17 ottobre 1988, rigettava la domanda di risarcimento danni da parte di una signora che, in occasione di un intervento chirurgico, aveva avuto un'anestesia mediante puntura lombare mal eseguita, che le aveva cagionato un'invalidità permanente totale.

Sia il Tribunale sia la Corte d'appello di Ancona avevano ritenuto di respingere la domanda, escludendo l'esistenza di una colpa grave dell'anestesista (attribuendo la condizione insorta al «naturale rischio imponderabile in un'operazione chirurgica») e negando la necessità di un'informazione apposita circa la modalità dell'anestesia praticata («L'anestesia epidurale era quella astrattamente più indicata per l'intervento che doveva essere praticato. Doveva ritenersi esistente, quindi, un consenso presunto all'anestesista, la cui scelta era stata

91

astrattamente rispondente alle norme tecniche: non potrebbe pretendersi, del resto, che il medico informi il paziente di ogni remota possibilità di reazione abnorme del corpo umano al recepimento di sostanze chimiche, essendo egli tenuto anche a non spaventarlo rendendolo edotto di tutti i possibili rischi prevenibili»). Nell'impostazione argomentativa del Tribunale si legge con grande chiarezza la concezione tradizionale che ha guidato la pratica della medicina: l'autolegittimazione dell'attività medica e la sufficienza del consenso presunto.

La Cassazione, nell'annullare le due sentenze di primo e secondo grado, si basa su una diversa concettualizzazione della relazione terapeutica. Se la paziente poteva presumere la necessità di essere sottoposta ad anestesia, non altrettanto si può dire per la specifica metodologia adoperata. L'iniezione lombare, infatti, comportava un rischio specifico. Secondo la Cassazione, «la scelta di una delle tre tecniche metodologiche anestetiche, comportando diversi fattori di rischio, avrebbe dovuto ottenere un valido e consapevole consenso della paziente». La formazione del consenso presuppone una specifica informazione su quanto ne forma oggetto.

Nella motivazione della sentenza la Cassazione approfondisce la dottrina del consenso informato, in particolare nell'ambito degli interventi chirurgici:

Il dovere di informazione concerne la portata dell'intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizioni di decidere sull'opportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento di vantaggi e rischi. L'obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, non potendosi disconoscere che l'operatore sanitario deve contemperare l'esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche a un banale

La Cassazione,

con due

sentenze,

ha sancito

il cambiamento

della cultura

nella

comunicazione

con il paziente

92

intervento (...). L'obbligo di informazione si estende, inoltre, ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative, in modo che il paziente, con l'ausilio tecnico-scientifico del sanitario, possa determinarsi verso l'una o l'altra delle scelte possibili, attraverso una cosciente valutazione dei rischi relativi e dei corrispondenti vantaggi.

Appoggiandosi su tali principi, la Cassazione ritiene che la Corte che ha giudicato il caso non avrebbe potuto riferirsi a un consenso meramente presunto in relazione all'intervento richiesto, ma avrebbe dovuto accertare se i vari metodi anestesiologici comportassero, insieme ai vantaggi, rischi di diversa intensità, e in particolare se l'anestesia epidurale comportasse rischi maggiori. Nel caso discusso, quindi, si sarebbe dovuto richiedere un esplicito consenso.

Se è vero che la richiesta di uno specifico intervento chirurgico avanzata dal paziente può farne presumere il consenso a tutte le operazioni preparatorie e successive che vi sono connesse, e in particolare al trattamento anestesiologico, allorché più siano ― come nel momento presente ― le tecniche di esecuzione di quest'ultimo, e le stesse comportino rischi diversi, è dovere del sanitario, cui pur spettano le scelte operative, informarlo dei rischi e dei vantaggi specifici e operare la scelta in relazione all'assunzione che il paziente ne intenda compiere.

Una seconda sentenza, che ha suscitato molto scalpore, è stata quella con cui la Corte d'appello di Trieste il 21 aprile 1997 ha condannato un ginecologo per non aver informato una paziente che il feto era malformato.

I fatti si sono svolti nell'ospedale di Sacile, vicino Pordenone, nel 1990. L'ecografia, eseguita al settimo mese di gravidanza, aveva rivelato che il feto, concepito da una madre portatrice sana di una traslocazione robertsoniana, era gravemente malformato. Il medico, aiuto di ostetricia e ginecologia, considerando che in ogni caso un aborto terapeutico non avrebbe potuto essere preso in considerazione, per lo stato avanzato della gravidanza, aveva deciso di tacere l'informazione ai genitori. La piccola è nata priva degli avambracci e di una gamba, ha malformazioni a un piede e alla lingua, non è autosufficiente, ma è lucida di mente.

Portato in tribunale con l'imputazione di omissione di atti d'ufficio, il ginecologo era stato assolto sia in primo grado (Tribunale di

93

Pordenone, 1992) sia in appello (Corte di Trieste, nel 1995): secondo i giudici, non essendoci più tempo per interrompere la gravidanza, l'omissione della verità non costituiva reato. Ma nel marzo 1996 la Cassazione aveva disposto un nuovo giudizio, ritenendo non sufficientemente motivata la sentenza. Secondo la VI sezione penale della Cassazione, infatti, «la paziente ha diritto di essere preparata allo specifico parto che l'attende. Tale preparazione è idonea a incidere sulla salute psichica della gestante, nonché su quella del nascituro, affinché lo stesso possa trovare fin dall'inizio la migliore accoglienza». Da questa ottica deriva il rovesciamento della sentenza, con la condanna del ginecologo da parte della Corte d'appello di Trieste.

Nell'eco che la sentenza ha avuto sulla stampa è stata sottolineata soprattutto la forte accentuazione, a opera della Cassazione, del concetto di salute psicologica. Secondo la Cassazione, infatti, i riferimenti normativi sono la legge 833, che istituisce il Servizio sanitario nazionale (la quale «espressamente tutela la salute psichica della persona»), e la legge 194 che, nel normare l'interruzione volontaria della gravidanza, «ha costantemente riguardo alla situazione psichica della paziente in gravidanza». L'informazione era dovuta in quanto «adeguati supporti e terapie psicologiche avrebbero dovuto essere avviati nell'intervallo che separava al parto, onde evitare l'ulteriore complicazione di un'improvvisa e inaspettata rivelazione».

È importante notare che il riferimento non è a un diritto del paziente all'informazione, ma alla tutela della salute del paziente ― estesa anche alla dimensione psichica ― attraverso l'informazione. La sentenza della Cassazione, da questo punto di vista, risulta meno innovativa nel rapporto medico-paziente di quanto appaia a prima vista.

L'orientamento della magistratura non ha mancato di suscitare malesseri e resistenze da parte dei professionisti sanitari e di alcuni giuristi. Ne troviamo una traccia nell'argomentazione che i difensori di un medico, in

La

comunicazione

non è solo

un diritto

del paziente,

ma è anche

un mezzo

per la tutela

della sua salute

94

un'altra causa, hanno proposto alla Suprema Corte. Hanno sollevato un'eccezione di illegittimità costituzionale nell'applicare l'articolo 584 C.P., che sanziona l'omicidio preterintenzionale. In questo modo, sostenevano provocatoriamente i difensori, si viene a equiparare, sul piano delle sanzioni, la condotta di un volgare teppista con quella di un professionista incappato in un infortunio terapeutico.

La sentenza della Corte di Cassazione (prima sezione penale, 29 maggio 2002) segna un punto di svolta rispetto alla riflessione giuridica prevalente nell'ultimo decennio. La legittimità dell'atto medico viene fondata non tanto sul consenso dell'avente diritto, quanto in se stessa: si tratta infatti di un'attività legittima ai fini della tutela di un bene, quello della salute, costituzionalmente garantito.

Secondo la Corte di Cassazione, «il medico è legittimato a sottoporre il paziente, affidato alle sue cure, al trattamento terapeutico che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello stesso, anche in assenza di un esplicito consenso».

Nella sentenza viene dato ampio rilievo alle motivazioni di ordine sociologico che hanno indotto a porre di nuovo un forte accento sul significato e la finalità dell'azione del medico, piuttosto che sulla volontà del paziente:

La diffusa e crescente enfatizzazione in chiave giuridica di questa condizione, che fino a poco tempo fa trovava l'unica disciplina organica nel codice di deontologia medica, l'ha trasformata da strumento di alleanza terapeutica tra medico e paziente teso al soddisfacimento dell'interesse comune di ottenere dalle cure il miglior aiuto possibile, in fattore di elevata conflittualità giudiziaria, indotta dalla sempre maggior diffidenza dei cittadini verso le strutture sanitarie e verso coloro che vi lavorano, cui si contrappone l'inquietante fenomeno della "medicina difensiva" di cui è, tra l'altro, espressione comune l'ansiosa ricerca in tutti i nosocomi, pubblici e privati di adesioni "modulistiche" sottoscritte dai pazienti nell'erronea supposizione di una loro totale attitudine esimente.

La preoccupazione che traspare è quella che il consenso informato induca una distorsione nel modo di operare della classe medica, così che l'autotutela diventi la prima preoccupazione. È stato ritenuto perciò necessario riaffermare che l'attività medica è giustificata in positivo dall'ordinamento: il medico è tenuto a intervenire per salvare la

95

vita del paziente o per migliorarne la qualità.

Il dibattito tra i giuristi suscitato dalla sentenza testimonia le incertezze che ancora prevalgono nell'interpretazione giurisprudenziale dell'atto medico: mentre alcuni hanno interpretato la presa di posizione della Corte di Cassazione come un'opportuna precisazione che riconduce l’agire del medico sotto la guida della competenza professionale (cfr. Mauro Angarano: "Cambia la cultura, cambia la legge”, in Janus, n. 10, 2003, pp. 77-81), altri leggono la sentenza come un ritorno al passato (Giuseppe Marra: "Ritorno indietro di dieci anni sul tema del consenso del paziente nell'attività medico-chirurgica", in Cassazione Penale, n. 5, 2003, pp. 1950-1957).

Difendersi con rapporti di qualità

Questa breve rassegna dei casi più eclatanti in cui l'informazione data o negata dai medici si è tradotta in un'azione giudiziaria, ci permette di visualizzare il fantasma che turba oggi i professionisti sanitari: dover rendere conto a un magistrato di decisioni che il medico era solito prendere in scienza e coscienza.

L'aumento della litigiosità giudiziaria e del contenzioso medico-legale ha favorito tra i professionisti sanitari la nascita di un riflesso condizionato di autodifesa. Se i medici si sentono ostaggi dei pazienti, la pratica medica viene modificata. Fosse pure soltanto in direzione di una prescrizione maggiore di farmaci e di analisi di laboratorio o di ricoveri ospedalieri non necessari. Uno sviluppo del genere ha riflessi negativi non solo sull'economia sanitaria, ma anche sulla salute dei pazienti, per le potenziali conseguenze iatrogene di interventi superflui (basti pensare che il ricorso indiscriminato a esami diagnostici, quando la probabilità di malattia è bassa, porta a un aumento di falsi positivi).

La tendenza all'autotutela è stata confermata da ricerche

L'aumento

dei casi

medico legali

ha creato

nei medici

l'esigenza di

un'autotutela

che può

diventare

dannosa

96

specifiche. Uno studio effettuato in Norvegia (i risultati sono stati pubblicati anche su Lancet nel 2001) ha preso in considerazione oltre mille medici. Si è voluto verificare se esperienze negative passate, come procedimenti d'inchiesta, segnalazioni o ammonimenti a seguito di terapie giudicate errate o a intimidazioni, possono determinare decisioni cliniche difensive, come la scelta di terapie più avanzate o costose anche quando non sono indicate.

Dalla ricerca è emerso che circa la metà di quanti hanno risposto aveva avuto uno o più tipi di esperienze negative e che quasi il 60 per cento aveva subito intimidazioni.

Ai medici partecipanti allo studio sono stati sottoposti due scenari in cui venivano richieste determinate prestazioni, con o senza minaccia di denuncia alla stampa o alle autorità sanitarie. In presenza di minacce, sei medici su dieci hanno optato per decisioni più o meno difensive. Il 40 per cento degli intervistati ha preferito ricorrere a ulteriori accertamenti diagnostici, per quanto non indicati, piuttosto che avere grattacapi. Se osservazioni di questo genere dovessero essere confermate e generalizzate, significherebbe che l'orientamento al bene del paziente, come criterio per le scelte in medicina, ha ceduto il posto ad altre considerazioni.

In una strategia difensiva, l'informazione cambia segno. Non è più finalizzata a far partecipare il paziente alle scelte che lo riguardano, facendo crescere il suo empowerment, ma a predisporre argomentazioni di difesa in una ipotetica sede giudiziaria. Lo scenario che si delinea è di un progressivo degrado della qualità della relazione medico-paziente, avviato su una "china fatale" (slippery slope). Il poeta T.S. Eliot ha descritto, in senso più generale, la china fatale in due versi celebri:

Where is the wisdom we lost in knowledge?

Where is the knowledge we lost in Information?

«Dov'è la sapienza che abbiamo perso, facendola diventare conoscenza? Dov'è la conoscenza che abbiamo perso, facendola diventare informazione?». Alla luce di questa immagine, che descrive una strada in discesa, l'informazione, che la medicina attuale mette al centro del rapporto tra medico e paziente, diventa piuttosto un indicatore della crisi. Anche nell'ambito delle decisioni cliniche ci siamo allontanati dalla sapienza. La relazione clinica che conosciamo dalla tradizione era fondata su quella saggezza pratica che i greci chiamavano phrónesis e i latini prudentia.

97

La medicina era un'arte, analoga all'arte di guidare una nave facendo fronte alle intemperie che costringono ad arrivare alla meta attraverso percorsi imprevisti. Come ogni arte, aveva i suoi esperti. A loro era affidata la decisione. A questo fine erano dotati di un potere assoluto («Il medico ha il potere di governare il corpo umano così come il sovrano governa lo stato e Dio governa il mondo»: Rodrigo de Castro, Medicus politicus, sec. XVIII). Come il capitano della nave, il medico non era tenuto a dare informazioni sulle sue scelte.

Lo scenario non è stato molto diverso quando la medicina ha imboccato la strada della scienza. Passando da sapienza a conoscenza (certa, secondo i criteri dell'episteme), la medicina ha ulteriormente approfondito la distanza con il paziente.

L'informazione non era più solo inopportuna, ma impossibile: chi non possiede la scienza del medico non è considerato in grado di capire in base a quali considerazioni il professionista fa le sue scelte. Con la scienza il paziente si può relazionare solo indirettamente, mediante la fiducia con cui si appoggia sulle conoscenze del medico, il quale ha accesso diretto alle conoscenze scientifiche.

Viktor von Weizsäcker (1886-1957), il medico-filosofo teorico della medicina antropologica, riflettendo sugli sviluppi della scienza medica nel XX secolo, ha individuato un pericolo nel voler essere la medicina sempre più conoscenza scientifica, ma senza rapporto con il paziente:

Se si va avanti così per un certo tempo, potrà succedere un giorno che un'intera corporazione, la corporazione dei medici e degli scienziati, diventerà l'oggetto di una grave aggressione. Non mi meraviglierei se, come la rivoluzione francese ha ucciso gli aristocratici e i preti, un giorno fossero uccisi medici e professori, e non benché si siano irrigiditi cercando riparo dietro la scienza impersonale, bensì proprio per questo motivo (Pathosophie, 1956).

La conoscenza

che diventa

informazione

si degrada.

Però accorcia

le distanze

tra medico e

paziente

98

Oggi l'informazione è considerata necessaria e dovuta, ma qual è il suo rapporto con la relazione personale di cura? Dalla sapienza alla conoscenza, e dalla conoscenza all'informazione, è come se la medicina fosse andata soggetta a una progressiva emorragia della sua sostanza vitale. Nello scenario attuale, che tende a misurare la qualità del rapporto in base all'informazione fornita, l'incontro medicopaziente diventa, paradossalmente, scontro (con la tendenza a spostarsi dall'ospedale e dall'ambulatorio alle aule dei tribunali). La comunicazione è diventata un dialogo tra sordi, che si traduce in un rapporto lontano, freddo e pieno di sospetti. L'informazione, tradotta nella pratica del consenso informato, è diventata la caricatura di se stessa.

È necessario risalire la china. Le informazioni da sole non bastano. Oggi come ieri, chi si rivolge al medico si aspetta molto di più: vuol essere guarito, compreso, consolato, accompagnato per l'impervio cammino che la patologia gli riserva. Le informazioni devono poter diventare un momento della comunicazione. Perché ci sia comunicazione le informazioni sono necessarie ma non sufficienti: una cosa è scaricare le informazioni sul paziente, procurandogli più angustie, dilemmi e incertezze, un'altra cosa invece condividere le informazioni in un rapporto comunicativo. La comunicazione non si realizza se il medico non ha davvero a cuore il bene del paziente. Questo è il valore etico centrale della medicina di ieri e di sempre.

L'informazione ― che ormai costituisce la struttura portante dell'empowerment del cittadino che accede ai servizi sanitari ― va collocata in un contesto comunicativo, dove l'ascolto attivo gioca un ruolo fondamentale. Sullo sfondo, quale meta ideale a cui tendere, intravediamo quel denso incontro che non è solo uno scambio di servizi tra chi è portatore di un bisogno e chi ha conoscenze e risposte efficaci, ma uno scambio tra coscienze. «La vita, amico, è l'arte dell'incontro», canta il poeta Vinicio De Moraes. Non lo è da meno per la medicina, rispetto a tutte le altre situazioni cruciali della vita.

Ed è da questo tipo di incontri che il medico può aspettarsi la tutela più efficace contro tutte le litigiosità che l'esercizio della professione comporta ai nostri giorni.

99

CAPITOLO SETTE

L'INFORMAZIONE RENDE LA MEDICINA PIÙ SICURA?

L'errore in medicina: dal fatalismo alla prevenzione

Informazione, per prevenire gli errori

100

L'errore in medicina: dal fatalismo alla prevenzione

Salire su un aereo, attraversare un ponte, entrare in ospedale, sono tutte azioni che comportano un rischio. Questi e tanti altri gesti che compiamo quotidianamente, con grandi benefici per la qualità della nostra vita, potrebbero procurarci dei danni e perfino la perdita della vita stessa. La percezione abituale del pericolo non è appropriata all'entità del pericolo stesso. Può essere istruttivo il confronto tra i rischi che si corre di morire in un viaggio aereo e quelli di contrarre in ospedale una malattia fatale (e quindi di morire non per la malattia per cui ci si è ricoverati, ma a causa del ricovero). Mentre tutti siamo consapevoli della prima evenienza (gli incidenti aerei, anche se non frequenti, sono molto visibili e comportano un alto numero di perdite di vite umane), la possibilità di morire per un ricovero ospedaliero passa inavvertita.

Eppure è molto più probabile della prima. Con il linguaggio delle statistiche: le linee aeree statunitensi parlano di 0,27 incidenti su 1.000.000 di partenze dal 1990 al 1994, mentre in due dei più stimati ospedali del mondo si sono scoperti errori gravi o potenzialmente tali in 6,7 pazienti su 100 (chi accetterebbe di rimanere su un aereo se il comandante annunciasse che le probabilità di arrivare a destinazione sani e salvi è pari al 97 per cento e che quella che il personale di volo faccia qualche errore grave è "appena" del 6,7 per cento?).

È stato stimato, basandosi sull'Harvard Medical Practice Study (una celebre ricerca fatta selezionando a random oltre 31.000 cartelle cliniche provenienti da 51 ospedali di New York durante l'anno 1984), che il numero di pazienti che perdono la vita per danni iatrogeni ogni anno negli Usa sia l'equivalente della caduta di tre jumbo-jet ogni due giorni! In ogni caso, il tasso di errori stimato in medicina, pari all'1% degli interventi, è più alto di quello tollerato dall'industria. Ma, mentre l'aviazione ha elaborato metodi standardizzati per rilevare gli errori umani, niente di analogo è avvenuto in medicina. La ricerca e la documentazione sistematica degli errori sono approssimative, tanto

101

che l'Institute of Medicine di Boston nel rapporto del 1999, con cui attirava l'attenzione sugli esiti fatali delle cure mediche, non era in grado di fornire dati certi, ma dichiarava che ogni anno negli Stati Uniti muore un numero imprecisato di pazienti per errori medici, collocabile tra i 44.000 e i 98.000.

Per la mancata attenzione al fenomeno, il livello di guardia dell'opinione pubblica nei confronti dei pericoli connessi con la pratica della medicina è molto basso. Ancor più, mettersi nelle mani del medico, assumere farmaci, farsi ricoverare in ospedale è vissuto nella nostra cultura in modo molto rassicurante, come il comportamento istintivo più adeguato nei confronti di ciò che minaccia lo stato di salute. È venuta meno una diffidenza tradizionale verso i luoghi di cura, che induceva a starne lontani il più possibile. Nella cultura popolare l'ospedale era visto come un luogo da evitare.

Ne troviamo un'eco in un celebre sonetto del poeta romanesco Gioachino Belli, che dà voce all'atteggiamento prudenziale che induce a star lontano dall'ospedale. Il sonetto, intitolato L'ammalaticchio, mette in scena due conoscenti che si incontrano per strada. Uno dei due ha una cattiva cera e confessa all'altro che non si sente bene. Il compare gli suggerisce allora di andare all'ospedale. La risposta indignata del malato si sintetizza in un verso che è diventato tanto celebre da fornire il titolo a una raccolta di sonetti del Belli dedicati alla salute e alla pratica medica nella Roma papalina: «Ma nun sai ch'a lo spedale ce se more?».

Accanto alla cultura popolare, che ha sempre cercato di evitare l'ospedale perché lo associa alla morte, c'è anche una tradizione più colta, rappresentata da studiosi e intellettuali che si sono opposti alla medicalizzazione (e all'ospedalizzazione) delle pratiche sanitarie, in nome della salute stessa. Il più celebre è il sociologo Ivan Illich, che con Nemesi medica. L'espropriazione della salute, del 1977, ha lanciato un attacco polemico alla credenza ingenua che più medicina significhi più salute. A suo avviso, invece, di medicina ci si può anche

Il numero

di decessi per

errori medici

equivale a

quello ipotetico

di due disastri

aerei ogni tre

giorni

102

ammalare: in questi casi si può parlare di iatrogenesi (ovvero di origine "medica") della malattia. Illich distingue tre forme principali di iatrogenesi, a seconda che il fattore che induce la patologia sia individuato nella pratica medica (iatrogenesi clinica), nell'organizzazione dei servizi alla salute, a vantaggio di una medicalizzazione della vita (iatrogenesi sociale) o della perdita delle capacità di autogestire i fatti patologici, che ogni cultura trasmette alle persone (iatrogenesi culturale).

Nel capitolo dedicato a quest'ultima così descrive la situazione:

L'inutilità di cure, per altro innocue, è solo il minore dei mali che l'impresa medica proliferante infligge alla società contemporanea. La sofferenza, le disfunzioni, l'invalidità e l'angoscia, conseguente all'intervento della tecnica medica, rivaleggiano ormai con la morbosità provocata dal traffico, dagli infortuni sul lavoro e dalle stesse operazioni collegate alla guerra e fanno dell'impatto della medicina una delle epidemie più dilaganti del nostro tempo. Fra i crimini che si commettono per via istituzionale, solo l'odierna malnutrizione fa più vittime della malattia iatrogena e delle sue varie manifestazioni.

La denuncia, con il suo evidente estremismo, pecca di unilateralità e si condanna all'isolamento: affermare che i danni che provoca la medicina sono una vera e propria epidemia ha provocato un rifiuto generalizzato delle analisi del sociologo da parte del mondo medico. Anche tra la diffidenza popolare, rappresentata dal popolano di Belli, e le critiche degli studiosi della medicina non si è saldata alcuna alleanza. Oggi solo qualche eccentrico ― soprattutto anziani, dei quali si può mettere in dubbio la completa lucidità nelle scelte ― continua a rifiutare l'aiuto che offre la medicina organizzata, con le sue istituzioni, e si oppone ostinatamente al ricovero. In genere, invece, la popolazione fa ricorso fin troppo volentieri all'ospedale: l'ospedale è diventato sinonimo di un posto sicuro in cui rifugiarsi.

