Eutanasia: una sconfitta dell’uomo contemporaneo

Book Cover: Eutanasia: una sconfitta dell'uomo contemporaneo

Sandro Spinsanti

INTERVENTO

in Eutanasia: una sconfitta dell’uomo contemporaneo

Atti del Convegno presso l'Ospedale Luigi Sacco di Milano

Milano, 18-19 maggio 1985 - Coop. Editrice In Dialogo, Milano 1985

pp. 44-46

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Un mio breve intervento riguardo alla questione molto opportuna che è stata avanzata sull’etica come scienza. Già Padre Perico ha dato delle risposte molto chiare, ma probabilmente c’è un equivoco o almeno una restrizione di significato nell’idea di scienza. Abbiamo una concezione così ristretta di scienza, cioè di scienza positivistica, di scienza sperimentale, che la difficoltà di convincere un altro che la nostra posizione è etica (o che questa è la posizione etica se verificata sul modello dell’esperimento critico in medicina, in biologia, in fisica) ci porta completamente fuori strada.

L’etica è scienza in quanto è un sapere riflesso, metodologico, ma non è una scienza della natura, non è una scienza esatta e soprattutto lungi da noi il pensare di poter usare la scienza etica come un sapere ideologico, cioè come una clava da brandire in testa all’altro.

Il che è una lunga e sofferta esperienza soprattutto da noi in occidente. Oggi è stato detto che c’è una forte tendenza a ricorrere anche all’etica come sapere filosofico riflesso e sistematico, in risposta a quel grido, a quella invocazione esplicita o muta di crisi della medicina, di crisi nel medico, di inaridimento, di disaffezione alla professione, di smarrimento sul senso professionale e in questo noi arriviamo finalmente dopo molta fatica e dopo tanta resistenza anche in Italia, dopo un cammino che ha visto negli Stati Uniti anche un forte impegno economico per potenziare gli aspetti umanistici nella cultura e nella medicina in particolare, con l’istituzione in tutte le facoltà di medicina della disciplina di bioetica.

Noi in Italia con moltissime difficoltà arriviamo. La prima cattedra di bioetica è stata istituita dall’Università di Firenze e forse se i rifiuti di tipo corporativistico o di tipo scientista non faranno abortire questo inizio di rivitalizzazione della medicina, facendo affondare le radici nel suo humus umanistico, forse si potrà diffondere. Voglio citare un’altra esperienza, quella di un ospedale romano il quale ha istituito un servizio di bioetica pensato e finalizzato come assistenza data al personale, medici, infermieri, per poter portare la parola, discutere, diventare consapevoli di questi problemi etici,

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che non sono inventati ma che sorgono nella pratica della medicina, di fronte alla morte e di fronte alla vita.

Questo servizio che offre l’opportunità di diventare consapevoli dei problemi da affrontare, di curare le soluzioni attraverso il dialogo, è un servizio molto importante potendo portare un decisivo contributo a quella medicina più umana che stiamo cercando.

Quando prima veniva richiamato il rito che accompagna il morente nelle civiltà che sono diverse da noi e che non hanno avuto il progresso della scienza che abbiamo avuto noi, ci si rifaceva ad una esigenza profonda, perché il tenersi le mani che cos’è se non un rito spogliato molto modernamente di tutto il suo accompagnamento? Certamente nel rito che accompagna il moribondo vi è implicita una comprensione dell’essere umano e della morte infinitamente più profonda di quella che noi mettiamo in opera nella sala attrezzata, in cui il morente viene attaccato alla macchina, e noi sappiamo che è morto perché il cuore non pulsa più.

Noi siamo specialisti in causa-effetto e va benissimo, è la nostra specialità, ma pensare che questo sia l’unico sapere possibile, pensare che questo sapere sia adeguato di fronte a questioni come quella della morte, ne fa la nostra contraddizione. Perciò esplode la questione della tecnica, in quanto la tecnica divide, non può che fare così; ma appunto perché divide impedisce quel sapere globale e quella reazione che si cerca di attivare portando il medico, l’individuo, tutte le persone di fronte alla questione generale dell’essere vivi e dell’essere morti.

Insomma tutti sappiamo camminare, ma il maestro di ginnastica ci insegna a camminare meglio. Ma a partire dal sapere che è comune, da un mondo della vita.

Un viaggio di ritorno dal mondo della vita a questa esperienza che accomuna tutti gli uomini. Forse il pensiero occidentale, la conoscenza occidentale, devono intraprendere qualcosa che forse sta al di là del concetto, qualcosa che forse non può essere aggredito da un sapere veramente concettuale.

E questi sono gli interrogativi di fondo della filosofia e della scienza di oggi.

La mia risposta all’intervento del Prof. Catania non può entrare in merito ai tanti problemi che ha sollevato, però volevo dire che mi ha ricordato, riguardo alla domanda se sono fuori o dentro per l’essere o non essere, la vecchia barzelletta della persona che è stata in chiesa a sentire la predica e torna a casa e i suoi congiunti gli domandano: “di cosa ha parlato il parroco?”, “ha parlato del peccato!”, “ah sì? Era pro o contro?”.

È ovvio che se intendiamo l’eutanasia in quel senso, credo che siamo su una base di consenso generale, per cui non è necessario fare una retorica per dire che siamo per la vita; che la vita non deve essere distrutta da nessun punto di vista, filosofico, antropologico, etico, deontologico.

È la prospettiva che io mi sono ritagliato in questo ambito di intervento,

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cioè del rapporto medico-paziente, per la necessità di sottolineare che in questo contesto culturale concreto c’è un problema di fondo di fiducia; di sentire, da parte del paziente, il medico al suo fianco non soltanto per curarlo o dargli la possibilità di guarire ma anche per assisterlo. In questo vorrei aggiungere una piccolissima osservazione riguardo all’opportunità e al pericolo delle strutture assistenziali di tipo volontariato.

È necessario perché siamo a un cambio culturale: la medicalizzazione e l’ospedalizzazione della morte hanno cambiato faccia al nostro morire; siamo di fronte al compito di rendere umano questo momento per cui è necessario anche un intervento al di là delle strutture sanitarie, come il volontariato molto opportunamente offre. Ma il pericolo in questo potrebbe essere di una ulteriore scissione, come se al medico spettasse soltanto il compito di curare, e poi quando non può più curare e dare la salute il medico si ritira ed entra il volontario, come in passato secondo quel cliché per cui quando non c’era più niente da fare il medico si ritirava ed entrava il prete.

Ho ascoltato con molto interesse l’esperienza fatta alla Ca' Granda di quest’opera di volontariato che ha agito nel senso della sensibilizzazione e di un cambiamento delle modalità di assistenza offerta da medici e dal personale nel senso però di prendersi cura. È uno dei compiti che definisce la qualità dell’opera assistenziale medico-infermieristica e questo, quando avviene in una struttura ospedaliera porta anche a una riaffermazione nel medico e nell’infermiere della propria opera, perché l’impoverimento derivato da un approccio soltanto tecnologico, basato sul prolungamento della vita, con un senso di fallimento quando questo non è più possibile o interviene la morte del paziente, porta anche come conseguenza a una disaffezione, a un senso di frustrazione.

Nei racconti che abbiamo nella letteratura medica e assistenziale, quando avviene questa alleanza per cui il medico e l’infermiere possono assistere il malato morente fino alla fine, essi sentono una riqualificazione del proprio lavoro, una nuova carica che invece il medico e l’infermiere attestati su posizioni di accanimento terapeutico subiscono necessariamente come una frustrazione.