Sandro Spinsanti
La malattia che verrà (forse...)
Editoriale Janus 18 - Estate 2005
“Il problema principale della medicina – quello che rende la posizione del paziente così dolorosa, quella del medico così difficile, e far parte di una società che paga i conti così frustrante – è l’incertezza. Con tutto quello che sappiamo oggi sul corpo umano, sulle malattie e su come diagnosticarle e curarle, è difficile capirlo, è difficile cogliere la profondità dell’incertezza. Ma noi medici siamo consapevoli del fatto che, se vogliamo curare qualcuno, dobbiamo fare i conti più con quello che non sappiamo che con quello che sappiamo. La condizione normale della medicina è l’incertezza. E la saggezza – sia da parte dei pazienti sia da parte dei medici – sta nel modo di affrontarla”. Il giudizio autorevole di Atul Gawande, un medico-scrittore di successo (Salvo complicazioni, Fusi orari, Roma 2005, pag. 244), si riferisce alla pratica medica che ruota attorno alla lotta contro le malattie. Quando parliamo di medicina predittiva l’incertezza subisce un aumento esponenziale. La medicina predittiva va oltre la capacità di diagnosticare una malattia presente, anche in grado iniziale, così da non essere ancora accompagnata da sintomi e percepita dalla persona malata. È la medicina che apre una finestra sulla malattia che verrà (forse...). Ed è quindi accompagnata da una incertezza all’ennesima potenza.
La possibilità di ottenere informazioni sul destino genetico degli individui è considerata dall’opinione pubblica come uno degli sviluppi più promettenti della medicina. Già la qualifica di “predittiva” applicata a questo tipo di medicina rivela che in essa si riversano non solo le attese razionali, ma anche quelle mitiche dell’umanità: la capacità di conoscere e svelare ciò che ci capiterà in futuro sembra passare dagli indovini – compreso l’occhio della strega, nel quale i bambini di Big Fish, il film visionario di Tim Burton, vedono quello che sarebbe stata, in futuro, la propria morte – agli scienziati in camice bianco. La transizione a cui stiamo assistendo è anche descritta come il passaggio della genetica alla “genomica”, ovvero dalla genetica di tradizione mandeliana, che disponeva unicamente di previsioni statistiche, alla genetica di tipo “molecolare”, capace di identificare le alterazioni presenti nel patrimonio genetico ereditario dell’individuo che predispongono all’insorgenza di specifiche malattie tendenti a manifestarsi in età adulta.
Questi sviluppi aprono nuovi orizzonti, per l’individuo e per la società. Le possibilità di intervento della bio-medicina sulla vita privata prima della nascita si sono ampliate e differenziate. La nuova genetica mette a disposizione una serie di test diagnostici che danno un profilo concreto alla medicina predittiva. L’analisi molecolare del DNA fornisce diagnosi precise di patologia esistenti già nel feto (diagnostica prenatale); permette inoltre di riconoscere i portatori sani di una determinata mutazione cromosomica, quindi potenzialmente a rischio di generare figli affetti dalla malattia causata da quella mutazione (in passato, con la genetica tradizionale a queste persone si poteva dare solo una stima probabilistica del rischio, mentre oggi è possibile fornire informazioni che si avvicinano alla certezza); si possono fornire, infine, alle persone delle diagnosi di predisposizione: pur essendo attualmente sane, sono in grado di sapere se hanno ereditato i geni che le predispongono a sviluppare in seguito la corea di Huntington, o il cancro del seno, o il morbo di Alzheimer.
Il Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento Diagnosi prenatale, del 1992, fin dal primo diffondersi di queste pratiche ha cercato di promuovere un governo delle nuove capacità conoscitive da parte dei medici:
“Si deve escludere in ogni caso un uso indiscriminato e non giustificato da una vera e propria indicazione medica, pur nell’ampiezza che ha assunto oggi questo concetto. La donna dovrà quindi essere informata sia sui rischi che sulle alternative possibili, così da prestare un consenso libero e pieno. L’informazione dovrà riguardare anche e diffusamente il coinvolgimento del feto, essendo primario interesse della donna di conoscerne il destino”.
Anche se esiste un diffuso consenso a vietare l’uso improprio della diagnosi prenatale – come la selezione del sesso dei figli per finalità sociali o affettive -, è difficile tracciare un semplice confine netto tra la finalità terapeutica (individuare una patologia in atto nel feto, per poterla curare tempestivamente) e la prevenzione. Anche questa, a sua volta, subisce una trasformazione di significato. Riferita alla diagnostica prenatale, la prevenzione non è più un comportamento che mantiene la salute e impedisce l’insorgenza di malattie, ma un’azione rivolta a impedire la nascita di bambini portatori di malformazioni o di patologie.
Anche il terreno della prevenzione è scivoloso e tende a sfociare nella richiesta di conoscenze riferite non alla patologia, ma a condizioni ritenute desiderabili dalla coppia genitoriale. Avere un figlio dell’uno e dell’altro sesso è l’esempio più chiaro degli usi indiscriminati e non appropriati dei quali parla il Comitato Nazionale per la Bioetica. L’aumento delle conoscenze che si possono ricavare dall’esame del corredo genetico di un embrione ha creato aspettative a tutto campo, compreso il quoziente intellettuale. Dalla medicina ci si aspetta che risponda alla “bulimia conoscitiva” della nostra società, sfociando in una vera e propria capacità di predizione.
