Sandro Spinsanti
Malato? Colpevole!
Editoriale Janus 22 - Estate 2006
Parlare di malattia e di colpa, facendola ricadere sul malato stesso, sembra un’impresa anacronistica. O contro-natura, come far risalire l’acqua del fiume. Perché ormai, se di colpa legata alla malattia si parla, viene riversata sul medico. «Se il sintomo persiste, insultare il medico»: è una delle “frasi matte” raccolte da Stefano Bartezzaghi (Non ne ho la più squallida idea, Mondadori 2006), attraverso le quali l’inconscio ci telefona (o il non-detto sociale ci fa l’occhiolino).
Spostare su un altro il proprio senso di colpa è una strategia di sopravvivenza: rudimentale, ma efficace. L’incompetenza o la superficialità dei medici sono facili bersagli sostitutivi, soprattutto quando ci si sente schiacciati dal peso di non essere stati capaci di tenere in vita l’essere amato. (“Sopravvivere a una persona che abbiamo talmente amato da sentirci disposti a uccidere per lei, alla quale eravamo talmente legati che per poco non ne siamo morti, rappresenta uno dei crimini più misteriosi e inqualificabili della vita”) Sàndor Màrai, Le braci, Adelphi, 1998, p. 168. Paradossalmente, è proprio il movimento attuale che valorizza l’autonomia e l’autodeterminazione del malato come alternativa al paternalismo medico che, spinto all’estremo, diventa una fonte imprevista di sensi di colpa. Questa complicazione è stata registrata nell’esperienza dei genitori coinvolti nelle decisioni di vita e di morte dei loro bambini prematuri. È una responsabilità che li fa sentire colpevoli e li carica di un peso insopportabile. Lo stesso può succedere quando i familiari sono spinti ad assumere le decisioni estreme nel caso di malati che hanno perso la capacità di esprimere le proprie preferenze. Senza rimpiangere il vecchio paternalismo, ci rendiamo conto che svolgeva un ruolo psichico di protezione: difendeva dai sensi di colpa che affiorano quando non si riesce a impedire la morte.
In un giallo c’è sempre il colpevole, ma la vita non è un thriller. Eppure non ci stanchiamo di cercare qualcuno da additare come responsabile quando il corpo tradisce le nostre aspettative. Un comportamento così irrazionale non è spiegabile se non come strategia per fugare il sospetto che la colpa sia imputabile a noi stessi. Dare una struttura al senso di colpa è meno devastante che lasciarlo fluttuare in modo indistinto, senza tempo e senza spazio, senza un colpevole. Se non ha forma, il senso di colpa rischia di paralizzare la nostra esistenza.
È possibile pensare la malattia senza instaurare un processo, mettendo qualcuno sul banco degli imputati: il medico, il malato, i suoi familiari, la società? Rinunciare alla categoria della colpa è l’approdo ultimo di una faticosa crescita in saggezza. Qualcuno lo raggiunge (forse per grazia, più che per merito). È indipendente dal sapere e dall’età. La figlia del poeta svedese Reidar Ekner, morta di cancro a otto anni, ha toccato questa vetta. Il padre, accanto a lei, nel letto dell’ospedale dove lei si sta spegnendo “dopo molte migliaia di radiazioni”, si tormenta per l’immenso peso si dolore che tocca a quel corpicino di portare; la figlia, con un colpo d’ala, lo invita a librarsi al di sopra di colpa e punizione:
Chi è ferito gravemente per strada,
o in una guerra ingiusta, ha sì ragione
di sentirsi amareggiato, ha ragione
di lamentarsi, perché le fa
l’uomo – guerre,
bombe e congegni sono opera sua.
Ma di questa – la malattia che hai, nessuno
ha colpa, è venuta
senza che potessimo sapere come.
Puoi chiamarla disgrazia, puoi chiamarla
Destino. Dobbiamo sopportarla, fare
Tutto il possibile per ridurre il male,
per diventare migliori, un po’, quand’è possibile.
