Etica e sanità in una società pluralistica e multiculturale

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Parte di Medicine non convenzionali series:
  • Etica e sanità in una società pluralistica e multiculturale

Sandro Spinsanti

ETICA E SANITÀ IN UNA SOCIETÀ PLURALISTICA E MULTICULTURALE

in Prospettive Sociali e sanitarie

anno XXVI, n. 21-22, 1-15 dicembre 1996, pp. 3-8

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Il rapporto tra etica, sanità e pluralismo di valori, nel concerto delle molte culture che vivono l’una accanto all’altra nella nostra società può sembrare, a una prima approssimazione, un problema artificiale. O quanto meno enfatizzato per dar materia di discussione agli intellettuali, più che un ambito della pratica medica che ponga dei reali interrogativi a chi la medicina la esercita come professione e a chi ne usufruisce come paziente. Il fatto è che l’etica medica non si è mai sentita messa seriamente in discussione dal pluralismo dei valori e dalla molteplicità delle culture. Una società pluralista e multiculturale sembra piuttosto destinata a mettere ancor più in risalto la forza dell’etica medica.

La permanenza dell’etica medica, inalterata nel tempo, costituisce un fenomeno unico nella storia della nostra civiltà. Se pensiamo ai cambiamenti avvenuti nella civiltà occidentale, dall’epoca greco-romana ad oggi, in 25 secoli di storia, non riusciamo a identificare nessun sistema di pensiero, nessuna istituzione civile o religiosa che abbia resistito alla prova del tempo, senza adattarsi e trasformarsi. La medicina stessa così come la esercitiamo oggi, non è sicuramente la medicina di Ippocrate o di Galeno, e neppure quella di Pasteur; per non parlare dei cambiamenti a cui sono soggetti i sistemi sanitari. In Italia in quindici anni abbiamo fatto la riforma sanitaria, con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, e la riforma della riforma. Eppure in questo scenario di cambiamento, di continua modellazione del pensiero e della pratica, qualcosa ha resistito alla prova del tempo: l’etica medica.

L’etica medica ha trovato un consenso stabile nelle società, malgrado tutte le trasformazioni avvenute in superficie e in profondità. Quando ci riferiamo ai valori che ci permettono di discriminare tra buona e cattiva medicina, sembra che possiamo appoggiarci su modelli transtemporali. Non è infrequente che anche ai nostri giorni vengano convocati convegni sotto l’egida dell’etica ippocratica. I punti interrogativi ― del tipo: è ancora attuale il giuramento di Ippocrate? ― hanno per lo più un valore retorico: la convinzione diffusa è che quel modello di buona medicina sfida il tempo. Un po’ come il modello del buon samaritano in ambito religioso: in ogni tempo e in ogni cultura l’etica medica si gioca intorno agli stessi valori.

Per quanto numerose siano le sollecitazioni della realtà di oggi riguardo al progresso biomedico, l’etica medica, intesa come consenso condiviso nella società sui valori ai quali deve ispirarsi una buona medicina, continua a proporsi come un modello stabile. In epoca di “pensiero debole”, l’etica medica vale invece come esempio emblematico di pensiero quanto mai forte.

La società post-moderna si dichiara ideologicamente attrezzata per far convivere la diversità di valori, di comportamenti, di morali; la tolleranza è l’acquisizione più permanente della rivoluzione liberale che ha inaugurato l’epoca moderna. Ma nella medicina vale un altro registro. Essa fa fronte alla diversità dei mondi morali di appartenenza

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presupponendo implicitamente che quando si tratta della cura della malattia e della promozione della salute esista un’unica etica, e che questa etica valga per tutti. Qualunque siano le opzioni individuali riguardo alla sessualità, alla politica e alla vita privata, in medicina vale una specie di "semper et ubique”.

