Informazione e consenso informato del paziente

Book Cover: Informazione e consenso informato del paziente

Sandro Spinsanti

INFORMAZIONE E CONSENSO INFORMATO DEL PAZIENTE

Continuità e cambiamento nella pratica della medicina

Atti 2° Convegno Scientifico ADVAR

Treviso 20 novembre 1993

pp. 14-21

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Ha insegnato Etica Medica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore e Bioetica nella Facoltà di Medicina dell'Università di Firenze, ha diretto il Centro Internazionale di Studi Famiglia a Milano e il Dipartimento di Scienze Umane dell'Ospedale Fatebenefratelli dell'Isola Tiberina di Roma. È direttore scientifico dell'Istituto dell'Analisi dello Stato Sociale e si occupa, per conto della Regione Toscana, della formazione del personale sanitario in tematiche bioetiche. È coordinatore della ricerca presso l'Ospedale Fatebenefratelli I.T. di Roma e da ultimo, ma non per importanza, almeno per noi, è membro del Comitato Scientifico ADVAR. Ci tengo a dirlo perché per noi è molto importante e ne siamo orgogliosi. A Lei, professor Spinsanti, la parola.

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Dopo queste diverse, necessarie, utili e gradite introduzioni, io immagino che tutti abbiano una grande fretta di entrare direttamente nell'argomento. È la fretta che ho anch'io; ma permettetemi di fare invece ancora una riflessione di carattere preliminare. Vorrei portare la vostra attenzione sul fatto che noi stiamo facendo questa giornata di studio in ospedale. Questo non è di per sé un fatto scontato, perché noi in ospedale ci veniamo in genere con altre intenzioni. A meno che uno in ospedale non ci lavori, come cittadini veniamo in questo edificio per essere curati e possibilmente bene, vale a dire efficacemente: vogliamo risolvere i nostri problemi di salute e tornare via, dimenticandoci dell'ospedale. All'ospedale solitamente non veniamo per fare dei dibattiti culturali, perché l'ospedale è la nostra cittadella della cura, con le sue precise regole che ne assicurano il funzionamento. Ebbene, io vorrei sottolineare il fatto, direi quasi "destabilizzante", costituito dal venire in ospedale per fare cultura.

Noi in questa maniera diventiamo agenti ― deliberatamente, volontariamente ― di un'opera di "infezione". Portiamo dei germi in ospedale: i germi di qualche cosa che matura in genere al di fuori dall'ospedale e che in ospedale non ha udienza. In ospedale, infatti, vigono delle regole, delle attese, degli stili di comportamento da parte dei sanitari, così come da parte nostra in quanto malati ricoverati, che sono difformi rispetto a quello che vige al di fuori dell'ospedale. Portando qui l'esigenza di un comportamento diverso, veniamo ad "infettare" l'ospedale. Desidero sottolineare esplicitamente che non veniamo per essere curati e non portiamo competenze di tipo sanitario. Veniamo come cittadini estranei al 'business' dell'ospedale.

Uno storico americano ha voluto riassumere il grande cambiamento che sta avvenendo in Occidente nell'esercizio quotidiano della medicina intitolando il libro in cui racconta la nascita e lo sviluppo della bioetica in America: "Estranei al letto del malato". Secondo questo storico, il grande cambiamento che sta avvenendo si può esprimere visivamente in questo fatto: alletto del malato ci sono oggi persone che tradizionalmente

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non facevano parte di quello scenario; sono degli estranei alla pratica della medicina. È quanto si realizza anche qui, ora. Trovate qui un giudice, una psicologa, un esperto di etica. Che ci stanno a fare queste persone al letto del malato? Quale apporto possono dare a una riflessione sistematica come quella che vogliamo fare oggi sulla cultura che deve reggere i rapporti tra sanitari e cittadini-pazienti, in ospedale e fuori dall'ospedale?

