Janus 12 – Alimentare la salute

Book Cover: Janus 12 - Alimentare la salute

Sandro Spinsanti

Alimentare la salute

Editoriale Janus 12 - Inverno 2003

 

Dalla diaita della medicina ippocratica all’animato dibattito attorno ai cibi transgenici, l’alimentazione non ha mai perso il posto di grande rilievo che le compete nelle pratiche di salute. Perché il consumo alimentare è sempre accompagnato dal rischio di malattie, senza dimenticare le malattie che derivano dal non avere abbastanza da mangiare. In pochi altri ambiti nei comportamenti quotidiani sono così visibili i contrasti: da una parte le malattie della fame, dall’altra quelle da eccesso di alimentazione. Il contrasto sincronico tra coloro che, nell’area amplissima del sottosviluppo, si ammalano per mancanza di cibo e di acqua fino a morire di inedia, e l’area geografica afflitta dall’obesità e dai disturbi del comportamento alimentare (come bulimia e anoressia) è fin troppo evidente. Ma non possiamo dimenticare che anche nell’ambito ristretto del nostro paese è sopravvenuta, nel giro di una generazione o due, una svolta vistosa. Gli italiani di oggi si nutrono diversamente dai loro nonni.

Sembra un paradosso: mentre i nutrizionisti enfatizzano la dieta mediterranea e propongono come modello ideale di nutrizione l’alimentazione “del contadino meridionale povero degli anni cinquanta” (cfr. la voce “Dieta” in Dizionario di storia della salute, Einaudi, 1996), la memoria evoca quelle condizioni alimentari come una situazione di poco superiore alla sopravvivenza, e certamente lontana dalla salute. Di recente Chiara Frugoni ha raccolto nel libro Da stelle a stelle. Memorie di un paese contadino (Laterza, 2003) la storia di Solto, paese posto sulla collina che guarda il lago d’Iseo, rimasto immobile fino agli anni cinquanta, attraverso la voce dei suoi anziani abitanti. Nella vita del paese com’era, quando tutti cominciavano a lavorare mentre brillavano ancora le stelle e smettevano al loro ritorno, l’alimentazione è descritta nel capitolo: “Polenta, sempre polenta”:

 

Di giorno c’era sempre la polenta cotta nel paiolo di rame o di ghisa, rimestata almeno un’ora con un lungo bastone di legno bianco, che diventava un po’curvo a forza di agitare.

Sopra alla fetta di polenta era messo un pezzetto di stracchino o di formaggella di latte magro. Il latte magro rendeva la formaggella così dura da doverla spaccare con l’aiuto del martello. Il condimento poteva essere un po’ di lardo o cipolle o soltanto uno spicchio d’aglio. Bisognava mangiare il più svelto possibile, per riuscire a mangiare di più e aver alla fine meno fame degli altri.

La cena voleva dire minestra: lardo, tanta acqua, qualche verdura dell’orto, verza soprattutto, poi un po’ di maccheroni della bottega di colore grigio scuro – ma al colore non si guardava – o pasta fatta in casa, subito dopo la rigovernatura dei piatti, senza stare tanto ad impastare. Oppure la minestra consisteva in latte, castagne o polenta; poteva essere una semplice pappa, il “brofadil” farina bianca e gialla cotta in un po’ di latte allungato con acqua: saziava e nessuno diceva che non era buona.

 

Mentre i vecchi rimasti recitano il loro “Amarcord”, evocando i tempi non remoti in cui la fame era commensale della maggior parte deschi familiari, noi facciamo i conti con i danni dei cibi industriali, con la percentuale crescente di bambini obesi, con la diffusione del diabete e di altre malattie del metabolismo. Il ministero della Salute si allarma e noi ci allarmiamo dei suoi progetti dei limitare, per decreto, la quantità delle porzioni che dovrebbero essere servite dai ristoranti. Se è giusto impegnarsi con forza per migliorare il rapporto dei cittadini con il cibo, per contrastare l’aumento di condizioni metaboliche tipiche della sovralimentazione o comunque di errate abitudini alimentari, la via da seguire sembra essere quella dell’ educazione, piuttosto che un paternalismo di Stato, che arrivi a determinare che cosa e quanto va messo nei piatti. La via, peraltro, non è facilmente percorribile, se anche gli Stati Uniti, dopo aver individuato nell’obesità uno dei maggiori problemi per la sanità nazionale – nel 2002 ha pesato sulla cassa malattie per 117 miliardi di dollari – sono orientati a imporre un’imposta per scoraggiare il consumo di cibi calorici.