I principi dell’etica medica

Questa etica medica, che ha attraversato i tempi inalterata, sopravvivendo alle grandi rivoluzioni che ha conosciuto la medicina, si può circoscrivere all’interno di alcuni paletti ben definiti. Il più chiaro è quello che, nel linguaggio dei filosofi, è stato descritto come “il principio di beneficità”. In termini colloquiali, si può dire che nella medicina è considerato in accordo con l’etica ciò che è fatto per il bene del paziente. La medicina è una impresa tutta orientata ad arrecare benefici al paziente; finché la medicina può giustificare ciò che fa ― qualunque cosa sia: dalla mano sulla fronte, all’interferone, dal placebo al trapianto di organi, dall’aspirina alla manipolazione genetica ― come un beneficio arrecato alla salute del paziente, tutto è eticamente giustificabile.

Nella nostra tradizione non si registra quasi nessuna voce stonata che, cantando fuori dal coro, metta in discussione che la medicina sia per natura sua un’impresa etica, in quanto rivolta al bene delle persone. Il “quasi” restrittivo si riferisce alle critiche alla medicina nate per lo più in ambito letterario. Più precisamente, teatrale.

Se vogliamo lasciare il classico Molière, e le sue celebri frecciate contro i medici, non possiamo dimenticare, più vicino a noi cronologicamente, l’irriverente George Bernard Shaw. Alla critica delle intenzioni dei medici ha dedicato una pièce, rappresentata per la prima volta nel 1903, a Londra: Il dilemma del dottore. Il suo acume polemico non è rivolto contro la medicina in se stessa, bensì contro la presunzione della medicina di riuscire a combinare l’interesse del medico e l’interesse del paziente. Dubitando quasi che la commedia in se stessa non fosse sufficiente a esplicitare il suo assunto, Bernard Shaw ha corredato la pièce di uno scritto polemico di commento, dove leggiamo tra l’altro: “Che una nazione di uomini sani di mente, avendo constatato che la produzione di pane viene stimolata dai profitti conseguiti dai fornai, consenta ai chirurghi di trarre un profitto analogo dal taglio delle mie gambe, è un fatto di per se sufficiente a farci perdere ogni fiducia nel consorzio civile. Eppure è proprio questo quello che noi abbiamo autorizzato”.

La sofisticazione di Bernard Shaw nel Dilemma del dottore è di non mettere direttamente in questione l’interesse economico ― vale a dire: più il medico fa medicina, più taglia gambe, più prescrive farmaci, e più guadagna ― ma di introdurre sulla scena un interesse non economico: nel caso specifico, l’interesse del dottore è quello di sposarsi una possibile vedova, che avrebbe molte buone probabilità di diventare tale se non fosse lui a curare il marito tisico della signora, ma un collega di cui conosce l’incompetenza. Il sasso contro le intenzioni “benefiche” che animerebbero i medici era lanciato.

Un paio di decenni dopo un altro uomo di teatro, Jules Romains, ha messo in scena nel 1923: Il dottor Knock e il trionfo della medicina. Con il tempo, questa pièce si è affermata come una delle più radicali rimesse in discussione dalla medicina. Tutto è contenuto in “in nuce” nel titolo della tesi di laurea attribuita al dott. Knock: “Sui pretesi stati di salute”. Il sano è un malato che si ignora. La medicina equivale a un progetto di medicalizzazione intensiva della società. Nell’opera di Jules Romains ci sono già tutte le premesse per quella critica di tipo sociologico che verrà sviluppata negli anni Settanta del nostro secolo da studiosi come Ivan Illich, Jacques Attali, McKeown. Una delle illusioni più pericolose ― per riassumere la tesi centrale di Ivan Illich ― è che per avere migliore salute bisogna accrescere la quantità delle cure mediche; la medicalizzazione intensiva porta, invece, all’espropriazione della salute.

Ma, a parte queste voci dissonanti, che sono state subito emarginate, nessuno ha rimesso in discussione la convinzione generale che la medicina sia un’impresa rivolta al bene dell’uomo e quello che la medicina fa, purché porti un beneficio a paziente, sia eticamente giustificato.

