Il bisturi o la penna?

Book Cover: Il bisturi o la penna?

Sandro Spinsanti

IL BISTURI O LA PENNA? MEDICI E/O SCRITTORI

in Ambienti narrativi, territori di cura e formazione

FancoAngeli srl, Milano 2016

pp. 55-64

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Il medico-letterato è una figura anomala. In passato se ne può identificare qualche raro esemplare; ma quando la pratica medica o l'arte diventano serie, non ammettono facili coabitazioni. Certo, Anton Cechov, Arthur Schnitzler, Louis-Ferdinand Céline e Michail Bulgakov ― per fare qualche nome ― sono stati sia medici che scrittori; ma, a onor del vero, li ricordiamo come medici passati alla letteratura, piuttosto che come medici-scrittori. La conoscenza diretta della medicina ha influenzato la loro scrittura, senza tuttavia essere considerata precondizione necessaria per trattare con competenza problemi di natura medico-sanitaria. Anche scrittori senza laurea in medicina possono fornire informazioni ineccepibili dal punto di vista medico. Thomas Mann, solo per fare un esempio, era solito documentarsi di prima mano presso i medici più competenti, così che le descrizioni della tisi o di altre patologie che troviamo nei suoi romanzi ― pensiamo a La montagna incantata o a I Buddenbrook ― sono assolutamente attendibili dal punto di vista medico.

L'alternativa tra il bisturi e la penna può presentarsi nella vita di qualche medico. È il caso di A.J. Cronin, ad esempio: dopo il successo del suo primo libro, La cittadella (1937), lasciò la medicina per dedicarsi alla letteratura ("Rimosso lo stetoscopio dalla mia mano, l'ho sostituito con la penna", dichiarò). Anche Richard Selzer (1999), un medico americano che con le sue Doctor stories è molto presente tra gli studenti di medicina del suo paese, ricorre alla stessa metafora per descrivere lo spostamento del centro di gravità dei suoi interessi dalla clinica all'attività letteraria:

Ho messo via il bisturi e ho preso in mano la penna. Maneggia il bisturi, e scorre sangue. Maneggia la penna e scorre inchiostro sulla pagina. Mi è congeniale suturare parole in frasi con una penna.

Non si può negare che l'esercizio, anche temporaneo, della professione medica possa aver fornito spunti a grandi scrittori. Quando Scarpetta, il padre di Eduardo De Filippo, volle favorire le doti drammaturgiche del figlio

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adolescente, gli prescrisse di andare ogni mattina in tribunale a seguire i processi penali. Dove, se non in tribunale, si assiste alla messa in scena degli esiti estremi a cui portano le diverse tipologie del carattere umano? Non meno istruttivo è lo scenario che si apre davanti al medico: praticare la medicina offre un posto in prima fila nel grande teatro della vita, con grande varietà di tragi-commedie. Il teorico del teatro Jerzy Grotowski attribuisce allo spettatore il ruolo di "testimone". Ebbene, chi meglio del professionista sanitario può essere testimone dello spettacolo che l'umanità mette in scena sul più vasto palcoscenico con le sue scelte di vita e di morte?

Più numerosi dei medici che hanno cambiato professione sono quelli che si sono avviati per una duplice carriera, cercando un equilibrio tra il bisturi e la penna. La scrittura è diventata per loro una seconda attività. Esistono associazioni di medici-scrittori, accanto ad altre che raggruppano medici-pittori o medici-musicisti. L'Associazione dei Medici Scrittori Italiani (AMSI) pubblica anche una rivista specifica: La serpe, e promuove a cadenza regolare concorsi letterari tra i suoi associati. La passione artistica non ha scalzato l'esercizio professionale della cura, ma ha trovato il modo di convivere con esso.

