
Sandro Spinsanti
Naturale artificiale: una rivisitazione
Editoriale Janus 20 - Inverno 2005
Nei piani alti della cultura non ci si stanca di interrogarsi sulla natura umana, su ciò che la costituisce, sulle esigenze etiche che ne derivano. Il centro del dibattito è costituito dalla questione se ciò che possiamo e dobbiamo essere dipenda da ciò che siamo, ovvero se dalla descrizione della natura umana si possano derivare prescrizioni. La riflessione su chi è l’uomo è il piatto forte della filosofia, in perenne confronto dialettico con altri saperi: sia tributari delle scienze della natura, sia nati dal tronco delle scienze umane. Alla domanda sull’uomo forniscono risposte sia le une che le altre. Basti pensare, rispetto alle seconde, quanto l’etologia e l’antropologia culturale possono contribuire a rispondere alla questione su ciò che è naturale per l’uomo. Ma la medicina non può attendere che il dibattito sulla natura umana sia concluso. Come una eterna tela di Penelope, la riflessione sulla natura dell’uomo viene continuamente tessuta e disfatta. Basti pensare con quanta voluttà intellettuale le scienze umane – la storia e l’antropologia in primo luogo – amano scompigliare le concezioni ingenue che pretendono di definire, una volta per tutte, che cosa sia “naturale” per l’uomo; così come, per converso, le scienze hard, capeggiate dalla genetica, tentano di dare scacco alle scienze umane dimostrando l’inconsistenza del loro sapere, raffrontato con il proprio. La medicina deve dare, invece, risposte immediate; la sua vocazione è il fare, anche se non esclude programmaticamente il pensare (sentenziava Viktor von Weizsäcker, fondatore della “Medicina antropologica”: “Per il medico il concetto è un amore infelice, ma non un’infelicità”).
Anche alla questione se modellare la propria azione sui processi naturali o se passar loro sopra con le risorse rese disponibili dalla tecnica, la medicina può dar solo una risposta pragmatica. Immaginiamo una situazione concreta: un medico ostetrico deve assistere una donna che si appresta a partorire. Il suo intervento ha uno spessore clinico minimo, in quanto il parto è un evento fisiologico per il quale la donna è attrezzata dalla natura. La medicina potrebbe, idealmente, collocarsi in una posizione defilata, come semplice ausilio a un processo naturale. Ma che il parto si svolga secondo natura non è un imperativo: c’è una naturalità che può, anzi deve essere violata, a certe condizioni. Se il parto vaginale minaccia la salute della madre o del nascituro, il medico è tenuto ai ricorsi che la tecnica medica gli mette a disposizione, per far nascere il bambino in modi che la natura non ha previsto. Il taglio cesareo, conosciuto già fin dall’antichità, oggi è non solo possibile, ma è così sicuro come mai lo è stato nel passato. Nessun motivo può indurre a privilegiare il parto così come avviene in natura, in presenza di ragioni cliniche che orientino verso il ricorso agli artifici di cui dispone la medicina: dal bisturi ai farmaci che possono accelerare il decorso naturale del travaglio.
Proprio il riferimento al parto mette in luce la capacità della medicina di distanziarsi dai quei comportamenti che la cultura può, in una determinata fase del suo sviluppo, ritenere come voluti dalla natura, e quindi vincolanti. Il precetto–condanna rivolto alla donna: “Tu partorirai con dolore” (Genesi 3, 16) non ha impedito alla medicina di cercare di lenire i dolori del parto. Alla fine del percorso, è stata piuttosto la teologia a recedere, grazie a una migliore ermeneutica del testo biblico, dal tentativo di sacralizzare in senso etico gli eventi naturali, rendendo obbligatorio uniformarsi ad essi. Dunque, il medico che fa ricorso agli artifici della medicina per far partorire la donna secondo modalità che non si trovano in natura, non ha la sensazione di soccombere a nessuna hybris. Gli basta evocare l’indicazione clinica per giustificare ogni percorso che si discosti dalla naturalità del processo. Ma che cosa succede quando una donna in gravidanza chiede di partorire con taglio cesareo senza che esista una indicazione medica? Può una donna rifiutare un parto per via vaginale? È moralmente autorizzata a disporre del proprio corpo così da richiedere un taglio cesareo, perché lo ritiene più in armonia con le proprie preferenze personali?