Mi hai ascoltato in silenzio – per dire poi
Quello che dice tutto: “Una cosa così ti viene,
perché si vive”.
(R. Ekner, Dopo molte migliaia di radiazione, Libri Scheiwiller, 2005)
Dalla saggezza della piccola Torun siamo ancora molto lontani: come singoli e come società. Considerare la malattia e l’inevitabile morte come parti integranti della vita stessa – “il lato notturno della vita”, quella cittadinanza più onerosa che ci costringe, prima o poi, a riconoscerci “cittadini di quell’altro paese”, per usare le celebri immagini di Susan Sontag – non fa parte delle modalità più diffuse di affrontare ciò che minaccia la salute. Abbiamo bisogno di cercare un colpevole: trascendente (spiriti malvagi o la divinità stessa: è l’appassionata ricerca di Giobbe di mettere in luce come Dio è coinvolto nei mali che l’hanno colpito) o immanente: un medico incompetente o qualche altro responsabile umano. Se c’è la malattia, ci deve essere un colpevole. Forse perché la capacità di manipolare l’altro attraverso il senso di colpa è una delle abilità più coltivate dai fanatismi di qualsiasi stampo. O forse perché i sensi di colpa ci sono dolorosamente necessari, tanto da sentirci inadeguati ad affrontare la realtà senza la difesa che essi ci forniscono. Resta il fatto che l’associazione malattia/morte e colpa risorge immutata da tutti i rivestimenti culturali che assume.
Le agenzie della colpevolizzazione sono cambiate nel corso del tempo. In Occidente la religione ha svolto per secoli questo ruolo. Allo storico Jean Delumeau dobbiamo un ritratto accurato del “cristianesimo della paura”, quale impresa della Chiesa post-medievale di riconquistare il mondo sottrattosi alla sua tutela mediante un raffinato lavoro di colpevolizzazione (cfr. J. Delumeau: La peur en Occident, 1978 e Le péché et la peur. La culpabilisation en Occident, 1983). Gli stati morbosi del corpo e la morte sono stati dei capisaldi di questa “pastorale della paura”, esercitata sia dalle chiese cattoliche che riformate.
Il tramonto della religione quale forma condivisa della cultura occidentale ha permesso ad altre agenzie di prendere il suo posto quali strutture colpevolizzanti. Il pensiero psico-somatico, nutrito di psicanalisi, si è riservato di sottrarre la malattia all’insignificanza, per riportarla a spiegazioni immanenti. L’analisi che Susan Sontag ha dedicato alle spiegazioni psicologiche del cancro resta insuperata: “Le teorie psicologiche della malattia sono un mezzo poderoso di gettare la colpa sul malato. Spiegare ai pazienti che sono loro stessi la causa, involontaria, della propria malattia significa anche convincerli che se la sono meritata” (S. Sontag, Malattia come metafora, Einaudi 1979, p. 47). Silvia Bonino, una docente di psicologia che ha scritto un libro sulla malattia che l’ha colpita, considera non concluso il compito culturale di contrastare le colpevolizzazioni del malato che si ammantano di psicologia. Ricorda una donna che combatteva faticosamente contro un cancro: fu assalita da un’angoscia profondissima quando un’assistente sociale la sollecitò ad interrogarsi per capire “perché se l’era fatto venire” (S. Bonino, Mille fili mi legano qui. Vivere la malattia, Laterza 2006).
Oggi è diventato più raro imbattersi in quella psicologia da rotocalco che attribuisce – ad esempio – l’autismo dei figli alle madri incapaci di far giungere il calore affettivo al bambino (le “madri frigorifero”) o il cancro alla repressione delle emozioni. In compenso la divulgazione dei media imperversa nell’attribuire la malattia all’una o all’altra abitudine alimentare. Più gli scienziati sono esitanti nell’individuare legami tra dieta e malattia – scoprire se una dieta in particolare influisca sul rischio di sviluppare un tumore o una malattia cardiovascolare si sta rivelando più difficile di quanto si presumeva – più le affermazioni della pubblicistica assumono toni predicatori. