Janus 21 – Sanità meticcia

Book Cover: Janus 21 - Sanità meticcia

Sandro Spinsanti

Sanità meticcia

Editoriale Janus 21 - Primavera 2006

 

Il riduzionismo biologico sembra mettere la medicina al riparo dagli intricati problemi che nascono quando gli esseri umani sono considerati alla luce delle diversità prodotte dalle divaricazioni etniche, culturali, ideologiche, religiose. La biologia unifica e semplifica; e la medicina si occupa appunto del normale e del patologico solo dal punto di vista della biologia. È  l’argomento che Shakespeare mette in bocca a Shylock nel Mercante di Venezia, quell’irredimibile documento dei pregiudizi antiebraici che la cristianità ha nutrito nel suo seno per tanti secoli:

 

“Un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, membra, sensi, affetti, passioni? Non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, non va soggetto alle stesse malattie, non si guarisce con gli stessi mezzi, non ha il freddo dello stesso inverno e il caldo della stessa estate di un cristiano? Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo?” (atto III, sc. 1°).

 

Ecco: la medicina si colloca a buon diritto là dove gli uomini sono soggetti alle stesse malattie e guariti - quando e come possono essere guariti - dagli stessi rimedi. È  questa la forza del riduzionismo, che viene tanto spesso esecrato. L’etica medica ha poi contribuito con i propri argomenti a proporre come comportamento ideale una pratica medica che si renda volutamente cieca rispetto alle differenze tra gli esseri umani: il buon medico deve mettere la sua arte al servizio del nemico come dell’amico, del ricco e del povero, del delinquente come del santo. La medicina non può – o piuttosto non deve – regolarsi secondo la fondamentale distinzione tra “noi” e “loro”, che divide le comunità umane.

Questo schema di comportamento, malgrado il suo alto profilo etico, pecca di ingenuità. Non tanto perché presuppone delle virtù che anche i migliori sono lontani dall’avere, ma perché questo essere umano ridotto alla pura essenza comune a tutti, che sarebbe l’oggetto della medicina, non ci è dato mai di incontrarlo. La natura umana ci si presenta sempre rivestita di cultura (nel senso che a questa parola attribuisce l’antropologia culturale). Quando questo rivestimento viene tolto, non abbiamo l’uomo nel suo nucleo universale, ma una sua immagine deformata e caricaturale. E’ quanto emerge dalle macabre conoscenze che hanno accumulato coloro che si occupano delle vittime della tortura. La scienza della tortura elaborata nella nostra epoca - quella messa tristemente in luce da ciò che si è venuto a sapere su Guantánamo e Abu Ghraib - non è finalizzata a estorcere informazioni dai torturati, ma a privarli di ciò che fa di loro degli esseri umani. La moderna pratica della tortura, esportata già da tempo ai quattro angoli del mondo, celebra il suo successo in ciò che hanno scoperto gli psichiatri che vengono in aiuto dei torturati: gli esseri umani che si assomigliano di più sono proprio coloro che sono passati attraverso i moderni sistemi di tortura. Asiatici e africani, islamici e cristiani, slavi e sudamericani: quando la trucida macchina della tortura li ha privati di ciò che è culturalmente specifico, si assomigliano tutti (si vedano anche le considerazioni di Ettore Zerbino: “Noi, curatori di torturati”, in Janus 5, 2002, pp. 60-67).

Se la natura umana non esiste allo stato puro, ma è sempre impastata con la cultura-civiltà, lo stesso si può dire della cultura stessa. Non esistono sistemi culturali puri, ma solo meticciati. Le civiltà più elevate sono quelle che hanno saputo assimilare gli apporti più diversi, fondendoli in modo creativo. Perciò gli appelli ad alzare barriere per scongiurare la formazione di una società meticcia suonano, prima ancora che come politicamente irrealizzabili, come culturalmente miopi.