A questo primo pilastro dell’etica medica tradizionale corrisponde, in maniera simmetrica, la seconda convinzione: che nell’etica medica quello che si domanda al paziente è di affidarsi e di fidarsi del medico, il quale prende le decisioni, in scienza e coscienza, per il bene del paziente. “Il malato comincia a guarire ― affermava il celebre clinico spagnolo Gregorio Marañon ― quando obbedisce al medico”.

La medicina è considerata una struttura essenzialmente etica, in quanto si basa su una fiducia. Il malato confida nella correttezza del medico e nella sua disponibilità a lasciarsi guidare in modo prioritario dalla volontà di fare il bene del paziente.

La terza dimensione condivisa nella nostra società è il considerare di prendersi cura di qualcuno come una impresa sociale; più in particolare, come un problema familiare. Quando scattano le emergenze della salute noi non rileviamo la tendenza a risolverle in modo individualistico; queste situazioni scatenano piuttosto la solidarietà, provocano la mobilitazione del complesso familiare. Nella nostra tradizione noi non ci rapportiamo con il medico come un individuo ― con un suo mondo morale che è unico e irripetibile ― con un altro individuo, ma come gruppo familiare. Ci sono dei medici che non riescono a parlare con il proprio paziente nell’ambulatorio, perché il paziente ― anche adulto ― è sempre accompagnato dalla mamma, la signora dal marito, il marito dalla moglie. Come interlocutore del medico si pone sempre il gruppo familiare. Le decisioni mediche, anche nella loro dimensione etica, si scontrano con l’ethos, i valori condivisi dalla famiglia.

Questo profilo dell’etica medica ha praticamente attraversato tutti i cambiamenti, producendo un consenso fondamentale sul fatto che il medico e il paziente, il paziente e la sua famiglia, praticamente fossero dei mondi interpersonali, che condividevano gli stessi

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valori circa la salute, anche quando divergevano su altri valori sociali o etici. Era diffusa la convinzione che si possa agevolmente identificare una omogeneità sostanziale intorno a ciò che è buono, auspicabile e giusto quando si tratta di riparare o difendere la salute. Per quanto parcellizzati e divergenti possano essere gli universi morali, così che possiamo arrivare a considerarci in molti ambiti estranei gli uni con gli altri, ciò non vale quando consideriamo la salute. Nella salute non siamo stranieri morali; facciamo parte di una stessa comunità tenuta insieme da uno stesso cemento, che è l’etica medica.

In un contesto di questo genere al pluralismo morale vero e proprio viene attribuito un ruolo marginale nella società, quasi di folclore. Basti pensare che cosa succede quando di fronte a un medico in un ospedale arriva un vero “straniero morale”. Nella nostra società non riesco a trovare un esempio più chiaro per questo ruolo che il testimone di Geova, in quanto ha un universo di riferimento ― convinzioni religiose e valori morali ― che non è condiviso dalla maggior parte della società. Qualcuno ha detto che l’incubo di ogni medico è di incontrare, un giorno o l’altro, un testimone di Geova che rifiuta una trasfusione sanguigna, quando sia medicalmente indicata o addirittura assolutamente necessaria. Il campionario delle strategie messe in atto dai medici per sfuggire al confronto destabilizzante con un sistema di riferimento etico che contrasta con l’etica medica consolidata si estende dalle più grossolane ― strappare di nascosto il foglietto che proibisce la trasfusione trovato nel portafoglio del malato adulto ― alle più raffinate ― far abbassare la glicemia fino a che sopravvenga uno stato di non lucidità, per sentirsi poi giustificati a procedere in stato di necessità ―.

L’obiezione di coscienza che viene da uno straniero morale, il quale dichiara: “Piuttosto che farmi trasfondere il sangue io preferisco la morte; piuttosto il martirio che l’abiura”, non è presa sul serio dal mondo medico, forte del consenso sociale che circonda l’etica medica dell’Occidente. I pochi casi in altri ambiti della medicina che finora hanno attirato l’attenzione ― per esempio, la protesta di un iman per un espianto di organi a un giovane musulmano deceduto, in contrasto con le indicazioni etiche della sua religione ― non hanno messo seriamente in discussione la struttura monolitica dell’etica medica.

