Sandro Spinsanti
Medicina al plurale
Editoriale Janus 8 - Inverno 2002
Abitualmente parliamo di medicina al singolare. Sia che la consideriamo efficace o non efficace per risolvere i nostri mali, sia che la valutiamo buona o cattiva rispetto ai nostri criteri di qualità, ci riferiamo a una realtà omogenea e facilmente identificabile. Il plurale si impone solo quando emergono sulla scena le pratiche mediche non riconducibili a quella che rivendica il monopolio. Si parla allora di “medicine alternative”, o complementari, o non convenzionali. Il loro diritto di cittadinanza è tutt’altro che pacifico. Anche se di recente in Italia la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, nell’intento di governare il fenomeno, si è dichiarata disponibile a riconoscere un certo numero di esse - purché a praticarle siano dei medici formati nell’“altra” medicina! - la resistenza di buona parte del mondo medico a riconoscere lo statuto di scienza a quelle pratiche è molto alta. Indipendentemente dal numero delle persone che fanno ricorso a quelle pratiche terapeutiche, compresi numerosi medici per se stessi e per i loro familiari, si continua a pensare alla medicina al singolare.
Ciò che costringe a parlare della medicina al plurale è anzitutto la molteplicità delle culture che, all’interno della nostra società, si rivolgono ai servizi medici. In questo numero di Janus dedichiamo ampio spazio all’esigenza di modulare la proposta medica, così che non faccia violenza alla cultura degli utenti. Ben tre libri vengono proposti all’attenzione dei lettori: Patrie provvisorie di Nicoletta Diasio (al quale dedichiamo la nostra abituale triplice rassegna, che riserviamo alle opere che meritano una lettura da diverse angolature), Il tempo del meticciato di Jacques Audinet e Il dialogo transculturale in medicina di Marco Mazzetti. Anche “L’obiettivo” dedica una parte della sua attenzione alle risposte organizzative e ai progetti di formazione con cui alcune realtà sanitarie più sensibili (Modena, nella testimonianza di Franca Capotosto e Cristina Piazza; Reggio Emilia, come riferiscono Corrado Ruozzi e Federica Gazzotti) rispondono al fenomeno della domanda sanitaria che nasce sul fronte multiculturale dell’immigrazione.
C’è tuttavia un’altra via attraverso la quale il mondo apparentemente omogeneo e compatto dell’agire terapeutico ha dovuto confrontarsi con la pluralità: quella della soggettività dei pazienti, che comporta una molteplicità di significati e di valori. Quando si lascia spazio al soggetto, si infrange l’apparente unitarietà di un sapere costruito sulla biologia. Siamo costretti a pensare alla medicina al plurale - non solo perché l’omeopatia si contrappone all’allopatia, ma anche all’interno dello stesso sistema allopatico - perché le persone, che pur appartengono alla stessa realtà culturale, vivono i processi di diagnosi e cura delle malattie in modi molto diversi.
La pluralità ha investito nel modo più eclatante proprio ciò che della medicina aveva resistito di più al cambiamento: l’etica medica. Nella storia dell’Occidente la medicina si è modificata più volte, da quando con i greci è passata dal regime magico-sacrale a quello del sapere scientifico. In venticinque secoli ha cambiato sia le spiegazioni dei processi patologici, sia le risposte terapeutiche. Quello che era rimasto immodificato era il sistema di valori identificato come etica medica (il riferimento tradizionale a Ippocrate serviva anche a sottolineare la pretesa atemporalità delle norme etiche in medicina). Proprio l’etica medica ci costringe oggi a parlare della medicina al plurale.
Che cosa fare di fronte alla pluralità dei mondi etici? Con qualche semplificazione, la varietà dei comportamenti possibili può essere ricondotta a cinque alternative. Di fronte a un mondo morale diverso, un comportamento che ci viene spontaneo è combatterlo. Quando qualcuno presenta un atteggiamento teorico-pratico diverso dal nostro, nei confronti della vita, tendiamo a rispondere con la polemica. La polemica è un modo incruento di fare guerra - pólemos in greco è appunto la guerra - a chi la pensa diversamente da noi. Nella vita quotidiana la polemica fa uso di uno strumento semplicissimo ed estremamente efficace: il dissenso viene squalificato come disonestà morale, o come incapacità cognitiva. In inglese questa strategia si serve di due parole brevi e incisive: chi la pensa diversamente da me dal punto di vista morale è o bad (cattivo) o mad (pazzo); o è in mala fede, o non ragiona bene.
Una seconda scelta è tollerare chi la pensa diversamente. La tolleranza nella storia della civiltà occidentale praticamente comincia con l’Illuminismo. Invece di fare la guerra (anche nella forma attenuata che è l’apologetica, che si esprime nel mettere la propria posizione in buona luce e nel dipingere con i colori più neri la posizione altrui) tolleriamo le differenze. La tolleranza è un atteggiamento che è parte costitutiva di ciò che noi oggi qualifichiamo come civiltà. Ma siamo tanto lontani dall’averla assimilata che l’Accademia europea per le scienze e le arti - come ci riferisce Roberto Bucci - ha messo la tolleranza al centro di un progetto di ampio respiro, che coinvolge anche la medicina. L’insegnamento di Locke e dei liberalismi del sec. XVIII sono più che mai attuali: nel nostro “Ginnasio filosofico” Franco Manti ci guida a una rilettura della Terza epistola per la tolleranza del padre del liberalismo.
