Il consenso informato in ambito terapeutico

Book Cover: Il consenso informato in ambito terapeutico

Sandro Spinsanti

IL CONSENSO INFORMATO IN AMBITO TERAPEUTICO

Prefazione a Flavio D’Abramo

 

Oh, la candida semplicità delle domande infantili: “Che cos’è?”, e soprattutto: “Perché?”. Ecco, se riuscissimo ad affrontare anche il consenso informato con quel vero - o finto … - candore e chiederci: perché viene chiesto un consenso al malato? Dopo che un professionista della salute ha ritenuto necessario e consigliabile un intervento diagnostico e terapeutico, perché viene chiesto al malato di dare un consenso a procedure rispetto alle quali non ha - per ovvie ragioni - le competenze scientifiche per valutarne l’appropriatezza? Per lo più i pazienti quel perché non hanno in animo di chiederlo al medico. Per definizione, i pazienti stanno male e non di rado sono angosciati. Per lo più mettono docilmente la firma nello spazio del modulo che viene loro indicato. Qualche volta però succede che si lascino sfuggire qualche commento, facendo trapelare l’idea che si sono fatta di quella procedura. “Così, se succede qualcosa, la responsabilità non è vostra…”. Oppure, nel migliore dei casi, un’osservazione benevola: “D’accordo, dottore, firmo. Così lei sta tranquillo…”.

E’ inequivocabile: la pratica del consenso informato, vista dalla parte del malato che la subisce, non è altro che una misura difensiva del mondo sanitario. La funzione che le viene attribuita è quella di proteggere professionisti e strutture da eventuali accuse di malpractice e da richieste di risarcimenti. Il suo scopo, non detto ma implicitamente assunto, è: “Paziente informato, medico salvato”. Ci si aspetta che quei moduli che il paziente ha firmato frettolosamente e in silenzio riemergano solo in caso di lite giudiziaria: allora saranno un testimone a discarico del professionista che ha intrapreso l’azione della cura, con i suoi rischi intrinseci. Il pensiero corre, per associazione, ai poveri sottoscrittori di obbligazioni subordinate, indotti da impiegati di banca a firmare contratti di cui non avevano capito niente; si renderanno conto, alla fine del giro, di aver perso tutti i loro risparmi e di non potersi rivalere: si trovano impiccati alla propria firma!

Era questo l’obiettivo di chi ha promosso il consenso informato nella pratica delle cure mediche? Il saggio di Flavio D’Abramo ricostruisce accuratamente il percorso che ha portato l’etica medica a staccare di ormeggi dal saldo ancoraggio, durato per secoli, al paternalismo ippocratico. Informazione e consenso sono descritti dai manuali di bioetica come i due pilastri su cui poggia la “buona medicina” dei nostri giorni. Ma la deriva ci ha portato da un’altra parte. Il consenso informato è diventato lo strumento per promuovere non una medicina buona, ma una medicina “sicura”. E ha prodotto l’accumulo di una modulistica che si frappone, come un muro di diffidenza, tra chi eroga le cure e chi le riceve.

Non pochi medici hanno vissuto la transizione nel corso della loro pratica professionale. Un chirurgo oncologo, che ha subito sulla propria pelle l’accusa ingiustificata per la morte di una giovane donna e è dovuto passare attraverso una lunga vicenda giudiziaria, ricostruisce con efficacia il percorso del consenso informato. Nell’ospedale universitario in cui si è formato il consenso all’intervento chirurgico veniva ottenuto attraverso il cosiddetto “stampone”. In pratica, un grosso timbro, apposto su una pagina della cartella clinica, che aveva il valore di una liberatoria concessa al chirurgo di fare l’intervento che riteneva più opportuno. Ai nostri giorni le cartelle cliniche sono imbottite di decine e decine di moduli, che riportano tutte le fattispecie dei rischi possibili. “Il passaggio dallo stampone all’allegato tecnico ha sancito, di fatto, il trascolare dalla fiducia totale nei confronti dell’équipe medica al contenzioso indiscriminato (Pietro Bagnoli: Reato di cura, Sperling e Kupfer, 2016).

Che cosa fare? Gli scenari delineati da Flavio D’Abramo descrivono, senza ambiguità, due strade non percorribili. Indietro, al paternalismo del passato, non si può tornare. Neppure la sua versione debole, che rinuncia alla costrizione e usa persuasione e convincimento, risponde al modello ideale della medicina che vorremmo. Ma anche la via per la quale siamo incamminati, guidati da un preteso autonomismo (del tipo: “Vuoi la pillola bianca o quella rossa? Decidi tu, paziente, e io medico eseguo – dopo che hai firmato il modulo di consenso informato…”), deve essere contrastata. Ci porta in braccio alla medicina difensiva e tradisce l’anima più profonda del rapporto di cura. Il decantato empowerment non può essere fatto equivalere a uno scarico di responsabilità sulle spalle del malato. Sono preziose, da questo punto di vista, le considerazioni contenute nel presente saggio che descrivono l’empowerment come un processo, non come un atto. E, fatto perno sullo standard della trasparenza, propongono la logica della cura basata sulla relazione.

Verso quale direzione muoversi? Nello sconvolgimento attuale dei rapporti tra chi cura e chi riceve le cure intravediamo una possibile luce. Viene dal passato (magari aveva ragione Giuseppe Verdi quando suggeriva, in tutt’altro ambito, che il vero progresso è tornare all’antico…). Non il  passato - grammaticalmente - prossimo; e neppure quello remoto. Piuttosto, il trapassato remoto. Quello che aveva ancora la lingua greca e che poi è andato perduto nelle lingue che hanno fatto seguito: il numero duale. Né “io”, né “noi”, bensì “noi due”. Che cosa fosse il duale ce lo spiega un appassionato elogio del greco, descritto come “lingua geniale”: “Il numero duale non esprimeva una mera somma matematica, uno più uno uguale due. Il duale esprimeva invece un’entità duplice, uno più uno uguale uno formato da due cose o persone legate tra loro da un’intima connessione. Il duale è il numero del patto, dell’accordo, dell’intesa. E’ il numero della coppia, per natura, o del farsi coppia, per scelta … Un modo di dare numericamente senso al mondo” (Andrea Marcolongo: La lingua geniale, Laterza 2016).

Ecco, il duale come modo per dare numericamente senso alla cura: che la relazione unica che si stabilisce tra chi offre, in scienza e coscienza, i trattamenti adeguati e chi cerca di farli aderire al proprio progetto di vita come un abito su misura possa trovare il suo modo unico e inimitabile di esprimersi. Un “duale sanitario”. We have a dream