Sandro Spinsanti
Vivere legati a una macchina
Editoriale Janus 19 - Autunno 2005
Il libro si presenta come un romanzo, anche se la parte riservata all’invenzione narrativa è molto esile rispetto alla descrizione dell’ambiente, degna di un reportage giornalistico. Tutta la vicenda si svolge in un reparto di terapia intensiva.
Con cruda precisione è riportata la condizione di un malato in rianimazione: “un uomo connesso a un respiratore, con una serie di cavi e tubi che lo attaccano all’esistenza come i fili di un’orribile marionetta, e con le membra esili e incerte che fanno dubitare della sua appartenenza a ciò che comunemente siamo abituati a considerare come genere umano” (p. 202). Tra i pensieri che lo scrittore attribuisce al malato che si dibatte nella terra di nessuno che si estende tra la vita e la morte, ricorre il conflitto costante con la macchina che gli permette di sopravvivere. Il malato tracheostomizzato, che non può parlare ma può pensare, si sente “dipendente da una serie di macchine che mi fanno sospettare che in vita siano loro e non io” (p. 229); e ancora: “Tutte le volte che cerco di dire una cosa quella non viene fuori. Più mi accaloro e insisto, più la tracheotomia si ribella facendomi maltrattare dal respiratore, che non accetta mai di essere un mio sottoposto e che non perde mai l’occasione di farmi capire che chi comanda è lui. E senza di lui io sono morto” (p. 6). Stiamo citando dal romanzo di Marco Venturino: Cosa sognano i pesci rossi (Mondadori, 2005).
La macchina incriminata – il respiratore – appartiene alle risorse più vistose e benefiche di cui dispone la medicina tecnologica dei nostri giorni. È la risorsa salvavita per eccellenza. Ma l’elenco delle macchine a servizio della vita è lungo e articolato: possono surrogare e adiuvare la funzione cardiaca, sostituirsi ai reni, potenziare i sensi del clinico amplificando le possibilità di diagnosi, sostituirsi agli arti mutilati o inefficienti. Nel nostro immaginario la medicina tecnologica è quella che ricorre nel modo più ampio e creativo alle macchine. Non raramente la qualità di una istituzione sanitaria viene misurata sulla disponibilità di macchine dell’ultima generazione, sempre più complesse e costose. Anche nel linguaggio metaforico si ricorre alla macchina per descrivere il funzionamento della medicina, come quando l’ospedale intero è paragonato a una macchina (l’ospedale come “machine à guérir”, secondo una celebre definizioni), o si parla del corpo umano come di una macchina, di cui siamo in grado di sostituire i pezzi che non funzionano più.
La medicina si è appropriata con entusiasmo del mondo delle macchine, che moltiplica esponenzialmente le sue capacità terapeutiche. Non intralciano più il loro cammino trionfale le complicazioni filosofiche illuministe, quando il modello macchina applicato al corpo serviva per promuovere spregiudicate tesi materialistiche, che facevano a meno dell’anima (vedi le affermazioni di J. O. de La Mettrie: L’uomo macchina, 1747, per il quale “il corpo umano è una macchina che carica da sé i suoi meccanismi, immagine vivente del moto perpetuo ... L’anima non è dunque altro che un termine vano, di cui non possediamo alcuna idea e di cui un buon intelletto deve servirsi per nominare quella parte di noi che pensa”). Dimostrare che l’uomo è una macchina si è rivelata un’impresa senza prospettive, che ha come solo effetto quello di produrre un impoverimento sul piano conoscitivo (cfr. Giorgio Israel, La macchina vivente. Contro le visioni meccanicistiche dell’uomo, Bollati Boringhieri, 2005). Entro l’orizzonte laico e pragmatico che è proprio della nostra medicina, le macchine ci si presentano come una risorsa, non come un problema.
La storia della medicina non conosce l’analogo delle rivolte luddiste che nel all’inizio della rivoluzione industriale mobilitarono gruppi di operai contro l’impiego delle macchine. Ciò non vuol dire, tuttavia, che il ricorso ad esse non esiga una attenta considerazione, sotto il segno dell’appropiatezza e della misura. Per rifarci ancora al libro di Marco Venturino, l’autore attribuisce al suo personaggio – legato al respiratore che lo tiene in vita, ma costretto al mutismo – un feroce risentimento verso i medici che non hanno saputo o voluto informarlo dell’eventualità di venire a trovarsi in quello stato. Alcuni gli avevano parlato dell’incurabilità del cancro che gli era stato diagnosticato, mentre un chirurgo – che nella categoria dei medici dotati di bisturi rappresenta il gruppetto incline alle sperimentazioni irresponsabili e agli spericolati azzardi – aveva prospettato un percorso di cura senza difficoltà (qualche giorno in ospedale, e poi a casa in convalescenza ...!); nessuno gli aveva prospettato che, a seguito dell’intervento chirurgico, avrebbe potuto venirsi a trovare in uno stato intermedio tra la vita e la morte, dove le macchine gli avrebbero assicurato la mera sopravvivenza e la lenta discesa, un giorno dopo l’altro, verso la fine. La morte non sarebbe venuta di colpo, come quando si spegne l’interruttore, ma “a tocchi, a tranci”. La malattia è specializzata nel moltiplicare gli insulti al narcisismo delle persone. Tra le offese più raffinate c’è proprio quella di costringere il malato a sentirsi appendice della macchina, piuttosto che padrone di essa. E di essere perciò privato di ogni residua capacità di prendere decisioni su se stesso.