Una terza possibilità di fronte alle diverse scelte morali è quella che potremmo chiamare di regolamentazione. Possiamo regolamentare i conflitti che nascono dal pluralismo dei mondi morali con le leggi oppure con norme deontologiche. I codici deontologici, e soprattutto le leggi, sono dei tentativi di definire dei confini, delimitando i comportamenti accettabili da quelli non accettabili.
La quarta proposta è quella che vede nell’etica un possibilità di gestione delle differenze morali. Questo è lo scenario che si affaccia quando i mondi etici diversi dal nostro rinunciano a eliminarli con la repressione o la polemica, li tolleriamo per quanto siano compatibili con la convivenza sociale, li regolamentiamo con le leggi dello Stato e con gli ordinamenti deontologici: a questo punto dobbiamo gestire le differenze etiche, per poter convivere. Ebbene, nell’ambito dei comportamenti che hanno a che fare con le decisioni di procreazione, di cure sanitarie e di morte, la bioetica è nata proprio con la finalità di mettere un certo ordine e soprattutto di creare una specie di lingua franca, per poter parlare tra “stranieri morali”.
Non sempre la bioetica, così come la conosciamo nell’esperienza culturale italiana, si è sviluppata in questo orizzonte. Anche quando non è diventata luogo privilegiato della polemica, nutrita da ideologie che si giudicano inconciliabili, e non ha dato origine a espressioni di intolleranza, non ha mostrato grandi capacità di gestione delle differenze etiche. “L’obiettivo” di Janus si appunta su alcune esperienze positive che si possono individuare in questo orizzonte. A cominciare dalla rigenerazione della bioetica nelle medical humanities, proposta da Warren Reich. Anche le strategie di gestione positiva dei conflitti articolate da Andrea Valdambrini vanno in questa direzione. I “comitati” - e la scienza che ne studia il funzionamento - possono essere d’aiuto per creare una partecipazione del pubblico alle decisioni: lo illustra M. Chiara Tallachini, presentandoci la “commitology”. I contributi di Paolo Dordoni sul metodo socratico, di Sara Casati sulla deliberazione etica e di Roberto Dell’Oro sul counselling etico descrivono strategie creative di gestione, grazie all’etica, della medicina al plurale.
Che cosa possiamo fare di fronte a un mondo morale che non condividiamo? Riassumendo le diverse prospettive: possiamo combatterlo, tollerarlo, regolamentarlo, gestirlo. Uno sviluppo di quest’ultima prospettiva suona: quando i mondi morali sono diversi, possiamo parlare con l’altro, facendo delle divergenze l’argomento di una conversazione. Un’eccellente presentazione delle possibilità che possiamo attribuire alla conversazione è offerta dal libro di Zeldin: La conversazione. Di come i discorsi possono cambiarci la vita (Sellerio, 2002). Secondo Zeldin, la conversazione fa bene, cioè migliora la vita anche a livello emotivo, forse anche a livello fisico.
Mondi morali diversi sono molto importanti, perché ci possono arricchire. Nel capitolo intitolato: «Di come la conversazione incoraggi lo scambio da mente a mente», Zeldin afferma che «si tratta di invitare altre persone alle proprie conversazioni interiori per scoprire che ti vedono molto diversamente da come ti vedi tu». Ma proprio chi la pensa diversamente può portarci un arricchimento morale. «Considero - continua Zeldin - particolarmente importanti le conversazioni che si collocano al confine tra ciò che capisco e ciò che mi sfugge, incontri con le persone diverse da me». Con un mondo morale diverso dal mio, io ci posso parlare. E la prima cosa che posso guadagnare da questa conversazione, è un beneficio per me stesso, perché allargo il mio mondo morale. «Conversando con altri e mescolando voci diverse alla nostra, possiamo trasformare la nostra esistenza in un’opera d’arte originale»:
È vero che alla gente piace odiare. Zola diceva: «L’odio è sacro». Grazie all’odio la gente sente di avere dei principi e delle opinioni. Eppure io ritengo che individuare un che di ammirevole o di commovente in una persona incomprensibile e odiosa sia fonte di soddisfazione altrettanto profonda. La sensazione di appartenere entrambi all’umanità, le lacrime che ci vengono agli occhi quando cogliamo la sofferenza in persone a noi del tutto estranee, sono tra le più profonde delle emozioni. Ogni volta che ne facciamo esperienza, riscopriamo di appartenere a quella enorme famiglia che è l’umanità. L’umanità non significa soltanto chiunque, significa anche gentilezza. Non sono molte le persone completamente prive di qualche traccia di gentilezza. Trovare questo filone d’oro, quando è nascosto in terreni apparentemente sassosi, è una delle sfide più entusiasmanti.
Anche Benedetta Craveri con La civiltà della conversazione (Adelphi, 2001) dà corpo a una nostalgia di una maniera di vivere che trova nella conversazione il suo punto di forza. Ripercorrendo le vicende culturali della Francia prerivoluzionaria, fa emergere «un’ideale di socievolezza sotto il segno dell’eleganza e della cortesia, che contrapponeva alla logica della forza e della brutalità degli istinti un’arte di stare insieme basata sulla seduzione e sul piacere reciproco». Malgrado la distanza infinita che ci separa da quel mondo, non possiamo impedirci di sognare la cortesia che freni l’irruenza e impedisca lo scontro, anche verbale. E di immaginare che proprio la medicina, vissuta al plurale, possa essere il luogo della rigenerazione dell’esprit de société.