Sandro Spinsanti
Errori, pentimenti, rimpianti
Editoriale Janus 14 - Estate 2004
Sbagliano i medici? Sì, certamente. E gli infermieri, e gli altri professionisti sanitari? Anche loro: chi più, chi meno. Chi per colpa, chi incolpevolmente. Chi come artefice dell’errore, chi come vittima di modi di organizzare il lavoro o di omissione nel rimuovere le cause strutturali dell’errore. Non esiste una pratica terapeutica senza possibilità di errore. E quindi l’incertezza è connaturata alla pratica stessa della medicina: nessuno – né chi eroga un intervento sanitario, né chi lo riceve – può essere sicuro del buon esito di un intervento terapeutico. L’incertezza e l’errore, con gli spiacevoli strascichi psicologici che li accompagnano – pentimenti, accuse, rammarichi – sono il lato d’ombra della medicina. Così era anche in passato. Anche in quello remotissimo, che coincide con gli inizi della medicina occidentale. Ne troviamo traccia nel primo, notissimo, degli Aforismi attribuiti a Ippocrate: “La vita è breve, l’arte lunga, l’occasione fuggevole, l’esperienza fallace, il giudizio difficile”. Solo che, fino a un’epoca recentissima, l’atteggiamento prevalente, tanto tra i medici quanto tra i cittadini, tendeva a scotomizzare soprattutto l’aspetto della medicina legato alla fallacia di ciò che si sa e di ciò che si fa con l’intenzione di giovare al malato. Lo storico della medicina Edward Shorter descrive così, in termini autobiografici, la formazione che solitamente ricevevano i medici:
Al termine di qualche anno di studio pensavo ormai di capire che cosa fosse la medicina: l’apprendimento della realtà scientifica, in modo che, scoperto il danno all’interno del malato, grazie allo sguardo ai raggi X acquisito, la conoscenza della realtà avrebbe consentito di operare la guarigione. E questo è quanto credono della medicina non soltanto quasi tutti i profani, bensì anche molti medici.
Questo modo di vedere è fallace. Shorter stesso, come molti altri medici, se n’è accorto in un secondo tempo; mentre medici e pazienti che non se ne sono accorti sono insoddisfatti gli uni degli altri. Perciò Shorter dedica il suo libro – intitolato significamente La tormentata storia del rapporto medico-paziente: tr.it. Feltrinelli, 1986 – “A quei pazienti irati e a quei medici disorientati, i quali vorrebbero capire il perché di tanto risentimento quando si viene a parlare del vissuto della pratica clinica”.
Studiosi attenti alla struttura peculiare del sapere medico e dell’esercizio sociale della medicina hanno analizzato i meccanismi messi in atto per esorcizzare i lati d’ombra. In particolare meritano la più grande considerazione gli scritti della sociologa Renée C. Fox, che con varie ricerche ha esplorato il ruolo che ha l’incertezza nella formazione dello studente di medicina, nella socializzazione del medico e nella condizione umana dei professionisti della salute. Discepola del sociologo Talcott Parsons, R. Fox ha cominciato a occuparsi, fin dagli anni Cinquanta, della socializzazione degli studenti in medicina. Il saggio che raccoglieva la sua prima ricerca recava il titolo emblematico: Training for Uncertainty (1957). Ai suoi occhi la formazione del medico appariva come un itinerario finalizzato a fornire la capacità di gestire l’incertezza. Questo lungo allenamento era centrato attorno a tre tipi fondamentali di incertezza. Il primo è quello che deriva da un dominio incompleto o imperfetto del sapere disponibile: nessuno può possedere tutte le qualificazioni e tutte le conoscenze del sapere medico. Il secondo tipo di incertezza dipende dai limiti propri della conoscenza medica attuale (esistono immensi problemi ai quali nessun medico, per quanto esperto, può dare ancora risposta, anche se è legittimo sperare che lo si possa fare in futuro). Una terza causa di incertezza è quella che consiste nella difficoltà di distinguere l’ignoranza o incapacità personale dai limiti specifici della conoscenza medica attuale; ovvero, in parole semplici, se l’eventuale fallimento vada imputato al medico o alla scienza.
