Janus 10 – Perdite limiti e altre opportunità di crescita

Book Cover: Janus 10 - Perdite limiti e altre opportunità di crescita

Sandro Spinsanti

Perdite limiti e altre opportunità di crescita

Editoriale Janus 10 - Estate 2003

 

Nessuno ama essere confrontato con i propri limiti. La medicina, non meno di altre realtà umane, preferisce definirsi per quello che riesce a fare, non attraverso quel confine dove vanno a infrangersi i suoi sforzi. Tanto più che la ragion d’essere dell’impresa medica è proprio la lotta sistematica contro le patologie che incombono sull’uomo, come minaccia per il suo benessere e per la vita stessa. La metafora della guerra applicata alla medicina sembra giustificare quell’atteggiamento che restringe gli interrogativi al modo più efficace di raggiungere il proprio obiettivo, respingendo la riflessione che rischia di paralizzare l’azione. In ambito letterario questo atteggiamento è noto come ‘codice Hemingway’. Lo scrittore lo ha teorizzato - e soprattutto illustrato in atto - nel romanzo Per chi suona la campana (1940).

Il suo eroe - un professore americano, impegnato nella guerra civile spagnola dalla parte del movimento rivoluzionario - vede il pericolo costituito dal porsi troppe domande sulla guerra che sta combattendo, sui torti e le ragioni, sugli ideali e la violenza, la verità e le menzogne. “Tu sei un uomo che fa saltare i ponti, non un pensatore”, dice a se stesso, soffocando sul nascere una riflessione che non sa dove potrebbe portarlo. E per istruire un vecchio partigiano, che ha remore morali al pensiero di uccidere un altro essere umano, lo esorta a prendere la mira con calma, sparando a un punto determinato: “Non pensare che è un uomo, ma un bersaglio”.

Non è una provocazione mettere in parallelo la concentrazione totale sull’azione di un combattente e il comportamento medico. Certo: l’uno mira a distruggere la vita, l’altro a salvarla. Ma il ‘codice Hemingway’ può essere applicato nell’uno come nell’altro caso. Un parallelo è suggerito dallo stesso Hemingway, quando descrive il suo eroe Robert Jordan mentre colloca le cariche di dinamite per far saltare il ponte, “lavorando come un chirurgo con rapidità e con arte”. La tipologia del sanitario tutto concentrato sull’obiettivo - sconfiggere una patologia, dilazionare la morte del paziente, neutralizzare un sintomo - è tutt’altro che infrequente. Perdite, limiti e altri fallimenti correlati con la riflessione su ciò che sta facendo non devono interferire con la sua azione. “La mia mente è in vacanza fino a quando non vinceremo la guerra”, potrebbe dire con il protagonista di Per chi suona la campana.

Il confronto con i limiti oggi è diventato un tema centrale in medicina, ma rimane un corpo estraneo. Può dipendere dal fatto che l’orizzonte dei limiti alla medicina è stato imposto dall’economia. La ‘scienza triste’ (dismal science viene chiamata appunto, in inglese l’economia politica; l’etimologia dell’aggettivo dismal - che viene abitualmente tradotto come ‘lugubre’, ‘deprimente’ - è il latino dies mali: il giorno del malaugurio, che si affaccia puntualmente quando bisogna fare i conti con le risorse insufficienti) ha fatto sentire la sua presenza nello scenario della medicina da poco più di un decennio. Almeno per ciò che riguarda la sanità italiana. In altri paesi il campanello d’allarme era suonato prima. Per gli Stati Uniti, si è soliti citare il discorso del presidente del Senato dello stato dell’Oregon, nel 1987, con cui annunciava alcune misure di razionamento esplicito e pubblico: “La tecnologia medica ha superato, e continuerà a superare, la nostra capacità di pagarla. Questa è la dura realtà: dobbiamo limitare il denaro che spendiamo nella cura della salute”.

Nel frattempo il discorso dei limiti (nel bilancio) e di perdite (in un’attività medica pensata come una partita doppia, con perdite e guadagni) è diventato familiare anche ai sanitari italiani, che pure esercitano nel contesto di un servizio sanitario pubblico, a dimensione nazionale. Non è tutto negativo in questa svolta. Pensiamo alla fine dell’arbitrio terapeutico e alla necessità di giustificare gli interventi sanitari offrendo solo ciò che si è dimostrato di provata efficacia. Già nel 1983 un articolo del British Medical Journal individuava le linee portanti del cambiamento che si annunciava:

 

La libertà clinica è morta e nessuno ne sta rimpiangendo la fine. La libertà clinica era il diritto dei medici - da alcuni considerato divino - di fare qualsiasi cosa ritenessero, a loro esclusivo giudizio, il meglio per i loro pazienti. Nei giorni in cui la diagnostica era di fatto inesistente e gli interventi terapeutici poveri e inefficaci, il giudizio del medico era tutto ciò di cui si disponeva; ma adesso quel giudizio non basta. Se non abbiamo sufficienti risorse per fare tutto ciò che è tecnicamente possibile, allora la cura deve limitarsi a ciò che è dimostrato essere realmente efficace e la personale valutazione dovrà essere messa da parte (Hampton, 1983).