Siamo estranei: questo è il primo dato da cui partire. La riflessione che noi oggi stiamo facendo di per sé non nasce dall'interno della medicina; l'ospedale in quanto istituzione, con la sua cultura, le sue tradizioni e i suoi comportamenti standardizzati, non ne sente il bisogno. La riflessione che noi proponiamo è una proposta di cambiamento che viene dal di fuori. Dal punto di vista dell'etica, questo cambiamento in atto si può riassumere dicendo che oggi sta maturando un consenso diverso rispetto a quello che è "buona medicina". L'etica ci indirizza verso quello che è bene: non in astratto, ma verso ciò che è bene per noi. Il cambiamento è appunto il fatto che oggi abbiamo attese, desideri, progetti, richieste che sono diverse dal passato.

Sostanzialmente, per tanti secoli, questo desiderio di fare buona medicina poteva essere riassunto nella preoccupazione del sanitario, medico e infermiere (al di fuori di queste professioni non c'erano altri alletto dell'infermo), di fare il bene del malato. Nel più antico documento dell'Occidente relativo all'etica medica, il giuramento d'Ippocrate, c'è una dichiarazione, la cosiddetta 'clausola terapeutica', in cui il medico promette: "Prescriverò agli infermi la dieta opportuna ― "dieta" non è il mangiare in bianco, ma il regime terapeutico globale, che comprendeva i farmaci e anche i comportamenti ― che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa". Questa brevissima frase riassumeva in maniera felice, ― tanto felice che non abbiamo sentito il bisogno di cambiarla per più di duemila anni ― tutto quello che era percepito come il dovere morale in funzione di una buona medicina. Prescrivere quello che la scienza, allo stato delle conoscenze

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attuali, conosce come vantaggioso per il malato e tutelarlo da ciò che gli può nuocere.

In questa prospettiva l'unico interesse è la salute del malato, il suo bene. La scienza mi dice quello che allo stato attuale possiamo con certezza reputare come necessario e sufficiente per il bene del malato; la coscienza mi tutela, impedendomi di inquinare questo giudizio con elementi che derivano dalle passioni umane. Questa è la formula limpida che avete sentito tante volte in bocca ai medici: "lo mi regolo secondo scienza e coscienza". Vogliamo concedere fiducia che fosse veramente così (non una formula di comodo per mascherare interessi inconfessabili, ma veramente scienza e coscienza). Lo stato attuale delle conoscenze della medicina e la vigilanza critica sul fatto che non interferissero le passioni umane erano sufficienti.

Ebbene, questo orientamento al bene del malato non basta più al giorno d'oggi. Questo è il primo fondamentale cambiamento. Così si spiega anche la difficoltà ad accettare la nuova prospettiva, in quanto il cambiamento non deve lottare contro qualcosa di vizioso, ma contro la nobile etica tradizionale del medico. Siamo costretti a dire: orientarsi al bene del malato continua a restare fondamentale, ma non basta più. Come possiamo descrivere la natura del cambiamento che sta avvenendo? Siccome abbiamo detto che noi vogliamo fare qui, questa mattina, una riflessione che cerchi di capire le cose in profondità, potremmo dire, in estrema sintesi, che la medicina sta diventando moderna.

In genere noi mettiamo sotto il termine "moderno" delle cose non propriamente pertinenti rispetto al discorso che stiamo facendo. Per esempio, diciamo: "Questo ospedale era vecchio, ma adesso si modernizza, stiamo facendo un ospedale moderno", Le cose che associamo al termine "moderno" sono: buttare giù le parti vecchie e fatiscenti, sostituire i macchinari inadeguati e vecchi con l'ultima TAC, dotare le stanze di degenza di piccoli confort ... Facciamo delle innovazioni strutturali e tecnologiche: questa è la modernità che auspichiamo per la medicina.

Non è questo il senso che la parola "moderno" ha dal

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punto di vista storiografico-culturale. L'epoca moderna è quella che comincia con un grande cambiamento avvenuto nella storia dell'Occidente attorno al 1700 e che ha nome Illuminismo. In che cosa è consistito, in termini semplici ed essenziali, questo cambiamento? Verso la fine del XVIII secolo ― nel 1792, per l'esattezza ― c'è stato un concorso bandito da un giornale tedesco. Veniva premiato l'articolo che avesse meglio risposto alla domanda: "Che cos'è l'Illuminismo?". A questo concorso ha risposto il filosofo più eccelso del tempo, Kant. Il suo articolo sul tema "Che cos'è l'Illuminismo" continua oggi, più di 200 anni dopo, ad essere un punto di riferimento.