Una parte del nostro dossier è dedicato precisamente all’intreccio fra alimentazione e sanità pubblica. La sorveglianza sull’igiene degli alimenti è un compito primario del Servizio sanitario nazionale (Patrizia Laurenti). Tuttavia la crisi di fiducia che scuote trasversalmente tutte le figure rivestite di autorità – al tema dedicheremo il dossier del prossimo fascicolo di Janus, prendendo in esame anche il recente saggio di Onora O’Neill: Questione di fiducia, Vita e Pensiero, 2003 – non risparmia neppure le strutture pubbliche di controllo dei cibi (Francesco Branca). È auspicabile che i cittadini si dotino di maggiore senso critico di fronte allo strapotere dell’industria alimentare ed esercitino un controllo oculato. A cominciare da ciò che bevono (Giuseppe Altamore). Il panico creato dalla contaminazione delle bevande, messe in vendita nei mercati, da parte di criminali o maniaci dovrebbe essere il prodromo a un consumo più consapevole: non ingurgitare tutto ciò che ci danno da bere, ma almeno prima guardare l’etichetta…

Molto più complesso risulta il problema dei cibi transgenici, ovvero i prodotti alimentari che derivano da organismi geneticamente modificati (Ogm). Le tecnologie rivolte a modificare geneticamente gli organismi si presentano come una generosa promessa di fecondità e abbondanza fatta all’umanità intera. Ricorrendo al linguaggio simbolico della Bibbia, è come se la profezia dei tempi messianici si fosse realizzata, con una opulenza inimmaginabile riversata sul popolo che conosceva solo magri prodotti strappati alla terra “con il sudore della fronte”. In Isaia, in particolare, la pienezza dei tempi è raffigurata come un lauto convito, preparato per tutti i popoli (Is. 55, 9).

La tecnologia applicata agli organismi vegetali e animali sembra la risposta a quelle attese espresse in termini mitici: promette la fine della scarsità e l’entrata nell’Eldorado, dove la natura non si mostra più come arida matrigna, ma come generosa nutrice dei suoi figli ingegnosi. Il fascino di questa simbologia struttura sotterraneamente anche i racconti evangelici, là dove vengono descritti eventi miracolosi come pochi pani e pochi pesci che sfamano moltitudini (Matteo 14, 13 - 21): nei tempi della “pienezza” la salvezza si presenta come una risposta efficace ai problemi della scarsità e del bisogno.

Chi guarda con un senso di allarme alle biotecnologie teme che, invece della promessa messianica, esse realizzino uno scenario opposto. Per utilizzare ancora il linguaggio evangelico, si potrebbe verificare la tendenza posta a commento della parabola dei talenti, affidati in misura diversa ai vari servitori: “A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Matteo, 25, 29). Anche per la biologia si può realizzare quella “nemesi” che Ivan Illich ha denunciato per la medicina, quando le benedizioni promesse si mutano in maledizioni. La prospettiva dei ricchi che diventano sempre più ricchi e dei poveri che scivolano inesorabilmente verso una più nera povertà – cioè il triste spettacolo che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi – può subire un’ accelerazione mediante le biotecnologie applicate ai prodotti agricoli.

Le componenti di creature viventi (geni, cromosomi, cellule e tessuti) possono essere considerate proprietà intellettuale di chiunque ne isoli per primo le proprietà, ne descriva le funzioni e ne individui le applicazioni commerciali utili. Grazie ai diritti sulla proprietà intellettuale, poche grandi multinazionali saranno presto in grado di controllare l’ intero patrimonio di sementi del pianeta. Per la prima volta nella millenaria storia dell’umanità, gli agricoltori non saranno più autorizzati a riservare una parte del raccolto per la semina dell’anno seguente: le aziende del settore, infatti, cedono in affitto per una sola semina le sementi che hanno brevettato; gli agricoltori dovranno ricomprarle per ogni nuova semina.

Per evitare “furti” da parte degli agricoltori, alcune multinazionali degli Ogm hanno inserito nelle piante un gene che impedisce loro di essere fertili. Questa tecnologia – ribattezzata con amara ironia terminator technology – rende superflua ogni vigilanza poliziesca delle multinazionali sui loro prodotti; ma per “milioni di coltivatori, la cui sopravvivenza è legata ai semi che riescono ad accumulare e a scambiare con i vicini, in un commercio informale e sotterraneo, dover negoziare con le multinazionali delle bioscienze un accesso alle sementi limitato a un unico ciclo produttivo, può significare un passo verso il baratro” (Jeremy Rifkin: L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondatori, 2000).

Il dibattito relativo alla liberalizzazione dei cibi derivati da Ogm ruota per lo più intorno alla sicurezza. Gli oppositori fanno appello al “principio di precauzione” per tutelarsi da effetti indesiderati. Ma di peso non minore sono le considerazioni etiche relative ai problemi di giustizia, per gli squilibri tra ricchi e poveri che la ricerca genetica applicata può aggravare. Le biotecnologie sono, di fatto, in mano a poche, ricchissime multinazionali. E si spiega: questi interventi sul materiale biologico non si possono improvvisare nei sottosala, pasticciando con le provette. Si tratta di una ricerca che ha bisogno di grandi investimenti, che solo le imprese più potenti possono permettersi; con la prospettiva di ricavarne utili adeguati.

Il male non sta nel guadagno, ma nel danno che rischiano di subire i più poveri.