Anche chi non pratica la scrittura come seconda attività è incline ― almeno occasionalmente ― a prendere la strada della narrazione. Medici, infermieri e altri professionisti sanitari curano. I migliori tra loro si prendono anche cura dei malati. Così facendo vengono coinvolti in rapporti personali intensi e si trovano a conoscere vicende umane singolari. Da queste potrebbero trarre ispirazione, se fossero scrittori, per un romanzo. O almeno per un 0racconto. Già: se fossero scrittori... Ma qualche volta, pur senza esserlo, vien loro voglia di raccontare. Chissà quanti professionisti sanitari hanno nel cassetto (o piuttosto, ai nostri giorni, in un file nel computer) una raccolta delle esperienze che li hanno più colpiti nel percorso di cura.

Coltivare le arti, arricchendo la propria formazione umanistica, è un consiglio che è stato spesso rivolto a chi pratica la medicina. Tradizionalmente il medico si collocava tra le persone colte, quando cultura era sinonimo di conoscenze letterarie: magari classici della letteratura letti in originale, con buona conoscenza di greco e di latino. Come sentenziava José de Letamendi ― cattedratico di patologia generale nell'università di Madrid e umanista celebre della seconda metà del sec. XIX ― "Quien solo medicina sabe, ni aún medicina sabe" ("Chi conosce solo la medicina, non conosce la medicina"). Esprimeva con ciò la convinzione che la medicina è solo in parte il risultato di sapori riconducibili alle scienze esatte o della natura; tanto che non si può dire che conosca la medicina chi, pur conoscendo la dimensione biologica della medicina, ignori le scienze umane e le arti. Tra queste la letteratura occupa un posto di primo piano.

La figura del medico che coltiva lo spirito e amplia i propri orizzonti mediante una frequentazione attiva delle arti letterarie fa parte del nostro

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immaginario. Un'evocazione convincente è fornita da un ritrattò di medico tracciato da Claudio Magris (1996), in una piega recondita dei suoi Microcosmi:

Ongaro fa il medico; la sua pacatezza rassicurante e la sua mite e ferma precisione danno subito un senso di sollievo ai pazienti che vanno da lui con le loro ansie, i fantasmi dell'insonnia e del panico, le ossessioni coatte, il vuoto di una vita che sembra risucchiata nel buio. Lui ascolta, disponibile, senza fretta; qualcosa, nel suo viso e nel suo tratto, ricorda la linda dirittura e la malinconica bontà di Freud, corrette da una sorniona ironia. Si addentra nelle spirali dell'angoscia con la paziente leggerezza di un gatto; saggia il terreno con domande discrete, suggerisce un farmaco senza promettere miracoli, ma la zampa felina non si lascia scappare la serpe dell'ansia, l'afferra senza parere e la tira fuori, e spesso, dopo qualche tempo, le persone braccate dai demoni ritornano capaci di vivere.

Claudio Magris non manca di insinuare che esiste un legame tra la grande capacità empatica di questo medico e l'attività letteraria. Perché nei tempi liberi dal lavoro il dott. Ongaro si dedica alla scrittura creativa:

Battute di dialogo, immagini insolite, abbozzi di un carattere o di una vicenda, l'epifania di un istante, la luce di un pomeriggio o di un viso, il flash di un lampo nella pioggia, la traccia di fuoco che si alza dalla fusina e sparisce nell'aria. Intorno a quegli schizzi, si condensa a poco a poco una storia, nasce un romanzo.

Per correttezza non possiamo tacere che non sempre cultura letteraria e buona medicina sono state viste come realtà sinergiche. La letteratura e le arti, che pacificano lo spirito e promuovono l'equilibrio, possono essere anche intese come un "riposo del guerriero", quasi un momento individuale di pace interiore che però si potrebbe abbinare a una pratica della medicina che manca di qualità. L'archetipo di questa critica lo troviamo in un dialogo de Il malato immaginario di Molière. Nello scambio di battute tra Argan e suo fratello Béralde, il commediografo condensa la sua opinione negativa sulla medicina e sulla funzione puramente esornativa che attribuiva alla cultura umanistica dei medici, fatta di accademismo, lingue morte e sterile frequentazione dei classici:

Argan: I medici non sanno dunque niente, secondo voi?