L'opposizione ai ricoveri inutili non è venuta né dai medici, né dalla popolazione, ma dagli amministratori, in nome dei costi che tali ospedalizzazioni fanno gravare sulla sanità.

Anche tra gli intellettuali è rapidamente tramontata quella stagione di serrata critica della medicina, che è stata particolarmente intensa verso la fine degli anni '70. Sembra quasi una coincidenza: nel giro di due o tre anni si sono concentrate opere di grande rilievo come Nemesi medica di Ivan Illich, L'ordine cannibale. Vita e morte della

103

medicina di Jacques Atta li (1979), La medicina: mito, miraggio o nemesi? di Thomas McKeown (1978) e L'inflazione medica di Archibald Cochrane (1979). Questo atto di accusa contro la medicina è stato poi, a partire dagli anni '80, metabolizzato e digerito.

Oggi si sentono per lo più voci come quella di Daniel Callahan, che richiamano la medicina alla dimensione del limite (cfr. D. Callahan, La medicina impossibile, Baldini & Castoldi, 2000), ma non rimesse in discussione così radicali come quelle di una trentina di anni fa. Anzi, il sospetto che l'ospedale sia un luogo pericoloso oggi sembra quasi scomparso dai costumi, tanto da indurre un osservatore attento dei nostri comportamenti sanitari a suggerire che ai nostri giorni dovremmo piuttosto inserire nell'elenco delle priorità proprio la diffusione di questo cattivo pensiero tra la popolazione. Un editoriale del prestigioso giornale British Medical Journal, rivista che gode di grande credito nell'ambito medico, sosteneva che dobbiamo controbilanciare quello che facciamo per migliorare i servizi sanitari con un'azione finalizzata ad agire anche sul versante delle attese, modificando quindi ciò che la popolazione si aspetta dalla medicina. È necessario risvegliare l'opinione pubblica e trasmettere alcune convinzioni che sono un po' controcorrente. Secondo Richard Smith, direttore della rivista, che ha firmato l'editoriale, all'opinione pubblica va detto finalmente che:

● la morte è inevitabile

● la maggior parte delle malattie gravi non può essere guarita

● gli antibiotici non servono per curare l'influenza

● le protesi artificiali ogni tanto si rompono

● gli ospedali sono luoghi pericolosi

● ogni farmaco ha anche effetti collaterali

Oggi c’è

troppa fiducia

nella medicina.

Forse è

necessario

avvertire la

popolazione

della fallibilità

della scienza

104

● la maggioranza degli interventi medici danno benefici solo marginali e molti non funzionano affatto

● gli screening producono anche risultati falsi-negativi e falsi-positivi

● ci sono modi migliori di spendere i soldi che destinarli ad acquistare tecnologia medico sanitaria

(Smith R: "The NHS: possibilities for the endgame", Br. Med. Journ.,318, 1999).

La consapevolezza dei rischi che si corrono in un ricovero ospedaliero è, dunque, una priorità tra le opinioni che è necessario diffondere tra la popolazione.

La fiducia nelle istituzioni sanitarie aveva come alleato un atteggiamento fatalista, espresso dal detto Errare humanum est (a cui veniva contrapposto, come comportamento censurabile, solo il Diabolicum in malo perseverare di sant'Agostino o il Nullius nisi insipientis perseverare in errore di Cicerone). Il riconoscimento della fallibilità, dire che sono esseri umani e quindi sbagliano; presentarsi non immuni dagli errori, ma quasi disarmati di fronte ad essi, si rivela come una richiesta di benevola indulgenza e una strategia sofisticata per nascondere i peccati di omissione nei confronti degli errori.

Una vignetta dell'umorista argentino Quino mostra in modo efficace, meglio di quanto saprebbe fare un discorso filosofico, il valore autogiustificatorio di questa dichiarazione di fallibilità. Un paziente con l'aria preoccupata viene sospinto in una sala operatoria incorniciata dalla scritta Errare humanum est. Se gli errori sono un destino e quindi sono imprevedibili, l'espressione compiaciuta dei chirurghi che stanno sulla porta è pienamente giustificata. Ma a fronte di questa interpretazione dell'errore, data dai professionisti, l'umorista ha collocato la visione che ne ha il paziente. Dal punto di vista di colui che l'infermiere sta portando in sala operatoria, la fallibilità che i medici esibiscono è molto inquietante. Al malato non dà alcuna sicurezza sapere che gli errori seguono l'essere umano in tutto quello che fa, sicuramente egli preferirebbe una realtà controllabile, e quindi prevedibile.

In passato era diffusa la visione un po' fatalista, tradotta nel detto: «Gli errori dei medici li copre la terra» (nel senso che non è prevedibile che il comune cittadino possa venire a conoscenza degli errori dei

105

medici, perché con strategie grossolane o sofisticate, in ogni caso vengono nascosti). In modo più sofisticato, ma non meno pungente, Bernardino Ramazzini, il celebre autore del primo libro di igiene del lavoro (De morbis artificum diatriba, 1700) nel capitolo dedicato alle malattie dei becchini osserva:

È giusto preoccuparsi della salute dei becchini la cui opera è tanto necessaria; è giusto dal momento che sotterrano i corpi dei morti insieme agli errori dei medici. È giusto che la medicina contraccambi, per quanto può, l'opera svolta dai becchini nel salvaguardare la reputazione dei medici.

Una ricaduta pratica di questo atteggiamento di fondo nei confronti dell'errore in medicina era l'impunità dei medici per l'errore intercorso. Dal punto di vista giuridico è rimasta in vigore per lunghissimo tempo la convinzione che non si può giudicare il medico alla stregua di una persona qualunque, secondo i criteri generali di responsabilità professionale, ma si deve tener conto della sua particolare posizione nella società. La giurisprudenza ha adottato per l'errore professionale criteri molto larghi, ritenendolo scusabile, a meno che non manifesti ignoranza grave, molto evidente, imperdonabile. Possiamo dire che la pratica di impunità degli errori medici è durata, almeno in Italia, fino alla fine degli anni '80 del XX secolo.

Il cambiamento dei rapporti sociali, che ha investito la medicina insieme a tutte le altre attività basate sull'autorità professionale e le interazioni complementari (in base alle quali le decisioni del professionista sono adottate senza discussione) ha prodotto una rilevante litigiosità giudiziaria. Ai nostri giorni gli errori dei medici (o ciò che i cittadini ritengono errore...) sono portati davanti ai giudici con imputazioni penali o per risarcimento di danni. Secondo il Centro Elaborazione Dati della Corte di Cassazione, in Italia le sentenze contro i medici giunte all'ultimo grado di giudizio sono state lo 0,6 del totale nel periodo 1950-1990 e il 3,9 negli anni 1991-2000. Benché lontana dai record della litigiosità

Per moltissimo

tempo,

l'impunità

del medico

era fuori

discussione.

In Italia,

è stato così

almeno fino

agli ultimi

anni ottanta

106

giudiziaria che affligge da tempo la medicina americana, anche l'Italia sembra essersi avviata verso la tolleranza zero nei confronti degli errori che intercorrono nell'esercizio delle attività terapeutiche.

Informazione, per prevenire gli errori

Può essere istruttivo a questo punto esaminare il percorso di risposta proposto dall'Institute of Medicine americano. L'ampio studio, intitolato To err is human: Building a safer health system (Washington, 1999), suggerisce di trarre una conclusione diversa dalla constatazione della fallibilità umana: invece di incrementare il fatalismo, può stimolare a rintracciare i motivi degli errori e a introdurre quei cambiamenti che possono prevenirli. Proprio perché il fattore umano si intreccia inevitabilmente anche con l'uso della tecnologia più sofisticata, la strategia adeguata non è quella di nascondere o minimizzare gli errori, bensì di portarli allo scoperto, documentarli e introdurre i cambiamenti opportuni nel processo che ha prodotto gli effetti negativi indesiderati. La convinzione di fondo è che per ridurre gli errori medici i cambiamenti strutturali sono più importanti delle accuse e delle sanzioni rivolte ai singoli operatori che hanno sbagliato. Nasce così la proposta di un esplicito e consapevole risk management, destinato ad accompagnare tutta l'attività sanitaria.

Per dare a questa indicazione di marcia un punto di riferimento concreto, possiamo ricordare una pratica che si sta diffondendo negli Stati Uniti: le Conferenze sulla malattia e la mortalità (note con la sigla M&M). A cadenza settimanale, nei principali ospedali americani si tiene una conferenza aperta a tutti i medici, nel corso della quale sono prese in esame le procedure che hanno procurato la morte di un paziente o non hanno comunque portato i risultati attesi. Alle riunioni siamo stati introdotti, come telespettatori, da alcune puntate di ER. Medici in prima linea. Abbiamo imparato che lo stile con cui ci si confronta è ruvido, non certo quello compito dei galatei medici.

Allo stesso tempo, però, abbiamo appreso che lo scopo delle conferenze M&M non è quello di squalificare professionalmente il collega che ha sbagliato, bensì di evidenziare i problemi di sistema o le procedure che hanno reso possibile l'errore. Per dirlo con le parole di un medico americano, «l'importante non è come impedire ai cattivi medici di danneggiare i pazienti, ma come impedire che succeda ai medici bravi».

107

La finalità di iniziative come le conferenze M&M è di correggere i sistemi che possono indurre in errore. La convinzione che anima queste strategie è che ci sono cose migliori da fare con gli errori invece di nasconderli: si possono utilizzare perché non succeda ad altri un evento avverso. Gli errori possono servire per migliorare la pratica medica.

Nella stessa direzione si muove anche un altro vistoso cambiamento che caratterizza lo scenario della medicina attuale: l'esigenza di valutare gli outcome, cioè di basarsi non su quello che noi riteniamo ovvio o evidente, ma su quello che è provato dai fatti (questo è il significato della parola inglese evidence). La raccolta sistematica delle prove, di ciò che funziona e di ciò che non funziona, dei successi e degli insuccessi, degli errori, dei quasi-errori, delle violazioni, del mancato rispetto delle procedure, degli incidenti provocati da cause organizzative: questa cultura degli outcome e della raccolta delle prove sta incominciando a cambiare il volto della medicina, che si incammina così per la strada che la porterà sempre più a essere una evidence based medicine. È la fondamentale premessa per introdurre una gestione degli errori diversa.

Negli Stati Uniti il rapporto To err is human ha costituito un grido d'allarme sulla sicurezza del paziente e ha avuto vasta risonanza. Gli americani, ma non solo loro, si sono rivelati molto sensibili al problema degli errori medici: la sicurezza durante un ricovero ospedaliero sta loro a cuore quanto quella in un volo transcontinentale! Due ricadute operative meritano di essere segnalate. La prima è di carattere legislativo.

Una commissione del Senato ha approvato, nel luglio 2003, una legge rivolta a ridurre la frequenza degli errori medici. Viene creato un sistema volontario di registrazione degli errori, le Patient Safety Organizations (PSO), di carattere privato. I professionisti sanitari che denunciano i propri errori o "quasi errori" a tali organizzazioni non possono essere giudicati in tribunale per ciò che hanno liberamente portato a conoscenza

Ci sono cose

migliori da fare

con gli errori

invece di

nasconderli:

utilizzarli

perché

non succeda

lo stesso

ad altri

108

dell'organizzazione. Questa provvederà a individuare le cause dell'errore e indicherà come prevenirlo in futuro. La norma legislativa è finalizzata a creare una cultura nella quale i professionisti si sentono sicuri nel riferire gli errori, senza timore di punizioni.

Un'altra ricaduta della nuova sensibilità che si è formata nei confronti dell'errore in medicina a seguito del rapporto del 1999 è il moltiplicarsi di ricerche su ciò che minaccia e ciò che favorisce la sicurezza. Un utile bilancio è costituito dalla pubblicazione di Making health care safer: A critical analysis of patient safety practices, preparata dal Dipartimento per la salute americano (2001). L'idea fondamentale è di guardare il problema della sicurezza del paziente attraverso le lenti dell'evidence based medicine. Vengono prese in considerazione numerose pratiche mediche e infermieristiche (per la precisione, 79) che sono ritenute capaci di ridurre il rischio di eventi avversi durante il processo di cura. La metodologia adottata richiede un'analisi delle prove fornite. Oltre a esaminare criticamente tutte le ricerche esistenti sulle pratiche prese in considerazione, il rapporto fornisce una lista delle pratiche che, sulla base delle prove disponibili, risultano più efficaci nel prevenire errori ed eventi avversi. Ne individua undici. Per il nostro tema è molto interessante trovare tra le pratiche che accrescono la sicurezza del paziente, al quinto posto, le procedure per ottenere il consenso informato.

È opportuno sottolineare che la preoccupazione non è quella della sicurezza dell'operatore. Non è questione, quindi, della pratica del consenso intesa come procedura di medicina difensivistica (far firmare un foglio al paziente per avere una pezza d'appoggio nel caso in cui sopravvenissero contestazioni da parte del paziente o dei familiari e il medico dovesse trovarsi a dar conto del suo operato al giudice). Nel rapporto americano la sicurezza a cui si mira è quella del paziente. La pratica proposta come di provata efficacia non è, di conseguenza, la sottoscrizione di un modulo, bensì: «Chiedere ai pazienti di ricordare e di riformulare ciò che è stato detto loro durante il processo del consenso informato».

In questo processo è incluso tutto ciò che viene messo in atto per essere sicuri che il paziente capisca i rischi e i benefici di un trattamento o di un intervento medico. Gli interventi per promuovere la comprensione da parte del paziente possono includere la fornitura di materiali scritti che accompagnano la conversazione, l'uso di strumenti multimediali, la richiesta al paziente di riassumere con parole

109

proprie ciò che gli è stato spiegato circa le procedure.

L'attenzione alla verifica della comprensione è stata stimolata da diversi studi che hanno messo in evidenza carenze nell'ottenere il consenso informato, in quanto meno della metà della popolazione degli Stati Uniti capisce il significato dei termini comunemente usati. I moduli di consenso informato sono stati messi sotto accusa per la loro mancanza di leggibilità (cfr. M. Paasche-Orlow et al.: "Readability standars for Informed-consent form as compared with actual readability", in New England Journal of Medicine 2003; 348; pp. 721-6). Oltre a modifiche rivolte a migliorare la leggibilità dei protocolli per registrare il consenso informato, sono state proposte diverse modalità alternative per ottenere il consenso: discussioni strutturate, richiesta di ricordare le informazioni ricevute, uso di sussidi visivi o uditivi, fornitura di informazioni scritte.

Non esistono ancora molti studi sull'impatto che hanno le diverse procedure nel migliorare la qualità del consenso ottenuto. Tuttavia l'informazione, oltre a essere un dovere etico, si dimostra efficace anche dal punto di vista della riduzione degli errori: i pazienti informati sono in grado di fornire, a loro volta, informazioni ai professionisti che erogano cure sanitarie o predispongono interventi chirurgici. L'informazione fornita sistematicamente costituisce per il paziente un'ulteriore corazza protettiva rispetto all'errore medico.

Serve a prevenire gli errori. E prevenire è meglio che riparare.

110

111

CAPITOLO OTTO

QUALI VINCOLI LA PRIVACY PONE ALLA INFORMAZIONE?

La via italiana alla privacy

Il contesto europeo

Tutela della privacy: i nuovi obblighi per i sanitari

112

La via italiana alla privacy

L'8 maggio 1997 è entrata in vigore la legge 675 del 31 dicembre 1996 relativa alla protezione dei dati personali, nota come legge sulla privacy. La legge, denominata propriamente "Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali", disciplina la tutela dei diritti della personalità e protegge il diritto alla riservatezza e all'identità personale.

Quest'ultimo diritto, formulato nella tradizione giuridica anglosassone come the right to let be alone, equivale al diritto di non subire interferenze nella propria vita privata.

Nella cultura degli Stati Uniti è addirittura un momento centrale del- l'autocomprensione di quel Paese: è la tesi dello scrittore William Faulkner nel suo saggio Privacy. The American dream: what happened to it? (del 1955, riproposto di recente in traduzione italiana da Adelphi: Privacy, 2003). Per Faulkner il sogno americano è quello di istituire in terra un santuario per l'individuo: «È stato il sogno di poter crescere come uomo e come donna sino allo sviluppo più completo, senza essere impediti dalle barriere che erano state lentamente erette nelle civiltà più vecchie».

L'America è il luogo in cui si incontrano il messianismo religioso e l'illuminismo razionalista. Nella Dichiarazione di Indipendenza delle tredici colonie che fondarono gli Stati Uniti furono proclamati come diritti inalienabili degli esseri umani, creati uguali, la vita, la libertà e la ricerca della felicità. La privacy tutela l'individuo dalle interferenze sociali, libero non solo dalle gerarchie di potere, ma anche dalla massa.

Per Faulkner la privacy coincide con il diritto dell'individuo di proteggersi da sguardi indiscreti (aneddoticamente, l'intervento dello scrittore è stato provocato da un articolo di rivista, pubblicato contro la sua volontà, sulla sua vita privata, in forza del fatto che, essendo stato insignito del premio Nobel, era diventato un personaggio pubblico). La metafora architettonica esprime efficacemente il pericolo di violazione

113

Il cielo americano che era una volta l'empireo dei diritti civili, l'aria americana che una volta era il respiro vivente della libertà, sono adesso divenuti un'unica grande cappa di piombo il cui scopo è quello di abolire gli uni e l'altra, distruggendo l'individualità dell'uomo in quanto uomo grazie (a sua volta) alla distruzione delle ultime vestigia di quella privacy senza la quale l'uomo non può essere un individuo. È dalla nostra stessa architettura che ci viene il monito.

Un tempo attraverso i muri delle nostre case non si poteva vedere né da dentro né da fuori. Oggi, attraverso i muri, si può vedere fuori, ma non ancora dentro. Presto potremo fare entrambe le cose. Allora la privacy sarà davvero scomparsa.

L'evoluzione verso una trasparenza totale e voyeuristica, che Faulkner paventava mezzo secolo fa, è il presente, non solo americano, realizzato dalle immense vetrate. A questa violazione sistematica della privacy cerca di porre rimedio la legge, il cui pilastro portante è il divieto di far circolare dati personali senza il consenso degli interessati.

La recezione della legge in Italia ha portato allo scoperto l'impreparazione della cultura diffusa rispetto al cambiamento che la nuova normativa presuppone. L'opinione pubblica si è dimostrata prevalentemente irritata per l'inondazione di moduli da parte di enti e organizzazioni di ogni genere (banche, assicurazioni, professionisti) con richieste di consenso, per lo più astruse, sul trattamento dei dati personali in loro possesso. L'interpretazione più diffusa propendeva per qualificarla come un'escalation burocratica, irrilevante per gli interessi del cittadino.

Se consideriamo la realtà italiana, dobbiamo riconoscere che la legge 675 cade in un terreno poco recettivo. "Gli italiani scoprono la privacy, ma pochi sanno bene che cosa sia", titolava senza perifrasi un articolo di Furio

La legge

nasce

per frenare

l'invadenza

voyeristica

nella vita

privata

dei cittadini.

Ma

ci ha scoperto

impreparati

114

Colombo. A suo avviso, nel mondo che discende dal diritto romano il concetto di privacy non esiste e manca persino la parola (F. Colombo: "Gli italiani scoprono la privacy ma pochi sanno bene che cosa sia", in Telèma, n. 15, 1998, pp. 104-105). La privacy è un bene dell'individuo, ed è un bene valorizzato dove l'individuo è forte e centrale e lo Stato è descritto, per prima cosa, a partire dai limiti che deve avere.

Altre tradizioni culturali e sociali hanno da tempo introdotto norme che tutelano il cittadino come individuo. In una delle prime sentenze emesse sulla tutela della privatezza da una corte inglese verso la fine degli anni '50 venne sancito il principio che nessuno aveva il diritto di «violare la cittadella della privacy» di un altro. Secondo la descrizione immaginifica fornita dalla corte, «quando una persona alza il ponte levatoio a difesa della sua vita privata, nessuno può in alcun modo abbassarlo contro la sua volontà». L'immagine richiama la raffigurazione architettonica proposta da Faulkner.

Nella realtà italiana il culto della privatezza non si sovrappone alla cultura della privacy cresciuta in tradizioni caratterizzate in senso democratico e liberale, bensì con l'atteggiamento, di basso profilo, di "farsi i fatti propri". Da una parte sussiste l'ambito familiare, nel quale l'individuo si sente protetto e tutelato (il grembo della famiglia è anche il terreno di coltura delle piccole e grandi forme di omertà), dall'altro c'è il terreno pubblico, come luogo in cui la persona è indifesa. Fino all'entrata in vigore della legge, chiunque poteva raccogliere, trattare e anche cedere ad altri informazioni su qualunque persona, senza informare nessuno, neppure i diretti interessati.

In una società di massa e informatizzata, dove accumulare notizie su una persona è facilissimo, la vita privata rischia di diventare terreno di conquista di chiunque abbia interesse ad acquisire dei dati. La legge 675/96 intende riparare alla disattenzione verso il diritto dei cittadini di non subire interferenze nella vita privata. Lo fa introducendo i principi del consenso e del controllo: chi vuol elaborare dati che riguardano una persona, deve prima chiederle il permesso. Ognuno inoltre ha diritto di sapere quali informazioni sul proprio conto sono contenute in un certo archivio e di chiederne la correzione, il completamento o la cancellazione.

Il contesto europeo

Il fatto stesso che per designare la realtà da proteggere si sia costretti

115

a far ricorso a una parola tratta dal lessico inglese, privacy, lascia indovinare quanto pratiche di questo genere siano estranee alla tradizione culturale italiana. Tuttavia la tutela della vita privata e dell'informazione è perfettamente in linea con la sensibilità ai nuovi valori sui quali si sta costruendo la casa comune europea. Due documenti forniscono gli orientamenti che dal Consiglio d'Europa sono proposti agli stati membri, affinché questi adeguino a essi le proprie legislazioni. Il primo è la Convenzione europea per la protezione dei diritti dell'uomo e la biomedicina, o Convenzione di Oviedo (1997), di cui abbiamo già analizzato il capitolo dedicato alle norme che devono regolamentare i rapporti tra professionisti sanitari e pazienti.

Il capitolo III della Convenzione tutela la vita privata e il diritto all'informazione.

● Art. 10

Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata allorché si tratta di informazioni relative alla propria salute.

Ogni persona ha il diritto di conoscere ogni informazione raccolta sulla propria salute. Tuttavia, la volontà di una persona di non essere informata deve essere rispettata.

A titolo eccezionale, la legge può prevedere, nell'interesse del paziente, delle restrizioni all'esercizio dei diritti menzionati al paragrafo 2.

Il diritto al rispetto della propria vita privata, per le informazioni relative alla salute, formulato dal primo paragrafo, riafferma il principio contenuto nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo (articolo 8) e ripreso nella Convenzione per la protezione delle persone circa il trattamento automatizzato dei dati a carattere personale. Tuttavia alcune restrizioni del rispetto dovuto alla vita privata sono possibili. L'autorità giudiziaria potrà, per esempio, ordinare la realizzazione di un

In Italia siamo

poco avvezzi

alla tutela della

riservatezza. Sarà per questo

che utilizziamo

una parola

inglese

116

test con lo scopo di identificare l'autore di un crimine (eccezione fondata sulla prevenzione delle infrazioni penali) o la ricerca di un legame di filiazione (eccezione fondata sulla protezione dei diritti di altri).

Il secondo paragrafo definisce il diritto di ogni persona di conoscere, se lo desidera, ogni informazione raccolta sulla sua salute, che si tratti di diagnosi, di prognosi o di qualsiasi altro elemento riguardante la salute. È un diritto armonizzabile con l'esercizio del consenso informato, descritto nell'articolo 5 della stessa Convenzione. Parallelamente al diritto di sapere, è formulato il diritto di non sapere. Per ragioni personali, un paziente può desiderare di non conoscere alcuni elementi relativi alla sua salute. Questa volontà deve essere rispettata. L'esercizio da parte del paziente del suo diritto a non conoscere l'una o l'altra informazione sulla sua salute non è considerato come un ostacolo alla validità del suo consenso a tale intervento. Così, per esempio, potrà validamente consentire all'asportazione di una cisti, anche se ha espresso il desiderio di non conoscerne la natura.

