Hospitalitas: pro memoria per l’ospedale del futuro

Book Cover: Hospitalitas: pro memoria per l'ospedale del futuro

Sandro Spinsanti

Hospitalitas: Pro-memoria per l’ospedale del futuro

Editoriale

in L'Arco di Giano, n. 26, 2000, pp. 3-10

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EDITORIALE

Nel corso della sua storia plurisecolare l'ospedale ha cambiato volto più e più volte. Uno dei cambiamenti più radicali implicava anche una modifica del nome. È quanto aveva progettato la rivoluzione francese, che voleva accentuare il passaggio all’epoca moderna in tutte le strutture della società. L’ospedale premoderno era un luogo indifferenziato in cui il bambino si poteva trovare accanto al vecchio, lo storpio accanto al demente, la puerpera accanto al morente. Era destinato infatti a raccogliere la “fragilità” in tutte le sue forme.

Non solo la realtà dell’ospedale non rispondeva alle più elementari condizioni igieniche, ma spesso era in contrasto con il rispetto dovuto alle persone. Un rapporto redatto a Parigi dall’Accademia delle scienze nel 1787 descrive la situazione insostenibile in cui versavano gli ospedali di Parigi. Le condizioni peggiori erano quelle dell’Hôtel-Dieu, il celebre ospedale situato accanto alla cattedrale di Notre-Dame, nel quale ben un paziente su quattro decedeva in ospedale. Affermava la relazione: «Non esistono ospedali altrettanto mal situati, altrettanto chiusi, altrettanto irragionevolmente sovraffollati, altrettanto pericolosi, che riuniscono altrettante cause di insalubrità e di morte dell’Hôtel-Dieu: non esiste, no, non esiste nell’universo un rifugio per malati che, altrettanto importante per il suo fine, sia tuttavia con i suoi risultati altrettanto funesto per la società».

La critica della modernità all’ospedale dell'ancien regime fu così radicale che il Direttorio cambiò persino il nome: invece di “hôpital”, propose di chiamarlo “hospice”. Nel corso del XIX secolo è avvenuta, in realtà, un’evoluzione che ha portato a differenziare due tipi di istituzioni: l'hospice è diventato il luogo deputato a raccogliere i derelitti ― vecchi, trovatelli, malati inguaribili e affetti da malattie contagiose ― mentre l’ôpital ha assunto la funzione di luogo dove si dispensano le cure finalizzate alla guarigione. La stessa evoluzione semantica è avvenuta anche in Italia.

Sia l’ospedale che l’ospizio contengono, tuttavia, nella loro etimologia, l’“ospitalità”, ovvero la caratteristica di luogo ospitale offerto a chi è sofferente, o a chi è andato a finire sotto le ruote del carro della vita. In tutte le trasformazioni l’ospedale non si è mai staccato dall’ideale di hospitium, pensato per la

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protezione dei più vulnerabili, istituzione dove si esercita la pietas verso le persone diseredate. Anche gli aspetti dell'ospedale più disturbanti per l’immaginazione, come le sue caratteristiche di luogo chiuso e quasi concentrazionario, possono in realtà svolgere una funzione benefica di protezione. Ne ha data una rappresentazione molto positiva lo scrittore americano William Styron nel libro autobiografico in cui descrive la grave crisi depressiva, con serie minacce di suicidio, che lo ha colpito a un certo punto della sua esistenza:

In realtà l’ospedale fu la mia salvezza e, per paradossale che sia, proprio in questo luogo austero, dalle porte esterne ermeticamente serrate e dai lunghi, desolati corridoi verdi, con le sirene delle ambulanze che echeggiavano giorno e notte dieci piani sotto di me, trovai finalmente quella pace, quel sollievo alla tempesta del mio cervello che non ero riuscito a trovare nella quiete della mia casa di campagna.

In parte si deve proprio al fatto di essere segregati, al sicuro, trasferiti in un mondo nel quale l’impulso di prendere un coltello e piantarselo nel petto si vanifica allorché il depresso, per quanto ottenebrato, si accorge che il coltello con cui sta tagliando il suo orrendo hamburger è di plastica. Ma l’ospedale offre anche il trauma, mite e stranamente gratificante, di un’improvvisa stabilità, del trasferimento dall’ambiente troppo familiare di casa, dove tutto è angoscia e conflitto, a una sorta di carcere ordinato e benigno dove il tuo solo dovere è cercare di star bene (Styron, 1999, p. 80).

