Sandro Spinsanti
Retorica e medicina
Editoriale Janus 7 - Autunno 2002
Tirare il collo alla retorica: è quanto si proponevano, come programma sintetico della nuova società a cui volevano dar vita, alcuni giovani appena usciti dal fascismo. L’immagine efficace è proposta da Luigi Meneghello nel romanzo dedicato alla nuova generazione che usciva dalla resistenza, I piccoli maestri: “Mentre russi e alleati tiravano il collo ai nazisti, noi cercavamo almeno di tirarlo alla retorica”. Agli occhi di quei giovani idealisti la retorica incarnava non solo il peggio del carattere nazionale, ma quasi il male tout court. Lasciamo agli storici delle idee la documentazione della triste nomea che si è fatta la retorica, diventata sinonimo di discorso ingannevole o di argomentazione volgarmente falsificata, mentre l’aggettivo “retorico” è usato quasi esclusivamente come una critica senza appello. Eppure, come un fiume carsico, la retorica periodicamente riaffiora, come una categoria irrinunciabile per interpretare la realtà umana, allo stesso modo della parola, che caratterizza gli uomini tra tutti i viventi. Ai nostri giorni la retorica sembra rivivere una stagione di intense rivisitazioni. A documentazione citiamo solo la traduzione italiana dell’opera monumentale curata da Marc Fumaroli, L’età dell’eloquenza, apparsa in Francia più di vent’anni fa, che ha intrapreso un’approfondita analisi della retorica antica, così come è stata riscoperta dal Rinascimento italiano e utilizzata dal Cinquecento e dal Seicento francesi per costruire uno stato laico, centralizzato e moderno. Allo storico della letteratura Ezio Raimondi dobbiamo invece l’agile volumetto La retorica d’oggi, che considera la riscoperta attuale della retorica – sullo sfondo dello sviluppo della disciplina, a partire dal pensiero greco – come un luogo vero della nostra humanitas, vale a dire di ciò che è permanente nell’uomo anche attraverso il modificarsi delle ragioni storiche.
Ma non è il vento di una modo intellettuale che ha indotto Janus a tentare un’esplorazione dei legami tra retorica e medicina. Nasce piuttosto dalla condizione che la medicina, in quanto arte della guarigione, è un’articolazione fondamentale della humanitas. Mentre più pronunciata si manifesta la tendenza a catalogare la medicina tra le scienze, si impone la consapevolezza che è costituita di parola e di relazione; che non è solo una scienza razionale, ma anche ragionevole; che la pratica clinica è costituita di accordi conflittuali e che le strategie terapeutiche non possono far a meno di ....................... – l’astuzia – che gli antichi greci consideravano figlia legittima dell’intelligenza.
Prima di passare la parola agli studiosi che abbiamo convocato per analizzare, sia dal punto di vista teorico sia pratico, i rapporti tra retorica e medicina, vorrei proporre una vicenda biografico-intellettuale che promette di introdurci al tema in modo estremamente concreto. La storia è quella di Tom Shakespeare, direttore dell’International Center for Life a Newcastle, in Inghilterra. Per il suo lavoro Shakespeare, che di professione si dichiarava bioeticista, ha bisogno di tutta la retorica del mondo. Il suo capolavoro clinico consiste nel fornire conselling genetico a coppie che ricorrono alla diagnosi prenatale per conoscere lo stato di salute del feto e decidere se proseguire o interrompere la gravidanza. Ma il consulente è portatore di un difetto genetico, di cui è responsabile il cromosoma 4, a cui manca il fattore di crescita dei fibroblasti, a cui si deve la crescita delle ossa; l’handicap che ne deriva si chiama acondroplasia; in parole povere: nanismo. Con la sua stessa persona il consulente – una persona realizzata e felice, orgogliosa del suo lavoro – visualizza gli incubi delle persone che fanno ricorso al servizio, rappresenta il figlio che mai vorrebbero avere.
Per un certo periodo Tom, laureato in scienze politiche all’università di Cambridge, ha militato in un gruppo di attivisti che si battono contro la visone medica dell’handicap: il gruppo di auto-aiuto denominato Disability Action. Attivi lo erano davvero: quando fu inaugurato il Centro per la ricerca, dimostrarono vestiti con uniforme naziste. Tom era con loro. Oltre all’uso emotivo di simboli e memorie – strategia quanto mai retorica – adducevano argomenti nella loro ostilità alla genetica. Al modello medico contrapponevano il modello sociale: mentre il primo individuava la fonte dell’handicap in un deficit biologico di cui erano portatori, ai propri occhi l’handicap era prodotto dalla società. Per riferirci all’handicap di Tom: i nani sono troppo bassi per la società, o la società è troppo alta per loro? L’handicappato è tale perché non può camminare o è la mancanza di una rampa di accesso per la sua carrozzella che lo rende handicappato? Sembrano giochi di parole; eppure dietro intravediamo problemi reali, riconducibili alla questione: chi ha il diritto di definire la realtà? Anche in medicina, non meno che in tutto l’ambito della vita sociale, il significato delle parole dipende da chi ha il potere di definirle. Non meno importanti sono le conseguenze che discendono da una diversa definizione dell’handicap: gli attivisti non si considerano una minoranza cui spetta la comprensione o elemosine sociali, ma cittadini che rivendicano dei diritti.
L’identità faticosamente acquisita dagli attivisti dei gruppi di autoaiuto è minacciata da una ricerca genetica che procede trionfante, riducendo la loro diversità a un errore: uno scambio di lettere nella trasmissione del patrimonio genetico. Gli argomenti che oppongono alle indagini genetiche prenatali sono tutti riconducibili alla retorica, ma anche confutabili con il suo stesso aiuto. Quello “nazista” – la volontà di conoscere lo stato di salute del concepito equivale alle valutazioni eugeniche che rifiutavano le vite “non degne di essere vissute” – è carente in un punto decisivo: le diagnosi prenatali non sono predisposte da uno stato totalitario, ma sono volute – fortemente – volute – dai cittadini, che desiderano il meglio per i loro figli e rifiutano una vita senza “qualità”.