Chi di voi ha fatto il liceo sicuramente ha incontrato questa definizione di Kant nel corso di storia della filosofia. Che cos'è l'Illuminismo? "È l'uscita, da una condizione di minorità non dovuta", rispondeva Kant. C'è una minorità dovuta ― se uno è minorenne per età o incapace di usare la ragione per infermità mentale ― ma c'è anche una minorità non dovuta, che dipende dalla rinuncia a usare la ragione e a sottomettersi ad autorità esterne. L'Illuminismo è il coraggio di usare la ragione in tutti gli ambiti della vita umana, compresa l'etica e la stessa religione. Il primo paragrafo di questo articolo finisce con una espressione latina: Sapere Aude, cioè abbi il coraggio di servirti della ragione. Questo è l'Illuminismo.

Questo programma ha operato dei grandissimi cambiamenti nella nostra cultura. La testa del re di Francia è caduta su questo presupposto. L'assolutismo ― cioè il modello politico in cui qualcuno pensa al bene degli altri, dicendo per loro ciò che è opportuno e ciò che non lo è ― ha dovuto confrontarsi con lo spirito nuovo nato dal riconoscimento dei diritti dell'individuo. In quasi tutti gli ambiti della nostra vita civile i nostri rapporti sono stati regolati dal principio dell'autodeterminazione: nessuno stabilisce al posto di un altro qual è il suo bene civile, economico, sociale, religioso, morale. Abbiamo ampiamente accettato il rischio e i benefici di servirei della nostra ragione.

Tutto questo era valido in tutti gli ambiti, meno uno:

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quello sanitario. Nella cura della salute i rapporti hanno continuato ad essere retti secondo i principi dell'assolutismo. In sanità abbiamo a lungo accettato una minorità non dovuta. C'è qualcuno che decide il bene dell'altro, anche se si tratta di un sovrano che esercita un assolutismo illuminato, benevolo, come un buon "pater familias". Procura di fare il bene dell'altro, e questi lo accetta permanendo in condizione di minor-età.

Questa condizione ha radici molto lontane, in quanto la troviamo già nella medicina greca. Secondo Aristotele, il malato è una persona tanto ferita nella sua psicologia, nelle sue emozioni, nei suoi valori, che va trattato come un bambino. La filosofia greca parla proprio di una inferiorità morale del malato. Quindi è un dovere del medico prendersi cura di questa persona fragile, che di fronte alla minaccia della salute regredisce psicologicamente in una situazione di dipendenza e si affida a colui che sa e vuole fare il suo bene. Que-sta condizione di minorità è perciò statuita culturalmente e accettata socialmente.

Quello che cambia quando la medicina diventa moderna è che questo patto non vale più. Il malato accetta il pericoloso bene dell'autonomia, decidendo di affidarsi alla sua ragione per decidere ciò che per lui è bene o male, appropriato o no rispetto ai propri fini, valori o desideri, e quindi ― in definitiva ― ciò che è buona o cattiva medicina. E questo è un cambiamento epocale. Noi speriamo che in questa rivoluzione non cada nessuna testa, neppure quella del primario più assolutista; ma il cambiamento sarà doloroso. Si tratta di accettare che non ci sia più un unico principio da considerare ― cioè fare il bene del paziente ―, ma anche altri principi.

Rispetto all'etica medica del passato è destabilizzante il fatto di considerare il paziente non più come un essere psicologicamente e moralmente ferito che va protetto, tutelato e guidato ad adattarsi alle scelte che altri hanno fatto per lui, ma come una persona che può e deve servirsi della propria ragione per prendere lui stesso le decisioni che lo riguardano. Tanto più in quanto oggi il ventaglio delle scelte nella cura della salute è diventato molto ampio. Ciò riguarda praticamente

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ogni trattamento medico, non soltanto i casi estremi e drammatici( come i dilemmi che sorgono quando ci domandiamo: questo malato lo teniamo ancora nel respiratore o decidiamo di interrompere il trattamento? In questo caso è troppo, è un eccesso, un accanimento terapeutico? ― come veniva appunto citato per il caso di Fellini ―), ma anche nei casi quotidiani e non clamorosi.