L’ospedale non suscita sempre associazioni mentali positive e l’ospedalizzazione non è considerata come benefica e auspicabile. Dobbiamo registrare anche forme di diffidenza tradizionale, riscontrabile in particolare nella cultura popolare. La convinzione che l’ospedale sia un luogo pericoloso per la salute e che sia meglio starne lontani il più possibile è stata espressa in modo indimenticabile in un sonetto del Belli: “Ma nun sai ch’a lo spedale ce se more?”, risponde un popolano a chi, vedendolo in cattive condizioni di salute, gli consigliava di andare all’ospedale. Si è a lungo conservata l’idea che andare

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all’ospedale significa essere avviato su un binario morto.

Accanto alla cultura popolare, che ha sempre cercato di evitare l’ospedale perché lo associa alla morte, c’è anche una tradizione più colta, rappresentata da studiosi e intellettuali che si sono opposti alla medicalizzazione (e all’ospedalizzazione) delle pratiche sanitarie, in nome della salute stessa. Il più celebre è il sociologo Ivan Illich, che con Nemesi medica. L'espropriazione della salute, del 1977, ha lanciato l’attacco più polemico alla credenza ingenua che più medicina significhi più salute. Nel capitolo dedicato alla “iatrogenesi culturale” descrive così la situazione: «L’inutilità di cure, per altro innocue, è solo il minore dei mali che l’impresa medica proliferante infligge alla società contemporanea. La sofferenza, le disfunzioni, l’invalidità e l’angoscia, conseguente all’intervento della tecnica medica, rivaleggiano ormai con la morbosità provocata dal traffico, dagli infortuni sul lavoro e dalle stesse operazioni collegate alla guerra e fanno dell’impatto della medicina una delle epidemie più dilaganti del nostro tempo. Fra i crimini che si commettono per via istituzionale, solo l’odierna malnutrizione fa più vittime della malattia iatrogena e delle sue varie manifestazioni» (Illich, 1977, pp. 33 s.).

Questa denuncia, con il suo evidente estremismo, pecca di unilateralità e si condanna all’isolamento. Affermare che i danni che provoca la medicina sono una vera e propria epidemia ha provocato un rifiuto totale da parte del mondo medico. Anche tra la diffidenza popolare, rappresentata dal popolano del Belli, e le critiche degli studiosi della medicina non si è saldata alcuna alleanza. Oggi solo qualche eccentrico ― soprattutto anziani, dei quali si può mettere in dubbio la completa lucidità nelle scelte ― continua a rifiutare di ricorrere all’aiuto che offre la medicina organizzata. In genere, invece, la popolazione fa ricorso fin troppo volentieri all’ospedale.

Anche tra gli intellettuali è rapidamente tramontata quella stagione di serrata critica della medicina, che è stata particolarmente intensa verso la fine degli anni ’70 (sembra quasi una coincidenza: nel giro di due o tre anni si sono concentrate opere di grande rilievo come Nemesi medica di Ivan Illich, L’ordine cannibale. Mita e morte della medicina di Jacques Attali (1979), La

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medicina: mito, miraggio o nemesi? di Thomas McKeown (1978) e nel 1979 L’inflazione medica di Archibald Cochrane). Quella messa sotto accusa della medicina è stata poi, a partire dagli anni ’80, metabolizzata e digerita: oggi si sentono per lo più voci come quella di Daniel Callahan, che richiamano la medicina alla dimensione del limite, ma non rimesse in discussione così radicali come quelle di una trentina di anni fa (Callahan, 2000). Anzi, la diffidenza nei confronti dell’ospedale che lo considera un luogo pericoloso oggi sembra quasi scomparsa dai costumi, tanto da indurre qualcuno a suggerire che ai nostri giorni dovremmo piuttosto inserire nell’elenco delle priorità proprio la diffusione di questo cattivo pensiero tra la popolazione.

