Janus 15 – La salute, un bene di famiglia

Book Cover: Janus 15 - La salute, un bene di famiglia

Sandro Spinsanti

La salute, un bene di famiglia

Editoriale Janus 15 - Autunno 2004

 

“Vogliamo abolire la famiglia, unica mutua naturale, che ci assiste dalla culla alla bara, con efficienza, con prontezza, con affetto, senza costare nulla allo Stato?”. La domanda retorica ha trent’anni di vita: l’ha lanciata Amintore Fanfani nel 1974, come appello finale della campagna referendaria per l’abolizione del divorzio. L’appello a salvare la “mutua naturale” costituita dalla famiglia si rivolgeva a un modo di concepire questa istituzione che si presupponeva avesse resistito ai cambiamenti culturali. È la famiglia che emerge dalle pagine di Cuore di Edmondo De Amicis, specchio degli ideali dell’Italia borghese (il libro è uscito nel 1886). Pochi hanno oggi la forza di gettarsi in quel “gran mare di languorosa melassa” (Umberto Eco). Vi troveremmo una fotografia della famiglia come erogatore di cure, quando lo Stato offriva, al più, gli ospizi per i vecchi senza famiglia e gli istituti per i “bambini rachitici”. Le nonne, le sorelle e soprattutto le madri si occupano dei malati (il bravo scolaro Enrico si becca anche una predica dalla sorella, con la quale ha litigato: “Non sai che quand’eri bambino ti stavo per ore e ore accanto alla culla, invece di divertirmi con le mie compagne, e che quando eri malato scendevo dal letto ogni notte per sentire se ti bruciava la fronte?”). L’edificante “racconto mensile” L’infermiere di tata estende i confini della cura oltre la famiglia biologica: il ragazzino napoletano che va in ospedale per assistere il suo tata (ovvero il padre) non riconosce il vecchio deformato dalla malattia e se ne prende cura come se fosse suo padre; quando l’equivoco si chiarisce e ritrova suo padre guarito, non ritorna a casa con lui, ma resta a dare conforto al tata che ha spiritualmente adottato, fino alla sua morte. Ciò che la sociologia di oggi chiama “capitale sociale” - essenzialmente la fiducia condivisa di poter ricevere ciò di cui si ha bisogno tramite una rete di scambi e di appoggi che restituisce in futuro le cure erogate - era impersonato nella famiglia, che entrava in funzione soprattutto nelle crisi della salute.

Chi, neppure cent’anni dopo l’orgia di buoni sentimenti di Cuore, faceva appello alla “mutua naturale” della famiglia contava sul permanere nel tempo di questo modello di cura e di assistenza. Sappiamo che l’argomento non ha fatto breccia nelle preferenze della maggior parte degli italiani. Non solo: quattro anni dopo, nel 1978, sarebbero state cancellate le mutue – non quelle “naturali”, ma quelle istituzionali – per introdurre il Servizio sanitario nazionale. Ben più del divorzio, la copertura universalistica dei bisogni di salute garantita dal Ssn avrebbe scosso la famiglia in una delle sue funzioni fondamentali: garantire che ci sia qualcuno che si prende cura delle persone fragili. Nella famiglia tradizionale c’è sempre qualcuno - donne per lo più - che si occupa dei bambini, si prende cura dei vecchi e dei malati, garantisce continuità di cure ai non autosufficienti. Le cure offerte costituiscono un “capitale sociale”, in quanto fondano il ragionevole di diritto di ricevere in contraccambio, quando se ne presentasse la necessità. Questo scambio cementa il legame tra le generazioni (non senza il contributo, nella tradizione giudaico-cristiana, del comandamento che chiede di “onorare il padre e la madre”, restituendo loro le cure ricevute).