In fondo, non sentiamo che la presenza di persone con un altro universo di valori, un’altra religione, un modo diverso di concepire la vita e di legittimare l’intervento medico, minacci la solida etica medica, che ha attraversato 25 secoli di storia culturale, quale espressione di un consenso di tutti nella nostra società su ciò che è appropriato fare al malato e su quello che il malato vuole per sé.

Bioetica e pluralismo culturale

Ma è arrivata la stagione della bioetica e ha rimesso in discussione questo punto di riferimento. Dobbiamo riconoscere che l’Italia non ha svolto un ruolo attivo in quel cambiamento di rapporti tra sanitari e pazienti che si può ricondurre alla bioetica. Da noi è avvenuto piuttosto che molte istanze normative del passato si sono semplicemente riciclate come bioetica, limitandosi a cambiare etichetta. La bioetica, intesa come fondamentale rimessa in discussione in seno alla società ciò che è giusto, doveroso o appropriato nella cura della salute, ha bisogno di un contesto appropriato, che è quello del pluralismo culturale e del riconoscimento del diritto alla diversità. Non è per caso che la bioetica sia cresciuta nell’humus della società americana.

Uno studioso di bioetica molto noto, Tristam Engelhardt, ha fatto una descrizione molto vivida dei paradossi a cui si trova di fronte un americano: “Noi” ― dice sostanzialmente Engelhardt ― “dobbiamo trovare un’etica comune che valga per il mormone di Salt Lake City come per l’omosessuale militante e gay di Los Angeles, per il cattolico fondamentalista come per il battista ancora più fondamentalista del profondo Sud; per il filippino che aderisce ancora, sostanzialmente, alla lingua e ai valori morali della sua comunità come per l’intellettuale più liberal e ateo che si possa immaginare”. La bioetica americana è nata con l’intento di trovare una composizione che permetta la convivenza tra valori e stili di vita così diversi, che si traducono in scelte attinenti alla medicina e alla sanità.

L’interpretazione è valida, ma non chiarisce ancora lo spirito che anima la bioetica come movimento culturale. L’America è l’unico paese che ha avuto il coraggio di mettere nella propria costituzione, quella che ha sancito la sua indipendenza nel 1776, che ogni essere umano nasce con alcuni fondamentali diritti che gli sono stati dati da Dio, che nessuno stato può rimettere in discussione o conculcare: oltre al diritto alla vita e alla libertà, ha proclamato anche un terzo diritto, quanto mai inquietante, che nessuna altra costituzione ha mai ripreso, il diritto a cercare la felicità (the pursuit of happiness).

Questo diritto corrisponde fondamentalmente al diritto di fare per la propria vita le scelte che ognuno ritiene più consone ai propri valori e al modello di vita ideale. Nessuno stato può' dire qual è la buona vita per me; nessuna politica, nessuna legge, nessuna preoccupazione di tutela può entrare nell’ambito in cui io dò forma alla mia vita morale. Questo terzo diritto non è diventato rilevante per l’etica medica finché non è sbocciata la stagione in cui quello che la medicina può fare diventa veramente una possibilità di modificare la buona vita o la ricerca della felicità, così come ognuno soggettivamente riesce a modellarla. Finché, in altre parole, la medicina è stata fondamentalmente un’impresa, benefica sì, ma sostanzialmente impotente a modificare il corso naturale della vita con l’offerta alle persone delle alternative vere circa la durata e la qualità della vita, non è entrata in rotta di collisione con il diritto alla felicità. Lo diventa nel momento in cui la medicina può farlo; e oggi la medicina può pesantemente interferire con il progetto esistenziale del malato.

La nostra medicina ha acquistato una potenza reale che era impensabile in passato. Con gli interventi che alcuni

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definiscono di “accanimento terapeutico” ed altri semplicemente di volontà determinata di prolungare o di rendere possibile la vita in condizioni limite (pensiamo, per tutte, alla possibilità di conservare per un tempo indefinito persone in coma vegetativo permanente), si configura una situazione nuova, in cui quello che la medicina può fare può non essere in consonanza con il diritto di ciascuno di cercare la felicità o la buona vita così come desidera.