Oltre le questioni giuridiche e quelle relative alle trasformazioni del rapporto medico-paziente, che sopravvengono quando il cittadino interviene sempre più attivamente formulando richieste che eccedono quella globale e generica di salute, ci interessano gli slittamenti che provoca la soggettività del paziente nella definizione di ciò che è naturale in medicina. Una volta che abbiamo dato diritto di cittadinanza alla persona e alle sue preferenze, la definizione del limite che è lecito trasgredire in ciò che l’uomo è per natura e per biologia non dipende più dai criteri stabiliti dai professionisti della cura. La cura stessa non è più passibile di una rigida definizione. Assistiamo piuttosto a un allegro rincorrersi tra una voluttà consumistica e una fantasmagorica offerta medico-tecnologica, nell’ampia arena dal mercato. Ogni giorno vengono infranti dei confini che fino a ieri erano ritenuti invalicabili: abbiamo metabolizzato rapidamente il trapianto di organi e tessuti e siamo approdati alla sostituzione della faccia; nell’ambito della procreazione non c’è deficienza della natura che non abbia specularmene una tecnologia volta a superarla; dal potenziamento delle prestazioni del corpo, a cui si è dedicata la medicina dello sport, siamo arrivati al doping genetico (con la previsione di poter arrivare a prelevare all’atleta le cellule staminali e a reimmetterle dopo modificazione genetica); nell’ambito della biotech, naturale e artificiale si danno una mano a vicenda: chip elettronici che aiutano a superare i difetti della vita o dell’udito, muovono braccia e gambe artificiali, minuscoli circuiti integrati fatti di neuroni animali al posto del silicio, che imitano il funzionamento del cervello … È la frontiera del “post-naturale”, in rapida espansione, nel quale la natura che viene modificata non è più, come in passato, l’ambiente in cui siamo immersi, bensì il programma genetico stesso che ha reso la specie umana quella che è.
L’artificiale convive da sempre con la pratica della medicina. Il ventaglio delle possibilità è molto ampio: dalla nutrizione – qualificata senza nessun brivido di trasgressione come “artificiale” – alle possibilità di surrogare le diverse funzioni dell’organismo, quando il loro funzionamento naturale si inceppa: i reni con la dialisi, i polmoni con la ventilazione meccanica, l’insieme delle funzioni vitali con la rianimazione. E il confine tende a spostarsi continuamente. La medicina non ha mai vissuto nei confronti della natura quell’atteggiamento di ossequiosa sudditanza che Kant ha chiamato “minorità non dovuta”. Non accetta una legittimazione o delegittimazione a priori del suo operato, sul fondamento di una naturalità assunta, a seconda delle preferenze e degli orientamenti, o come un criterio di eticità positiva (in quanto considera accettabili solo gli interventi che rispettano la natura, in ossequio allo slogan “naturale è meglio”), o come sfida da vincere o limite da superare (secondo una antropologia che considera l’essere umano come naturalmente orientato a completarsi con gli artifici tecnici e la cultura).
Se questo atteggiamento di fondo è tradizionale in medicina, la novità è costituita piuttosto dal confronto con i desideri e le preferenze del soggetto. In questo senso la situazione della richiesta di non partorire con il parto naturale, ma di ricorrere all’artificio del taglio cesareo anche al di fuori delle indicazioni mediche, è esemplare del nuovo scenario. Superata la definizione unilaterale e autoritaria di ciò che è appropriato, bisognerà introdurre una modalità di negoziazione più sensibile e raffinata con i nuovi soggetti della cura. È istruttivo che le linee-guida formulate dagli ostetrici più consapevoli del cambiamento non considerino la richiesta di taglio cesareo senza indicazione come un capriccio a cui contrapporre un divieto assoluto, né come una preferenza da accogliere incondizionatamente, ma come l’inizio di un dialogo che porti a esplorare la genesi della richiesta e le motivazioni, razionali o irrazionali, della richiedente. La linea del limite da non valicare, in quanto l’artificiale compromette l’umano, può così variare profondamente da persona a persona. Alcuni soggetti accettano l’artificio in misura estrema, tanto da poter essere equiparati al Boscaiolo di latta del celebre libro per l’infanzia Il mago di Oz (per un riflusso malefico, questo personaggio si è a poco a poco amputato tutte le parti del corpo con colpi d’ascia maldestri, ma un lattoniere gli ha sostituito tutte le parti e gli organi sezionati con protesi metalliche; tuttavia la condizione metallica lo rende soggetto alla ruggine, per cui deve avere un oliatore sempre a portata di mano, se non vuol rischiare di rimanere immobilizzato …); altre persone rifiutano invece le condizioni di vita rese possibili dagli artifici medici, preferendo “lasciar fare la natura”, anche a costo di rinunciare alla sopravvivenza. La medicina non ha una modellistica intrinseca per tracciare una ipotetica linea di divisione tra il naturale e l’artificiale. Potrà farlo solo ricorrendo a un intenso dialogo con la cultura del tempo e con le singole persone che ad essa fanno ricorso, coinvolgendola nelle decisioni.