Béralde: Proprio così, fratello mio. La maggior parte di loro conoscono delle bellissime humanités, sanno parlare in un latino elegante, sanno chiamare in greco tutte le malattie, le sanno definire e classificare; ma per quanto riguarda il guarirle, non sanno proprio niente (Il malato immaginario, atto III, scena 3).

Il contesto, in cui la medicina e la letteratura si incontrano oggi, non è più solo quello delle "belle lettere" come patrimonio costitutivo della cultura di un uomo superiore. Ai nostri giorni l'incontro avviene nell'ambito delle medical humanities.

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A partire dagli anni '80 del XX secolo l'avanzata del movimento rivolto a riportare l'attenzione agli human values in medicina è avvenuta principalmente all'insegna della bioetica, con un primato sempre più esplicito della filosofia morale. Tuttavia l'intersezione della medicina con le humanities nel loro insieme, e non esclusivamente con l'etica, non è mai andata completamente perduta. Nel solco delle medical humanities la pratica della narrazione ha assunto un ruolo centrale. Praticare professioni di cura e narrare sono diventate attività sempre più sinergiche.

Tra le narrazioni prodotte da medici meritano una particolare attenzione quelle che non aspirano a essere valutate con il metro della qualità letteraria, ma hanno un valore più pratico. Possono esser ricondotte a un genere particolare di storytelling, a metà strada tra l'espediente retorico e la relazione scientifica di un caso clinico. Quest'ultima ha una lunga storia in medicina, quale pilastro centrale del case management. Elaborato per lo più in forma asciutta e schematica (età del paziente, sesso, diagnosi, terapia...), può ampliarsi e differenziarsi.

Il resoconto funzionale di un caso clinico ― redatto per congressi, relazioni scientifiche, pubblicazioni, discussione multiprofessionale di casi anomali... ― acquista finalità riconducibili agli interessi delle medical humanities: favorire una reazione all'approccio riduzionistico prevalente in medicina e promuovere una comprensione, piuttosto che una spiegazione, del fatto patologico. Balzac vedeva nella gente "libri da scrivere". Anche il medico può essere incline a vedere nei pazienti non solo corpi da curare, ma storie da scrivere.

Alcune di queste narrazioni sono quasi assimilabili a opere letterarie. È quanto avviene per i casi clinici raccontati da Freud. Un ruolo di spicco ha assunto in questo ambito il neurologo Oliver Sacks. I suoi libri, a partire da Risvegli (Sacks, 1987) e L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello (Sacks, 1986) hanno avuto lettori entusiasti e hanno favorito una visione più empatica della medicina. Il materiale dei suoi racconti non lo inventa: lo attinge per lo più dalla sua pratica di neurologo. Non sono mancate critiche (come chi ha preteso di qualificarlo come "l'uomo che scambiò i suoi pazienti per racconti"...). Ma non si può negare a Sacks di essere riuscito a incarnare il modello del medico che, per curare, non usa solo il bisturi (o il fonendoscopio, il farmaco ecc.), ma anche la penna.

1. Curanti nutriti di narrazione

Robbio Turner è un giovane di ventitré anni. Dopo il college ha studiato letteratura all'Università. Ora ha un progetto più ambizioso: intende iscriversi a medicina. Punta a essere un medico di grande qualità:

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Lui sarebbe stato un medico migliore per il fatto di aver letto tanta letteratura. La sua sensibilità elaborata gli avrebbe suggerito analisi profonde della sofferenza, della follia autolesionistica o della sfortuna che conducono gli esseri umani alla malattia! Nascita, morte e in mezzo un cammino di fragilità. Principio e fine, questi i fenomeni di cui si occupava un dottore, e altrettanto faceva la letteratura.