A detta di Richard Smith, direttore del British Medical Journal, dobbiamo controbilanciare quello che stiamo facendo per migliorare i servizi sanitari — quindi sul versante dell’offerta — con un’azione mirante a modificare ciò che la popolazione si aspetta dalla medicina, quindi sul versante delle attese. Tra le opinioni che, remando controcorrente, bisogna diffondere, Smith elenca le seguenti:

― la morte è inevitabile

― la maggior parte delle malattie gravi non può essere guarita

― gli antibiotici non servono per curare l’influenza

― le protesi artificiali ogni tanto si rompono

― gli ospedali sono luoghi pericolosi

― ogni farmaco ha anche effetti collaterali

― la maggioranza degli interventi medici danno benefici solo marginali e molti non funzionano affatto

― gli screening producono anche risultati falsi-negativi e falsi-positivi

― ci sono modi migliori di spendere i soldi che destinarli ad acquistare tecnologia medico-sanitaria (Smith, 1999).

Il richiamo agli ospedali come luoghi pericolosi riecheggia un’annotazione di Florence Nightingale, la fondatrice del nursing contemporaneo che come pochi ha contribuito a dare agli ospedali la caratteristica dell’efficacia e della sicurezza. Nelle sue Notes on hospitals, del 1859, la Nightingale osserva: «Può sembrare uno strano principio da enunciare, ma ciò che dobbiamo in primo luogo richiedere a un ospedale è che non deve danneggiare il malato».

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Mentre non sembra che sia aumentata la soglia della diffidenza nei confronti degli ospedali, in quanto luoghi pericolosi, è sicuramente diminuita la fiducia nell’attendibilità dei sanitari quando presentano l’ospedale come un luogo sicuro. Per esprimere in modo semplificato il “cattivo pensiero” che circola tra la popolazione: per conoscere i pericoli che si incontrano in ospedale, o in genere in qualsiasi prestazione sanitaria che si possa ricevere dentro e fuori l’ospedale, non ci si può fidare dei sanitari, perché questi tendono a nascondere gli errori. Il sospetto che i professionisti della sanità tendano a non far conoscere gli insuccessi che dipendono da loro è suffragato da molte strategie di nascondimento degli errori. Il più grossolano è l’occultamento dei fatti (dalla manipolazione delle cartelle cliniche, dove a posteriori possono essere inseriti dati che nascondono le proprie omissioni, al tacere i danni ai pazienti ecc.).

Le nostre apprensioni, in quanto cittadini-utenti, non sono tanto nutrite dagli interventi più grossolani di nascondimento degli errori, quanto da quelli più sofisticati. Per esempio, una buona strategia è mettere in atto dei meccanismi di solidarietà corporativa, che può arrivare alla vera e propria complicità tra professionisti. L’appartenenza allo stesso corpo professionale, rafforzata dalle regole deontologiche che dissuadono dal rivelare ai “profani” le carenze dei colleghi, si traduce in una resistenza dei professionisti a rivelare un errore commesso da qualcuno di loro.

Una strategia per nascondere gli errori ancora più raffinata consiste nel mettere in grande evidenza la fallibilità. “Errare è umano”, si proclama come una constatazione evidente e indiscutibile, che dà diritto di cittadinanza all’errore in qualsiasi ambito dell’esperienza umana, compresa la medicina. Un progetto molto importante maturato negli Stati Uniti dall’Institute of medicine si presenta proprio con questo slogan: “To err is human” (Institute of medicine, 2000). Ma proprio il riconoscimento della fallibilità ― dire che siamo esseri umani e quindi sbagliamo, presentarsi non immuni dagli errori ma quasi disarmati di fronte ad essi ― si rivela come una strategia sofisticata per nascondere i peccati di omissione nei confronti degli errori.

La visione un po’ fatalista che esisteva nel passato, tradotta nel detto: “Gli errori dei medici li copre la terra” (nel senso che

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non ci si può fidare che si possa venire a conoscenza degli errori dei medici, perché con strategie o grossolane o sofisticate in ogni caso li nascondono), sta cambiando rapidamente. Nella nostra società si diffonde piuttosto la cultura del sospetto. A fronte dell’atteggiamento fatalista e rinunciatario del passato, oggi vediamo invece il proliferare di rivendicazioni di segno opposto, che consistono nell’insinuare errori dei sanitari anche quando non ci sono stati. È sufficiente che la situazione clinica evolva in un senso contrario rispetto a quello che il soggetto auspica, affinché si presupponga che ci sia stato errore.