In questo più intenso dialogo sarà opportuno che si lascino emergere anche le preferenze del medico. Ci sono sanitari che inclinano verso forme esasperate di intervento. Considerano la natura, così come si manifesta nella realtà del malato, come un terreno di conquista. Di questo orientamento è il chirurgo toracico che Marco Venturino, in Cosa sognano i pesci rossi (Mondadori, 2005), addita come responsabile di un intervento “di salvataggio”, che in realtà è un tiro di dadi sulla pelle di un malato che altri colleghi più responsabili hanno considerato come inopinabile. Il paziente finisce in terapia intensiva, dove non ha nessuna possibilità di uscirne vivo:
L’importante è che non sia morto in sala operatoria: fa una brutta impressione, dà più l’idea che sia stato commesso qualche errore. Il fatto che si spenga in terapia intensiva dopo una lunga quanto inutile agonia dà senso più naturale alla morte (p. 37).
Il medico di terapia intensiva che rappresenta, agli occhi del romanziere, una medicina più consapevole dei limiti non abbandona il malato come il grande chirurgo che ha tentato di vincere la sfida con la natura, e ha perso: senza pose eroiche, lo accompagna sino al termine del viaggio. Per quanto sistematiche, queste due tipologie di medico sono frequenti. A seconda che si affidi all’uno o all’altro, il malato è destinato a fare percorsi diversi: più o meno aggressivi, più o meno tecnologici, più o meno rischiosi per la qualità di vita che gli è riservata.
Quando la medicina affronta il rapporto tra naturale e artificiale, intesi come caratteristiche che prescrivono determinati comportamenti, oltre che pragmatica e dialogante deve avere una terza caratteristica: un approccio laico. Le radici della laicità sono antiche. Esemplarmente, lo scritto Sulla malattia sacra, contenuto nel Corpus degli scritti attribuiti a Ippocrate, ha demarcato la medicina da ogni orientamento soprannaturalistico. Anche l’epilessia, considerata per eccellenza una malattia che mette in contatto con il mondo divino, va indagata sul piano della natura:
Intorno alla cosiddetta malattia sacra le cose stanno come segue: sotto nessun riguardo mi sembra essere più divina delle altre malattie né più sacra; ma una natura ha anche il resto dei morbi, da cui essi risultano, ed una natura ha essa e una causa; gli uomini la considerano un fatto divino per mancanza di risorse e per il suo carattere sorprendente, in quanto in niente assomiglia ad altri morbi. E nella loro mancanza di risorse a conoscerla, si salva questo fattore divino, ma nel modo pieno di risorse del trattamento con cui la curano, esso si viene a perdere.
Nel codice genetico della medicina è dunque iscritto l’orientamento a considerare sia la natura che la cultura (con tutte le diverse forme di artificio, senza dimenticare l’etica e i diritti dell’uomo) come di origine umana, non divina. Ciò non comporta una delegittimazione dell’intenso lavorio connesso con la ricerca di un’etica derivata dall’ordine naturale. Il ricorso alla legge naturale e all’ordine fisico, concepito come dotato di una sua intenzionalità, ha una lunga tradizione. L’orientamento naturalista nell’etica si apre ai risultati più diversi, in quanto i concetti classici di physis e di natura si prestano a varie interpretazioni: la teoria della legge naturale ha prodotto storicamente sia cambiamenti rivoluzionari, sia una intransigenza reazionaria. Qualunque sia il valore che si vuole attribuire alla natura come norma morale (notiamo, di passaggio, che la morale cattolica, che è la più esplicita nell’invocare la “naturalità” come norma, ricorre anche ad altre argomentazioni, come il rispetto per la persona e la valutazione della dignità umana), la medicina non può far proprio questo criterio. Può, anzi, contribuire al dibattito richiamando le posizioni più intransigenti che si affrontano sulla questione alla necessità della moderazione. Con felice intuizione – anche se con qualche violenza alla linguistica – Isidoro di Siviglia nelle sue Etimologie faceva derivare la parola “medicina” da modus, cioè “giusta misura”: infatti “le sue risorse si applicano in maniera da avere effetti non già immediati, ma graduali. La natura, infatti, soffre nel molto, mentre trae piacere nella moderazione”. La giusta misura tra naturale e artificiale nell’ambito della cura non può essere identificata senza il coinvolgimento delle buona clinica (primum non nocere), senza la partecipazione attiva della persona coinvolta e senza un confronto leale con quanto della natura umana possiamo capire con il lume della ragione.