Aveva in mente il romanzo del diciannovesimo secolo. Grande tolleranza e ampie vedute, un'umile generosità di sentimenti e l'imparzialità del giudizio; il suo modello di medico sarebbe stato aperto ai mostruosi disegni del fato, come alle vane e ridicole resistenze all'ineluttabile; avrebbe tastato polsi dal battito indebolito, ascoltato ultimi respiri, sentito mani febbricitanti farsi più fresche, e avrebbe riflettuto, come solo letteratura e religione possono insegnare a fare, sul coesistere di miseria e nobiltà nel genere umano ...

Non lasciamoci ingannare dall'eloquenza di questa pagina: lo scrittore si sta elegantemente prendendo gioco dei sogni di Robbie. Come sanno i lettori del romanzo di Ian McEwan: Espiazione (2002), Rabbie non è destinato a fare il medico. Accusato ― falsamente ― di aver abusato di una giovane donna, verrà condannato alla prigione; da cui uscirà solo arruolandosi volontario nella seconda guerra mondiale. Verrà travolto dalla sconfitta dell'esercito inglese in Francia, nella prima fase della guerra. La preparazione idealizzata da medico di Rabbie è velleitaria. Non mancano, invece, persone saldamente convinte che la letteratura svolga un ruolo non secondario nella formazione dei professionisti sanitari.

Negli Stati Uniti diverse università hanno inserito la letteratura nel percorso formativo dei futuri medici. A detta di Kathryn M. Hunter (1991), docente di letteratura nella facoltà di medicina di Galveston, nel Texas, l'onere della prova spetta non a chi vuol introdurre la letteratura nel curricolo del medico, ma a chi vorrebbe escluderla:

Come potrebbe la letteratura non far parte del curricolo medico? Questa, che è la forma più soggettiva del discorso umano, ha un'utile collocazione nella rigorosa formazione scientifica e clinica del medico. Un posto di particolare rilievo spetta alla poesia. Come il resto della letteratura ― fiction, biografia, teatro ― la poesia fornisce ai suoi lettori una descrizione della condizione umana vista dall'interno.

Sono informazioni di cui hanno estremo bisogno coloro che si orientano alla professione medica. Gli studenti di medicina sono giovani: è probabile che non siano mai stati seriamente malati; possono non aver mai conosciuto nessuno molto vecchio o morente; ai nostri giorni molti di loro hanno quattro nonni in buona salute. La letteratura fornisce a chi la legge e a chi l'ascolta l'opportunità di vedere la vita come le altre persone la sperimentano. Gli studenti possono imparare qualcosa circa ciò che significa essere malato o morente, o appartenere un'altra razza o classe sociale o sesso; possono anche intuire che cosa vuol dire essere medico.

I corsi di humanities che vengono introdotti nei programmi formativi delle facoltà di medicina più aperte all'innovazione attribuiscono un ruolo

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privilegiato alla lettura e al commento di testi di letteratura classica e moderna. In Italia si segnalano le esperienze pilota del Canale Parallelo Romano (avviato nella seconda metà degli anni '90 dall'Università La Sapienza) e dall'università Campus Biomedico. Con parole di Aldo Torsoli, promotore del Canale Parallelo: «lo studio della letteratura e dell'arte, pur non fornendo in apparenza elementi di diretto interesse per il medico, può aiutare a riconoscere e percepire emozioni, ansie e preoccupazioni, attese e modo di pensare dei malati in momenti tra i più delicati e gravi della loro vicenda esistenziale. Più importante ancora, esso favorisce l'addestramento al problem-solving, che è l'approccio proprio della funzione medica in termini pratici».

A titolo esemplificativo, i testi letterari sui quali gli studenti di medicina hanno appuntato la loro attenzione spaziano da La peste di Albert Camus a L'uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello, da La morte a Venezia di Thomas Mann all'Antigone di Sofocle, da La coscienza di Zeno di Italo Svevo a Risvegli di Oliver Sacks. I saggi degli studenti su questi e altri saggi sono riportati nella pubblicazione Scienze umane, letteratura ed arte per la medicina (Aa. Vv., 1998) che sintetizza gli sviluppi del progetto. Saremmo curiosi di sapere se il sogno abortito di Robbie Turner, di diventare un medico migliore abbinando scienza e letteratura, sia diventato realtà per questi studenti.