Per questa strada l’aumento della litigiosità sta diventando un fenomeno sociale anche nella nostra società. Non lo conosciamo ancora nella misura americana, ma ci stiamo avviando verso quei traguardi (cause giudiziarie, richieste di risarcimento, aumenti di premi assicurativi per professionisti e per istituzioni), che costituiscono un grande problema sia sociale che professionale. Abbiamo bisogno di trasparenza; ma ancor più sentiamo la necessità di un patto sociale diverso, che superi il modello culturale, ormai non più proponibile, dell’intangibilità della professione medico- infermieristica, protetta da un credito senza verifiche, e sviluppi un modello alternativo, fondato sulla trasparenza.

Tra gli aspetti cruciali della transizione dell’ospedale che il dossier di questo fascicolo de L'Arco di Giano vuol documentare va attribuita grande evidenza al superamento del modello organizzativo dell’ospedale come luogo della lungodegenza. Per motivi economici e di politica sanitaria (Andrea Cambieri) e per il cambiamento di fondo del rapporto tra l’ospedale e la città (Marco Geddes da Filicaia), siamo costretti a trovare varianti moderne dell’ospedale nella sua accezione originaria, quale luogo accogliente per l’uomo fragile.

Una direzione di sviluppo è la ricomparsa, in modo del tutto inaspettato, del bisogno di “ospizio”, inteso come luogo di accoglienza per quelli che non possono essere guariti. L’hospice ― nel significato che ha assunto all’interno del movimento per le cure palliative ― sta diventando un punto forte nella politica sanitaria italiana, decisa finalmente a far entrare anche l’assistenza durante il segmento finale della vita nell’ambito dei servizi alla salute da offrire alla popolazione. L’hospice è il luogo dove si

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cerca di rendere operativo il programma racchiuso nello slogan adottato nell’Associazione italiana per le cure palliative: “Curare anche quando non si può guarire”.

Una direzione di sviluppo diversa, ma derivante dalla stessa esigenza di superare la concezione di ospedale come struttura totalizzante nell’ambito dei servizi sanitari, è quella della promozione delle cure domiciliari. Il modello di un servizio di ospedalizzazione a domicilio per malati oncologici (Adriana Turriziani) è solo una delle numerose soluzioni alternative all’ospedale che abbiamo bisogno di creare. Sullo sfondo possiamo collocare un’intuizione anticipatrice della stessa Florence Nightingale. Scrivendo nel Times del 14 aprile 1876, affermava: «Gli ospedali sono solo uno stadio intermedio della civiltà: l’obiettivo finale è quello di assistere [in inglese: to nurse] tutti i malati a casa loro».

Sullo sfondo utopico delle sfide che incombono sull’ospedale in trasformazione ci piace collocare anche l’arte (né poteva essere altrimenti in una rivista che ha fatto delle medical humanities il suo centro di gravitazione). Una testimonianza sul ruolo storico che ha avuto la musica nelle istituzioni ospedaliere della repubblica di Venezia (Marinella Laini) si accompagna a una forte perorazione per non concepire l’ospedale unicamente come cittadella della scienza, ma anche come luogo dove ha diritto di cittadinanza ciò che passa per i sensi e si traduce in ispirazione artistica (Walter Paris). Sono indicazioni che poniamo “a futura memoria” per i politici e gli amministratori che si propongono di rendere il livello dei nostri ospedali meno stridente rispetto al livello di civiltà che abbiamo raggiunto.

Con questo numero de L’Arco di Giano Sandro Spinsanti lascia la direzione della rivista. Nel rimettere l’incarico, esprime un ringraziamento allo IASS, editore de L’Arco di Giano, per la fiducia accordatagli durante gli otto anni di direzione e per il sostegno offerto nel lanciare in Italia una rivista pionieristica nelle medical humanities.

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Riferimenti bibliografici

Attali J., L'ordine cannibale. Vita e morte della medicina, Feltrinelli, Milano 1980.

Callahan D., La medicina impossibile, tr. it. Baldini & Castoldi, Milano 2000.

Cochrane A., L'inflazione medica, tr. it. Feltrinelli, Milano 1978.

Illich I., Nemesi medica. L'espropriazione della salute, tr. it. Mondadori, 1977.

Institute of medicineTo err is human. Building a safer Health system, National Academy Press, Washington 2000.

Smith R., "The NHS: possibilities for the endgame", Britih Med. Journal, 318, 1999, pp. 202-210.

Styron W., Un'oscurità trasparente, tr. it. Mondadori, Milano 1999.