Un argomento psicologico utilizzato dagli attivisti dell’handicap suona: “Se hai miei tempi ci fosse stata la diagnosi prenatale, io non sarei nato, perché quelli come me vengono abortiti”. Anche se l’argomento ha un forte impatto, scivola retoricamente nell’attribuire al nascituro un “io” che di fatto non ha. La logica dell’argomentazione zoppica. perché è anche vero che le persone non vorrebbero le sofferenze – fisiche e morali – che molte condizioni gravemente compromesse comportano. L’ambivalenza si è rilevata in forza quando Tom Shakespeare è diventato padre: per due volte si è trovato di fronte al dilemma se conoscere o rinunciare a sapere se il figlio era portatore del suo stesso deficit genetico. Ambedue le volte ha deciso – con la madre – di non procedere a una diagnosi prenatale, che si sarebbe aperta sulla prospettiva dell’aborto, (e per due volte ha messo al mondo figli affetti da nanismo).
Quando ha accettato di dirigere il centro di Newcastle, fornendo consulenza genetica alle coppie che la richiedono, è stato aspramente criticato dagli attivisti con i quali aveva militato, quasi che avesse deciso di passare al nemico. La sua posizione è difficile per un unico motivo: deve fare da mediatore tra due opposte concezioni dell’handicap, rappresentate rispettivamente dalla ricerca genetica e dai gruppi politicizzati di portatori di handicap; deve aiutare con la consulenza genetica dei padri e delle madri a decidere se portare avanti o interrompere una gravidanza, rappresentando con il suo stesso nanismo la situazione che molte coppie rifiuterebbero a priori, perché vogliono un figlio sano. Proprio mentre la medicina ha conquistato, con la genetica e la biologia molecolare, frontiere insospettabili di conoscenza e razionalità circa la patologia che ci affligge, si rivela quanto mai intessuta di rappresentazioni, interpretazioni, valori e scelte etiche.
La difficile posizione professionale di Tom Shakespeare ci permette di visualizzare la convivenza della retorica – quale dottrina delle circostanze e dei contesti, nonché dei significati molteplici e dei valori plurimi – con il razionalismo della verità unica e oggettiva. Sappiamo che uno stigma negativo è caduto sulla retorica, considerata come logica del falso, con l’affermarsi del razionalismo di Cartesio e gli sviluppi successivi della scienza moderna. Secondo la dottrina illuministica della verità, il linguaggio semplice della verità si contrappone al linguaggio composito, mascherato della retorica, la quale presuppone che la ragione umana non possa in questo mondo accedere alla pienezza della verità ma solo alle sue verosimiglianze. A completare la condanna etica della retorica, bisogna aggiungere l’accusa di favorire il compromesso. Se ne è occupata la polemica feroce di Pascal con Le provinciali dirette contro i Gesuiti ha delegittimato per secoli il metodo “............................ “ in teologia morale come un modo evasivo e sofistico di trattare l’etica, riducendo al minimo le esigenze del dovere morale (fino alla rivalutazione recente, nel contesto della bioetica contemporanea, da parte di Albert Jonsen e Stephen Toulmin: The abuse of casuistry. A history moral reasoning, 1988).
I contributi raccolti nel dossier ci permettono di cogliere i diversi aspetti che rendono così attuale la retorica in medicina. La medicina ha un’innata vocazione e collocarsi al polo opposto del dogmatismo – anche quando questo riveste i panni della scienza – e a promuovere il dialogo (Giorgio Bert). Retorica e medicina sono affratellate – così come il filosofo Gorgia e suo fratello medico – dal fatto di conoscere la realtà “in situazione” e non in astratto e dalla necessità di cogliere le differenze, valutando ciò che è opportuno per le varie persone (Mauro Doglio). Mentre il discredito tradizionale che grava sulla retorica le attribuisce un discorso fatto di artifizi e trucchi, la sua ragion d’essere è piuttosto la razionalità argomentativa, che usa il dialogo (Giacomo Delvecchio). Neppure la ricerca – totalmente collocata entro la logica della scienza – può fare a meno di utilizzare argomentazioni retoriche per suscitare il consenso sociale (Gilberto Corbellini).
Strategie comunicative sottendono la collocazione della medicina nella nostra società: lo illustra Silvana Quadrino presentandoci alcuni esempi di come vengono costruite le malattie e come vengono influenzati i comportamenti dei consumatori. Altri contributi ci guidano a considerare l’arte terapeutica quale azione linguistica: nella mitigazione che protegge da un dire rischioso (Claudia Caffi), nel coinvolgimento dei bambini nelle decisioni cliniche in pediatria (Momcilo Jankovic), nella comunicazione di cattive notizie ai genitori in neonatologia (M. Letizia Caccamo). Senza dimenticare il ruolo che svolge oggi la comunicazione di massa (Giovanni Maio) e quella che si serve di espressioni artistiche, come il cinema (Roberto Comi).
Nell’introdurre un libro curato da Giorgio Bert: Le parole in medicina (Il Pensiero Scientifico, 1988), Lorenzo Bonomo osservava amaramente: “Sempre meno si parla con i malati e si va perdendo uno dei talenti dell’arte medica: saper parlare con i malati e far parlare i malati per capire loro e la malattia”. Nel predisporre questo fascicolo di Janus dedicato tematicamente alla retorica in medicina ci siamo lasciati condurre dalla convinzione che invertire la tendenza è non solo necessario, ma anche possibile.