Mentre al Canale Parallelo Romano non è arrisa la fortuna di uno sviluppo nel tempo, molto più consistente è l'esperienza del Campus Biomedico. Il volume curato da P. Binetti e M.G. De Marinis: Il dolore narrato: pagine di letteratura (Binetti e De Marinis, 2005) offre una dettagliata panoramica di come si possa ampliare, grazie a pagine eccellenti di letteratura, la visuale dei futuri professionisti sanitari fin dal tempo della formazione universitaria. Paola Binetti, co-curatrice del volume, così giustifica il progetto:

Accade spesso che gli studenti che accedono alla Facoltà di Medicina con motivazioni che affondano le loro radici nel desiderio di impegnarsi in una relazione di cura, impregnata di pietas, si trovino catapultati, soprattutto nei primi anni, in uno studio scientifico rigoroso, ma povero sotto il profilo della esperienza umana propria della professione medica e di tutte le altre professioni sanitarie. AI senso di inadeguatezza e di estraneità, che molti sperimentano e che crea una sorta di confusa nostalgia per le proprie aspettative iniziali, subentra nella maggioranza di loro lo sforzo di adeguarsi alla nuova proposta formativa, implementando al massimo i propri processi di razionalizzazione e di sistematizzazione delle nuove conoscenze.

Questo libro vuole aiutare gli studenti a non perdere di vista il proprio patrimonio culturale umanistico, a fame piuttosto la base solida di ogni successivo approccio alle scienze umane. Non ci può essere contrapposizione tra il tempo dedicato ad affrontare i manuali di chimica, di fisica, di statistica, e la rilettura di classici che si ripresentano alla loro esperienza culturale con una nuova forza e una nuova significatività

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I corsi di lettura e di scrittura nel curriculum universitario hanno soprattutto la funzione di trasmettere un messaggio importante: la capacità narrativa non è solo una dotazione naturale, magari da riservare romanticamente a geni solitari. La capacità narrativa si può coltivare, facendone uno strumento ordinario di buona professionalità nelle relazioni di cura.

E se, invece di leggere tanta letteratura, per prepararsi a diventare un medico migliore, il nostro idealista Robbie Turner fosse andato spesso al cinema? È un'ipotesi da prendere sul serio. Ippocrate ha colonizzato prepotentemente lo schermo. Il cinema si è rivelato un efficace alleato di chi combatte, tra i vari tabù, quello della malattia da nascondere: film carichi di significato fanno della malattia una narrazione sociale condivisa, aiutano a credere nella solidarietà, inneggiano alla vita malgrado tutto l'ampio campionario di patologie che l'affliggono. Nessuna delle tematiche più inquietanti è stata risparmiata: dal cancro (si può parlare di un vero e proprio sottogenere: i cancer-movie) all'Aids, fino alle più recenti esplorazioni dei

territori della senilità e della demenza.

La pervasività dei temi medici nei film commerciali durante la lunga storia del cinema, che supera ormai il secolo, ne fa un luogo privilegiato per chi si propone un fine educativo, oltre all'intrattenimento. È esemplare l'elenco dei film che la Facoltà di Medicina dell'Università di Terranova (Canada) mette a disposizione degli studenti. Le tematiche, secondo le quali i film vengono suddivisi, prevedono malattia e società, l'ospedale, luogo insolito, corpi per l'anatomia.

Non è certamente l'unica Facoltà medica a ritenere che i film possano portare un grande contributo, proprio per il loro carattere di cultura popolare, a esplicitare le credenze e gli atteggiamenti relativi alla pratica della medicina, tanto da parte dei professionisti quanto da parte del pubblico.