Il diritto di sapere come quello di non sapere possono, in circostanze determinate, subire alcune restrizioni, sia nell'interesse del paziente stesso, sia per proteggere i diritti di un terzo o della collettività. Il terzo paragrafo stabilisce che, a titolo eccezionale, la legge nazionale può prevedere delle restrizioni al diritto di sapere o non sapere nell'interesse della salute del paziente (per esempio una prognosi fatale, la cui comunicazione immediata al paziente potrebbe, in certi casi, nuocere gravemente al suo stato). Si può stabilire un conflitto tra l'obbligo del medico di informare, previsto dall'articolo 4 della Convenzione, e gli interessi di salute del paziente.

Appartiene al diritto interno delle nazioni membro della Comunità Europea risolvere questo conflitto, tenendo conto del contesto sociale e culturale nel quale si iscrive. La legge può così giustificare che il medico taccia talvolta una parte dell'informazione, o che in ogni caso la trasmetta con precauzione ("necessità terapeutica").

La conoscenza di informazioni raccolte sulla salute di una persona, che ha espresso la volontà di non conoscerle, può rivelarsi di importanza capitale per la persona stessa. Per esempio, la conoscenza dell'esistenza della predisposizione a una malattia potrebbe essere il solo mezzo che permette all'interessato di prendere delle misure (preventive) potenzialmente efficaci. In questo caso il dovere del medico di curare (il riferimento è ancora all'articolo 4 della Convenzione), potrebbe

117

entrare in contraddizione con il diritto del paziente di non sapere. Può ugualmente essere opportuno informare una persona del suo stato quando sussiste un pericolo non solo per lei, ma anche per terze persone. Anche in questo caso apparterrà al diritto nazionale indicare se il medico può, nelle circostanze specifiche, fare un'eccezione al diritto di non sapere.

Parallelamente, alcune informazioni raccolte sulla salute di una persona che ha espresso la volontà di non conoscerle possono rappresentare uno straordinario interesse per terze persone (per esempio, nel caso di un'infezione o di una condizione trasmissibile ad altri). Quando il diritto dell'interessato a non sapere si oppone all'interesse di un'altra persona a essere informata, i loro interessi devono trovare una composizione nella legislazione interna delle nazioni europee.

Il secondo documento d'importanza europea è la Raccomandazione n. 5 del Comitato dei Ministri agli stati membri, adottata il 13 febbraio 1997, relativa alla Protezione dei dati sanitari. La raccomandazione nasce dalla consapevolezza che la crescente diffusione di sistemi informativi per il trattamento automatizzato dei dati sanitari costituisce un pericolo, in quanto se ne potrebbe fare un uso non rispettoso dei diritti e delle libertà fondamentali dell'individuo, in particolare del diritto alla vita privata (privacy).

La raccomandazione si riferisce a "dati di carattere personale" (quelle informazioni che riguardano una persona fisica identificata o identificabile; quando una persona non è identificabile, i dati sono anonimi), "dati sanitari" (dati di carattere personale relativi alla salute di una persona) e "dati genetici" (quelli che riguardano i caratteri ereditari di un individuo o che sono in rapporto con quei caratteri che formano il patrimonio di un gruppo di individui affini).

Tra le numerose e dettagliate indicazioni, per le quali i governi degli stati membri devono preoccuparsi che il loro diritto e le loro normative nazionali siano conformi,

118

segnaliamo le seguenti:

Rispetto della vita privata

Il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare il diritto alla vita privata, deve essere garantito sia nella raccolta che nel trattamento dei dati sanitari.

I dati sanitari non possono essere raccolti e trattati se non conformemente ad appropriate garanzie, che debbono essere previste dal diritto interno. Di regola, la raccolta e il trattamento di dati sanitari dovrebbero essere effettuati da professionisti della sanità o da persone o organismi che operano per conto di operatori sanitari.

Raccolta e trattamento di dati sanitari

La raccolta e il trattamento di dati sanitari devono essere effettuati con mezzi leciti e leali, e soltanto per finalità determinate.

Di regola, i dati sanitari debbono essere raccolti direttamente presso la persona interessata. Essi non possono essere raccolti da altre fonti, a meno che questo sia necessario per realizzare la finalità del trattamento, o che l'interessato non sia in condizione di fornire i dati.

dati sanitari relativi al nascituro devono essere trattati come dati a carattere personale e godere di una protezione comparabile a quella dei dati sanitari di un minorenne.

Dati genetici

I dati genetici raccolti e trattati a fini terapeutici, di prevenzione o di diagnostica nei riguardi della persona interessata, o per ricerca scientifica, non dovranno essere utilizzati se non per quel fine o per consentire alla persona interessata di prendere una decisione libera e chiara a quel proposito.

Il trattamento di dati genetici per le necessità di un procedimento giudiziario o penale dovrà essere oggetto di una legge specifica che offra garanzie appropriate. I dati dovranno servire esclusivamente a verificare l'esistenza di un collegamento genetico ai fini della raccolta delle prove, della prevenzione di un concreto pericolo o della repressione di una specifica infrazione penale.

In nessun caso dovranno essere usati per individuare altre informazioni

119

che possano essere collegate geneticamente.

Anche il più recente Codice di deontologia medica (1998) dimostra di aver recepito l'orientamento europeo verso una maggiore tutela della vita privata, anche nella pratica medica. Si muove in questa direzione la regolamentazione delle informazioni rivolta a terze persone, formulata nell'articolo 31:

L'informazione a terzi è ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente, fatto salvo quanto previsto all'art. 9 allorché sia in grave pericolo la salute o la vita di altri.

In caso di paziente ricoverato il medico deve raccogliere gli eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili.

I familiari non sono quindi legittimati a interporsi, anche con le migliori intenzioni, tra il paziente e i sanitari: è il paziente il titolare delle informazioni che riguardano la sua salute. Anche le regole tradizionali riguardanti il segreto professionale sono state riscritte con attenzione alla salvaguardia della privacy. L'articolo 9, a cui rimanda l'articolo 31, che norma l'informazione a terzi, include tra le cause che costituiscono "giusta causa di rivelazione" anche «l'urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi, anche nel caso di diniego dell'interessato»; tuttavia in questo caso è necessaria l'autorizzazione previa del Garante per la protezione dei dati personali.

Tutela della privacy: i nuovi obblighi per i sanitari

Secondo la legge italiana sulla privacy, è necessario distinguere tre tipi di informazioni, per le quali è prevista una diversa tutela:

● informazioni per cui è libera la raccolta (per esempio

La deontologia

professionale

postula che

è il paziente

l'unico titolare

delle

informazioni

su di sé

120

notizie usate a fini di ricerca)

● informazioni per le quali occorre il permesso dell'interessato (per esempio dati raccolti nello svolgimento di promozioni commerciali)

● informazioni sensibili (religione, opinioni politiche, salute, vita sessuale...), per le quali è necessaria anche l'autorizzazione del Garante.

Il punto nodale della tutela che la legislazione italiana vuol concedere a chi accede ai servizi sanitari è costituito dagli articoli 22 (Dati sensibili) e 23 (Dati inerenti alla salute).

Art. 22 (Dati sensibili)

I dati personali idonei a rivelare l'origine razziale e etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni e organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell'interessato e previa autorizzazione del garante.

garante comunica la decisione adottata sulla richiesta di autorizzazione entro 30 giorni, decorsi i quali la mancata pronuncia equivale a rigetto. Con il provvedimento di autorizzazione, ovvero successivamente, anche sulla base di eventuali verifiche, il Garante può prescrivere misure e accorgimenti a garanzia dell'interessato, che il titolare del trattamento è tenuto ad adottare.

Il trattamento dei dati indicati al comma 1 da parte di soggetti pubblici, esclusi gli enti pubblici economici, è consentito solo se autorizzato da espressa disposizione di legge nella quale siano specificati i dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e le rilevanti finalità di interesse pubblico perseguite.

Art. 23 (Dati inerenti la salute)

Gli esercenti le professioni sanitarie e gli organismi sanitari possono, anche senza l'autorizzazione del Garante, trattare i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute, limitatamente ai dati e alle operazioni indispensabili per il perseguimento di finalità di

121

tutela dell'incolumità fisica e della salute dell'interessato. Se le medesime finalità riguardano un terzo o la collettività, in mancanza del consenso dell'interessato, il trattamento può avvenire previa l'autorizzazione del Garante.

dati personali idonei a rivelare lo stato di salute possono essere resi noti all'interessato solo per il tramite di un medico designato dall'interessato o dal titolare.

L'autorizzazione di cui al comma 1 è rilasciata, salvi i casi di particolare urgenza, sentito il Consiglio superiore di sanità. È vietata la comunicazione dei dati ottenuti oltre i limiti fissati con l'autorizzazione.

La diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute è vietata, salvo nel caso in cui sia necessaria per finalità di prevenzione, accertamento o repressione dei reati, con l'osservanza delle norme che regolano la materia.

L'opinione di numerosi commentatori, per i quali la legge è stata formulata in modo troppo rigoroso e senza effettiva rispondenza alla sua effettiva praticabilità, ha trovato riscontro nelle difficoltà che il trattamento dei dati in modo rispettoso della privacy ha posto in numerose situazioni. Una quantità di quesiti sono stati posti al Garante (un organo collegiale, che opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione).

I comunicati del Garante, emessi con una certa frequenza, offrono un vasto campionario di tali quesiti. Per esempio, nel comunicato del 23 febbraio 1998, il Garante si è dichiarato allarmato dal «persistere di leggende metropolitane e da una certa disinformazione che rischia di disorientare i cittadini». Quali esempi di macroscopici fraintendimenti della legge sono citati:

«è del tutto falso che la legge preveda sanzioni penali per chi smarrisca un'agendina;

L'applicazione

della legge

non è sempre

stata priva di

difficoltà.

E sono stati

numerosi i

fraintendimenti

122

è del tutto falso che i familiari di un ricoverato in ospedale non possano essere informati del ricovero».

Riguardo a quest'ultimo punto, anche il comunicato del 2 giugno 1998 precisa: «In alcune strutture sanitarie si sta dando un'attuazione del tutto errata sulla tutela della riservatezza: qualche dirigente ospedaliero, infatti, dà direttive alle strutture a contatto con i visitatori di negare ogni informazione sulla presenza dei degenti nei reparti ospedalieri.

Ciò contrasta con la natura del servizio pubblico sanitario, che di norma prevede, entro determinati orari e con precise modalità, la possibilità di parenti, conoscenti e organismi del volontariato di accedere ai reparti per far visita e anche aiutare i degenti. Tutto ciò è anche disciplinato puntualmente nella Carta dei servizi pubblici sanitari, che prevede solo come eccezione che un degente possa chiedere che la sua presenza non venga resa nota».

L'utente che si rivolge al medico, all'ospedale o all'ambulatorio consegna una serie di dati di varia importanza, che richiedono un trattamento diversificato. Risultati di precedenti esami, cartelle cliniche di altri ricoveri, pareri medici antecedenti, giudizi conseguenti e consulti non possono essere trattati alla stregua di informazioni quali dati anagrafici, residenza e professione. Analoga considerazione va fatta per la conservazione dei dati: quelli sensibili godono di maggior tutela e devono essere conservati in modo che non siano accessibili a tutti.

Il primo livello di tutela della privacy previsto dalla legge 675 riguarda i dati personali, ovvero quelle informazioni che permettono di rendere una persona identificata o identificabile.

Le informazioni in possesso di una struttura sanitaria sono:

● nome

● indirizzo (dimora, residenza, domicilio)

● dichiarazione di stato civile

● data e luogo di nascita

● recapito telefonico

● professione

123

● cittadinanza

● dichiarazioni di natura fiscale (esenzioni dalla partecipazione alla spesa sanitaria non solo in base alle patologie interessate, ma anche alla situazione del nucleo familiare e delle condizioni di reddito).

Una tutela di maggior livello richiedono i dati sensibili, ovvero quelle informazioni che possono offrire occasione di discriminazione. A questa categoria appartengono eminentemente i dati personali idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale.

Questi dati possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell'interessato e previa autorizzazione del Garante.

Professionisti sanitari e strutture pubbliche possono trattare i dati personali riferiti alla salute soltanto allo scopo di tutelare la salute del paziente. Questi dati possono essere resi noti all'interessato solo per il tramite di un medico designato dal titolare.

La diffusione di dati sensibili è vietata, salvo quando sia necessaria a scopo di prevenzione o per la repressione di reati.

Gli erogatori di servizi sanitari sono così soggetti a nuovi obblighi:

● informare il soggetto, cui i dati si riferiscono, sulle finalità e modalità del trattamento. Dare notizia all'interessato della natura obbligatoria o facoltativa della comunicazione dei dati. Richiedere il consenso per il trattamento dei dati personali

● utilizzare i dati sensibili solo esclusivamente con il consenso scritto dell'interessato e con l'autorizzazione del Garante

● adottare, a tutela dei dati trattati, cautele e precauzioni di carattere organizzativo (istruzione del

I dati sensibili

richiedono più

attenzione da

parte degli

operatori

sanitari e

comportano nuovi obblighi

124

personale, procedure di conservazione ecc.), precauzioni di tipo procedurale, misure di sicurezza termica.

Il percorso dell'utente nelle strutture sanitarie ― con relativi obblighi di tutela dei dati da parte dei sanitari ― può essere così tratteggiato: quando l'utente entra in rapporto con la struttura (pubblica o privata) alla quale richiede una prestazione, l'incaricato richiede i dati personali indispensabili per la registrazione e chiede il consenso per la registrazione degli stessi. Il consenso può essere dato verbalmente o mediante modulo sottoscritto. Se l'interessato consegna anche una documentazione (visite precedenti, accertamenti, esami) questa rientra tra i dati sensibili, soggetti a particolari condizioni di trattamento.

I risultati di analisi, esami, radiografie, devono essere consegnati in busta chiusa direttamente all'interessato o a persona munita di delega. Le informazioni sullo stato di salute del ricoverato devono essere fornite all'interessato, direttamente o per il tramite del medico di fiducia, oppure a persona espressamente delegata.

La dichiarazione attestante la visita, l'esame o il ricovero effettuato deve essere formulata in modo tale che estranei non possano derivarne informazioni sullo stato di salute della persona interessata: per esempio, l'attestato di visita effettuata presso un ospedale o un ambulatorio, da presentarsi quale giustificazione per assenza dal lavoro, non deve recare il tipo di esame effettuato, ma solo, genericamente, il termine "visita". Gli archivi che contengono i dati personali del paziente possono essere utilizzati solo dagli addetti delle strutture stesse per le finalità che i compiti di lavoro impongono, non possono essere trasferiti all'esterno, se non sulla base di precise disposizioni normative e organizzative.

Il medico di medicina generale può, in caso di sostituzione, consentire al sostituto l'utilizzo del proprio schedario di pazienti, ma vi deve essere un consenso specifico del paziente per il trattamento dei dati che lo riguardano.

In caso di studio associato, il patrimonio comune di informazioni può essere gestito dai componenti dello studio secondo una delle tre modalità indicate dal Garante: gestione individuale e separata dei dati, contitolarità di tutti i professionisti, attività unificata di elaborazione dei dati personali.

Le certificazioni (per esempio le cartelle cliniche) rilasciate dagli organismi sanitari possono essere ritirate anche da persone diverse dagli

125

interessati, con delega scritta e con inclusione dei documenti in busta chiusa. Anche per i dipendenti di una struttura sanitaria esiste la tutela della privacy, che deve essere garantita. I dati personali e sensibili (come l'iscrizione ai sindacati, ai fini delle trattenute da effettuare; i dati inseriti nelle certificazioni mediche, ai fini delle attitudini per determinati lavori; i dati sull'appartenenza a organismi religiosi, ai fini della verifica di permessi per festività) potranno essere comunicati o diffusi a terzi solo previo espresso consenso dei dipendenti.

Un Codice sulla privacy (Codice in materia di protezione dei dati personali) è stato approvato nel luglio 2003 ed è entrato in vigore all'inizio del 2004. Il provvedimento è stato elaborato sulla base di sei anni di esperienza della legge, e riunisce in un unico contesto la legge del 1996 e gli altri decreti legislativi, regolamenti e codici deontologici che si sono succeduti. Il titolo V specifica le norme che devono regolamentare i rapporti tra sanitari e cittadini dal punto di vista della riservatezza. Il codice entrando in vigore sostituisce la legge 675 del 1996, facendo in sostanza tabula rasa di ogni precedente norma sui dati personali.

Il principio fondamentale che deve regolamentare i professionisti sanitari e gli organismi sanitari pubblici nel trattare dati personali idonei a rivelare lo stato di salute è l'acquisizione del consenso dell'interessato. Il consenso è sufficiente, anche senza l'autorizzazione del garante, se il trattamento riguarda dati e operazioni indispensabili per tutelare la salute o l'incolumità fisica dell'interessato. Se invece la finalità riguarda un terzo o la collettività, si può procedere senza il consenso dell'interessato, ma è necessaria l'autorizzazione del Garante.

Ecco le principali norme comportamentali previste dal nuovo Codice:

Informativa al paziente sul trattamento dei dati

L'informativa, da fornire preferibilmente per iscritto, riguarda il complessivo trattamento dei dati: dalle

Nel nuovo

Codice sulla

privacy sono

confluiti la

legge del 1996,

altri decret

e vari codici

deontologici

126

attività di prevenzione, diagnosi e cura, alla riabilitazione. Il valore dell'informativa si estende "a cascata" anche al trattamento dei dati del paziente da parte di sostituti, specialisti, fornitori di farmaci.

Manifestazione del consenso

Il via libera dell'interessato al trattamento dei dati può essere manifestato al medico di famiglia o all'organismo sanitario con un'unica dichiarazione, anche a voce (in questo caso il medico annoterà il consenso). Anche per il consenso vale il principio della "cascata": il medico dovrà comunicare ai colleghi, magari con un bollino da applicare sulla tessera sanitaria, il consenso del paziente al trattamento dei dati.

Misure per il rispetto dei diritti del paziente

Nell'ampia gamma di misure per garantire la riservatezza sulle condizioni di salute del cittadino meritano una particolare attenzione: evitare appelli nominativi in sala d'attesa; istituire barriere per il rispetto delle distanze di cortesia; mettere i colloqui tra paziente e sanitario al riparo da orecchie indiscrete; rispettare la dignità del paziente durante la prestazione medica.

Tra le misure di tutela della riservatezza è compresa la discrezione nel fornire ai visitatori le informazioni sul reparto in cui è ricoverato il paziente e la preventiva comunicazione a quest'ultimo di un'imminente visita.

Criptazione delle ricette

Le prescrizioni di medicinali rimborsabili dal Ssn devono essere redatte secondo un modello che consente di risalire all'identità dell'interessato solo in caso di obiettive necessità connesse al controllo della correttezza della prescrizione, a fini di verifica amministrativa, a scopi epidemiologici e di ricerca. Il modello di ricetta è predisposto al fine di poter separare la parte contenente la prescrizione da quella contenente le generalità dell'assistito.

Nelle prescrizioni di farmaci non rimborsabili le generalità del destinatario andranno invece omesse: «Il medico può indicare le generalità solo se ritiene indispensabile permettere di risalire alla sua identità, per un'effettiva necessità derivante da particolari condizioni del medesimo interessato o da una speciale modalità di preparazione o di utilizzazione».

127

CAPITOLO NOVE

L'INFORMAZIONE AL PAZIENTE O AI FAMILIARI?

Parlare? tacere? mentire?

Quale ruolo per la famiglia nelle decisioni cliniche?

128

Parlare? tacere? mentire?

La scena di un vecchio film ci permette di visualizzare, grazie a una situazione tipica nell'ambito sanitario, come avvenga una comunicazione anche in assenza di informazione. Si tratta del film Vivere del regista giapponese Akira Kurosawa, del 1952, un classico della storia del cinema. Il protagonista, un umile impiegato del catasto di Tokyo, va a farsi visitare da un medico per persistenti dolori allo stomaco. In sala d'attesa ha un colloquio informale con un veterano degli ambulatori medici. Dapprima l'interlocutore gli descrive esattamente i sintomi del cancro allo stomaco (che sono quelli che lamenta il nostro paziente...). Poi passa a predire il comportamento del medico: se questi, guardando la radiografia, minimizza, nega risolutamente che si tratta di cancro, scherza e gli dice che può mangiare tutto quello che vuole, può essere certo: la diagnosi di cancro è confermata! Al paziente restano solo pochi mesi di vita. E proprio in questo modo indiretto il nostro impiegato verrà a conoscere la sentenza che lo riguarda. Anche in assenza di un'informazione veritiera, la comunicazione relativa al suo stato di salute è giunta fino a lui.

È possibile, dunque, comunicare senza informare, inversamente, si può informare senza comunicare. I fautori dell'introduzione nella pratica clinica del modello di rapporto che considera come valore unico e assoluto l'autonomia del paziente e la sua titolarità all'informazione, rischiano di trasmettere, sì, informazioni, ma violando il soggetto e calpestando le sue emozioni, invece di instaurare un processo comunicativo. La percezione delle esigenze connesse con la comunicazione nell'ambito delle cure sanitarie, che eccede largamente i contenuti informativi che si possono trasmettere con le parole, è necessaria per affrontare una delle questioni più spinose dell'etica clinica: bisogna comunicare o tacere una diagnosi infausta?

«Dottore, è grave?»: la domanda, in cui si riversa la più profonda preoccupazione di chi si sente minacciato dalla malattia, è uno dei punti nevralgici del rapporto medico-paziente. Pronunciata in modo

129

pacato o con animo visibilmente angosciato, provoca sempre un turbamento nel sanitario sollecitato a rispondere. Dal terreno delle certezze ― relative, ma pur sempre affidabili ― della scienza medica, si trova proiettato in quello insidioso di un rapporto interpersonale, in cui tanto il tacere la verità quanto il comunicarla possono produrre un imprevedibile danno nel paziente. Il sapere in questo campo non è soltanto quello dei riscontri oggettivi e verificabili, ma è soggettivo, ambiguo, e passa attraverso il delicato processo dell'interpretazione.

Spesso il medico si trova paralizzato in un conflitto, da cui non sa come uscire. È consapevole degli inconvenienti del silenzio: sottrae in tal modo le informazioni di cui il paziente ha bisogno per prendere le decisioni sulla propria vita; si assume la responsabilità di decidere al posto di un altro; rischia comportamenti ipocriti con il paziente, il quale, costretto ad adeguarsi al gioco della simulazione, perde la possibilità di ogni vero contatto con il suo ambiente.

Ma anche comunicare la diagnosi ― evidentemente nei casi di prognosi infausta o mortale: nessun problema costituisce la comunicazione di buone notizie; secondo Woody Alien, la parola più bella del mondo non è amore, ma «è benigno»! ― può comportare seri inconvenienti. Lo shock della notizia può avere esiti antiterapeutici: il malato può cadere in una forte depressione, smettere di mobilitare le proprie forze per sopravvivere, addirittura potrebbe anche giungere a procurarsi la morte. Sono numerosi i professionisti della sanità che ritengono una gratuita crudeltà verso il malato comunicargli la prognosi infausta.

Ancor più, il comportamento del medico nel dramma di Tennessee Williams, che abbiamo considerato come punto di riferimento per concretizzare il cambiamento intervenuto negli ultimi decenni, nasceva dalla convinzione che nascondere le verità sgradite fosse un preciso dovere imposto dall'etica medica. Tacere, quindi, ed essere reticenti? E, qualora ciò non sia possibile, mentire?

La parola più

bella del

mondo

"benigno".

Ma se la

diagnosi è

infausta

è tutto

un altro paio

di maniche

130

Oppure attestarsi sul fronte della verità, sempre e a tutti i costi?