All’occhio dello studioso dei comportamenti sociali risulta agevole stabilire un rapporto tra l’incertezza del sapere medico e quella intrinseca dalla condizione umana, nella quale i fatti relativi alla salute, malattia, benessere, morte, sofferenza sono sempre problemi critici di significato. Ma il sociologo è in grado di descrivere anche i meccanismi attraverso i quali gli studenti di medicina in formazione riescono ad adattarsi all’incertezza. Al termine dell’“allenamento all’incertezza”, secondo Renée Fox, gli studenti diventano capaci di accettare l’incertezza come inerente alla medicina, di distinguere i propri limiti da quelli della scienza, di affrontare l’incertezza con un certo candore e una positiva filosofia scettica. Una singolare condensazione di questo atteggiamento si può trovare nello humour tipico degli ambienti medici, miscuglio unico di ironia, empietà e autoderisione.
Le strategie per disinnescare le potenzialità destabilizzanti dell’incertezza naufragano però nel contesto culturale dei nostri giorni. Intanto perché l’orizzonte dell’incertezza si è allargato. Emerge una figura inedita dell’incertezza, che – appoggiandoci ancora alle ricerche di Renée Fox – potremmo chiamare “incertezza di secondo livello”, ovvero “incertezza dell’incertezza”. La maggior parte dei problemi posti attualmente dall’incertezza e dal rischio non si può ridurre entro il quadro analitico di una sola disciplina o di una singola professione. Le incertezze associate ai progressi scientifici e tecnici più recenti (come il trapianto di organi, il depistaggio di malattie a base genetica e la consulenza genetica, la chemioterapia per il cancro) sono legate a metaquestioni che eccedono l’ambito dell’incertezza medica. Sia che si parli dei rischi potenziali paragonati ai vantaggi eventuali, delle conseguenze aleatorie che determinati interventi terapeutici possono comportare per la salute e la sopravvivenza, di predittività, oppure della qualità della vita, inevitabilmente incontriamo problemi fondamentali della società e della stessa condizione umana. L’orizzonte dell’incertezza si ampia, quindi, ben al di là delle decisioni al letto del malato.
Ma questo scenario è solo metà della storia. L’altra metà è costituita dall’incertezza che ormai anche per i cittadini fa parte del vissuto della cura. Il processo di empowerment porta a partecipare – almeno per il numero crescente di persone che non ritengono più accettabile il modello del paternalismo medico – alle scelte terapeutiche. E perciò stesso anche alle incertezze, che sono parte costitutiva della medicina. Alcune situazioni estreme sono le decisioni che si addensano sul finire della vita, come i limiti ai trattamenti medici. La legittimazione di indicazioni di volontà che guidino le scelte anche quando il paziente ha perso la capacità di intervenire direttamente nel processo decisionale ha trovato espressione nel documento del Comitato nazionale per la bioetica: Direttive anticipate di trattamento, dicembre 2003. Situazione perplesse di questo genere (che cosa è appropriato? quando tutto il possibile è troppo? quando la rinuncia al possibile deve essere qualificata come colpevole pusillanimità? quando le condizioni di sopravvivenza assicurata ci fanno rimpiangere una medicina meno potente?) sono solo il paradigma di un’incertezza che pervade tutte le decisioni di cura.
Decidendo di “partecipare più ampiamente alle decisioni che li riguardano” (è la definizione pregnante di “consenso informato” proposta dal documento del Comitato nazionale per la bioetica: Informazione e consenso all’atto medico, 1992), i cittadini accettano implicitamente di sbagliare. E i loro familiari non di meno. Errori e pentimenti possono così essere equamente divisi tra coloro che erogano professionalmente le cure e coloro che le ricevono.
Anche la ricerca di strategie di riparazione dovrà quindi essere condivisa tra gli uni e gli altri. L’alternativa al conflitto endemico tra professionisti sanitari e pazienti è cominciare ad apprendere insieme, in umiltà, modi nuovi per far fronte all’incertezza.