L’aumento delle malattie cronico-degenerative ci costringe a considerare con sempre maggiore frequenza l’ipotesi di dover far ricorso all’ausilio delle macchine per poter assicurare la sopravvivenza. Il malato di SLA avrà bisogno del respiratore, il nefropatico della dialisi, il cardiopatico dello stimolatore cardiaco. Queste decisioni non potranno essere prese unilateralmente, seguendo la logica interventistica che attribuisce al medico il ruolo di combattente a oltranza, pronto a tutto pur di strappare alla morte qualche brandello di vita. Dovranno essere quanto meno decisioni condivise con il paziente, nella consapevolezza che non tutte le persone sono disposte a tutto, nel senso di essere pronte a pagare qualsiasi prezzo per sopravvivere in condizioni di massimo degrado vitale. Il ricorso alle macchine che surrogano le funzioni vitali è perciò un punto di grande rilevanza all’interno della procedura di consenso informato, in particolare in quelle misure concordate di trattamento che cadono entro la vasta categoria delle “direttive anticipate”.
Conoscere in anticipo le preferenze delle persone destinate a percorrere la strada accidentata delle decisioni di vita o di morte può ridurre la drammaticità di certe scelte. Ciò nondimeno, resteranno pur sempre situazioni in cui bisognerà prendere una decisione che, in ogni caso, è destinata a gelare il cuore. Come quella di non lasciare in ospedale un bambino che una malattia neuromuscolare o tumorale destina a una morte certa, per consentirgli di terminare la vita tra le braccia della madre, piuttosto che in una terapia intensiva. La rinuncia ai supporti tecnologici che la medicina può assicurare in ambiente ospedaliero lascia un’amara scia di sensi di colpa e richiede dai genitori un enorme coraggio. “Almeno è vissuta”, si consola la mamma di Elmira, una bimba morta a 17 mesi per tumore cerebrale. La mamma, una immigrata turca in Germania, dopo il fallimento di tutti i tentativi medici di fermare l’avanzata del tumore, porta la bambina a casa: la fa dormire sul suo ventre, aspira ogni ora le secrezioni dei suoi polmoni e l’assiste fino a che il respiro si spegne, senza l’ausilio di nessuna macchina. L’alternativa tra una sopravvivenza più lunga tra le fredde pareti di un respiratore e la morte tra le braccia della mamma è una delle scelte tragiche che riserva talvolta la medicina. La storia è riportata, insieme a una ventina di altre vicende biografiche, in un libro coraggioso: Nochmal leben vor dem Tod. Wenn Menschen sterben (Vivere ancor prima della morte. Quando le persone muoiono): Deutsche Verlags-Anstalt, München, 2004. Gli autori, la giornalista Beate Lakotta e il fotografo Walter Schels, hanno trascorso lunghi periodi in alcuni hospice tedeschi intervistando malati che stavano combattendo l’ultima battaglia della vita e fotografandoli, prima e dopo la morte. Non hanno solo infranto il tabù della morte, ma hanno anche documentato la presenza nel nostro scenario sociale di una medicina consapevole dei propri limiti; e che proprio dalla assunzione di essi parte alla ricerca di soluzioni che rispettano di più la vita degli uomini. Una medicina, in altre parole, che sa essere saggia, oltre che efficiente, perché non dimentica la misura. E per questo sa limitare il ricorso alle macchine, quando il ricorso ad esse produce una vita inaccettabile.
Di questa medicina il presente dossier di Janus presenta qualificate testimonianze. Esplorando le diverse situazioni in cui la sopravvivenza è legata alle macchine, mette in luce il discernimento di cui devono dar prova i clinici – medici, infermieri, tecnici di radiologia - per prevenire che le macchine siano più un fine che un mezzo; e le competenze che devono acquisire i pazienti che le usano per “addomesticarle” e impedire che, da utili strumenti nella lotta per la salute, diventino padrone tiranniche. Il buon uso delle macchine richiede una medicina più esperta in comunicazione. Non solo i “pesci rossi” dell’acquario della terapia intensiva hanno bisogno di parlare e di essere ascoltati, ma tutti i pazienti la cui vita dipende dalla tecnologia richiedono una medicina ricca di un numero maggiore di parole: di informazioni, di condivisione delle scelte, di educazione terapeutica, di couselling.