In pochi ambiti del comportamento medico una condotta stereotipata è tanto nociva come in questo. Al medico si domanda di tener conto della personalità del malato, di interpretare la sua richiesta, di essere attento a come si modifica nel tempo la sua domanda e quali sono gli atteggiamenti emotivi che l'accompagnano. Questo è possibile solo all'interno di un rapporto che si sintonizzi sulla lunghezza d'onda della relazione d'aiuto-relazione interpersonale, in cui emerge ciò che rende unica ogni persona. In questo ambito le ricette generali (dire sempre la verità... non dirla mai) sono di poca utilità.

Compito dell'etica è di elaborare delle indicazioni, intermedie tra il comportamento stereotipato e l'unicità del caso individuale, che orientino le decisioni che il medico deve prendere.

Partendo dalle più generiche indicazioni di tendenza, dobbiamo osservare che oggi il problema dell'informazione al malato si pone in un contesto diverso rispetto al passato. La prospettiva tradizionale partiva dagli obblighi del medico verso il paziente. In epoca più remota era ritenuto dovere del medico informare il paziente della gravità della situazione, in quanto l'informazione faceva parte del bene che il medico era tenuto a procurare al malato. In un'ottica religiosa, questo dovere era rinforzato dall'obbligo di provvedere al bene spirituale del malato, inducendolo, con la comunicazione della gravità del suo male, a occuparsi dell'anima e della salvezza eterna.

La sensibilità odierna valuta l'atteggiamento ancorato al senso dell'obbligo del sanitario verso il paziente, come viziato di paternalismo. La prospettiva che oggi prevale è quella che parte dai diritti del paziente. Viene considerato un diritto fondamentale della persona conoscere diagnosi e prognosi e ricevere l'adeguata informazione necessaria per prendere le decisioni terapeutiche ed esistenziali che lo riguardano. Senza una conoscenza del proprio stato di salute e della prognosi, non si può dare un consenso libero e informato alla terapia proposta, eventualmente rifiutarla, in ogni caso, mantenere il controllo del proprio destino.

Il dovere dell'informazione, corrispettivo al diritto a sapere da parte del malato, non è assoluto, ammette perciò delle deroghe. Anche se la presunzione generale è a favore della trasparenza, circostanze particolari possono indurre a nascondere in tutto o in parte quanto il professionista sanitario conosce. Il dovere di informare non va inteso

131

come un accanimento a far sapere la verità a ogni costo. Il paziente può anche esprimere la volontà di non essere informato: sia esplicitamente («Se ho un cancro o se sono condannato, preferisco non sapere»), sia implicitamente (per esempio "dimenticando" ciò che in precedenza si sapeva...). Anche questa volontà deve essere rispettata.

Merita conto rapportare il problema comportamentale che ci interessa ― semplificato spesso nell'alternativa: dire o non dire la verità ― con due diverse concezioni della verità, come ci sono state trasmesse dalla cultura ebraica e da quella greca. In greco la verità è detta aletheia. Nella parola riconosciamo l'alfa privativo, l'idea che ci viene suggerita è che la verità è qualcosa che va scoperto, rimuovendo ciò che la cela.

E ancora, dire la verità evoca il possesso di conoscenze certe da parte di qualcuno ― nel contesto sanitario, il medico ― che ha un rapporto privilegiato con fatti e previsioni, in quanto gode di un punto di vista che è sottratto a chi non ha il privilegio del sapere professionale. Non a caso, le versioni più correnti del dire la verità sono espresse in forma predittiva, del tipo: «Lei ha un cancro metastatizzato e le restano due mesi di vita», oppure: «Il paziente non passerà la notte».

Del tutto diversa è la concezione della verità nella cultura semita, che fa da sfondo alla Bibbia. La verità è 'emeth, che ha il significato fondamentale di stabilità. Riferita a Dio, la 'emeth denota la fedeltà divina alle promesse e conseguentemente la protezione divina. Questa qualità può essere partecipata alle cose (una canna è "vera" se a essa ci si può appoggiare, senza che ci tradisca spezzandosi!) e agli esseri umani. Come attributo degli uomini, la verità ha il significato fondamentale della fedeltà, il verbo che si coniuga con preferenza con questa verità è "camminare nella verità" o "fare la verità". Due mondi semantici e due modi diversi di concepire i rapporti umani. Da una parte lo svelamento di ciò che ci era nascosto, aletheia, con il rischio di rimanere soli ad affrontare le verità scomode.

Il dovere

dell'informazione non è

assoluto,

in particolare

non va inteso

come un

accanimento a

far sapere la

verità

132

Dall'altra la promessa di fedeltà, 'emeth, che ci assicura l'appoggio e l'alleanza di chi è disposto a condividere il peso della realtà. È superfluo dire che non è auspicabile che le due concezioni siano presentate come alternative inconciliabili. Almeno questo aspetto del dialogo transculturale ci piacerebbe vederlo tradotto in pratica, a beneficio di una medicina più ricca di rapporti umani.

Quale ruolo per la famiglia nelle decisioni cliniche?

Il ruolo della famiglia emerge in particolare in quella situazione che per un medico di cultura latino mediterranea, considerata come antitetica a quella anglosassone, costituisce il dilemma etico per antonomasia: si deve o no comunicare una diagnosi a prognosi infausta a un paziente? A ridosso di questo interrogativo si colloca quello relativo al ruolo della famiglia. Ovvero, se il medico decide di sottrarre l'informazione al malato, è tenuto a darla ai suoi familiari?

Il dilemma dell'informazione può trovare, infatti, questa risposta pragmatica di compromesso: sottrarre le informazioni al paziente, ma fornirle ai suoi familiari.

Se seguiamo l'evoluzione delle regole deontologiche, formulate dal Codice dei medici italiani, possiamo renderci conto delle oscillazioni sul ruolo che spetta alla famiglia. Ancor più: nel giro di appena vent'anni, le varie redazioni del Codice hanno registrato un cambiamento di 180 gradi. Dalla famiglia vista come interlocutore privilegiato del medico si è arrivati alla famiglia completamente delegittimata a gestire le informazioni a beneficio del proprio familiare.

Il punto di partenza è costituito dal Codice deontologico del 1978, che rispecchia la prassi tradizionalmente ritenuta corretta. L'articolo 30 affermava:

Una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato, ma non alla famiglia.

L'orientamento era cambiato nella revisione datata 1989 (art. 39):

Il medico può valutare l'opportunità di tenere nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti. In ogni caso la volontà del paziente, liberamente espressa, deve rappresentare

133

per il medico elemento determinante al quale ispirare il proprio comportamento.

Confrontando le due redazioni del Codice, tra le quali intercorre appena un decennio, risulta che le modifiche del comportamento consigliato al medico riguardano solo dettagli marginali. La parola famiglia è stata sostituita da congiunti. Anche in Italia, infatti, l'immagine tradizionale della famiglia, in cui le relazioni esistenti di fatto rispecchiano sostanzialmente ciò che risulta all'ufficio di stato civile, cede il passo a situazioni più mobili e irregolari. La nuova formulazione permetteva di equiparare alla famiglia anche un convivente, ovvero chiunque avesse un rapporto significativo con il malato.

Veniva inoltre individuata la "volontà del paziente" come criterio guida per il comportamento del medico. È un primo timido accenno al superamento di quell'orientamento paternalista che ha sempre caratterizzato la medicina, secondo il quale è il medico che decide al posto del paziente, per il suo bene. Tuttavia non si tratta di una vera adesione al principio dell'autonomia del paziente, tant'è vero che il ruolo della famiglia non viene attenuato ma accentuato (il medico deve comunicare la prognosi ai congiunti). Si intravede sullo sfondo l'ethos di quella struttura familiare che la ricerca antropologica ha chiamato familismo: il gruppo familiare conta più dell'individuo. In compenso di questa cessione di diritti, il malato acquisisce il privilegio di essere protetto dai mali che si abbattono su di lui. Questo comporta meccanismi di controllo sociale che orientano le scelte degli individui e dei gruppi. Particolarmente nelle situazioni di crisi, come è al massimo grado una malattia a prognosi infausta, la regia delle decisioni viene sottratta all'individuo e assunta dal gruppo familiare.

L'innovazione ― o piuttosto il cambiamento radicale ― è intervenuta con la redazione del Codice deontologico del 1995. Un intero paragrafo, l'articolo 29, esplicita il comportamento che il medico deve tenere nell'informare il paziente, il quale appare come il diretto interlocutore

Fino al 1995

la deontologia

medica

imponeva la

comunicazione

ai familiari,

prima che

al paziente

134

del sanitario e l'unico titolare delle notizie di diagnosi e prognosi che lo riguardano. Va esplicitato che solo con la redazione del Codice del 1995 appare il concetto di consenso informato, che era estraneo alla deontologia medica tradizionale (articolo 31). L'informazione alla famiglia (articolo 30) recede sullo sfondo, o piuttosto, è condizionata dalla volontà del malato di coinvolgere i suoi congiunti. Viene quindi delegittimata la prassi corrente, che affida a questi ultimi il giudizio di opportunità se informare o no il paziente stesso.

Il profilo generale dell'informazione, secondo la deontologia medica, viene così a delinearsi:

● Art. 29

Il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo livello di cultura e di emotività e delle sue capacità di discernimento, la più serena e idonea informazione sulla diagnosi, la prognosi, le prospettive terapeutiche e le loro conseguenze, nella consapevolezza dei limiti delle conoscenze mediche, al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte diagnostiche terapeutiche.

Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere comunque soddisfatta.

Le informazioni relative al programma diagnostico e terapeutico possono essere circoscritte a quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire e accettare, evitando superflue precisazioni di dati inerenti gli aspetti scientifici.

Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti senza escludere mai elementi di speranza.

La volontà del paziente, liberamente e attualmente espressa, deve informare il comportamento del medico, entro i limiti della potestà, della dignità e della libertà professionale.

Spetta ai responsabili delle strutture di ricovero stabilire le modalità organizzative per assicurare la corretta informazione ai

135

pazienti in condizione di degenza, in accordo e collaborazione con il medico curante.

● Art. 30

Il medico è tenuto a informare i congiunti del paziente che non sia in grado di comprendere le informazioni relative al suo stato di salute o che esprima il desiderio di rendere i suddetti partecipi delle sue condizioni.

● Art. 31

Il medico non può intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato.

Il consenso informato deve essere documentato in forma scritta in tutti i casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche o terapeutiche o per le possibili conseguenze sulla integrità fisica, si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà del paziente.

La successiva revisione del Codice, datata 1998, introduce un ulteriore giro di vite, in quanto recepisce le norme introdotte nel frattempo che regolano la privacy (legge 675/1996: Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali). In accordo con la nuova prospettiva, anche le persone più vicine affettivamente al paziente vengono considerate terze parti rispetto al medico e al malato.

● Art. 31: Informazione a terzi

L'informazione a terzi è ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente, fatto salvo quanto previsto all'art. 9 allorché sia in grave pericolo la salute o la vita di altri.

In caso di paziente ricoverato il medico deve raccogliere gli eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili.

136

L'evoluzione delle regole comportamentali proposte dai codici deontologici medici circa l'informazione, il consenso e il coinvolgimento della famiglia fa emergere due modelli ideali: uno centrato sull'individuo e rivolto a tutelare la sua autonomia, l'altro orientato alla persona nella sua dimensione relazionale e preoccupato di promuovere la solidarietà. Il modello individualista-autonomista è il più recente. In contesti culturali nei quali la priorità è data ai vincoli interpersonali (famiglia e comunità come soggetti che prendono le decisioni) il diritto dell'individuo di essere informato e di decidere diventa dirompente rispetto al modello della tradizione.

Lo spostarsi del pendolo verso l'autonomia non ha l'aria di essere un'oscillazione dovuta alla moda: la cultura della modernità sente che è giusto non privare l'individuo delle informazioni che fanno di lui un soggetto, e non solo un oggetto di cure premurose. L'autonomia pone un limite al paternalismo medico e tutela l'individuo dalle intrusioni della famiglia. Questa si presenta come una realtà agglutinante, che si sovrappone all'individuo. Quando il medico prende le decisioni con il consenso della famiglia, scavalcando la volontà della persona malata, rischia di colludere con i familiari, ai danni del paziente. Nei casi peggiori possiamo ipotizzare situazioni in cui i familiari hanno interessi a decisioni cliniche che prevedono un accorciamento della speranza di vita del malato (per un testamento, un'eredità ecc.). Sono casi di rilevanza giudiziaria, più che etica.

Più insidiosi sono i casi in cui la famiglia cerca un'alleanza strategica col medico che tagli fuori il malato dall'informazione non per motivi volgarmente utilitaristici, ma ispirata da ragioni nobili. Sono le situazioni in cui la famiglia fa quadrato attorno al malato su cui incombe una prognosi infausta per risparmiargli sofferenze morali. La famiglia sceglie, d'accordo con il medico, di sottrarre l'informazione al paziente per il suo bene, ossia per evitargli uno shock. Una rappresentazione di situazioni che la gestione delle informazioni da parte dei familiari potrebbe creare è fornita dal film Goodbye Lenin, del regista tedesco Wolfgang Becker (2002). Protagonista è una signora di Berlino est. A seguito di un arresto cardiaco, cade in coma, dal quale si risveglia dopo alcuni mesi.

Tra le raccomandazioni che i medici danno ai familiari prima di portarla a casa, c'è quella di evitarle ogni forte emozione, che potrebbe procurare un nuovo infarto. Ora, mentre la paziente era in coma, è avvenuto il crollo del muro e la caduta del regime comunista. E la signora

137

era una fervente militante comunista, convinta della superiorità del sistema di vita socialista su quello di mercato proprio delle democrazie occidentali. L'impegno dei familiari si concentrerà nel tenerle nascosto l'evento. Le creano un mondo artificiale, con mille stratagemmi. Arrivano perfino a proiettarle falsi telegiornali, creati appositamente, con i protagonisti del passato regime. Con la complicità, più o meno consapevole, della protagonista, l'inganno funziona: riesce a morire senza rendersi conto della fine dei suoi ideali.

Sotto il velo leggero della commedia, riconosciamo molte situazioni paradossali create dall'imperativo di proteggere, con la complicità della famiglia, il malato dalle verità scomode. In questo modo, però, non solo viene sottratta all'individuo la possibilità di confrontarsi consapevolmente con il proprio destino, se questa è la sua preferenza, e di prendere le decisioni opportune in tempo utile. Ciò che è peggio, la protezione che la famiglia crea per tenere lontane le cattive notizie lo isola dai familiari stessi che sanno e minaccia di murarlo in una solitudine emotiva e relazionale.

Benché motivata dalla volontà di prendersi cura del proprio congiunto, una iperprotezione di questo genere si rivela ambigua e controproducente. La congiura del silenzio, che vede alleati sanitari e familiari, era legittimata dalle norme deontologiche in vigore fino al 1989. Il modello fatto proprio dalle versioni più recenti del Codice deontologico autorizza il medico, quando le famiglie adottano strategie che privano il malato della sua autonomia, a osare di affrontare la disapprovazione della famiglia, per tutelare il diritto del malato a gestire la propria vita.

La riflessione bioetica ha messo in evidenza che alcune pratiche biomediche hanno un forte impatto sulla famiglia. Basti pensare alle tecnologie applicate alla riproduzione, che scardinano punti di riferimento antropologici che si ritenevano saldamente fondati sulla biologia (identità del padre e della madre, sequenza temporale delle generazioni...). L'attenzione, pur legittima, rivolta

Il medico

deve tutelare

il diritto del

malato a

gestire la

propria vita,

a costo della

disapprovazione

familiare

138

a queste pratiche di frontiera ha messo in ombra il ruolo che assume la famiglia anche nelle decisioni cliniche quotidiane, non riconducibili agli interventi che modificano in modo così vistoso i processi biologici naturali.

Di fatto, la medicina e la famiglia sono due grandi sistemi che tendono a funzionare autonomamente. Fanno ricorso l'una all'altra solo quando si scontrano con i propri limiti. È vero che, in misura crescente, l'organizzazione sociale delle cure sanitarie ha sottratto alla famiglia questo compito, affidandolo a istituzioni a ciò deputate (ben lo avvertono i familiari dei ricoverati in ospedale, che sentono di essere una presenza estranea, tollerata solo entro ambiti di tempo e di spazio ben delimitati). Ma la famiglia espropriata rischia di essere investita di nuovo, e in modo pesante, del compito di cura e assistenza quando la medicina pubblica istituzionale non è più in grado di far fronte ai suoi impegni. La famiglia viene allora coinvolta per la cura dei malati cronici e per l'assistenza di malati in fase terminale.

Alla famiglia dobbiamo riconoscere solo un valore strumentale, oppure le spetta un ruolo di soggetto, con valori propri e preferenze che vanno considerate nelle decisioni cliniche? Nella pratica della medicina l'attenzione va abitualmente agli interessi del paziente interpretati in modo rigidamente individuale: la sua vita e la sua salute in primo luogo, eventualmente anche le scelte dipendenti dalla sua concezione di qualità della vita. L'individuo è per lo più considerato in uno splendido isolamento e i legami con coloro che condividono la sua vita e le sue scelte sono passati sotto silenzio, come irrilevanti. Ora, nelle altre scelte che costituiscono il tessuto quotidiano dell'esistenza non è così. Non si sceglie un lavoro, e neppure una semplice vacanza, indipendentemente dal sistema famiglia, che ne subisce i contraccolpi. Non si capisce perché dovrebbe essere altrimenti nelle scelte che riguardano la salute e le decisioni cliniche.

Gli interessi economici della famiglia da prendere in considerazione in un processo decisionale sono da considerarsi marginali: almeno così avviene in sistemi sanitari a copertura sociale come il nostro Ssn, (diverso il caso dei paesi dove la copertura assicurativa è solo parziale, per cui i malati sono obbligati a tener presente le ripercussioni che una spesa sanitaria avrà sul bilancio della famiglia). I legittimi interessi della famiglia sono anche di altro profilo. I problemi emotivi, come l'elaborazione del distacco e la sensazione di "aver fatto tutto il possibile", non sono irrilevanti in medicina: si deve prestar loro attenzione

139

e tenere le preoccupazioni nella debita considerazione.

I problemi che nascono dall'informazione e dal coinvolgimento della famiglia nelle decisioni cliniche non possono essere risolti da una formula che abbia validità universale. Non possiamo dire, semplicisticamente, che la partecipazione della famiglia e il suo consenso nelle decisioni cliniche sia un di più facoltativo, come lascia intendere la bioetica centrata sull'autonomia dell'individuo. Ma non si può neppure affermare che la considerazione primaria della famiglia e dei suoi interessi salvaguardi sempre le esigenze dell'etica: potrebbe essere, al contrario, uno strumento di prevaricazione del gruppo sull'individuo. Possiamo solo immaginare che i comportamenti dei sanitari, pur assimilando la cultura dei diritti individuali, non dimentichino di tenere nel debito conto il posto che hanno i legami interpersonali e le relazioni familiari.

140

141

CAPITOLO DIECI

INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE: QUALI RAPPORTI RECIPROCI?

Comunicare senza informare

Informare senza comunicare

Il consenso scritto serve alla comunicazione?

142

Comunicare senza informare

Il problema della comunicazione è diventato centrale nella medicina attuale. Questo fatto non depone a favore della comunicazione stessa. Quando, infatti, nei rapporti interpersonali la comunicazione si fa centrale, ci sentiamo legittimati a dedurre che siamo di fronte a un indice di relazione malata. Lo conferma autorevolmente Paul Waztlawick, uno dei maggiori esperti della comunicazione umana:

Quanto più una relazione è spontanea e "sana", tanto più l'aspetto relazionale della comunicazione recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni "malate" sono caratterizzate da una lotta costante per definire la natura della relazione, mentre l'aspetto di contenuto della comunicazione diventa sempre meno importante.

È quanto possiamo verificare empiricamente nelle relazioni amorose: le coppie in crisi, invece di fare l'amore, imbastiscono eterni discorsi per definire il loro rapporto... Quando la comunicazione è inceppata, ci si accorge di essa, in quanto diventa un sintomo dolorante.

Qualcosa di analogo succede oggi in medicina. Si parla molto di comunicazione perché abbiamo l'impressione che siano sempre più frequenti e dolorosi i nodi della comunicazione. In particolare, questa si ingorga quando si decide, per motivi di diversa natura ― per ragioni di tempo e di opportunità, o anche per motivi etici -― di saltare il momento dell'informazione, andando direttamente all'azione terapeutica. L'enfasi posta sul fare, piuttosto che sul parlare informativo, danneggia il processo della guarigione e si traduce in un saldo negativo sul piano della comunicazione.

Se la comunicazione non fluisce in modo sano, ristagna patologicamente poiché, in ogni caso, non si può non comunicare. Questo è il primo assioma stabilito da Watzlawick nella sua Pragmatica della comunicazione umana (Astrolabio, Roma 1971). La comunicazione, infatti, è un comportamento e non esiste l'opposto del comportamento.

143

Chi, per esempio, in una situazione di vicinanza fisica, si chiude nel mutismo, comunica che non vuole comunicare. Le parole e il silenzio, l'attività e l'inattività: tutto, nell'interazione, ha il valore di messaggio. La questione, quindi, diventa: che cosa comunica il comportamento del medico, quando rifiuta di informare il malato?

Una risposta alla domanda possiamo ricavarla dalla descrizione seguente, in cui l'oncologo francese Léon Schwarzenberg tratteggia la situazione che si crea quando l'ambiente che circonda il malato opta per la congiura del silenzio:

È raro che i malati ripongano assoluta fiducia nel loro medico. Molti di essi credono che in questa valle di lacrime non esista bugiardo più grosso e patentato del medico, e che del resto egli eserciti l'unica professione nella quale la menzogna è d'obbligo. Inutile dire che a volte costoro hanno ragione. Ma dubbi e sospetti possono travalicare il medico stesso. Ve n'è che sospettano un complotto tra i loro stessi familiari, da parte dei loro amici.

E, ancora una volta, spesso hanno ragione. La moglie o il marito, a volte il figlio maggiore che svolge il ruolo di capofamiglia ha deciso che «non bisogna dirglielo. Non possiamo farlo. Significherebbe ammazzarlo». E il medico dal canto suo non osa spingersi più in là e a sua volta si inchina alla volontà della famiglia. Purtroppo, però, accade che la maggior parte di noi medici si sia attori da quattro soldi, bugiardi da poco. Il malato avverte perfettamente che non tutti coloro che lo circondano sono sinceri con lui, lo legge loro in faccia, lo coglie dai loro silenzi più ancora che dalle loro parole, lo capisce dai loro errori, dai lapsus, dagli impappinamenti, si sente al centro degli argomenti che non vengono mai abbordati. Tutti recitano male, mentono peggio.

Il malato, questo lo sa; e il medico ha il sospetto che il malato sappia. Ed ecco così istituirsi quel

A volte la

comunicazione

stenta a fluire.

Da questo

non può che

nascere un

rapporto

sterile, malato

144

rapporto convenzionale, di perfetta cortesia: il malato sa che il medico sa, ma non ne parla (L. Schwartzenberg, P. Viansson-Ponté: Cambiamo la morte, Mondadori, Milano 1975).

In pratica, contesti comunicativi di questo genere trasmettono, al di là della volontà di coloro che decidono, magari per motivazioni umanitarie molto nobili e generose, di sottrarre l'informazione al malato, la "morte sociale" di questi. L'essere umano non è solo un organismo animato, ma è anche essenzialmente un membro della società. Quando viene reciso il legame vitale con la comunità, muore come essere umano. Questo tipo di morte non ricalca esattamente la morte fisica: può avvenire prima o dopo, rispetto alla cessazione della vita organica. Ci sono tribù in Africa che considerano morta una persona solo quando non se ne parla più: è un esempio estremo che illustra la divaricazione possibile, anche in altri contesti culturali, tra morte sociale e morte organica.

La morte è già in azione quando con il malato non si parla più dell'evento che è destinato a mettere fine alla sua vita, perché è diventato tabù.

La morte sociale, inoltre, non è un avvenimento puntuale ma si verifica a gradi. Attraversa vari stadi, come la malattia stessa, può essere leggera, grave, fatale, oppure reversibile. La progressione nella morte sociale è favorita dal fatto che la morte, nel modo in cui si verifica abitualmente, si prolunga nel tempo. Nel lungo periodo che la persona impiega a morire, si verifica gradualmente la sua morte sociale.