La risposta appropriata a questa tendenza incontrollata ad avere tutte le informazioni possibili potrebbe essere la proposta di un “ascetismo conoscitivo”. L’ascetismo designa un atteggiamento di deliberata rinuncia alla fruizione di cose lecite, per un fine spirituale. Possiamo applicare la nozione non solo al cibo e ad altre condizioni di confort corporeo, ma anche alle conoscenze che si possono acquisire. Il tema è presente anche da Cervantes nel Don Chisciotte della Manica, nel cap. 33, con la novella chiamata del “Curioso impertinente” (tradotto come “il Curioso fuor di luogo” o “l’Incauto sperimentatore”). Riferendosi alla prova del bicchiere di Rinaldo, Cervantes osserva: «Per quanto questa non sia che una finzione poetica, racchiude in sé segreti morali degni di essere rilevati, intesi e imitati». “Quel test può farti male”; è un ammonimento prudenziale che deve essere proposto a chi richiede con leggerezza analisi genetiche di paternità. Il test, richiesto per risolvere dubbi angosciosi di paternità, può ricadere come un boomerang su chi vi fa ricorso
L’ascetismo conoscitivo si può estendere oggi a ben altri ambiti che alle infedeltà coniugali. Possiamo conoscere – senza far ricorso alla magia, ma alla scienza – con buona approssimazione il nostro futuro patologico. Una saggezza analoga a quella di Rinaldo potrebbe indurci a rinunciare ad acquisire conoscenze dalle quali la nostra vita non riceverebbe nessun miglioramento. Tuttavia dobbiamo essere consapevoli che il “diritto di non sapere” non è più considerato un comportamento accettabile – o addirittura lodevole – ma viene socialmente sanzionato come un comportamento colpevole.
Nella visione religiosa tradizionale la malattia era suscettibile di essere associata con sensi di colpa in quanto patologie ed handicap erano considerati come punizioni di peccati. Nella visione laica e secolarizzata della medicina il senso di colpa viene mantenuto vivo attraverso altri percorsi. Le campagne di educazione sanitaria, ad esempio, non sono una neutra esposizione di fatti; per convincere a modificare comportamenti e abitudini dannose per la salute, non esitano a ricorrere a sottili forme di manipolazione. I più efficaci programmi “educativi” riescono a far sentire in colpa o a disagio il soggetto quando assume comportamenti giudicati non sani. Oppure quando non fa quanto è in suo potere per prevenire malattie e handicap.
La società che considera la malattia come una colpa era stata anticipata, in chiave parodistica, nel celebre romanzo di Samuel Butler: Erewhon (1872). Nella sua visione utopica di un mondo capovolto, il malato era indotto a sentirsi colpevole per la sua malattia; e ciò appunto «per prevenir il diffondersi del decadimento fisico e delle malattie», come spiega il giudice che nel cap. XI del romanzo condanna il malato per «il grave delitto di tubercolosi polmonare». Oggi il fenomeno della colpevolizzazione del malato si designa con il termine inglese “victim blaming”, che indica appunto un atteggiamento di disapprovazione riferito alle vittime delle vicende morbose, in quanto ritenute responsabili di quanto è loro capitato.
L’esortazione a porre freno a questa linea di tendenza nell’uso delle conoscenze mediche non viene solo da magisteri ostili alla modernità, ma anche da fonti pregiudizialmente favorevoli all’utilizzo dei nuovi saperi per migliorare la vita umana. Si segnala in questo senso il rapporto internazionale curato dalla Hastings Center: Gli scopi della medicina: nuove priorità. La medicina predittiva è collocata tra gli usi della medicina accettabili in alcune circostanze, ma nei cui confronti è opportuno tenere alta la guardia. Soprattutto quando vengono indirizzati a “migliorare” le caratteristiche umane naturali:
“Di conoscenze veramente solide su cui basare i nostri sforzi di migliorare o di affinare la nostra natura noi ne abbiamo molto poche; in più non c’è alcun consenso su cosa debba intendersi per miglioramento e mancano convergenze significative sulla questione se le conseguenze genetiche o sociali a lungo termine saranno buone o cattive (...). Negli anni a venire è probabile che la tentazione di usare le conoscenze e le abilità mediche per manipolare e costringere intere classi di persone o intere società in nome di un miglioramento della salute, del benessere sociale o del controllo dei costi, divenuti sempre più forti e estremamente seducenti (...). Aborti coatti, obbligatorietà dello screening genetico e della diagnosi prenatale e di eccesso di pressioni a favore di un cambiamento delle abitudini sanitarie, non sono ipotesi teoriche. La coercizione delle persone con mezzi medici rappresenta un pericolo più reale ed evidente in molti paesi: una minaccia all’istituzione della medicina, nonché alla libertà e alla dignità umana”.
Il rapporto, che raccoglie il lavoro di studio di 13 paesi, ha già quasi un decennio di vita. Le sue indicazioni non sono per questo meno attuali. Anzi, appaiono anticipatrici di una tendenza che con gli anni è andata sempre più rafforzandosi.