Questo fa sì che la differenza non è più soltanto tra il mormone, l’ebreo, il cattolico e l’ateo: la diversificazione passa trasversalmente dentro ogni famiglia, dentro ogni comunità di appartenenza. Nella stessa famiglia, io e il mio fratello gemello possiamo avere idee completamente diverse su ciò che è appropriato o non è appropriato per una cura della salute in armonia con il nostro desiderio di vita felice.

Questo è il luogo originario della bioetica. Essa nasce da una medicina che conosce il successo, ma allo stesso tempo deve fare i conti con il lato oscuro del successo. Conosce la disperazione di non avere più dei punti di riferimento impersonali e oggettivi, validi per tutti, ma deve assumere i punti di riferimento soggettivi dell’individuo. Ciò che vale per tutti e per ciascuno si scontra necessariamente con l’articolazione soggettiva che ognuno fa delle proprie differenze.

L’apporto della bioetica americana

Che cosa ha fatto la bioetica americana per rispondere a questa situazione? Non ha elaborato un’etica universale, quasi fosse un surrogato della morale religiosa. Nella nostra società non è venuta meno solo la forza compaginante delle religioni, ma anche l’illusione illuminista di trovare nella ragione un discorso che valga per tutti e per ciascuno nella società ad un livello minimo. Dobbiamo arrivare a un altro modo di approcciare i problemi e di proporre norme. L’apporto della bioetica americana è stato quello di elaborare una lingua franca pensata in modo da valere per tutti. È la lingua dei principi.

Riprodotto in termini molto semplici, l’approccio dei principi può essere ricondotto al seguente ragionamento: ognuno di noi ha una comunità morale di appartenenza, di tipo religioso o di tipo laico, che condivide determinati valori; ognuno di noi ha delle preferenze individuali, delle opzioni, delle scelte di vita che nascono da una certa gerarchia di valori. Senza annullare tutte queste differenze, possiamo tuttavia trovare un accordo nella società su alcuni principi fondamentali che devono essere rispettati.

I quattro principi con i quali le nostre scelte si devono confrontare sono: il principio della beneficità (purtroppo il termine inglese “beneficence” è stato tradotto infelicemente in italiano come principio della beneficenza; in italiano suscita sempre molta ilarità quando si dice che i medici devono agire secondo il principio della beneficenza...; in realtà questo principio coincide con quello che conosciamo dalla tradizione dell’etica medica: fare il bene del malato), il principio della non maleficità (ovvero di non procurare un danno al malato), il principio dell’autonomia, il principio della giustizia.

Questi principi fondamentali formano un quadro analitico generale, un linguaggio morale comune in una società pluralista. Anche se non sono facilmente traducibili in regole operative. I principi valgono “prima face”, cioè valgono a meno della dimostrazione del contrario. Il principio è vincolante, a meno che non entri in conflitto con un altro principio.

Questo approccio dei principi ha avuto molto successo, ma ha creato anche una certa delusione. Perché questi principi, che suonano molto chiari e convincenti finché li enunciamo in astratto, ci abbandonano quando di fatto entriamo nelle decisioni concrete, quando ci troviamo, come medici o come malati, di fronte a delle alternative. Il sistema dei principi, dopo aver contribuito alla diffusione e alla popolarità di immagine della bioetica come discorso pubblico, specialmente nei paesi anglosassoni, è stato rimesso in discussione dagli studiosi della disciplina.

Raanan Gillon, uno studioso inglese, pur difendendo e proponendo questi principi, ha proposto un’immagine molto interessante, che forse si avvicina un po’ di più a quello che facciamo tutti in realtà. A suo avviso, i principi non vanno presi come degli assoluti, nel senso che un solo principio ― come “fare il bene del paziente”, oppure rispettare “l’autonomia del paziente” ― ci risolva tutti i problemi. All’illusione che ci sia una specie di regole prescrittive, che una volta formulate ci dicono cosa bisogna fare ora, in questo momento, o qualcosa come un algoritmo dal quale ricavare il comportamento che si addice alla situazione, noi dobbiamo sostituire l’immagine del giocoliere.