L'ospedale è un osservatorio eccellente per rilevare in che modo si passa dal regno dei vivi a quello dei morti. Con il progredire della malattia, cessano le cure infermieristiche usuali, l'interesse medico si affievolisce fino a scomparire (a meno che non si tratti di un "caso interessante", in un ospedale che abbia anche finalità didattica e di ricerca), i morenti sono separati dai familiari, talvolta ricevono già i trattamenti riservati alle salme...

Nell'esperienza dei più, la morte sociale comincia quando si cessa di essere considerati soggetti capaci di prendere decisioni responsabili sul proprio destino. La preoccupazione di evitare a chi non può guarire lo shock di conoscere la propria situazione, porta coloro che sanno ― sanitari e familiari ― a farsi carico della gestione della parte finale della vita del malato, sottraendogli le informazioni. In questo modo lo si è già condannato a morte come soggetto, ancor prima che la patologia

145

fisica porti a compimento il suo assalto all'organismo.

Sia le parole che il silenzio hanno il loro lato tragico. Volendo evitare il dramma dell'informazione, si precipita in quello della mancanza di verità. Il silenzio, che può essere un salutare correttivo della retorica banalizzante delle parole e può talvolta offrire la solida consolazione derivante dalla muta solidarietà, in queste condizioni è solo un vuoto di parole. Comunica al malato inguaribile che non è più qualcuno con cui si possa comunicare. Gli comunica, cioè, che socialmente può già considerarsi morto.

Ma i pazienti inguaribili, avviati verso la morte, vogliono sapere della loro situazione? Questo interrogativo continua a offrire lo spunto per innumerevoli dibattiti. L'abituale mancanza di informazioni al malato sulla prognosi infausta può essere letta in diversi modi. Qualcuno fa responsabile della congiura del silenzio i medici e i familiari: sono loro che non vogliono parlare, o per malinteso paternalismo, o per risparmiarsi il peso di dover sostenere emotivamente un paziente confrontato con una prospettiva tragica. Altri, invece, attribuiscono la volontà di non sapere ai pazienti: siccome essi rifiutano la verità, i sanitari si adeguano alla loro volontà e li preservano dal trauma di un'informazione non desiderata. O forse i malati fanno finta di non sapere, perché i medici e i familiari non vogliono parlare... Dove sta il torto e la ragione in questo scenario cangiante?

La pragmatica della comunicazione umana ci ha insegnato a sbrogliare matasse di questo genere riferendoci alla punteggiatura delle sequenze di eventi. Quando in un rapporto comunicativo si creano delle catene che tendono a prolungarsi all'infinito (l'esempio più tipico è quello di una coppia che litiga, dove lei brontola e lui si chiude in se stesso; lei brontola perché lui si chiude, lui si chiude perché lei brontola; allora lei brontola ancora di più, mentre lui risponde chiudendosi ancora di più: teoricamente, questa catena non ha fine), ambedue i modi di punteggiare sono possibili e corretti. Non si

Il silenzio a

volte ha un

significato

drammatico.

Perché può

sancire la

morte socialedel paziente

146

tratta di dare ragione all'uno o all'altro, adottando la sua punteggiatura degli eventi, ma di trovare un modo di spezzare la catena.

Uno di questi modi sono le ricerche empiriche. Il tema del consenso informato ha stimolato una quantità di indagini, dalle quali risulta che la falsa attribuzione del desiderio di informazione è uno degli errori più comuni nella pratica clinica. Tra ciò che i pazienti desiderano conoscere e quello che i medici pensano che essi vogliano conoscere esistono discrepanze rilevanti. Una delle prime ricerche in merito è stata condotta da Waitzkin e Stoeckle, già negli anni '70. Sono stati registrati 336 incontri tra medici e pazienti in diversi contesti clinici, compresa la pratica privata e gli ambulatori ospedalieri. Si è chiesto ai medici di indovinare il desiderio dei pazienti di essere informati e l'utilità dell'informazione per il paziente. Anche ai pazienti si è domandato di fornire l'autovalutazione. La maggioranza dei pazienti desiderava conoscere quasi tutto e pensava che l'informazione sarebbe stata loro utile. Ma nel 65 per cento degli incontri i medici sottovalutavano il desiderio di informazione e l'utilità clinica dell'informazione stessa. La stessa ricerca fornisce un altro dato importante. I ricercatori chiesero anche ai medici quanto tempo pensavano di aver dedicato a informare. Confrontando questa percezione soggettiva con il tempo oggettivamente risultante dalla registrazione degli incontri, risultò che in media il tempo dedicato aN'informazione era stimato dai medici nove volte più del reale (cfr. H. Waitzkin e J. Stoeckle: "Information control and micropolitics of health care" in Soc. Sc. and Med., 10, 1976). Anche ricerche italiane recenti (cfr. Egidio Moja e Elena Vegni, La visita medica centrata sul paziente, R. Cortina ed., Milano 2000) confermano la vistosa divaricazione tra quello che i sanitari percepiscono dei bisogni informativi dei pazienti e quanto questi intendono esprimere.

Ai risultati prosaici, ma istruttivi, di questo tipo di ricerche empiriche sui comportamenti bisogna aggiungere l'esperienza di chi ha infranto la barriera del silenzio e si è messo, senza preconcetti, a parlare con i malati, anche quelli inguaribili e avviati verso la morte, sulla loro situazione. Fa ormai parte irrinunciabile del patrimonio di esperienza acquistata nell'accompagnamento dei morenti la convinzione che si muore meglio quando è possibile esprimere le proprie emozioni, comunicarle a qualcuno, condividere i propri stati d'animo.

Da quando Elisabeth Kübler-Ross ha cominciato a disobbedire alla consegna del silenzio con i morenti, dominante negli ambienti ospedalieri, si è aperto un capitolo nuovo di conoscenze deN'animo umano e dei

147

suoi bisogni nel momento in cui si avvicina alla soglia estrema della vita. Quanto sappiamo sugli stadi del morire, sull'organizzazione della speranza e sulle modalità simboliche della comunicazione fa parte ormai della medicina moderna, allo stesso modo della chimica dei neurotrasmettitori o delle reazioni immunologiche.

Informare senza comunicare

I fautori del modello autonomista, espressione tipica di una medicina che si è aperta alla cultura della modernità, ovvero liberale, si fanno spesso promotori di un'informazione a oltranza del malato, senza considerare la ripercussione che certe notizie possono avere nel malato stesso. Più che una questione di sensibilità morale, si tratta spesso di una concezione superficiale della comunicazione stessa. Non si considera a sufficienza, infatti, che la comunicazione non è costituita solo dagli aspetti verbali.

Il linguaggio ha sicuramente un'importanza unica per la specie umana, che da esso viene caratterizzata. Ma non è l'unico canale attraverso cui comunichiamo. Nella comunicazione umana si hanno due fondamentali possibilità di far riferimento a dei contenuti informativi: o rappresentandoli con un'immagine (come quando si disegna), oppure dando loro un nome. Tecnicamente si parla di comunicazione analogica, nel primo caso, e di comunicazione numerica, nel secondo. Comunicazione analogica è praticamente ogni comunicazione non verbale. Include le posizioni del corpo, i gesti, l'espressione del volto, le inflessioni della voce, la sequenza, il ritmo e la cadenza delle parole stesse, come pure i segni di comunicazione immancabilmente presenti in ogni contesto in cui ha luogo un'interazione.

Il linguaggio numerico ha un'importanza particolare per gli esseri umani, perché serve a scambiare informazioni sugli oggetti e perché ha la funzione di trasmettere la conoscenza di epoca in epoca. C'è però tutto un settore

La

comunicazione

tra due esseri

umani non è

fatta solo

di parole.

Perciò dare

informazioni

non basta

148

in cui facciamo affidamento quasi esclusivamente sulla comunicazione analogica, spesso discostandoci assai poco dall'eredità che ci hanno trasmesso i nostri antenati mammiferi. Quando ci avviciniamo ai segmenti estremi della vita ― la nascita e la morte ― scopriamo con sorpresa quanto abbiamo ancora in comune con gli animali.

Le vocalizzazioni, i movimenti di intenzione e i segni di umore degli animali sono comunicazione analogica, mediante la quale definiscono la natura delle loro relazioni, in mancanza della capacità di fare asserzioni denotative sugli oggetti. Ciò che gli animali capiscono non è certo il significato delle parole, ma la ricchezza della comunicazione analogica che accompagna il discorso. Ogni volta che la relazione è il problema centrale della comunicazione, il linguaggio numerico cede il primato alla comunicazione analogica.

È un fenomeno che non si verifica solo tra gli animali, ma in molte circostanze della vita umana, come quando si corteggia o si combatte. E anche quando si reca aiuto a una persona in stato di necessità. Per questo la comunicazione analogica, che è molto più ricca dell'informazione verbale, è centrale nel rapporto tra sanitari, medici e infermieri, e pazienti.

Lo stato di malattia, specie quando è grave ed è percepito come una minaccia alla vita, provoca una regressione che ci fa diventare, come i bambini e come gli animali, sommamente recettivi alla comunicazione analogica che accompagna il discorso. E anche se le parole si organizzano abilmente per sostenere delle menzogne, comprese quelle "pietose" e a fin di bene, i comportamenti tradiscono la verità. Perché è facile dichiarare qualcosa verbalmente, ma è difficile sostenere una bugia nel regno dell'analogico. Sembra un paradosso: le intenzioni più sublimi che possiamo attribuire agli esseri umani (la solidarietà, l'amore, il prendersi cura) passano attraverso il canale povero dei gesti e della comunicazione non verbale.

Gli atti di cura corporea e il contatto fisico sono destinati a portare un peso metafisico che sembra quasi sproporzionato. Attraverso gli umili gesti della corporeità condivisa (la "carne comune", nella terminologia di Maurice Merleau-Ponty) si esprime il mistero della reciprocità delle coscienze.

Questa percezione più acuta delle esigenze connesse con la comunicazione nell'ambito delle cure sanitarie, che eccede di molto i contenuti informativi che si possono trasmettere con le parole, ci permette

149

di affrontare in modo più differenziato la questione inevitabile: bisogna comunicare o tacere una diagnosi infausta? La questione è diventata un luogo classico di dibattito in cui possiamo assistere allo scontro tra modelli di comportamento che aspirano ugualmente a realizzare un valore morale, ma nella pratica si scoprono come inconciliabili.

Di fatto, il confronto assomiglia di più a un dialogo tra sordi, in quanto si confrontano certezze profonde non disposte a farsi rimettere in discussione dagli argomenti contrari. Chi è convinto che una prognosi che si affaccia sulla morte non vada condivisa con il malato, tutt'al più con i suoi familiari, motiva questo comportamento con alti motivi ideali. È per risparmiare al malato un evento emotivamente catastrofico che si deve fare ogni sforzo per tenere lontano dal suo sguardo l'orrore della morte certa. Ma anche chi difende la posizione contraria, orientata a informare il malato della propria situazione, si giustifica con motivi ideali, che ruotano attorno al rispetto del malato e tendono a prevenire un altro tipo di sofferenze psicologiche, quelle che si aggrumano attorno al sistema di menzogne necessario per mantenere il malato nell'ignoranza della sua situazione.

L'incomprensione tra i partigiani delle due posizioni può raggiungere punte paradossali. Coloro che optano per la comunicazione della diagnosi si sentono accusati di crudeltà nei confronti del malato. Chi sceglie la menzogna pietosa, in nome della compassione, si trova sospettato di essere solo un piccolo egoista, che vuol risparmiarsi le situazioni più ingrate, con lo sforzo che la comunicazione di questo genere di notizie comporta.

I tentativi di guadagnare l'altro alla propria posizione per lo più naufragano clamorosamente. Ciò non dipende dalla debolezza delle argomentazioni, ma dal fatto che gli atteggiamenti di fondo si nutrono di motivi che non sono solo razionali.

La condivisione di determinati modelli culturali che privilegiano, rispettivamente, la famiglia e l'individuo, la coesione del gruppo o il controllo sulla propria vita

Il dibattito

sull'opportunità

di comunicare

una prognosi

infausta riflette

l'esistenza di

diversi modelli

morali

150

da parte della persona può determinare in modo decisivo i comportamenti.

Il consenso scritto serve alla comunicazione?

Sembra che qualcuno in America abbia avuto l'idea di mettere in circolazione dei formulari rivolti a ottenere dal possibile partner di un incontro sessuale una dichiarazione esplicita firmata di consenso al rapporto. Perché, ironizza l'autore della trovata, un rapporto sessuale è un fatto pericoloso: dalla piacevolezza del talamo vi potreste trovare in tribunale, accusati di violenza! Basti pensare ai processi che hanno avuto per mesi l'onore delle cronache (dal giovane Kennedy al pugile Tyson) per rendersi conto dell'entità del pericolo. Meglio, dunque, tutelarsi raccogliendo le prove inequivocabili della volontà non ambigua del partner!

Può sembrare una provocazione accostare i goliardici formulari per il consenso al rapporto sessuale alle procedure per ottenere il consenso informato nel contesto sanitario. Il parallelo stabilito tra lo scherzo di un buontempone e una delle pratiche a cui sembra arridere più successo nell'ambito delle nuove regole che stanno ridisegnando i rapporti tra sanitari e cittadini non vuol essere irriverente. Un effetto di straniamento si produce nell'uno come nell'altro caso, per il fatto che si applicano nell'ambito dell'intimità le procedure che valgono tra estranei. Non ci sorprende che una transazione commerciale o l'atto di compravendita di un immobile debbano obbedire a precise procedure amministrative: in questi casi tutti ci consideriamo degli estranei, anche all'interno di una stessa famiglia. Una parola di promessa può avere un significato morale e creare obblighi profondi, ma non ha alcuna rilevanza giuridica. L'atto di un notaio è una garanzia per tutti, proprio perché ci tratta come estranei, anche se siamo consanguinei.

Ci troviamo invece completamente spiazzati quando le regole che valgono tra estranei vengono trasposte all'ambito dell'intimità. È impossibile fissare in un formulario da sottoscrivere la complessità di un rapporto amoroso: il consenso scritto appare come una caricatura di quel consenso che si ottiene nel rapporto vissuto. Chi argomenta contro le procedure giudiziarie per stabilire se ci sia stato o no il consenso a un rapporto sessuale è in grado di produrre buone ragioni attinte dall'esperienza vissuta, dove l'assenso ci si presenta nella sua fondamentale

151

ambiguità (conosciamo anche dei no che valgono per un sì o per un forse...). Soprattutto sappiamo che la comunicazione non verbale svolge una funzione interpretativa determinante: i sì o i no sono detti più dagli occhi o dal tono muscolare che dalle parole.

Quando il no significa sì? Quando il sì significa no?

Il fatto è che quando state proprio lì lì per farlo con una ragazza ― una ragazza che non sia una prostituta o qualcosa del genere, voglio dire ― quella continua a dirvi tutto il tempo di smettere. Il mio guaio è che smetto. C'è tanti che non smettono mica. Ma è più forte di me. Non capite mai se quelle vogliono veramente che smettiate, o se hanno soltanto una paura d'inferno, o se vi dicono di smettere solo perché se voi continuate la colpa è vostra e non loro. Io smetto tutte le volte, ad ogni modo. Loro mi dicono di smettere e io smetto. Dopo che le ho riportate a casa mi mordo sempre le mani, ma continuo a smettere ogni volta.

(J. D. Salinger: Il giovane Holden).

Dobbiamo dire la stessa cosa del consenso scritto a un atto medico? In parte sì. Quello che si realizza tra il medico e il paziente che gli si affida va ricondotto al paradigma dell'intimità piuttosto che a quello dell'estraneità. Il consenso prende forma in un contesto imbevuto di emozioni molto forti: speranza, paura, fiducia, diffidenza, angoscia. Spesso si tratta di decisioni di vita o di morte; sempre, comunque, di scelte che coinvolgono il benessere e la qualità della vita.

Il consenso inoltre è un processo che si modifica nel tempo. Il malato può cambiare idea, sulla base di ulteriori informazioni che è riuscito ad assimilare o del vissuto della malattia: il rifiuto di ieri può diventare una richiesta di oggi, o viceversa. C'è ancora un'ulteriore analogia con il consenso amoroso, quello che si realizza tra medico e paziente passa anche attraverso la comunicazione non verbale, i silenzi, gli atteggiamenti. Che cosa diventa tutto ciò, ricondotto entro il quadro rigido di un formulario di consenso da espletare come

Bisogna

abituarsi a

capire

quando no

significa

proprio no

e quando

invece

vuol dire sì

152

una procedura amministrativa?

Se il parallelo tra l'assenso a un atto amoroso e il consenso a un atto medico può sembrare troppo leggero, possiamo fare un rimando di ineccepibile spessore filosofico. In una pagina delle sue Ricerche filosofiche (Einaudi, Torino 1974) Ludwig Wittgenstein mette in evidenza la necessità di utilizzare l'esperienza vissuta come chiave interpretativa di un comportamento, come può essere l'esperienza di venir guidati:

Pensiamo all'esperienza vissuta del venir guidati! Chiediamoci: in che cosa consiste quest'esperienza, quando per esempio, veniamo guidati per una strada? Immagina questi casi:

sei in un campo sportivo, magari con gli occhi bendati, e qualcuno ti conduce per mano, ora a sinistra ora a destra; tu devi sempre essere in attesa degli strattoni della sua mano e devi anche stare attento a non inciampare a uno strattone inaspettato.

Oppure: qualcuno ti conduce per mano, con forza, dove non vuoi.

O anche: il tuo compagno di ballo ti guida nella danza; tu ti rendi quanto più possibile recettivo per poter indovinare la sua intenzione a seguire anche la più lieve pressione.

Oppure: qualcuno ti conduce a fare una passeggiata; camminando conversate, e dove va lui vai anche tu.

ancora: stai camminando per un viottolo di campagna e lasci che ti guidi.

Tutte queste situazioni sono simili l'una all'altra; ma che cosa è comune a tutte le esperienze vissute?

Senza nessuna forzatura, possiamo applicare questa descrizione fenomenologica così differenziata all'esperienza di essere guidati da un medico verso una decisione terapeutica. Inevitabilmente ci domandiamo: come può un formulario scritto rispecchiare la differenza sostanziale che esiste tra il venir guidati mediante strattoni e il lasciarsi portare insieme dal ritmo della danza? Con tutte queste riserve sulla possibile deriva burocratica di un uso generalizzato dei formulari per raccogliere il consenso informato, dobbiamo tuttavia riconoscere che è giunta l'epoca in cui la medicina deve trovare linguaggio e gesti per coniugare la pratica terapeutica con il nuovo clima culturale che attribuisce grande valore all'autodeterminazione dell'individuo. La questione, in definitiva, diventa quella dell'uso che si vorrà fare del consenso

153

informato. Non è auspicabile che l'adozione di questa procedura sia svuotata della sua sostanza etica e ridotta a un espletamento formale, come un atto a carattere burocratico.

Al consenso informato, quale momento cruciale del rapporto che si instaura tra il professionista sanitario e il malato, non possiamo più sottrarci. E non perché ci siamo messi in testa di scimmiottare l'America: il consenso informato ci è richiesto dalla nuova cultura che sta unificando l'Europa, come indica in modo inequivocabile la Convenzione europea per la bioetica. Ma se vogliamo che l'unifichi per il meglio, non dovremmo dimenticare quella formulazione dell'etica orientata al prendersi cura reciproco, come struttura primordiale dell'esistenza umana. Ci possiamo realizzare come essere liberi e autonomi perché l'etica delle cure reciproche fa sì che qualcuno si prenda cura di noi, mentre noi ci occupiamo, in una circolarità delle cure, di coloro che hanno bisogno di noi. Nella salute e nella malattia. Ma soprattutto nella malattia.

Per la pratica della medicina dell'epoca moderna, quella che ha interiorizzato il principio del rispetto delle decisioni che nascono daN'autonomia dell'individuo, ma nello stesso tempo non abbandona il valore tradizionale costituito dal legame di una particolare alleanza che si stabilisce tra chi offre le cure e chi le riceve, il consenso informato è uno strumento. Senza mitizzarlo, è opportuno trattarlo in quanto tale, continuando a domandarci a quale modello di medicina vogliamo farlo servire. E soprattutto bisognerà convincerci che sull'uso del consenso informato abbiamo ancora tanto da imparare.

154

155

CHE VALORE HANNO LE DIRETTIVE ANTICIPATE?

Decidere per quando non saremo in grado di decidere

La proposta della Carta di autodeterminazione

156

Decidere per quando non saremo in grado di decidere

Molti muoiono troppo tardi, alcuni troppo presto.

Ancora suona strano il precetto: «Muori a tempo opportuno».

(F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

Con intuizione visionaria, Nietzsche ha espresso nell'aforisma che abbiamo posto in epigrafe un problema che sarebbe diventato attuale un secolo dopo rispetto all'esperienza culturale di cui era figlio. A cavallo tra il XIX e il XX secolo la medicina continuava a essere saldamente ancorata al modello etico che si riferiva a Ippocrate, secondo il quale la cosa giusta per il paziente veniva decisa dal medico. Quanti e quali interventi terapeutici fossero opportuni era competenza esclusiva di chi curava il malato. Questi non aveva voce in capitolo, ma era esclusivamente il beneficiario di ciò che veniva intrapreso per il suo bene. E prolungare la vita, strappandone anche un minimo brandello all'azione distruttiva della morte, era considerato indiscutibilmente un bene.

Gli strumenti concettuali per affrontare i problemi etici delle scelte di fine vita non mancavano alla cultura greca. Basti pensare alla distinzione tra due tipi di tempo: il krónos, ovvero il tempo come quantità misurabile, e il kairós, vale a dire il momento propizio. La differenza tra questi due generi di tempo può essere visualizzata immaginando la rappresentazione di kairós che troviamo in alcuni bassorilievi greci. È raffigurato come un giovane in corsa, con ruote alate ai piedi, ha un ciuffo sulla fronte e niente capelli sulla nuca.

Si lascia così intendere che lo si può afferrare solo nel momento in cui sfila davanti: appena passato, è definitivamente perduto. Anche per la morte c'è un tempo giusto che non è il krónos, bensì il kairós, equivalente al "tempo opportuno" di Nietzsche.

Fino a un'epoca recente non abbiamo avuto bisogno di far ricorso a questo strumentario concettuale, per la buona ragione che la medicina non era in grado di prolungare la vita. Almeno nella misura che

157

costituisce un incubo per molti nostri contemporanei. Dalla preoccupazione che l'arte medica non facesse abbastanza per allontanare la minaccia della morte, che rende precaria ogni vita, siamo passati all'eccesso opposto: al timore che faccia troppo, estendendo cronologicamente la vita oltre il kairós in cui la morte, pur restando un insulto alla persona, non è un'indegna umiliazione della sua umanità. Oggi la medicina, prolungando la vita, può creare dei mostri.

Un'opera letteraria, concepita quando ancora l'arte medica non era in grado di produrre esistenze che si discostano drammaticamente dagli standard della normalità, ci permette di visualizzare questa paura. Si tratta del racconto Il mostro, dello scrittore americano Stephen Crane (il racconto è stato pubblicato nel 1899; tr. it. a cura di G. Mariani, Marsilio, Venezia 1997). Protagonista è il servitore nero di un medico. Quando la casa di questi va a fuoco, il servo si lancia tra le fiamme per salvare il bambino, rimasto intrappolato. Ci riesce, ma rimane a sua volta vittima di un'esplosione avvenuta nel laboratorio del medico, un acido gli cade sulla faccia e gliela distrugge. Il medico, per riconoscenza, si prende cura di lui, ma tutta la comunità, sia quella bianca sia quella dei neri, si chiude per paura del mostro.

Di fronte ai benpensanti, rappresentati in particolare dal giudice, il medico difende il proprio operato: non avrebbe certo potuto uccidere quel povero essere umano, dal volto devastato (e scivolato poi nella pazzia). Ma le sue argomentazioni, per quanto ineccepibili, non cambiano la realtà: con le migliori intenzioni, mantiene in vita una mostruosità che non è collocabile né tra gli uomini, né tra gli animali.