La creazione di un servizio sanitario pubblico è l’ultima tappa di un processo che ha portato a superare i sistemi di garanzia particolaristici: da quelli “naturali”, come la famiglia, a quelli sociali, come la mutualità costituita da aggregazioni volontarie. “Dalla culla alla tomba ci pensa lo Stato”: era lo slogan del primo servizio sanitario nazionale, quello inglese, costituito nel 1948. La famiglia veniva così scavalcata. Possiamo rivendicare il diritto a cure mediche e assistenza non perché nati in una determinata famiglia o affiliati a una certa organizzazione, ma semplicemente in quanto cittadini. È una conquista di civiltà della quale siamo giustamente fieri. Non possiamo tuttavia negare che il superamento della famiglia come sistema di cure sia stato proclamato troppo superficialmente. Fin troppo spesso le famiglie si vedono restituito un compito dal quale, teoricamente, dovrebbero essere sollevate. Nel nostro dossier prendiamo in considerazione alcune di queste situazioni, che i cittadini conoscono purtroppo per  esperienza diretta: l’assistenza ai malati mentali in primo luogo (Franco Fasolo: La persona con disabilità psichica nella comunità); la gestione quotidiana delle patologie cronico-degenerative, come l’Alzheimer (Patrizia Spadin: La famiglia come risorsa per il malato di Alzheimer); la cura dei figli disabili, in un progetto a vita, che si estende dopo la morte dei genitori (Vinicio Albanesi: “E dopo di noi?”: genitori e il futuro dei figli disabili). Alcune volte le famiglie, pur potendo disporre dei supporti clinico-assistenziali offerti dal servizio pubblico, preferiscono farsi carico direttamente del peso delle cure, nella fiducia di poter offrire migliore qualità alla vita residua (Chiara Mastella: L’ “abilitazione precoce” dei genitori). Dal punto di vista sia teorico che pratico il servizio sociale dovrebbe sostenere le famiglie in queste situazioni e integrare l’assistenza professionale con quella offerta in base ai legami di parentela (Mariella Orsi: Che cosa può fare il servizio sociale per la famiglia come luogo di cura?), ma sappiamo che molto spesso non è così: le istituzioni tagliano i fondi destinati ai servizi sociali, le famiglie vengono lasciate sole e la patologia globale aumenta. Le famiglie si disgregano, i caregiver gravati da compiti che eccedono le loro forze, vanno in burn-out o in depressione. Gli esiti estremi di questi stati di usuramento ci capita talvolta di leggerli nelle notizie di cronaca, tradotti in gesti estremi di disperazione.

C’è chi pensa, sfidando non solo il paradosso ma la stessa logica, che per ovviare ai mali della sanità pubblica bisognerebbe privatizzarla. Ebbene, situazioni come quelle presentate dai contributi che pubblichiamo danno concretezza allo scenario. Sono soprattutto le famiglie che sostengono i pesi maggiori, quando lo Stato si ritira. I risparmi che si ottengono scaricando su di loro l’assistenza sono illusori, perché non fanno che spalmare malessere e patologie su un numero più ampio di cittadini.

Affinché la centralità che rivendichiamo per la famiglia nei sistemi di cura non si sviluppi sotto il segno negativo di una regressione impossibile, bisogna che allo stesso tempo ci disponiamo a rimettere in discussione la famiglia stessa. È un compito che spetta alle scienze dell’uomo, sia nel versante sociale che in quello psicologico. Il saggio di Corrado Pontalti: Essere famiglia: un inesauribile mistero ci confronta con gli stereotipi che ci impediscono di sondare le reali dimensioni, comprese quelle simboliche, dell’essere famiglia. Ma anche una riflessione sulla prassi ci può aprire inaspettati orizzonti. Alessandra Feltrin: La “grande famiglia” dei trapiantati, ad esempio, ci guida a scoprire che la pratica dei trapianti di organo fonda un raggruppamento sociale nuovo - la “famiglia dei trapiantati” - che sconvolge le categorie sociologiche abituali. Anche il volontariato, nelle sue varie forme di solidarietà concreta, permette di scoprire la “famiglia” costituita dagli estranei che abitano la porta accanto. Il “capitale sociale” che le famiglie possedevano fino all’esplosione della famiglia mononucleare  può essere ricostituito solo allargando i confini della famiglia stessa. Le proposte di “antenne di caseggiato” o “sentinelle di condominio”, per rispondere alle esigenze delle nuove povertà, in particolare della povertà estrema costituita dalla solitudine, vanno in questa direzione. Si può essere vicini anche da lontano. È il progetto che ci illustra Nicola Ferrari: La famiglia in lutto: l’aiuto epistolare, presentandoci la possibilità di aiuto epistolare offerto alle famiglie in lutto. È vero: “Si vive, come si sogna: soli...” (Joseph Conrad: Cuore di tenebre). E soli si muore. Soli si rimane dopo la perdita delle poche persone care che ormai costituiscono la rete ristretta di relazioni significative. Ma non c’è solitudine che non possa essere visitata da un momento privilegiato d’incontro.

La struttura portante degli aiuti professionali che permettono alla famiglia di gestire il suo capitale di salute è fornita dalle due figure che troviamo abitualmente accanto nelle situazioni di crisi: il medico e l’infermiere (talvolta in una gerarchia di significanza invertita: l’infermiere può essere più vicino del medico!). Antonio Panti (Il ruolo del medico di famiglia) e Pio Lattarulo (L’infermiere... in famiglia. Politiche e priorità) ci offrono una riflessione sulle rispettive competenze e opportunità. Non possiamo e non vogliamo contrapporre cure familiari e cure professionali, welfare sanitario e iniziativa personale, organizzazione e volontariato, giustizia e ragioni del cuore. In tempi e in luoghi diversi, c’è spazio per tutte le forme di intervento per sostenere la parabola di vita degli esseri umani. Pindaro, che pur aveva davanti agli occhi i corpi degli atleti impegnati nei giochi e nelle gare, li ha chiamati “effimeri” (creature di un giorno). Dopo tanti secoli e tanto progresso scientifico, non troviamo un aggettivo più appropriato per descrivere la nostra vita.