Chi non ha… perderà anche quello che ha! Il mercato non è sinonimo di peccato: è uno dei sistemi più efficaci per indurre a produrre e a scambiare beni e servizi. Ma non possiamo lasciare tutto al mercato, perché le sue leggi fanno soccombere i più deboli. Quando si tratta di togliere loro il pane – in senso letterale, secondo le prospettive che abbiamo considerato probabili per l’agricoltura del futuro – le ingiustizie del mercato diventano particolarmente odiose. Sono necessarie forme di controllo pubbliche, che concilino gli interessi di mercato con il bene della comunità. Per questo le biotecnologie sono un tema politico, e la politica – nel suo significato più alto – non può evitare di monitorarne lo sviluppo e le applicazioni. Per fare giustizia agli svantaggiati. Ovvero – per ricorrere ancora al linguaggio della tradizione biblica – perché la terra è di tutti.

La bioetica ha iniziato a mettere nella sua agenda anche  la risposta politica alla fame nel mondo. Può essere interessante notare che l’Encyclopedia of Bioethics, curata da Warren Reich, mentre registra notevoli variazioni tra la prima edizione del 1978 e la seconda del 1995, riproduce invariato l’ampio articolo “Food policy” contenuto nell’edizione originaria. La conclusione è che il mercato da solo non riesce ad allocare il cibo in maniera equa e che i governi debbono abbandonare il ruolo di secondo piano che si sono limitati a tenere, a vantaggio delle aziende multinazionali e delle istituzioni finanziarie. Purtroppo dobbiamo registrare che l’articolo potrebbe essere riprodotto tale e quale a quasi dieci anni di distanza: la politica sembra aver rinunciato a governare il problema mondiale dell’alimentazione.

La dimensione globale dell’alimentazione non ci fa dimenticare lo scenario clinico. Dall’inizio alla fine della vita, chi si occupa della salute altrui è confrontato con la “dieta”, nel significato comprensivo che il termine aveva nella medicina dell’antichità. La dieta, infatti, si estendeva a tutti gli ambiti che l’uomo deve pianificare di sua iniziativa, in quanto non sono determinati in modo automatico dalla natura (i latini parlavano di res non naturales, nelle quali comprendevano il rapporto dell’uomo con aria e acqua, mangiare e bere, movimento e riposo, sonno e veglia, deiezione e sessualità, affetti e passioni).

Il nostro dossier opta per una impostazione biografica, per individuare alcuni problemi medici dell’alimentazione nell’arco dell’esistenza che si estende dal primo vagito all’ultimo respiro. L’alimentazione al seno è la questione cruciale degli inizi. In alcune realtà italiane – ancora poche – si cerca di tradurre in atto il programma proposto dall’Oms tramite la rete dei Baby Friendly Hospitals, che promuove l’allattamento al seno (Leonardo Speri). Ma il latte artificiale appare ancora una allettante scorciatoia, che è necessario contrastare (Adriano Cattaneo). I pediatri devono imparare a contenere le ansie dei genitori circa l’alimentazione dei figli, senza sostituire il sapere istintivo delle madri e dei padri con conoscenze specialistiche (Nicola D’Andrea).

Tutti i medici, inoltre, sono confrontati con patologie croniche e dismetaboliche nelle quali la terapia di elezione è un rapporto consapevole con il cibo. Tramontata la stagione della medicina paternalistica, esercitata dall’alto di una autorità indiscussa, il sanitario dovrà imparare l’arte della negoziazione con il paziente (Giuseppe Bargero). Mentre si amplia il ventaglio delle patologie del comportamento alimentare, cadono le barriere specialistiche: solo con la collaborazione di esperti del corpo e di esperti della psiche si può sperare di trovare risposte terapeutiche, cominciando a prendere in considerazione gli insuccessi, per imparare da essi (Patrizia Todisco).

Grande attualità, infine, hanno i dibattiti sulla nutrizione e idratazione nell’ambito delle cure di fine vita: gli esperti in cure palliative si confrontano con situazioni di alta densità simbolica (significato antropologico dei processi di nutrizione) e complessità etica (accanimento terapeutico, azioni eutanasiche, rispetto della volontà del soggetto) che eccedono il sapere clinico (Franco Toscani).

La tesi polemica di Feuerbach, secondo il quale “l’uomo è ciò che mangia”, emerge trasparente allo sguardo delle medical humanities: tanto se consideriamo la famiglia umana seduta a un’unica mensa, dove però alcuni digiunano e altri divorano, quanto se ci focalizziamo sul ruolo del cibo nella parabola della vita di ogni singolo essere umano. Il cibo è ben di più di un combustibile. Intriso di ingiustizie e prevaricazioni, imbevuto di emozioni, di sogni e di paure, intreccio di relazioni tra esseri umani, oltre che con i regni animale e vegetale, il nutrimento ci lega alla biosfera in un abbraccio che contiene tutti i conflitti fondamentali dell’umanità (mors tua vita mea; ma quante volte il cibo è la stessa sostanza vitale dell’uomo, che “mangia ciò che è”...).

Della medicina abbiamo bisogno non solo per riparare i mali prodotti dalla carenza o dall’eccesso di cibo, ma ancor più fondamentalmente per aiutarci a porre le domande giuste nei confronti di ciò che nutre la vita.