La medicina ha, più che qualsiasi altro ambito dell’attività umana, una ineliminabile vocazione al meticciato. Intanto perché in tutto il mondo si mescolano e si sovrappongono sistemi interpretativi della  patologia e rimedi terapeutici che derivano dalle culture più diverse. La medicina popolare – con le sue credenze e i suoi rimedi, trasmessi di generazione in generazione, con assoluto spregio di ricerca dell’evidence – convive con l’ambito occupato dalla moderna medicina scientifica; ma questa a sua volta deve spesso condividere l’imbarazzante presenza di guaritori riconosciuti come tali dalla popolazione, consultati in parallelo o in alternativa alla medicina ufficiale. A fronte di chi vorrebbe una medicina scientifica nettamente demarcata da qualsiasi forma di pratiche terapeutiche “altre” o complementari, sembra prevalere una visione più realistica che accetta forme di convivenza, purché regolate (come la linea proposta in Italia dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici: le medicine alternative sì, purché praticate da chi è laureato in medicina...). Può sembrare un compromesso, anzi in parte lo è, ma potrebbe far altro la medicina? La medicina non cura culture, ma persone; e le persone non sono pure dal punto di vista culturale. Dalla prospettiva della biomedicina, le convinzioni e i comportamenti delle persone che hanno problemi di salute sono meticciati. Non solo in Cina e in India, dove la medicina dei trial clinici e dei farmaci di sintesi convive con sistemi millenari che spiegano e trattano le patologie in modi completamente diversi da quelli che a noi sono familiari: anche alle nostre latitudini i comportamenti nei confronti della medicina sono un prodotto di osmosi tra vari sistemi, e su base individuale: ognuno ha  una modalità propria di meticciare saperi e pratiche volte alla guarigione!

Questa visione diventa estrema quando includiamo nel quadro gli immigrati. Intanto perché gli immigrati già in partenza sono meticci. Mescolano le culture: quella di partenza – già a sua volta prodotto di varie stratificazioni e di convivenze tra concezioni diverse – e quella di arrivo. Per il fatto stesso di essere partiti, gli immigrati non sono più quelli che erano all’origine. E la cultura del Paese che li accoglie viene fatta propria in modi che comportano ogni volta la creazione di qualcosa di nuovo. Quando, perciò, facciamo oggetto di riflessione la “sanità meticcia”, come si propone questo fascicolo di Janus, intendiamo rendere esplicita una condizione che non è contingente, ma necessaria e intrinseca alla pratica della medicina, in ogni tempo e a ogni latitudine.

La composizione multiculturale della nostra società, dopo essere diventata di recente meta di immigrazione, ha sicuramente accelerato il processo di consapevolezza. Abbiamo dovuto confrontarci con la ruvida domanda: la “loro” salute ci riguarda, tanto da creare degli obblighi sociali di tutela? Una parte dei contributi che ospitiamo è rivolta a tracciare un bilancio di come abbiamo risposto a questa domanda: quali servizi sanitari offriamo alle persone che, con gradi diversi di legittimità – comunitari ed extacomunitari, immigrati regolari, clandestini – condividono i nostri spazi vitali. Non solo: ci interroghiamo anche in che modo questi servizi sono offerti, ovvero quanto abbiamo fatto nostre le esigenze di mediazione linguistica e culturale, in armonia con una medicina che curi persone e non solo corpi malati. Una certa competenza a confrontarsi con culture diverse dovrà far parte, ora più che mai, di chiunque eserciti una professione sanitaria. Senza dimenticare che ormai le culture diverse le incontriamo non solo dalla parte di coloro che sono curati, ma anche di coloro che offrono cure. In particolare i servizi di assistenza crollerebbero se non avessimo sostanziali supporti da parte di infermieri e badanti di altri Paesi.

L’orizzonte che questo “Obiettivo” ha fatto proprio non si limita alle sfide che nell’ambito sanitario deve affrontare la società multietnica e multiculturale che stiamo diventando. Altri contributi esplorano i nuovi confini che si prospettano per la sanità, e più in generale per la società, del futuro. Chiamarla “meticcia” ha sapore di sfida. Siamo consapevoli delle connotazioni negative che il termine si trascina dietro da quando era utilizzato all’interno di ideologie razziste, che esecravano il meticciato come la fine della purezza della razza. Anche oggi chi diffida della convivenza tra culture molteplici e alle politiche di integrazione degli immigrati preferisce contrapporre una più forte demarcazione delle identità evoca la “società meticcia” come una china scivolosa, che bisognerebbe evitare. La sanità meticcia o “creolizzata” che evochiamo, dove le diversità si accettano, si scontrano e si ricompongono, non ha il carattere di una  provocazione gratuita. È forse un disegno utopico: ma di utopia  la buona medicina è sempre vissuta. E di utopia ha bisogno per avere un futuro.