Un bravo giocoliere è tanto più abile quante più palle sa tenere per aria per un periodo più lungo di tempo. Nella bioetica che si affida ai principi ― afferma Raanan Gillon ― non possiamo scegliere un solo principio per esempio: fare il bene del malato; oppure affidarsi, come in genere preferisce la bioetica americana che è molto individualista, alla volontà del malato, cosicché l’unica condizione da rispettare sia la sua decisione, sulla base del “consenso informato” ― e attenerci a questo solo principio. Piuttosto dobbiamo tenere, come un giocoliere, in movimento più palle ― più principi ―tutti quanti insieme; sapendo già in anticipo ― commenta in maniera realistica lo studioso inglese ― che succederà prima o poi che una palla cada a terra e tutti quelli che sono attorno additeranno la palla caduta, non quelle che siamo riusciti a tenere in movimento. Tutti diranno: “Ah, ecco, hai infranto il principio dell’autonomia del paziente, hai infranto il principio della giustizia”, senza considerare quali e quante acrobazie abbiamo fatto per salvare il maggior numero di valori in gioco...

La teorizzazione dei principi di Diego Gracia

Per quanto interessante possa essere questo approccio teorico, dichiaro che la mia preferenza va alla teorizzazione dei principi proposta dallo studioso

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spagnolo Diego Gracia, di cui le edizioni San Paolo hanno tradotto in italiano un’opera magistrale: Fondamenti di Bioetica. Gracia sostiene che è pienamente difendibile la tesi che questi quattro principi possono essere considerati come il sunto di tutta la storia culturale dell’occidente relativamente all’etica medica. Tuttavia non dobbiamo pensarli come posti sullo stesso piano e neppure ― secondo l’immagine di Raanan Gillon ― dobbiamo cercare di giocarli tutti quanti contemporaneamente, ma è necessario stabilire tra loro una gerarchia. Ci sono dei principi che configurano un dovere più fondamentale e irrinunciabile.

Il primo dovere è quello, che si impone sopra tutti in medicina, di non recare detrimento al paziente. Si tratta del primum: non nocere, già identificato dall’etica ippocratica. Il non fare il male a una persona è un principio non negoziabile, che per di più è sottratto alla disposizione del soggetto stesso. Ciò vuol dire che anche se un paziente pienamente capace di intendere e di volere chiedesse qualche cosa che alla valutazione della sensibilità morale della società risulta un male, siamo autorizzati a non concederlo. Il male non si deve fare neppure a chi lo chiede.

Ugualmente non negoziabile è l’altro principio fondamentale, quello della giustizia. Anche questo non dipende dalla volontà delle persone. La richiesta fondamentale della giustizia è che tutti nella nostra società debbano essere trattati con uguale considerazione e rispetto. Non c’è una vita che vale di più o una vita che vale di meno. A questo principio arriviamo sia attraverso la definizione di persona, sia attraverso la via kantiana del rispetto dell’individuo, che va trattato come fine, non come mezzo.

Diverso invece è il secondo livello regolato dai principi dell’autonomia e della beneficità. L’autonomia della persona richiede che siano rispettati i valori e le preferenze di ognuno. E la beneficità, cioè fare il bene del malato, dipende da quello che il malato, o la singola persona, valuta come il proprio bene.