Quello che ha prodotto è «un vizio della virtù», sentenzia il giudice. Crane non poteva immaginare quanto quei ripensamenti sarebbero suonati attuali un secolo dopo, quando la medicina sarebbe stata in grado di produrre routinariamente essere umani con le caratteristiche sociali del mostro. Non solo per la comunità, ma per le persone stesse che rischiano di essere oggetto

Oggi la

medicina può

prolungare la

vita.

Anche troppo.

Ecco perché

è necessario

un nuovo

bagaglio

concettuale

158

di questi ambigui benefici della medicina, l'eventualità di essere risucchiate nella categoria dei mostri, né morti né vivi, è uno degli incubi dominanti.

È questa la nicchia culturale in cui va collocata la richiesta di direttive anticipate o analoghe disposizioni relative alle decisioni di fine vita. Ci siamo resi conto che le preferenze delle persone divergono. Per qualcuno (molti? pochi? è quanto mai necessario promuovere ricerche empiriche per acquisire conoscenze relative al profilo di questa domanda sociale) è preferibile la rinuncia a trattamenti di sostegno vitale, in nome della coerenza con il modello di qualità della vita a cui ha cercato di orientarsi nella propria esistenza. E preferisce mantenere il controllo su queste decisioni, piuttosto che affidarle alla coscienza professionale dei sanitari o alla cura amorosa dei propri familiari.

Che relazione possiamo stabilire tra tali preferenze e le azioni (o inazioni) mediche? Nel modello etico tradizionale le preferenze dei pazienti non erano considerate un vincolo che il medico fosse tenuto a rispettare: il medico prendeva le decisioni per il bene dei pazienti, come un buon padre o una buona madre decide per il figlio, quale interprete autorizzato del suo migliore interesse (il detto inglese Doctor knows best si applicava non solo alle conoscenze diagnostiche e terapeutiche, ma anche à quelle etiche, che sostanziano le decisioni sulla quantità e qualità dei trattamenti sul finire della vita). Il timore che rende molti sanitari esitanti di fronte alla prospettiva di modificare il modello di rapporto è quello che le preferenze dei pazienti da insignificanti diventino determinanti per l'azione. Il medico si troverebbe così costretto ad abdicare al ruolo che lo voleva unico responsabile delle decisioni cliniche, per diventare il puro esecutore di ciò che il paziente ha deciso.

Un indicatore della resistenza dei medici a fare proprio questo punto di vista si trova nella più recente redazione del Codice deontologico dei medici italiani (1998). Rispetto al problema dell'accondiscendenza del medico alle volontà precedentemente espresse dal malato, il quale si trovi attualmente in condizione di incapacità di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, il Codice esprime l'imbarazzo attraverso una doppia negazione:

Il medico non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dal malato (art. 34).

Si evitano così le due posizioni estreme del paternalismo duro (è il medico che decide, in base alla sua scienza e coscienza) e dell'autonomismo

159

radicale (è il malato che decide, mentre al medico non rimane che dar seguito alle direttive che nascono dalla volontà del malato). Il comportamento medico delimitato dalla doppia negazione appare come un compromesso tra i due modelli. Tuttavia non si può dire che l'indicazione di comportamento che ne emerge sia chiara.

Più costruttivo appare il Codice deontologico degli infermieri, là dove indica le procedure ideali che scandiscono il rapporto fra il professionista dell'assistenza e il paziente:

L'infermiere ascolta, informa, coinvolge la persona e valuta con la stessa i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e consentire all'assistito di esprimere le proprie scelte (art. 4.2).

Nel caso di conflitti determinati da profonde diversità etiche, l'infermiere si impegna a trovare la soluzione attraverso il dialogo. In presenza di volontà profondamente in contrasto con i principi etici della professione e con la coscienza personale, si avvale del diritto all'obiezione di coscienza (art. 2.5).

Nella proposta del codice infermieristico tra le preferenze e l'azione si collocano i valori. Le divergenze riguardo ai valori, che possono diventare dei veri e propri conflitti, si risolvono idealmente con il dialogo, che comincia con l'ascolto dell'altro. Il dialogo, quindi, come alternativa alla prevaricazione (che può esprimersi nelle due direzioni: del sanitario sul paziente, ma anche da parte del paziente sul sanitario).

A favore delle direttive anticipate si è espressa, senza ambiguità, la Convenzione europea di bioetica (1997), che l'Italia ha ratificato con legge dello Stato:

● Art. 9

I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente, che

Secondo

il codice

deontologico

degli infermieri

i conflitti tra

i diversi valori

vanno superati

con il dialogo

160

al momento dell'intervento non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione.

Un'autorevole spinta in questa direzione costituisce il documenterei Comitato nazionale per la bioetica Dichiarazioni anticipate di trattamento (15 dicembre 2003). In generale, gli ambiti nei quali le indicazioni previe del paziente devono essere tenute in considerazione sono così elencati:

● indicazioni sull'assistenza religiosa, sull'intenzione di donare o no gli organi per trapianti, sull'utilizzo del cadavere o parti di esso per scopi di ricerca o didattica

● indicazioni circa le modalità di umanizzazione della morte (cure palliative, richiesta di essere curato in casa o in ospedale ecc.)

● indicazioni che riflettano le preferenze del soggetto in relazione al ventaglio delle possibilità diagnostico-terapeutiche che si possono prospettare lungo il decorso della malattia

● indicazioni finalizzate a implementare le cure palliative

● indicazioni finalizzate a richiedere la non attivazione di qualsiasi forma di accanimento terapeutico, cioè di trattamenti di sostegno vitale che appaiono sproporzionati o ingiustificati

● indicazioni finalizzate a richiedere il non inizio o la sospensione di trattamenti terapeutici di sostegno vitale, che però non realizzino nella fattispecie indiscutibili ipotesi di accanimento

● indicazioni finalizzate a richiedere la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiale

Gli orientamenti del Cnb sono sostenuti dal principio secondo cui al consenso o dissenso espresso dal paziente non in stretta attualità rispetto al momento decisionale va attribuito lo stesso rispetto che è dovuto alla manifestazione di volontà espressa in attualità rispetto all'atto medico. Alle dichiarazioni anticipate il Comitato attribuisce un carattere vincolante, e non meramente orientativo: «Se il medico, in scienza e coscienza, si formasse il solido convincimento che i desideri del malato fossero non solo legittimi, ma ancora attuali, onorarli da

161

parte sua diventerebbe non solo un compimento dell'alleanza terapeutica che egli ha stipulato col suo paziente, ma un suo preciso dovere deontologico».

L'orientamento del Cnb inclina tuttavia a privilegiare l'aspetto giuridico, più che quello etico, delle dichiarazioni anticipate. Richiede, perciò, che siano redatte in forma scritta e non orale; che siano compilate con l'assistenza di un medico, che può controfirmarle; che siano redatte in forma non generica, in modo tale da non lasciare equivoci sul loro contenuto e da chiarire quanto più possibile le situazioni cliniche in relazione alle quali esse debbano poi essere prese in considerazione. Il Cnb auspica, infine, «un intervento legislativo ampio e esauriente, che risolva molte questioni tuttora aperte per quel che concerne la responsabilità medicolegale e insieme che offra un sostegno giuridico alla pratica delle dichiarazioni anticipate, regolandone le procedure di attuazione».

Rispetto agli orientamenti del Cnb italiano si differenziano le indicazioni contenute in un documento dell'European association of palliative care (Eapc) che sintetizza la posizione prevalente tra i cultori di cure palliative. Dei testamenti biologici e delle direttive anticipate viene evidenziata non la dimensione giuridica (soprattutto come "liberatoria" per i medici, per tutelarsi da accuse di comportamenti omissivi) ma soprattutto quella etica relazionale: dovrebbero servire «a una migliore comunicazione e a una pianificazione anticipata delle cure, dando più spazio all'autonomia del paziente». La finalità che gli operatori sanitari attivi nel campo delle cure palliative attribuiscono alle direttive è quella di strumento che favorisca un processo deliberativo volto a produrre una decisione consensuale, nella quale confluiscano sia le conoscenze medico sanitarie, sia i valori e le preferenze del paziente (cfr. "Eutanasia e suicidio assistito dal medico: il punto di vista di una task force sull'etica dell'Eapc", in Rivista italiana di cure palliative, vol. 6, n. 1/2004, pp. 42-46).

Il punto critico per il discorso sulle direttive anticipate è

La criticità

delle

dichiarazioni

anticipate sta

nel passaggio

dal livello etico

a quello

giuridico

162

costituito dal passaggio dal livello culturale-etico e deontologico a quello formalmente giuridico. In altre parole: il rispetto delle volontà formulate in precedenza, in previsione di una situazione in cui il soggetto non sia più in grado di esprimerle, deve essere solo un dovere morale per il medico o deve costituire un obbligo prescritto per legge, così che la sua violazione comporti una sanzione penale? La questione ha un risvolto concreto per i medici, i quali temono di venire denunciati per atti che la legge non consente, qualora omettano interventi clinici per rispettare volontà precedentemente espresse dal malato.

Questo è il contesto in cui si colloca il disegno di legge d'iniziativa dei senatori Ripamonti e Del Pennino, presentato in Senato il 23 maggio 2003 Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate (in Parlamento giace da tempo una proposta di legge analoga, presentata nel 1999 da Chiaromonte e Griffagnini). L'intento della legge è di esentare il medico da ogni responsabilità conseguente al rispetto della volontà del paziente, quale deve risultare da un atto scritto di data certa e con sottoscrizione autenticata. Lo stesso obiettivo può essere raggiunto indicando una persona di fiducia, la quale, qualora sopravvenga uno stato di incapacità naturale valutato irreversibile, è autorizzata a prestare o negare il proprio consenso ai trattamenti sanitari. Qualora la proposta trovasse il consenso dei parlamentari, la Carta di autodeterminazione si collocherebbe non più sul piano dell'etica, ma su quello della legge.

La proposta della Carta di autodeterminazione

Fin dal primo diffondersi del movimento della bioetica in Italia ha avuto luogo una polarizzazione su due fronti: da una parte le istituzioni a orientamento cattolico, dall'altra quelle ispirate alla difesa di un approccio laico. In particolare, all'annuncio della costituzione del primo Comitato nazionale per la bioetica alcuni studiosi e cittadini, ritenendo che fosse troppo sbilanciato in senso confessionale, diedero vita alla Consulta di bioetica (Milano 1989), quale controparte laica. La Consulta si presenta come «un'associazione di cittadini che si propone di diffondere un atteggiamento aperto e libero da pregiudiziali dogmatiche nella ricerca di soluzioni ai problemi morali posti dallo sviluppo della medicina e delle scienze biologiche».

163

Per rispettare le diverse concezioni di valori morali presenti nella società la Consulta ha privilegiato, fin dall'inizio, un punto di vista sulla vita che alla sacralità contrappone la qualità. La prima prospettiva porta conseguenzialmente a una difesa a oltranza di qualsiasi espressione di vita umana, sottraendo le decisioni sulla fine della vita all'individuo. Chi promuove, invece, la qualità della vita tende a privilegiare l'autonomia individuale e a rivendicare il diritto della persona sui trattamenti medici, compresi quelli che assicurano la sopravvivenza. In concreto, per tutelare i soggetti che, per lo stato avanzato della malattia vedessero compromesse le capacità di esprimere la propria volontà, la Consulta si è fatta promotrice della Carta di autodeterminazione (o Biocard).

Si tratta di un documento a cui va riconosciuto fondamentalmente un valore morale. Non ha invece un valore giuridico obbligante, per questo può essere fuorviale chiamare queste disposizioni testamento biologico ― come viene correntemente tradotta l'espressione inglese living will ― in quanto non produce dei fatti giuridici, come un vero e proprio testamento. Chi dà disposizioni di questo genere intende vincolare i medici e i propri familiari al rispetto della misura dei trattamenti che ritiene compatibile con la propria concezione morale.

La dizione testamento biologico va presa con circospezione, tenendo presente che tanto il sostantivo quanto l'aggettivo che lo qualifica sono da intendere in senso lato. Mentre un testamento vero e proprio, infatti, produce gli effetti dopo la morte, il documento di cui si parla dovrebbe entrare in funzione prima, per poter influire sulla morte stessa; biologico, poi, vuol indicare una concezione della vita in cui gli aspetti spirituali hanno una priorità di valore rispetto a quelli somatici: praticamente, dunque, il contrario di quanto il termine biologico lascia intendere. La Caritas svizzera, che ha espresso un esplicito sostegno per queste direttive, ha optato per chiamarle disposizioni del paziente: un'espressione

La Carta di

autodeterminazione

vincola

il medico

e i familiari

solo in termini morali

164

molto blanda, che rinuncia al pathos evocato da quelle affini. La Consulta di bioetica preferisce parlare di Carta di autodeterminazione o Biocard. Riportiamo nelle pagine che seguono, a titolo esemplare, il modello diffuso dalla Consulta (lo si trova su Internet, all'indirizzo: www.consultadibioetica.org).

Al di là delle differenti accentuazioni, tutti i documenti di questo genere tendono a mettere dei limiti: colui che sottoscrive dichiara di rinunciare all'ambiguo "beneficio" di pratiche mediche che possono prolungare la vita biologica anche in presenza di danni cerebrali profondi e irreversibili, che rendono impossibile la vita cosciente, o in condizioni di degrado fisico che fanno ritenere soggettivamente la vita come una condanna peggiore della morte.

In filigrana vediamo il profilo dell'angoscia relativa alla morte propria del nostro tempo. In epoca romantica la paura irrazionale si sedimentava attorno alla morte apparente. Truci storie di persone sepolte vive, destinate a un tragico risveglio nella tomba, toglievano il sonno a molti. C'era anche chi si premuniva da questa eventualità chiedendo un supplemento di morte (magari con il classico spillone che trapassasse il cuore). Il nostro immaginario di abitanti della città tecnologica è sconvolto da altri fantasmi. Noi siamo angosciati dalla prospettiva di finire attaccati a macchine che ci impediscano di morire. Abbiamo paura non del medico distratto, che per errore ci dichiari morti mentre siamo ancora vivi, ma di quello che si accanisca a tenerci in vita, quando questa è una pura sopravvivenza biologica, sprovvista di caratteristiche umane.

Il timore dell'accanimento terapeutico (un mito tipico del nostro tempo, nutrito dai racconti dell'agonia interminabile di alcuni moribondi illustri, come Tito, il generalissimo Franco e l'imperatore Hirohito: il non invidiabile privilegio dei potenti di oggi sembra essere quello di attirare su di sé una medicina che si accanisce a non lasciar morire) sta alla base del diffondersi del testamento biologico. Può sorprendere sapere che anche istituzioni di matrice cattolica, come la Caritas svizzera, si facciano paladine di documenti rivolti ad assicurare un controllo previo sulle modalità di trattamenti medici da ricevere sul finire della vita. I credenti che promuovono questa pratica tendono a considerarla come un elemento di una "diakonia" più complessa e articolata che persegue la Chiesa quando si occupa dei sofferenti nella società. Questo compito ecclesiale oggi comporta, con riferimento a coloro che affrontano la fase terminale della vita, la

165

difesa prioritaria della dignità, in vita e in morte. Nel contesto della nostra cultura tecnologica non ci si può limitare a proclamare e tutelare il valore della vita: bisogna difenderne anche la dignità, offesa da certe modalità del morire medicalizzato.

Tuttavia nella nostra società non c'è consenso riguardo all'opportunità di diffondere il ricorso a questo tipo di documenti. Le riserve vengono da più parti. Coloro a cui sta a cuore che anche nella fase terminale non si abdichi al criterio etico della sacralità della vita, criticano il riferimento al criterio della dignità. Temono che, adottandolo in modo esclusivo, ci si esponga a decisioni arbitrarie di ogni genere, compreso il ricorso all'eutanasia per liberare certi poveri esseri dal peso di una indegna degradazione.

Chi è mosso da preoccupazioni giuridiche rimprovera ai testamenti biologici di creare confusione rispetto alle responsabilità legali del medico. Questi è tenuto a rendere conto del suo operato, se non corrisponde ai criteri previsti dalla legge. Se sottopone un paziente a un trattamento insensato, può essere chiamato a risponderne davanti a un tribunale. Ma ciò non si applica solo nel caso di una persona che abbia espresso la sua volontà mediante una disposizione previa, bensì per ogni paziente. Se poi si volesse attribuire a questo tipo di documenti un valore legale, non si farebbe che attribuire allo Stato il compito di risolvere problemi che l'individuo non sa risolvere.

I medici sono, in genere, fortemente critici nei confronti del ricorso alle disposizioni anticipate. Le vedono come un atto burocratico, che tende a espropriarli del compito di capire la singola situazione, creando la categoria generica del malato terminale, nei confronti della quale tenere un comportamento standardizzato. Non mancheranno di ricordare l'uno o l'altro episodio di malati che, salvati dal coma mediante l'impiego di quanto oggi la tecnologia rianimativa mette a disposizione, hanno ringraziato il medico e benedetto la circostanza che questi non sia venuto a conoscenza che il

Paura della

morte

apparente

e timore dell'accanimento terapeutico.

Vecchie e

nuove paure

che guidano

le nostre scelte

166

paziente aveva fatto un testamento biologico, oppure non ne abbia tenuto conto... In ogni caso per i medici il diffondersi di queste disposizioni suona come sfiducia nei loro confronti, come se ormai fosse tramontato il tempo in cui ci si poteva affidare alle loro decisioni.

I sanitari, tuttavia, non hanno fiducia nelle capacità del corpo professionale di prendere le migliori decisioni in caso di pazienti privi della competenza decisionale. È quanto emerge da una ampia inchiesta svolta tra medici e infermieri degli Ospedali Riuniti di Bergamo (cfr. Un tempo, un luogo per morire, ed. Zadigroma, 2003, pp. 73-102). Alla domanda: «Se una patologia le impedisse di esprimere la sua volontà, che cosa o chi meglio potrebbe garantire il rispetto dei suoi desideri in merito alle cure?», solo il 4,9% dei sanitari ha dichiarato che medici e infermieri saprebbero agire nel loro interesse, mentre il 50,5% si affida piuttosto a una dichiarazione autografa in cui siano esplicitati i trattamenti che desidera ricevere e quelli che preferisce siano omessi.

Una visione totalmente negativa del ruolo svolto dalle direttive anticipate non è giustificata. Ma questo strumento di atti dispositivi per essere utile deve restare entro il rapporto medico-paziente, non sostituirsi a esso. Non è finalizzato a far fare economia di dialogo, ma piuttosto a portare il medico più vicino alla prospettiva soggettiva del malato, mettendosi in ascolto dei suoi valori.

Il cammino verso la ristrutturazione dei rapporti tra sanitari e persone assistite sul versante della vita che finisce è indubbiamente lungo. Abbiamo ragione di temere le scorciatoie costituite da norme che non nascono da una rielaborazione culturale. Sembra destinata al fallimento anche la semplice imposizione di modelli estranei alla nostra tradizione (in questo ambito la contrapposizione tra cultura latina e cultura anglosassone non è pura retorica!). Il cammino più sicuro è quello lungo, che passa attraverso la ricerca empirica, la formazione del personale sanitario e l'educazione dei cittadini. Nella cultura civica, che la scuola è tenuta a trasmettere ai giovani di oggi, bisognerà prevedere un capitolo in aggiunta alle conoscenze relative alla struttura dello Stato e al funzionamento delle istituzioni: l'insieme dei diritti e dei doveri nei rapporti con i professionisti sanitari. Solo questa cultura partecipativa diffusa permetterà a ogni cittadino di diventare un soggetto responsabile nelle decisioni che riguardano la vita, dalla nascita alla morte.

167

BIOCARD CARTA DI AUTODETERMINAZIONE

Carta di autodeterminazione n. __________

Sig/ra _________________________ nato/a a ______________________

il _____________ residente a ________________________

Via ______________________ tel. ____________________

Alla mia famiglia, ai medici curanti e a tutti coloro che saranno coinvolti nella mia assistenza.

Io sottoscritto/a, essendo attualmente in pieno possesso delle mie facoltà mentali, dispongo quanto segue in merito alle decisioni da assumere qualora mi ammalassi:

● Voglio essere informato sul mio stato di salute, anche se fossi affetto da malattia grave e inguaribile Sì No

● Voglio essere informato sui vantaggi e sui rischi degli esami diagnostici e delle terapie Sì No

● Autorizzo i curanti ad informare, anche senza il mio consenso, le seguenti i persone: Sì No

Chi ha scelto “No” riguardo alla disposizione 1 può terminare qui la compilazione apponendo una firma

Firma _______________

Data _______________

Chi invece ha scelto “Sì riguardo alla disposizione 1 è opportuno che prosegua la lettura in modo da formulare altre disposizioni di carattere generale e particolare.

Sono consapevole che potrebbe accadermi in futuro di perdere la capacità di decidere o di comunicare le mie decisioni, ma, poiché voglio esercitare comunque il mio diritto di scelta, formulo qui di seguito alcune disposizioni che desidero vengano rispettate. Resta inteso che queste disposizioni perdono il loro valore qualora, in piena coscienza, io decida di annullarle o di sostituirle con altre.

DISPOSIZIONI GENERALI

So che si definiscono oggi “provvedimenti di sostegno vitale” le misure urgenti senza le quali il processo della malattia porta in tempi brevi alla morte. Esse comprendono la rianimazione cardiopolmonare in caso di arresto cardiaco, la ventilazione assistita, la dialisi (rene artificiale), la chirurgia d’urgenza, le trasfusioni di sangue, le terapie antibiotiche e l’alimentazione artificiale. Sono consapevole che, qualora venissero iniziati e proseguiti su di me tutti i

168

possibili interventi capaci di sostenere la mia vita, potrebbe accadere che il risultato sia solo il prolungamento del mio morire o il mio mantenimento in uno stato di incoscienza o di demenza. Formulo perciò le seguenti scelte riguardo ai provvedimenti di sostegno vitale.

Dispongo che questi interventi:

● SIANO NON SIANO

iniziati e continuati se il loro risultato fosse il prolungamento del mio morire

● SIANO NON SIANO

iniziati e continuati se il loro risultato fosse il mio mantenimento in uno stato di incoscienza permanente e privo di possibilità di ricupero

● SIANO NON SIANO

iniziati e continuati se il loro risultato fosse il mio mantenimento in uno stato di demenza avanzata non suscettibile di ricupero

Chi ha scelto “SIANO iniziati” in tutte queste tre ipotesi, può concludere qui la compilazione apponendo una firma

Firma _______________

Data _______________

Chi ha scelto “NON siano iniziati” in almeno una di queste tre situazioni, è opportuno che continui la compilazione delle seguenti Disposizioni Particolari, che ribadiscono in modo esplicito la rinuncia o la richiesta di alcuni interventi a proposito dei quali è più facile che nascano controversie.

DISPOSIZIONI PARTICOLARI

● Dispongo che siano intrapresi tutti i provvedimenti volti ad alleviare le mie sofferenze (come l’uso di farmaci oppiacei) anche se essi rischiassero di anticipare la fine della mia vita Sì No

● Dispongo che, in caso di arresto cardiorespiratorio, nelle situazioni descritte sopra ai punti 4, 5 e 6 sia praticata su di me la rianimazione cardiopolmonare se ritenuta possibile dai curanti Sì No

● Dispongo che, nelle situazioni descritte ai punti 4, 5 e 6 qualora io non sia in grado di alimentarmi in modo naturale, sia proseguita la somministrazione artificiale di acqua e sostanze nutrienti se ritenuta indicata dai curanti

Sì No

● Altre disposizioni personali Sì No

Firma _______________

Data _______________

Le disposizioni seguenti possono essere sottoscritte indipendentemente dalle precedenti, anche se non si è eseguito alcuna scelta.