 

In vent’anni quest’impostazione, che si svilupperà successivamente sotto la denominazione di clinical evidence, è diventata la linea di demarcazione tra la buona e la cattiva medicina. Tuttavia non siamo ancora all’idea di limite che questo quaderno di Janus ha voluto assumere come tema del suo ‘Obiettivo’. Ci sentiamo piuttosto in sintonia con la linea di riflessione inaugurata da Daniel Callahan. Da più di tre lustri non cessa di proporre alla riflessione bioetica la questione del limite. Con una serie organica di saggi ha esplorato tutte le dimensioni del tema: dal programmatico Setting limits: Medical goals in an aging society (1987), fino al più recente False Hopes (1998), tradotto in italiano con il titolo La medicina impossibile, (Baldini & Castoldi, Milano 2000), passando per What kind of life: the limits of medical progress (1990) e The troubled dream of life: living with mortality (1993). La sua tesi centrale è che il problema della medicina non è quello che appare in superficie. Il bisogno di ricevere dall’organizzazione sanitaria delle cure maggiori finanziamenti, di aumentare l’efficienza dei trattamenti erogati, di assicurare a tutti, per dovere di giustizia, l’accesso alle cure fa parte senz’altro del novero dei problemi che mettono in crisi la medicina contemporanea. Ma la radice profonda della crisi è piuttosto la rimessa in discussione del significato stesso di cura e del posto che la ricerca della salute deve avere nella nostra vita. In definitiva, la questione riguarda il ‘tipo di vita’ (What kind of life) - la ‘buona vita’ - da condurre. La soluzione della crisi non sarà quindi offerta dal ricorso a terapie meno costose o a nuove e più efficienti strategie di servizio sanitario. Callahan suggerisce che è necessario piuttosto imparare a ‘vivere con la mortalità’ (Living with mortality).

Accogliendo il suo invito, facciamo della crisi legata all’allocazione delle risorse per la sanità il punto di partenza per interrogativi più fondamentali: se dobbiamo cominciare a fare delle scelte, diventa prioritario stabilire che cosa vogliamo che la medicina nel suo insieme faccia per noi. In altri termini, le poste in gioco sono sostanzialmente le questioni antropologiche, a cominciare da quella del limite (Setting limits).

In questo quadro il duro confronto con i limiti delle risorse, che coinvolge i sistemi sanitari anche dei paesi più ricchi, non si riduce a un discorso di un uso più razionale di esse - o nei casi più gravi alla necessità di un razionamento - ma diventa una sfida a considerare la vita umana come limitata. Mutuiamo da Callahan un’espressione felice: la vita umana come ventaglio naturale di possibilità (natural life span). La vita si sviluppa naturalmente entro un arco temporale che comprende un inizio, una crescita, un decadimento e una fine, con la morte come suo correlato costitutivo.

Anche se, per ipotesi, le risorse ci permettessero sforzi sempre maggiori per curare le malattie ed estendere i limiti cronologici delle nostre vite - aiutando un numero sempre maggiore di persone a vivere più a lungo - non andrebbe a nostro beneficio seguire questa strada. Perché viviamo meglio se concepiamo la nostra vita come intrinsecamente limitata. Questa è la sfida sulla quale il dossier di Janus è costruito: assumere le perdite (di persone care e, alla fine, l’inevitabile perdita della propria vita) e i limiti (quelli accidentali e quelli che accompagnano il naturale dispiegarsi di ogni vicenda corporea) come un’opportunità di crescita. Non si cresce solo attraverso l’eros, ma anche attraverso il pathos, ovvero ciò che la vita ci costringe a subire. E la crescita non si identifica solo con l’autorealizzazione personale, ma con la capacità di prendersi cura degli altri, nella dimensione sia familiare che comunitaria.

Entro questo orizzonte abbiamo scelto di confrontarci con situazioni molto concrete: con ciò che succede nella vita di una persona e dei suoi familiari dopo la cesura violenta di un coma; con la scoperta di essere affetti da un carcinoma e di avere davanti a sé un percorso terapeutico gravoso e dagli esiti incerti, con il lento scivolare verso la demenza; con l’accompagnamento di un morente nella fase terminale della malattia e con i familiari sopravissuti, ai quali rimane il duro lavoro dell’elaborazione del lutto. Queste - e numerose altre situazioni di perdita: della salute, dell’integrità corporea, dell’autonomia, della vita stessa - si aprono su due versanti. Possono essere eventi catastrofici, che distruggono progetti personali e relazioni sociali; oppure estreme opportunità per diventare quegli uomini e quelle donne compiute che abbiamo la potenzialità di essere.