La non-maleficità e la giustizia sono principi assoluti, che noi dobbiamo assolutamente rivendicare. In questa accentuazione possiamo individuare l’apporto dell’Europa, che ha una coscienza infelice nei confronti di quello che è riuscita a perpetrare conculcando queste fondamentali esigenze di rispetto dell’umanità. Infliggendo deliberatamente il male, violando l’integrità personale e la giustizia (pensiamo soltanto ai campi di sterminio nazisti), l’Europa è scesa sotto il minimo morale. Il non procurare danno agli altri e dare a tutti uguale considerazione e rispetto sono i “minima moralia” (Adorno), sotto i quali non c’è etica, anche se tutta la società, per ipotesi, fosse d’accordo. Questa prospettiva rende inaccettabile un contrattualismo in cui basta cercare il bene della maggior parte delle persone, se ciò è ottenuto ai danni di qualcuno o non attribuendo a qualche attore sociale uguale considerazione e rispetto.

La beneficità, invece, tutelata dall’autonomia, è la ricerca del massimo morale. La non maleficità e la giustizia sono il minimo morale al di sotto del quale ogni società non deve scendere; anche se vi scendesse col consenso di tutti, sarebbe una società immorale. L’autonomia e la beneficità domandano, invece, quali massimi morali che siano stabiliti con il contributo della persona.

Ciò implica che un’etica medica, che si presenti in versione aggiornata di una bioetica tutta rivolta alla difesa del minimo morale (per esempio, delle difese a oltranza di un’etica della sacralità della vita) non è sufficiente. Volenti o nolenti, siamo entrati in un’epoca in cui nelle nostre scelte dobbiamo fare i conti con il massimo morale, ovvero con quello che, soggettivamente, ciascun soggetto morale coniuga con la ricerca della felicità o del bene, con la vita morale, così come emerge dai valori e dalle preferenze individuali.

Da questa impostazione voglio trarre solo una conseguenza, relativa alla pratica del “consenso informato”. C’è un modo molto discutibile di lasciar entrare nel mondo della medicina ciò che è maggiormente caratteristico dell’era della modernità, dei diritti e dell’autonomia dell’individuo, ed è l’uso burocratico del consenso informato, ridotto a un modulo da far firmare al paziente prima di un intervento diagnostico o terapeutico. L’accento qui cade sul consenso, visto soprattutto come una pratica finalizzata all’autotutela del professionista nei confronti di possibili sequele di tipo giuridico giudiziario. Una “liberatoria” ― in parole povere ― da ottenere dal paziente.

Ma non è questo il centro di gravità della nuova medicina. Il baricentro è l’informazione, non il consenso (anche perché sappiamo benissimo che il consenso un medico lo può ottenere in tante maniere; anche senza pensare a

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mezzi scorretti, come l’estorsione o la circonvenzione, il medico può sempre far pesare in maniera inappropriata la propria autorità sulla paura del paziente!). Non è il consenso, ma l’informazione che rende possibile la partecipazione attiva del paziente nelle decisioni che lo riguardano, cosicché possa strutturare le sue scelte secondo i propri valori.

Dobbiamo procedere oltre e affermare che neppure l’informazione sarà il primo atto. La nuova medicina ― simile in questo alla buona medicina di ieri e di sempre ― comincia dall’ascolto. L’informazione, infatti, non può essere data in maniera discriminata. Bisogna cominciare con lo stabilire chi è la persona che deve essere informata, quale è il suo mondo morale, come articola la ricerca della felicità, quali sono le sue preferenze, quale è la buona vita e la buona morte per questo singolo individuo. Siamo così costretti a passare al di là del pluralismo delle culture, per confrontarci con l’unicità degli individui.

All’inizio di ogni buona pratica medica c’è un ascolto differenziato che, con una leggera forzatura, potremmo ricondurre alla domanda: “Tu a che tribù appartieni?”. Perché all’interno di un’omogeneità culturale dobbiamo riconoscere tante tribù, che articolano diversamente i propri linguaggi morali. Alla medicina di oggi domandiamo ben più della tolleranza che nasce dal riconoscimento del pluralismo delle culture: domandiamo la capacità di modellarsi sulle diverse sfaccettature dei mondi morali che nascono dai diversi modi di concepire la vita, il dolore, il ruolo della famiglia, lo spazio riservato alla scienza medica e quello proprio della religione o delle ideologie personali.

BIBLIOGRAFIA

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