Anche nell'esercizio routinario della medicina siamo per lo più di fronte a delle pluralità di scelte, abbiamo numerose alternative di trattamento, ivi compresa l'astensione da qualsiasi trattamento. Noi abbiamo oggi una medicina che è diventata finalmente efficace. Finché la medicina aveva soltanto dei palliativi ― nel senso deteriore del termine ―; finché disponeva solo di salassi o analoghi mezzi non efficaci, in realtà l'ambito delle scelte era molto limitato. Oggi abbiamo una medicina che può incidere sul corso naturale della malattia. E soprattutto abbiamo un profilo patologico dominato dalle malattie croniche degenerative, il trattamento delle quali è costretto a considerare i valori e i piani di vita dei pazienti. La variabilità del trattamento "giusto" è perciò massima.

Qui interviene allora la necessità di fare delle scelte; ma anche che queste scelte siano condivise dal malato, rendendogli possibile che in esse si esprimano i suoi valori e le sue preferenze. Di fronte alla stessa malattia, infatti, siamo tutti diversi; quindi non c'è soltanto una via per rispondere adeguatamente al bisogno, ma c'è una pluralità di risposte. Se quello che riceviamo in quanto malati non risponde ai nostri bisogni, attese, aspettative, valori e preferenze, noi arriviamo a un saldo finale di insoddisfazione. All'insoddisfazione del paziente fa riscontro un senso di frustrazione da parte del sanitario.

Uno storico riassumeva questo stato d'animo di insoddisfazione che aleggia sulla medicina del nostro mondo con questa osservazione: "Fino a qualche decennio fa, se un bambino aveva la difterite, il medico praticamente non poteva far niente: doveva assistere impotente alla morte del bambino; tutt'al più poteva tenergli la mano, accompagnando il suo

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decesso. Oggi, se un bambino ha la difterite, con un trattamento farmacologico appropriato in pochi giorni ritorna a saltare e a correre tra gli altri compagni. Tuttavia qualche decennio fa, quando il medico era impotente a guarire, tutti erano contenti di lui. Oggi che il medico è così bravo e la medicina così efficace nel guarire le malattie, siamo scontenti. Perché questo malessere così diffuso, questa sorta di ritiro della fiducia?

Non so se qui a Treviso è già arrivato l'ultimo film di Nanni Moretti Caro diario. C'è un episodio, intitolato MEDICI, che ci lascia un senso di gelo e di disagio morale. È la storia di una malattia grave dello stesso Moretti, che non viene appropriatamente trattata, malgrado le tante terapie, perché nessun medico si prende la cura necessaria per fare la diagnosi corretta. In modo pedante Nanni Moretti descrive incontro per incontro e ricetta per ricetta. Alla fine conclude con una frase graffiante "Da questa vicenda io ho imparato due cose: che i medici sono bravi a parlare ma non sanno ascoltare; e che un bicchiere d'acqua fresca prima di colazione fa bene". Questa conclusione, che può sembrare uno sberleffo o un invito al nichilismo terapeutico, è piuttosto una protesta che nasce dall'insoddisfazione, perché qualcosa va storto abitualmente nel rapporto medico-paziente.

A questo punto io voglio fermarmi. Mi rendo conto di non aver detto niente sul consenso informato, che è il tema del nostro incontro. Coloro che, dopo di me, affronteranno il tema dal punto di vista giuridico, psicologico e medico, andranno sicuramente al concreto. Ma mi sembrava necessario tracciare il grande contesto culturale in cui avviene questo dibattito. A partire da questa insoddisfazione che abbiamo sia come pazienti che come sanitari ― almeno molti dell'una come dell'altra categoria ― dobbiamo favorire il cambiamento del rapporto di fondo che unisce medico e paziente nell'atto medico. Non basta più considerare solo il bene del paziente, ma va favorita una crescita del paziente, affinché, in quanto soggetto autonomo, entri come un partner del medico nelle decisioni che riguardano la sua salute e la qualità della sua vita.