Oltre al tradizionale rapporto medico-paziente, il cinema ci aiuta a evidenziare lo spazio crescente che assume la tecnologia, con le sue promesse e le sue minacce; il ruolo del servizio pubblico e quello dell'iniziativa privata; i nuovi rapporti tra i professionisti che erogano le cure e i cittadini che le ricevono; il peso crescente dell'economia sulla sanità e i problemi dell'equità di accesso ai servizi sanitari.

Nell'uso del cinema per la formazione dei futuri medici in Italia si è distinto il Laboratorio di Medical Education del Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica dell'Università di Firenze 1. Un vasto archivio filmico, articolato intorno a specifici nuclei tematici ritenuti di primaria importanza nella formazione, è messo a disposizione degli studenti per un accesso diretto. Oltre ai film veri e propri, vengono proposti documentari, serie televisive, elaborati di studenti. L'intento esplicitato dal progetto è quello di

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promuovere, mediante l'immagine visiva, un'attenzione selettiva che induca gli studenti a evidenziare informazioni ritenute non rilevanti secondo il paradigma bio-medico. Ciò per riequilibrare la formazione medica, che tende a promuovere un sapere fortemente tecnico, e per stimolare interazioni cooperative, che nascono dalla messa in comune di intelligenze e di saperi.

Le potenzialità del cinema per la formazione dei curanti collocano questo strumento in vetta alla classifica delle risorse didattiche. «Il cinema ha il merito di condensare in un lasso di tempo limitato il dipanarsi di storie lunghe una vita, delineando episodi e personaggi che diventano facilmente oggetto di discussione, riflessione, valutazione critica scientifica, etica e filosofica» (Garrino e Gregorino, 2011). Facendo nostra l'argomentazione retorica di Kathryn Hunter riguardo alla letteratura, possiamo dire: dovremmo stupirci se agli studenti di medicina e di altre professioni sanitarie non venissero proposte intense sessioni cinematografiche, non invece quando il cinema viene sistematicamente utilizzato per formare i curanti di domani!

2. La medicina è di scena

Nella primavera del 1969 un giovane studente di medicina faceva uno stage di alcuni mesi nel più grande ospedale di Boston, il Massachusetts General Hospital. Nell'autunno dello stesso anno pubblicava un libro dal titolo anodino: Five cases («Cinque casi»), ma dal contenuto appassionante. Raccontando cinque storie cliniche, metteva in luce le linee di forza del cambiamento che vedeva in atto nell'ospedale. Riguardavano lo sviluppo travolgente della chirurgia, le nuove capacità diagnostiche, la diversa organizzazione dei servizi, la crescita a freccia dei costi dei trattamenti, che avrebbe ben presto richiesto un diverso sistema di pagamento delle prestazioni: tutti aspetti della trasformazione dell'ospedale che sarebbero diventati macroscopici negli anni seguenti.

Ci voleva una particolare facoltà visiva ― e un'intelligenza fuori del comune ― per indovinare lo sviluppo quando i cambiamenti erano ancora in boccio. Ma l'acutezza non mancava allo studente di medicina che osservava lo svolgersi della vita quotidiana nel MGR: si chiamava Michael Crichton. Di lì a poco avrebbe lasciato gli studi di medicina e, dopo una deviazione per la biologia, si sarebbe dedicato alla scrittura, diventando uno dei più fortunati creatori di best seller. È diventato universalmente noto come l'ideatore di E.R. Medici in prima linea, una delle serie televisive di culto. Sfruttando il legame del suo nome con la serie, la traduzione italiana di Five cases è stata intitolata Casi di emergenza (Crichton, 1995).

Tra gli sviluppi della medicina che l'intuitivo studente aveva messo in rilievo c'era anche la tendenza a diventare sempre più frazionata in specializzazione e concentrata sugli organi da curare. Riporta, incidentalmente, la

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frase di un docente a un giovane medico in formazione, di cui" stava facendo la supervisione:

Mi parli dei reni del paziente e non dei suoi guai con la moglie.