169

DISPOSIZIONI RIGUARDANTI L’ASSISTENZA RELIGIOSA

● Desidero l’assistenza religiosa di confessione No

● Desidero un funerale religioso laico

DISPOSIZIONI DOPO LA MORTE

● Dispongo di donare i miei organi a scopo di trapianto Sì No

● Dispongo di donare il mio corpo a scopi scientifici o didattici Sì No

● Dispongo che il mio corpo sia inumato cremato

Firma _______________

Data _______________

NOMINA DEL FIDUCIARIO

Consapevole del fatto che le disposizioni suddette riguardano situazioni complesse, imprevedibili, dove non sempre è agevole per i curanti esprimere una chiara valutazione del rapporto tra sofferenza e benefici di ogni singolo atto medico, nomino mio rappresentante fiduciario:

il/la Sig/ra _____________________________ nato/a ____________________

residente a ____________________________ cap ________

via ________________________________ tel __________________

che si impegna a garantire lo scrupoloso rispetto delle mie volontà espresse nella presente Carta e a sostituirsi a me per tutte le decisioni non contemplate sopra, qualora io perdessi la capacità di decidere o di comunicare le mie decisioni.

Nel caso che il mio rappresentante fiduciario sia nell’impossibilità di esercitare la sua funzione, delego a sostituirlo in tale compito:

il/la Sig/ra _____________________________ nato/a ____________________

residente a ____________________________ cap ________

via ________________________________ tel __________________

Questo atto avviene il _____________in presenza

il/la Sig/ra _____________________________ nato/a ____________________

residente a ____________________________ cap ________

via ________________________________ tel __________________

che attesta la veridicità della presente dichiarazione e testimonia che i Sigg.ri sopra indicati hanno accettato la delega.

Firma del sottoscrittore __________________

Firma del primo fiduciario ___________________

Firma del secondo fiduciario ___________________

Firma del testimone _____________________

170

171

CAPITOLO DODICI

A CHE ETÀ SI DIVENTA ADULTI?

I minorenni e la legge

Il medico e l'alleanza terapeutica con il minore

172

I minorenni e la legge

Il consenso informato in pediatria è un tema che va oltre l'interesse professionale dei medici che hanno a che fare con bambini e adolescenti. Riflettere su questo aspetto della pratica del consenso è un test cruciale per tutti i sanitari, quale verifica critica del loro modo profondo di pensare il consenso: tendono a farlo gravitare nell'orbita giuridico-difensiva o in quella clinica? Usano il consenso come misura di autotutela giudiziaria o come strumento per stabilire una migliore relazione con il paziente, in vista di una pratica medica che risponda alle esigenze della modernità? Per dirlo in modo estremamente sintetico: mentre la medicina paternalistica tende a trattare gli adulti come bambini, l'introduzione del consenso informato in pediatria mira a considerare anche il bambino come un adulto (almeno in misura proporzionale alla maturità raggiunta).

Il Comitato nazionale per la bioetica nel documento Informazione e consenso all'atto medico (1992) lancia una sfida ancora più difficile: nel paragrafo dedicato al consenso informato in pediatria (pp. 49-54) invita a considerare l'aspetto del consenso non come un caso particolare, con caratteristiche del tutto peculiari, del consenso informato ottenuto con gli adulti. Propone, invece, la cultura pediatrica, in quanto capace di «dare un contributo alla cultura del consenso informato», trasponendo in un ambito più generale ciò che i pediatri sanno, grazie al loro rapporto con bambini e adolescenti.

Il che implica, ancora una volta, spostare l'accento dal consenso alla comunicazione. È proprio nell'ambito comunicativo che la pediatria è più ricca di insegnamenti.

In termini strettamente giuridici, potremmo pensare che nel caso di minori sia completamente fuori luogo parlare di consenso informato. Per la tradizione giuridica, infatti, fino alla maggiore età la persona è considerata incapace di esercitare personalmente i diritti di cui è titolare. Questi vengono esercitati da un legale rappresentante, normalmente

173

i genitori, oppure ― nel caso in cui siano deceduti o decaduti dalla potestà ― da un tutore nominato dal giudice. Questo schema lineare era perfettamente adeguato finché i beni che la legge intendeva tutelare erano quelli patrimoniali: il codice garantiva la gestione dei beni del minore, mentre tutti gli altri suoi interessi erano affidati alla patria potestà.

In pratica, era il padre, non i genitori, si noti bene, ma il padre (il paternalismo tradizionale privilegiava la figura maschile e non attribuiva lo stesso valore alla volontà della madre) che deteneva il potere e prendeva le decisioni per il bene del figlio minore. Naturalmente si correva il rischio che l'interesse perseguito fosse il proprio, o della famiglia, piuttosto che quello personale del figlio.

Nelle società patriarcali (vedi le situazioni descritte da Padre padrone di Gavino Ledda) era piuttosto la regola. Il diritto, rispecchiando quella situazione culturale, non teneva conto dei beni personali come l'istruzione, la salute, l'autorealizzazione, ma considerava solo i beni patrimoniali.

L'impostazione del diritto è cambiata negli ultimi decenni. La riforma del diritto di famiglia in Italia (1975) ha riconosciuto la pari dignità di tutti i componenti della famiglia (la potestà è dei genitori, non del padre). Inoltre il contenuto stesso di tale potestà è cambiato: essa è finalizzata alla cura e all'educazione dei figli «tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli» (art. 147 c.c.).

La potestà riconosciuta ai genitori lo è esclusivamente nell'interesse dei figli, in relazione alla loro relativa maturità. Coerentemente con questa impostazione, acquistano il massimo rilievo le responsabilità dei genitori nei confronti della salute dei figli.

Mentre è comprensibile una disposizione normativa che riconosca la capacità giuridica di gestire il patrimonio solo al raggiungimento di una data età (il diciottesimo compleanno), non è pensabile di adottare questo schema

Il consenso

informato

riconosce al

bambino i diritti

dell'adulto.

Nemmeno

i genitori

possono

ignorarlo

174

ma per quanto riguarda i diritti personali. L'incapacità dei minorenni di riconoscere i propri interessi, esprimere preferenze e fare scelte è solo relativa: è proporzionale al grado di maturità. In particolare, va riconosciuto al minore il diritto alla tutela della salute, anche indipendentemente dalla volontà dei genitori, e il diritto di essere coinvolto, nella misura in cui è possibile e appropriato, nelle scelte che lo riguardano. Mentre per legge il diritto alla decisione autonoma è acquisito solo a 18 anni, la capacità di capire i problemi di salute che riguardano il giovane è presente prima di quella data (una lunga storia di malattia conferisce spesso una maturità maggiore di quella dei coetanei).

È vero che, in linea generale, ogni attività terapeutica che riguardi un minore richiede il consenso di chi esercita su di lui la potestà (i genitori) o la tutela (come avviene quando il magistrato revoca la potestà, per incapacità dei genitori di decidere nel migliore interesse del minore). Ma, anche se formalmente il consenso deve essere chiesto agli adulti che hanno la legale rappresentanza del minore, questi non può essere ignorato. Dal momento che le scelte mediche riguardano suoi diritti personalissimi e inalienabili, la volontà del minore non può essere esclusa per principio.

Nella misura in cui gli riconosciamo una personalità, con propri valori e preferenze, non è lecito privarlo del diritto di far sentire la sua voce in merito a scelte di importanza vitale determinante. In questo senso il consenso informato ha diritto di cittadinanza anche in pediatria.

Accontentarsi di acquisire il consenso da parte dei genitori o del tutore, senza che si sia fatto quanto è possibile e necessario per coinvolgere il minore nel progetto terapeutico che lo riguarda, deve essere considerato lesivo della sua dignità. Talvolta la durezza della legge dovrà prevalere, come nel caso di rifiuto del consenso dei genitori a trattamenti per il minore che i sanitari giudicano necessari (caso più tipico e frequente è il rifiuto di trasfusioni sanguigne per i figli da parte di testimoni di Geova).

I sanitari dovranno allora ricorrere al Tribunale dei minorenni, che disporrà le misure necessarie per limitare la potestà dei genitori, quando questa si traduce in danno per la salute dei figli. L'obbligo è esplicitamente previsto dal Codice deontologico dei medici italiani (1998):

Il medico, in caso di opposizione dei legali rappresentanti alla necessaria cura dei minori e degli incapaci, deve ricorrere alla competente autorità giudiziaria (art. 29).

175

Tuttavia le motivazioni che inducono alcuni genitori a rifiutare le cure per i figli devono essere ascoltate con attenzione, sia dai giudici che dai medici.

Il medico e l'alleanza terapeutica con il minore

Accettando l'invito del Comitato nazionale per la bioetica a non considerare il consenso informato in pediatria come un capitolo a parte, o un caso eccezionale, del consenso informato in generale, cerchiamo piuttosto di ripensare quest'ultimo a partire da quanto ci insegna il rapporto con bambini e adolescenti malati. Il punto di partenza non può essere che la consapevolezza della complessità dei rapporti che si stringono attorno a un bambino. Il bambino, non meno che il consenso ai trattamenti sanitari, vive immerso in un tessuto di relazioni interpersonali, delle quali ha una immediata conoscenza intuitiva.

Il sapere relazionale del bambino è enormemente sviluppato. Sfrutta al massimo la comunicazione non verbale e sa raccogliere informazioni per vie che gli adulti non immaginano. Un esempio letterario, ma più credibile di qualsiasi resoconto stilato da uno psicologo, è fornito dal seguente dialogo, immaginato dallo scrittore Wolfdietrich Schnurre (fa parte di una raccolta che contiene ipotetici dialoghi tra bambini, in questo siamo indotti a immaginare che il dialogo si svolga sulla soglia di una camera d'ospedale, in cui un bambino fa visita a un altro bambino ricoverato in una camera singola).

CAMERA SINGOLA

«Che cosa hai?»

«Qualcosa di latino. E tu?»

«Non ho più l'appendicite»

«Io ce l'ho ancora»

«Che cosa fai qui?»

«Io muoio»

176

«Quando?»

«Presto»

«Accidenti. E fino ad allora?»

«Sono contento di vivere ancora»

«Ce l'hai da molto tempo?»

«Abbastanza»

«Fa male?»

«È sopportabile»

«Come fai a saperlo?»

«Te ne accorgi»

«Nessuno te l'ha detto?»

«No; sono troppo vigliacchi»

«Fanno scena?»

«Si fanno in quattro»

«Sono radiosi?»

«Tutti. Dalle infermiere al professore»

«Hai ragione: questo è sospetto»

«Fa proprio vomitare»

«E i tuoi genitori?»

«Mio padre si limita a mandar giù in silenzio»

«E tua madre?»

«Non può farlo»

«Strano»

«Aspetta un bambino»

«Sta male?»

«Non è mai stata così bene»

«E allora perché non viene?»

«È troppo sensibile»

«Hai qualcosa contro i fratelli?»

«Al contrario: li ho sempre desiderati»

«E allora? Non sono venuti?»

«No: non li hanno voluti»

177

«E perché allora li vogliono adesso?»

«Indovina»

(da: Wolfdietrich Schnurre, Ich frage ja bloss. Kinder unter sich)

Sinteticamente, si è soliti designare la trama di rapporti che si stringono intorno a una persona malata come alleanza terapeutica. L'alleanza è tanto più efficace quanto più rispetta tutti i protagonisti nella loro specificità. Quando ha a che fare con il minore, il medico può sbagliare inclinando in due direzioni opposte: può dare o un peso eccessivo o nessun peso al ruolo che sono chiamati a svolgere i familiari. Nel primo caso, il medico delega i familiari a essere gli interlocutori con il minore, coloro che spiegano e fanno accettare le decisioni mediche. Il medico diventa così per il minore una figura distante, chiusa nell'ambito della professionalità. Nel secondo caso i sanitari tendono a escludere i genitori, o per risparmiare loro il peso emotivo delle decisioni, o perché li ritengono un elemento di disturbo, e a rivolgersi direttamente al minore, scavalcando le sue figure di riferimento. L'obiettivo a cui deve tendere l'alleanza terapeutica non è di dividere e contrapporre le figure coinvolte, ma di tenerle insieme. Non diversa dovrebbe essere la strategia anche nel caso di un consenso informato che ha come protagonisti degli adulti.

Un secondo elemento qualificante del consenso informato pediatrico è che non può limitarsi a un atto isolato, avulso da tutto il processo comunicativo. È la relazione che conta, e questa si costruisce con il tempo, mediante piccoli gesti e comportamenti apparentemente irrilevanti. Anche una piccola bugia o una reticenza di scarso rilievo possono compromettere la relazione con un bambino. E la relazione con il bambino, non meno di quella con l'adulto, comincia con l'ascolto, prima che con l'informazione.

Il clinico impara soprattutto con il bambino che per comunicare efficacemente (con tutto il groviglio di problemi

L'alleanza

terapeutica

con il minore

richiede

un equilibrato

coinvolgimento

dei genitori

178

che gli si pongono: che cosa dire e che cosa omettere; come spiegare; come trovare un accordo su quanto intende proporre) deve innanzi tutto ascoltare la persona alla quale vuole trasmettere le informazioni. In questo processo è artificiale distinguere le piccole decisioni dalle grandi. Il processo comunicativo è unitario, può essere incrementato o compromesso anche da aspetti periferici rispetto a quelle scelte di grande rilievo che si ritiene esigano il consenso informato a se stante.

Il paradigma operativo che presuppone di considerare la comunicazione come un processo unitario è anche l'approccio più corretto per il consenso informato con gli adulti.

In terzo luogo l'ambito pediatrico rende manifesto come sia facile scambiare il consenso con l'assenso. La comunicazione complementare (quella che si esprime nella relazione one up/one down) è quasi connaturata alla minore età e soprattutto all'infanzia. Finché si mantiene questo tipo di relazione, è abbastanza agevole indurre chi sta in posizione subordinata a fare ciò che ha deciso, per il suo bene, chi occupa la posizione di potere sovrastante. Con le buone (seduzione, lusinghe, ricatti affettivi) o con le cattive. La tentazione autoritaria è presente in medicina, così come in tutto il vasto ambito dell'educazione. Ma l'assenso così ottenuto è ben lontano dal consenso inteso come partecipazione attiva alle decisioni.

Nel documento Informazione e consenso all'atto medico troviamo un'opportuna differenziazione della capacità di arrivare a un consenso in base alle fasi di sviluppo cognitivo. Prima dei 6-7 anni non possiamo parlare di un consenso autonomo:

Il consenso è in qualche modo concepibile tra 7 e 10-12 anni, ma sempre non del tutto autonomo e da considerare insieme con quello dei genitori. Solo entrando nell'età adolescenziale si può pensare che il consenso diventi progressivamente autonomo.

Di conseguenza dopo i 7 anni va ricercato il consenso del bambino e dei genitori, e dopo i 14 è prioritario quello dell'adolescente. Dobbiamo considerare un fallimento clamoroso della gestione della decisione consensuale con un giovane se prevale la logica giuridica (a 18 anni meno un giorno non è autorizzato a prendere decisioni su di sé, mentre può farlo a compimento formale della maggiore età...), a danno dell'alleanza terapeutica, dell'insieme unitario del processo comunicativo, della conquista comune di un punto di accordo negoziato

179

con il minore stesso.

A conclusione possiamo citare, come esemplare, il percorso fatto dai clinici dell'Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica (Aieop) per introdurre il consenso informato inteso come una più consapevole partecipazione del malato (dei genitori) alla comprensione e condivisione di una decisione in un ambito così delicato come le malattie oncologiche di bambini e giovani. Un ruolo centrale è riconosciuto al colloquio: un incontro che richiede tempo (non inferiore alla mezz'ora, e spesso molto di più) che è tuttavia compensato da un consolidato rapporto di fiducia che facilita i rapporti successivi con la famiglia.

Può essere utile riportare lo schema formale proposto dall'Aieop per ottenere un consenso consapevole in oncologia pediatrica:

COLLOQUIO

In un ambiente riservato, alla presenza di:

● entrambi i genitori (o di chi ne fa le veci)

● il medico di famiglia (se gradito e disponibile)

● un operatore sanitario, preferibilmente l’infermiera caposala (non tanto come testimone ma come esperto che può rielaborare successivamente il colloquio con i genitori)

● il primario o un medico da lui delegato

● vengono illustrate le opzioni possibili, con relativi vantaggi e svantaggi (nel colloquio dovrebbero essere fornite tutte le informazioni ritenute necessarie perché i genitori comprendano).

Che cosa annotare nel diario della cartella clinica:

● il problema oggetto del colloquio

● sede dove è avvenuto il colloquio « tempo di inizio e fine del colloquio

● nome e qualifica dei presenti

● breve sintesi e conclusione del colloquio (diagnosi, prognosi,

Nell'ambito

dell'oncologia

pediatrica,

il consenso

richiede il

coinvolgimento di tutti

i soggetti

interessati

180

alternative terapeutiche)

● la nota nel diario va firmata dal medico che ha eseguito il colloquio (possibilmente, a giudizio del medico ― ma non strettamente necessaria ― la firma dei genitori).

Per concludere:

● eventuale firma del documento ufficiale di autorizzazione (se esiste)

● informazione e conseguimento di assenso del minore.

181

CAPITOLO TREDICI

CHI MI DA' IL TEMPO PER FARE INFORMAZIONE?

I cittadini domandano informazione

Che cosa s'intende per sanità aziendalizzata?

Riorganizzare i processi

182

I cittadini domandano informazione

Il medico che formula la domanda relativa al tempo per l'informazione merita, a priori, un alto punteggio. La domanda implica che si è reso conto che il centro del problema non è il consenso, ma l'informazione. Ottenere il consenso può essere una procedura relativamente veloce, che non muta il processo abituale di erogazione delle cure. Informare adeguatamente il paziente, invece, è un'attività che prende tempo. E il tempo è la risorsa più scarsa in sanità.

Il tempo è anche la risorsa più minacciata in una sanità che soffre per la pressione dell'economia. Quando la scure delle restrizioni cade sulla pratica quotidiana della medicina, è improbabile che si tagli sulle risorse tecnologiche considerate indispensabili per paesi ad alto sviluppo. Quando l'imperativo è l'aumento della produttività, è molto più realistico che si sacrifichi il tempo necessario per le prestazioni.

Una satira della spinta a produrre di più, a spese del tempo, è offerta dalla seguente analisi di una sinfonia in termini manageriali (che possiamo leggere pensando di trasporre la stessa logica a una prestazione medica):

Valutazione tecnico-economica di una prestazione di servizio

Oggetto: La sinfonia "Incompiuta" di Schubert, eseguita dall'orchestra filarmonica

Per un periodo piuttosto lungo i 4 suonatori di oboe non hanno avuto nulla da fare. Il loro numero dovrebbe essere ridotto e il lavoro distribuito su tutta l'orchestra, eliminando così gli sprechi di attività.

Tutti i 12 violini suonavano esattamente le stesse note. Questo sembra una inutile duplicazione e il personale di questa sezione dovrebbe essere drasticamente ridimensionato. Se fosse richiesto un gran volume di suono, si potrebbe ovviare con potenti amplificatori.

Ho notato un notevole sforzo nel rendere suoni semi-crome,

183

bis-crome e ottave. Ciò mi sembra una eccessiva raffinatezza e raccomanderei che tutte le note siano "arrotondate" alla più vicina semi o biscroma. Se ciò si potesse realizzare, sarebbe possibile utilizzare dilettanti o suonatori in addestramento e a paga più bassa. Inoltre, nessuno scopo obiettivo sembrano avere gli archi, i quali ripetono i medesimi passaggi già eseguiti dai corni.

Se tutti i passaggi ridondanti fossero eliminati, il concerto potrebbe essere ridotto da 2 ore a 2 minuti.

Se Schubert avesse prestato attenzione a questi semplici punti, probabilmente avrebbe avuto il tempo di terminare la Sinfonia.

La risposta al problema del tempo necessario per l'informazione, presupposto indispensabile per arrivare a una decisione consensuale, passa attraverso la centralità che ha acquistato la qualità nella valutazione dei servizi sanitari. L'attenzione alla qualità è stata a lungo estranea alla cultura del servizio pubblico, mentre era familiare alla sanità privata (accento sul confort, sulla qualità percepita, sulla soddisfazione degli utenti: necessariamente chi lavora nell'ambito privato deve trattare il paziente come un cliente).

Il servizio pubblico, nelle sue espressioni migliori, si è preoccupato di favorire l'accesso universale alle risorse mediche, indipendentemente dalle capacità economiche dei singoli cittadini. L'accento cadeva sul pubblico, in quanto implicava il concetto di destinazione universale, piuttosto che sulle esigenze implicite nel concetto di servizio, che richiede di prestare attenzione a chi riceve. Nella versione più degradata, il servizio pubblico è diventato sinonimo di indifferenza alla persona, quando non addirittura di disprezzo sistematico delle più elementari esigenze di rispetto (code insensate, disagi logistici, assenza di risposte alle legittime richieste di chiarimenti... insomma, quel contorno di piccole o grandi vessazioni che porta il cittadino a far equivalere

Il fattore

tempo è

indispensabile

per informare

e ascoltare.

Ma sembra

essere

la risorsa

più scarsa

184

il servizio pubblico a un sevizio).

Una testimonianza eloquente dei punti di forza e di debolezza della sanità pubblica è offerta dall'articolo pubblicato dal settimanale Newsweek nel maggio 2002. Riferisce l'esperienza maturata da una giornalista americana che vive a Roma, in occasione della malattia del suo bambino, di due settimane (Barbie Nadeau: "Next time, I'll pay"). Lo ricovera in un ospedale pubblico. Per una settimana il piccolo riceve cure adeguate ed efficaci, che comprendono anche un soggiorno nella terapia intensiva neonatale.

Alla dimissione, la madre è sorpresa di non dover pagare niente per i costosi trattamenti ricevuti: dal momento che era stato ricoverato passando per il pronto soccorso, tutte le spese erano assunte dal servizio sanitario nazionale. È felice di poter riavere il bambino guarito, ma ciò non le impedisce di scrivere un resoconto dettagliato in termini molto critici del trattamento ricevuto da lei stessa e da altre madri dal punto di vista del rispetto delle emozioni, bisogno di informazione, coinvolgimento nelle scelte. Scrive:

L'Oms ha collocato il sistema sanitario italiano tra i primi tre nel mondo. Ma secondo la mia esperienza questa valutazione è compromessa dal fatto che i diritti dei pazienti sono secondari e non viene fornita informazione ai loro familiari.

Per chi è abituato al sistema sanitario privato ― con tutte le sue complicazioni e i suoi problemi ― cercar di capire un sistema pubblico è impossibile (...).

Non c'è dubbio: il governo italiano pagherà il mio conto. Ma sembra che il costo della sanità pubblica ― per lo meno in Italia ― si paghi in termini emotivi. Siccome i pazienti e le loro famiglie non pagano direttamente i servizi, sembra che non ci si preoccupi del loro diritto a conoscere i trattamenti che ricevono i propri cari. Fatti tutti i conti, penso che la prossima volta pagherò in soldi i servizi sanitari.

Anche senza voler enfatizzare eccessivamente il valore di questa testimonianza, possiamo considerarla indicativa della crescita di nuovi parametri con cui i cittadini valutano la qualità dei servizi sanitari ricevuti. A rileggere con attenzione la storia recente della sanità italiana, era proprio a queste carenze del servizio pubblico che si intendeva mettere rimedio.

185

Che cosa s'intende per sanità aziendalizzata?

Le leggi di riordino prima e di razionalizzazione poi del Ssn sono state elaborate negli anni '90 (rispettivamente, per il riordino D. leg.vo 502/1992 e 517/1993, per la razionalizzazione D. leg.vo 229/1999). L'intento di queste leggi è stato quello di ribaltare le regole del gioco rispetto all'organizzazione precedente. A cominciare dall'aspetto economico-finanziario. I fini del Ssn, così come descritti dal primo articolo della legge 833 del 1978, vengono mantenuti ma devono essere realizzati, come prescrive il primo articolo del D. leg.vo 502, "in coerenza con l'entità del finanziamento assicurato al Servizio sanitario nazionale". In altre parole, i servizi sanitari devono essere offerti ai cittadini tenendo presente che il tetto della spesa, fissato in precedenza, non deve essere superato.