Il docente aveva ragioni da vendere: l'ospedale è attrezzato per curare i reni, non per sanare i dissapori coniugali. Eppure nel suo atteggiamento era insita una distorsione del rapporto terapeutico che sarebbe diventata macroscopica solo con il crescere della scientificità della medicina.

L'intuizione di Crichton ha ricevuto conferme inoppugnabili nei decenni seguenti. Le straordinarie capacità terapeutiche acquisite dalla nostra medicina sembrano procedere parallelamente a un restringimento del campo visivo (to know more and more about less and less, dicono in inglese: sapere sempre più cose circa un oggetto sempre più piccolo). L'aumento della capacità di curare è pagato con la diminuzione della volontà di prendersi cura. Ascoltare il paziente (sì, i suoi problemi con la moglie..., ma non solo: il suo vissuto di malattia, le sue emozioni, i suoi valori e le sue priorità) è diventato superfluo, da quando una diagnostica sempre più sofisticata ha aumentato la capacità di far parlare i suoi organi; ancor più, di accedere alla struttura stessa biomolecolare dei mali che l'affliggono, saltando il momento del vissuto personale, la mediazione della parola. La medicina sembra così incamminata a diventare davvero la muta ars (come la chiama Virgilio nell'Eneide). Per questo la nostra medicina, efficace e potente come mai lo era stata nella storia dell'umanità, è percepita così lontana dalle persone che pur vi fanno ricorso in misura crescente.

Quello che Michael Crichton non era riuscito a cogliere, e quindi non registrava nel suo libro del 1969, era che nel grande corpo della medicina si andava profilando una risposta positiva a questa forma di malessere. Il ri-ferimento è al movimento delle medical humanities che, più e meglio della bioetica, ha saputo rendersi portavoce delle istanze di riequilibrio della pratica medica. Mentre la bioetica, infatti, ha preso ben presto la strada della prescrizione di comportamenti in armonia con le esigenze del rispetto dell'autonomia delle persone e della giustizia a livello sociale, le medical humanities hanno dato voce a un concerto polifonico di discipline e saperi che ricostruiscono tutto l'ampio spettro di un processo di cura.

Sono i saperi che "raccontano", contrapposti a quelli che "contano" (per riprendere i termini in cui T. De Mauro e M. Bernardini attualizzano il dibattito sulle due culture, quella delle scienze esatte e la cultura delle scienze umane (De Mauro e Bernardini, 2003). Gli uni e gli altri, non gli uni contro gli altri. Anche se il trattamento delle malattie croniche e le relazioni di cura con i malati che stanno andando inarrestabilmente verso la fine della vita fanno dare l'assoluta priorità al prendersi cura, all'ascolto e al dialogo nella reciprocità.

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Soprattutto negli Stati Uniti sono fiorite dalla penna dei medici innumerevoli narrazioni spesso su base aneddotica e autobiografica, di questo cambio di paradigma in medicina. Per limitarci ai medici scrittori più noti, facciamo il nome di C.W. Williams e R. Coles (1984), R. Selzer (1982), .I. Slone (1985; 1990).

A questi racconti va riconosciuto un alto valore retorico (nel senso positivo della parola, ovvero con riferimento all'arte della persuasione, sviluppando la capacità di trascinare), Una buona storia può servire a cambiare atteggiamento più di una serie inoppugnabile di dati. È necessario essere capaci di raccontare storie affascinanti, senza svilire la complessità di ciò che si racconta. Ne ha bisogno più che mai la scienza medica, che è un modo di conoscere certo, ma del tutto innaturale e contrario al senso comune. Senza svalutare questa modalità di sapere, oggettivante e riduzionistica, dobbiamo impegnarci ad abbinarla con quella prodotta dalle medical humanities.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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NOTE

1 Cfr. P. de Mennato et al. (2012); in particolare il contributo di C. Orefice (2012).