Il Piano sanitario nazionale 1994-1996 ha descritto in questi termini il nuovo scenario creato dalla riforma della riforma, presentando gli obiettivi che si deve proporre il Ssn:

I nuovi scenari sociali in cui si collocano la difesa e la promozione della salute obbligano a ripensare l'orientamento di fondo della politica sanitaria. La prima caratteristica di una prospettiva contemporanea è quella di presentarsi come un orizzonte di risorse limitate. Non esiste più il sogno utopistico di uno Stato che si propone di rispondere a tutti i bisogni di salute dei cittadini; in sanità sarà sempre più pesante la divaricazione tra domanda e offerta, perché la società invecchia ed è sempre più affetta da malattie degenerative. Questi cambiamenti di scenario impongono la dura necessità di fare delle scelte sia a livello macro sia a livello microeconomico, al fine di riuscire a massimizzare i benefici ottenibili dalle risorse disponibili.

Il cambiamento disegnato dai provvedimenti legislativi

Lo stile

aziendale

è entrato

in sanità

e con esso

la centralità

del paziente

e le strategie

collettive

186

degli anni '90 è spesso riassunto nel termine aziendalizzazione della sanità. Per parlare di azienda riferita alla sanità, senza equivoci, dobbiamo chiarire che non si tratta di trasporre nelle istituzioni che si occupano di salute (da recuperare, da promuovere, da tutelare) la filosofia delle aziende nate per produrre e commercializzare beni e servizi, obbedendo a una logica di profitto. Le parole chiave da associare all'azienda di cui si parla in sanità sono piuttosto:

L'orientamento alla soddisfazione dell'utente dei servizi

Introdurre lo stile azienda in sanità significa assumere l'atteggiamento di coloro che producono beni e servizi nei confronti dei loro clienti. La centralità del paziente, considerato come cliente dei servizi sanitari, implica un diverso modo di lavorare. Quando si parlava finora di mettere il paziente al centro delle cure si intendeva rivolgere agli operatori sanitari una esortazione morale a comportarsi bene, cioè con sensibilità, empatia, umanità, con il malato. In epoca di aziendalizzazione la centralità dell'utente significa invece l'adozione di una nuova strategia di organizzazione dei servizi, che richiede una specifica capacità manageriale.

Il coinvolgimento degli operatori nelle logiche organizzative

Sottoposta alla sfida della qualità, la vecchia mentalità aziendalistica ha dovuto adottare nuove filosofie di organizzazione e di produzione. La dichiarazione di un manager giapponese a dei colleghi inglesi, presentando loro l'orientamento vincente alla qualità totale, illustra il diverso rapporto con la creatività degli operatori:

Per voi l'essenza dal management consiste nel tirar fuori le idee dalla testa del dirigente per metterle nelle mani degli operatori (uffici e reparti). Per noi l'essenza del management è precisamente l'arte di mobilitare le risorse intellettuali di tutto il personale a servizio dell'azienda. Dato che noi abbiamo valutato meglio di voi le sfide economiche e tecnologiche, sappiamo che l'intelligenza di un gruppo di dirigenti, per quanto brillanti e capaci essi siano, non è più sufficiente per garantire il successo.

Questa filosofia è risultata vincente nella produzione di automobili e televisori; tanto più può esserlo quando si tratta di un servizio personalizzato come le cure sanitarie.

Ma richiede la rinuncia all'organizzazione gerarchica e piramidale, così caratteristica delle strutture sanitarie.

187

Il senso di appartenenza

La condivisione degli obiettivi comuni dell'azienda (mission) permette di allineare le forze di tutti gli operatori in un piano strategico comune. Ciò presuppone una cultura dell'organizzazione, che fa riferimento al modo in cui avvengono i processi di integrazione informale tra i membri dell'organizzazione e il tipo di valori sociali, conoscenze e credenze condivise che si affermano tra di loro.

La soddisfazione degli operatori

Secondo la filosofia della qualità totale, non si può fornire un prodotto eccellente se coloro che lo producono non sono attivamente coinvolti, non come piccole ruote di un ingranaggio, ma come protagonisti attivi che pensano le soluzioni e le propongono, fanno progetti e li realizzano, ottengono piccoli miglioramenti costanti (il miglioramento continuo della qualità è come una linea che si muove a spirale, in un movimento ascendente).

Il cliente soddisfatto produce, a sua volta, un fornitore di servizi soddisfatto. Con persone frustrate e demotivate non si può fare un'azienda che abbia l'eccellenza come obiettivo.

Riorganizzare i processi

L'opinione più diffusa è che le riforme che si sono succedute a ritmo incalzante nel disegno normativo della sanità pubblica fossero finalizzate unicamente a rendere sostenibile economicamente il Ssn.

Se accettiamo l'ipotesi che invece fosse centrale nel progetto introdurre il criterio della qualità, che comprende anche il punto di vista dell'utente dei servizi, acquista piena legittimità considerare il tempo dell'informazione come un elemento costitutivo della qualità stessa. La scarsità delle risorse disponibili rimane un problema, ma il modo corretto di risolverlo non può essere quello di tagliare una parte costitutiva del servizio, ovvero economizzare sul tempo riservato all'informazione.

Del rispetto

dei tempi e

delle esigenze

del consenso

informato

beneficia tutta

la struttura

sanitaria

188

L'unica risposta accettabile sarà quella che passa attraverso una riorganizzazione del lavoro.

Prendere sul serio le esigenze del consenso informato non ha ricadute importanti solo sul versante del rapporto tra operatori sanitari e pazienti, ma anche sulla struttura sanitaria, sui rapporti tra le diverse professionalità che collaborano per raggiungere lo scopo comune, nonché tra i manager che disegnano gli obiettivi dell'azienda sanitaria e i professionisti che li realizzano.

Per ottenere un'efficace informazione del paziente, i servizi e gli operatori devono comunicare tra loro. La necessità di ripetere a più riprese la richiesta del consenso informato, all'interno di uno stesso ricovero ospedaliero o di unico processo diagnostico o terapeutico frazionato in più segmenti, è un indicatore che il processo informativo non ha messo al centro il paziente. Ogni servizio lo informa per la parte di sua competenza, ma ignora il ruolo di protagonista che dovrebbe avere il soggetto.

La frammentazione assistenziale non crea solo duplicazioni inutili, che si potrebbero abolire, con risparmio di tempo, ma alimenta anche nel paziente incomprensioni e sospetti. Su questo terreno fioriscono lagnanze, proteste presso la direzione sanitaria, non di rado iniziative giudiziarie.

Il coinvolgimento dell'infermiere nell'informazione al paziente si colloca ugualmente nella prospettiva dell'ottimizzazione del processo assistenziale. Per il più frequente contatto che l'infermiere ha con il malato, può assicurare una vera continuità dell'assistenza e rafforzare l'informazione nei due sensi: rispondere a dubbi che possano sorgere nel paziente circa le informazioni, le ipotesi diagnostiche e le proposte terapeutiche da parte del medico, e riportare all'équipe medica emozioni, modifiche di atteggiamento o ripensamenti da parte del paziente. L'obiettivo della decisione consensuale prospetta un orizzonte di crescita nella capacità di lavorare in équipe.

A conforto di chi ritenga che il consenso informato non è un obbligo in più che si aggiunge alle già numerose incombenze del personale sanitario, ma un modo di organizzare il lavoro in una prospettiva di qualità, riportiamo ― in conclusione ― lo schema elaborato da un gruppo di lavoro di medici dell'area fiorentina (pubblicato su Toscana medica, febbraio 1999) che offre un sintetico riepilogo degli aspetti più operativi dell'informazione e del consenso che abbiamo considerato.

189

Metodologia in materia di consenso informato e comunicazione

● L'atto del consenso informato fa parte della relazione tra medico e paziente e in quanto tale ha rilevanti implicazioni psicologiche; l'uso di moduli scritti, pertanto, non dovrebbe mai sostituire la comunicazione diretta.

● Quando è possibile, è auspicabile che il consenso informato venga richiesto da un medico che abbia la responsabilità generale del programma terapeutico del paziente e con il quale il paziente abbia già un rapporto di conoscenza: ciò aumenterà il suo senso di fiducia, la sua disponibilità a collaborare e anche la sua comprensione.

● Per una comunicazione adeguata, occorrerà che il medico abbia a disposizione un tempo sufficiente e un ambiente tranquillo, ove la comunicazione si possa svolgere con calma, concentrazione e riservatezza.

● Nel comunicare, il medico dovrà fare attenzione non solo ai contenuti dell'informazione (tra i quali andranno sempre indicate, se esistenti, le alternative della scelta), ma anche alla modalità della comunicazione stessa: il medico dovrà infatti adattarsi in modo flessibile alle capacità di comprensione e al livello di ansia del paziente.

● Potrà essere molto utile nel momento della raccolta del consenso la presenza del personale paramedico, che, in un rapporto più stretto e continuativo con il paziente, potrà sostenerlo e confortarlo ulteriormente.

● Programmi di aggiornamento del personale al consenso informato dovrebbero includere attività specifiche di formazione agli aspetti psicologici della comunicazione.

190

191

CHECK LIST PER…

APPENDICE: CHECK LIST PER LA QUALITÀ DEL CONSENSO INFORMATO

I contenuti dell'informazione

Le modalità dell'informazione

192

Per raccogliere il consenso dei pazienti a interventi diagnostici o terapeutici (nonché a partecipare a una ricerca clinica o sperimentazione) ci si serve per lo più di un modulo. La modulistica diffusa nelle nostre istituzioni sanitarie è la più varia: qualche volta accurata, altre volte no. È stata introdotta in modo spontaneo, per lo più senza la supervisione delle direzioni sanitarie o degli uffici che promuovono la qualità.

La check list che qui presentiamo vuol essere un ausilio per verificare se la modulistica in uso corrisponde ad alcuni criteri fondamentali, che la rendono appropriata per la raccolta del consenso. Sono proposte in modo sistematico le questioni relative a che cosa viene proposto, a qual fine, da chi, in quale contesto... L'intento della check list è di focalizzare l'attenzione degli operatori sanitari su uno strumento ― il modulo di consenso ― che, se redatto bene e usato in modo corretto, può favorire il delicato processo di una decisione consensuale.

I contenuti dell'informazione

Quale proposta viene fatta al paziente?

(Per quale intervento deve essere chiesto il suo consenso?)

Descrizione essenziale della sperimentazione nell'ambito della quale viene realizzato il trattamento che sarà somministrato al soggetto, o dell'intervento diagnostico o terapeutico raccomandato dai sanitari.

Per quale fine?

(7 motivi per cui il trattamento sperimentale o l'intervento diagnostico o terapeutico devono essere eseguiti)

Sperimentazione clinica

La sperimentazione clinica di un trattamento terapeutico prevede due aspetti. Da un lato, non diversamente che per i trattamenti tradizionali, si pone la necessità di un'informazione al soggetto centrata sulla spiegazione dei motivi che giustificano la necessità di procedere all'intervento terapeutico. L'informazione deve pertanto comprendere:

● la spiegazione dei motivi che inducono il professionista sanitario a intraprendere l'intervento proposto

● le conseguenze attese sul quadro clinico

193

● le ricadute sulla qualità della vita

● la descrizione dei possibili effetti indesiderabili dell'intervento stesso (dai disturbi prevedibili e probabili, ai rischi più gravi anche se remoti)

● l'illustrazione delle conseguenze del non intervento

● l'enumerazione e la descrizione delle possibili alternative

● la descrizione degli aspetti favorevoli e avversi delle alternative stesse, e la spiegazione del perché della scelta proposta dai sanitari.

Alcune peculiarità della sperimentazione suggeriscono tuttavia di tener conto anche di altri aspetti nell'informazione al paziente, enumerati e descritti nelle linee guida europee note come Good Clinical Practice e recepite in Italia con DM 15/7/1997. Secondo questo standard di qualità l'informazione deve chiarire i seguenti punti:

● che il trattamento cui sarà sottoposto il soggetto rientra nell'ambito di uno studio e afferisce quindi all'ambito delle attività di ricerca (non si tratta pertanto di un trattamento tradizionale, già ampiamente collaudato)

● quale scopo ha lo studio

● quali sono i trattamenti previsti dallo studio e la probabilità di un'assegnazione per randomizzazione a uno dei trattamenti (spiegazione semplice del concetto di randomizzazione)

● quali sono le procedure da seguire, comprese tutte le procedure invasive; la descrizione di tali procedure, con relativi eventuali effetti indesiderabili

● le responsabilità del soggetto per la corretta esecuzione dello studio

● quali aspetti o fasi dello studio abbiano carattere completamente sperimentale, e quali rientrino in schemi terapeutici tradizionali

● i rischi o gli inconvenienti ragionevolmente prevedibili per il soggetto e, ove applicabile, per l'embrione, il feto o il neonato (riconducibili alla parte sperimentale del trattamento)

● i benefici ragionevolmente previsti, in particolare quelli non ottenibili con trattamenti tradizionali; qualora tale beneficio non sia previsto, il soggetto ne deve essere consapevole

● le procedure o i cicli di trattamento alternativi (tradizionali) e i

194

loro potenziali rischi e benefici

● l'indennizzo e/o il trattamento disponibile per il soggetto che partecipa allo studio nell'eventualità di un danno dovuto allo studio stesso

● l'eventuale rateizzazione dellndennità/rimborso per il soggetto che partecipa allo studio

● le eventuali spese previste per il soggetto che partecipa allo studio

● che la partecipazione allo studio è volontaria: il soggetto può rifiutarsi di partecipare, ritirarsi dallo studio in qualsiasi momento, senza alcuna penalità o perdita dei benefici cui il soggetto ha comunque diritto

● che agli addetti al monitoraggio dello studio, ai componenti l'IRB/IEC e alle autorità regolatone sarà consentito l'accesso alla documentazione medica originale del soggetto per una verifica delle procedure adottate nello studio e che tale accesso viene autorizzato dal soggetto all'atto della firma sul modulo del consenso informato

● che tale documentazione sarà mantenuta riservata e, in caso di pubblicazione, l'identità del soggetto sarà mantenuta segreta

● che il soggetto sarà debitamente e tempestivamente informato circa l'acquisizione di nuove conoscenze che possano influenzare la sua decisione di aderire al protocollo sperimentale

● a chi può rivolgersi il soggetto per ottenere ulteriori informazioni sullo studio e chi contattare in caso di danno correlato allo studio stesso

● per quali ragioni prevedibili la partecipazione del soggetto può essere interrotta

● la durata prevista della partecipazione del soggetto allo studio e il umero approssimativo di soggetti che vi partecipano.

Interventi diagnostici

● In fase prediagnostica la spiegazione deve partire dalla descrizione del sospetto diagnostico e deve inquadrare l'intervento richiesto in una precisa fase delltinerario da percorrere per arrivare alla diagnosi definitiva

● successivamente alla diagnosi è necessario spiegare al paziente

195

● a che cosa serve questa ulteriore indagine (definire lo stadio o la fase della malattia, accertare possibili complicazioni, appurare l'efficacia del trattamento seguito ecc.).

Interventi terapeutici

L'informazione deve essere centrata sulla spiegazione dei motivi che giustificano la necessità di procedere all'intervento terapeutico.

L'informazione deve pertanto comprendere:

● la spiegazione dei motivi che inducono il personale sanitario a intraprendere l'intervento proposto

● le conseguenze attese sul quadro clinico

● le ricadute sulla qualità della vita

● la descrizione dei possibili effetti indesiderabili dell'intervento stesso (dai disturbi prevedibili e probabili, ai rischi più gravi anche se remoti)

● l'illustrazione delle conseguenze del non intervento

● l'enumerazione e la descrizione delle possibili alternative

● la descrizione degli aspetti favorevoli e avversi delle alternative stesse, e la spiegazione del perché della scelta proposta dai sanitari.

Come?

(Le modalità di esecuzione dell'intervento)

È necessario descrivere le diverse fasi dell'intervento:

● le operatività preliminari

● le modalità di effettuazione dell'intervento vero e proprio

● la descrizione della fase immediatamente successiva all'intervento (soprattutto negli interventi chirurgici) dal punto di vista delle operatività necessarie e della eventuale sintomatologia

● la descrizione delle ulteriori, successive indagini di verifica e controllo che potranno essere realizzate in progresso di tempo (follow up), nonché dei possibili successivi interventi terapeutici e/o riabilitativi per ottenere un'adesione consapevole e motivata all'intero svolgimento dell'indagine o della cura.

196

Le modalità dell'informazione

Per un'elevata qualità dell'informazione al paziente, bisogna considerare i seguenti parametri:

● chi offre l'informazione?

● medico

● infermiere

● anestesista

● chirurgo che pratica l'intervento

● con quali strumenti?

● informazione orale

● modulo prestampato

● opuscolo illustrato

● modulo scritto dal paziente

● nelle comunicazioni scritte, quale livello di leggibilità presenta il documento in ordine ai seguenti aspetti?

● dimensione e nitidezza dei caratteri

● spaziatura delle righe

● lunghezza della documentazione

● in quale contesto?

● locali usati contemporaneamente per prestazioni ambulatoriali

● salette d'attesa

● letti nel reparto di degenza

● salette isolate appositamente destinate ecc.

● in quale momento?

● al momento del ricovero

● durante la degenza

● poco prima della prestazione

● durante l'attesa di una prestazione ambulatoriale

● poco prima dell'effettuazione della prestazione stessa

Come viene documentata l'informazione?

● viene rilasciata copia al paziente?

● da chi e dove viene conservata la documentazione?

197

Viene valutato il livello di comprensione dell'informazione da parte del paziente?

● che cosa arriva al paziente di ciò che gli viene detto?

Settori specifici

Esistono ambiti particolari dell'assistenza sanitaria che possono richiedere un approccio specifico al momento dell'informazione e consenso, in rapporto alle peculiarità delle situazioni che in tali settori si creano? (rianimazione, pediatria, vaccinazioni, malati psichiatrici ecc.)

198

199

SOLUZIONI

TEST 

Le risposte suggerite esprimono l'opinione dell'autore.

Non si può escludere che qualche lettore sia di opinione diversa.

L'autore sarà felice di confrontarsi

con chi giunge a conclusioni divergenti

gianorom@tin.it

200

Test

Che cosa si intende per consenso informato?

  dare informazioni sul proprio stato di salute al paziente che lo desidera

  favorire una più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano

  far firmare un modulo a un paziente prima di un intervento diagnostico o terapeutico

  informare il paziente dei rischi connessi con i trattamenti sanitari

  chiedere al paziente il permesso di intervenire terapeuticamente

-------------

vero / falso

□  Nel giuramento di Ippocrate e nell’etica ippocratica che a esso si ispira è presente il concetto di consenso del paziente ai trattamenti

  □ Secondo l’etica medica tradizionale il trattamento medico eseguito lege artis è da considerarsi lecito anche in assenza di consenso

  □ Nel codice di Norimberga (1946) il riferimento al consenso riguarda la sperimentazione con gli esseri umani

Nella dichiarazione di Helsinki (1962) si afferma a proposito della ricerca in medicina:

  □ Gli interessi dell'individuo devono sempre prevalere su quelli della ricerca e della società

  □ Gli interessi della ricerca e della società devono sempre prevalere su quelli dell'individuo

-------------

Negli anni 1970-80 i giudizi penali in Italia per violazione del consenso sono stati:

 meno di 5 □ tra 5 e 50 □ tra 50 e 100 □ oltre 100

-------------

«In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto da parie di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona ove non ricorrano le condizioni per le quali sia previsto dalla legge il trattamento sanitario obbligatorio».

Questo testo è tratto da:

□ La carta dei diritti del malato della regione Toscana

□ Una sentenza penale (Verona, 1991)

201

□ Il codice deontologico della Federazione nazionale dell'ordine dei medici (1998)

-------------

«Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve anzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell'intervento e sulle conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso». (Convenzione europea sui Diritti dell'uomo e la biomedicina, Oviedo 1996, articolo 5).

vero / falso

□   La Convenzione europea obbliga gli stati dell'Unione Europea che la ratificano, ad applicare le norme all'interno dei singoli ordinamenti nazionali

□   La Convenzione europea non ha valore normativo, ma solo esortativo proponendo un modello a cui gi stati sono liberi di uniformarsi

□   Le norme della Convenzione europea sono state respinte dal Parlamento italiano, in quanto non applicabili sul proprio territorio

-------------

vero / falso

□  La Federazione nazionale dell'ordine dei medici ha promosso e diffuso il documento del Comitato nazionale per la bioetica: Informazione e consenso all'atto medico (1992)

□   Il medico è tenuto a prendere le decisioni cliniche in scienza e coscienza e non deve rendere conto di esse a nessuno

□   Il paziente autonomo è quello che sceglie al posto del medico

□   Il concetto di consenso informato è entrato esplicitamente nella legislazione italiana solo con la legge 107/1990 sulle trasfusioni di sangue

□   Il paziente, una volta firmato un modulo di consenso informato, si assume ogni responsabilità sull’andamento e l’esito della procedura

□   Nel caso di un traumatizzato in stato di incoscienza, il medico deve ottenere il consenso dai parenti per le cure del caso

□   Il paziente si può affidare al medico per un intervento specifico, rinunciando a una precisa informazione sull’intervento stesso

□   Se il medico lo ritiene necessario, può cambiare tipo di intervento senza consultare nuovamente il paziente

□   La comunicazione delle alternative terapeutiche costituisce un elemento irrinunciabile per esprimere un consenso valido

202

□   Se il paziente rifiuta di firmare il modulo di consenso informato, il medico può smettere di assisterlo

□   Il principio del consenso informato si applica a ogni singola procedura diagnostica o terapeutica

□  Il Codice deontologico dei medici italiani (1998) consiglia il consenso informato in forma scritta quando «si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà della persona»

□   Il consenso in forma scritta è integrativo e non sostitutivo del processo informativo

□   Un atto medico in cui sia stato espresso un consenso informato è sempre eticamente giusto

□   Un atto medico in cui sia stato espresso un consenso informato è sempre giuridicamente lecito

□   Il modulo di consenso informato fornisce una prova di corretta informazione al paziente

□   Il consenso informato riguarda solo i maggiorenni; per chi non abbia compiuto 18 anni non è necessario ottenere il consenso dell’interessato

-------------

I seguenti brani sono tratti da diverse stesure del codice deontologico dei medici. Si chiede di segnare la data corretta per ciascun brano:

«Il medico potrà valutare l’opportunità di tenere nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti»

□ 1998 □ 1995 □ 1989 □ 1978

«Una prognosi grave e infausta può essere tenuta nascosta al malato, ma non alla famiglia»

□ 1998 □ 1995 □ 1989 □ 1978

«L'informazione ai congiunti è ammessa solo se il paziente la consente»

□ 1998 □ 1995 □ 1989 □ 1978

«L’informazione a terzi é ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente»

□ 1998 □ 1995 □ 1989 □ 1978

-------------

Il Codice deontologico dell’infermiere (1999) fa riferimento alla partecipazione dell’infermiere al consenso informato. La sua presenza serve a:

203

vero / falso

□  Testimoniare la conformità dell'atto medico alle norme che regolano il consenso

□  Collaborare per l’informazione del paziente

□  Controfirmare il modulo di consenso informato

-------------

vero / falso

□   L'infermiere professionale e il/la caposala possono informare il paziente sulle modalità di esecuzione di esami a rischio, purché siano autorizzati dal medico

□   Raccogliere la firma del paziente sul modulo è compito del personale infermieristico

[quarta di copertina]

Questo libro è dedicato ai professionisti della sanità che hanno poco tempo. Quelli che, pur essendo molto occupati, ritengono che valga la pena riflettere sul cambiamento che sta investendo l’universo della clinica e quello dei pazienti.

Nonché sul modo migliore di farvi fronte.

Nasce da un prolungato lavoro di formazione condotto con medici e infermieri. Presuppone numerose ore di ascolto delle domande sul consenso informato, di dibattiti, di ricerca comune di soluzioni eticamente giustificabili. L’etica ha molto da dire sul profilo che deve assumere la nuova relazione terapeutica. Ma non saranno gli esperti di etica a realizzarla: gli artefici potranno essere solo i professionisti sanitari.

Questo sapere pratico è loro, non devono lasciarsene espropriare né dai magistrati, né dai filosofi, né dai moralisti.

È necessario che si riapproprino dell’importante ambito costituito dalla qualità dei rapporti. Anche se hanno poco tempo.

Tags: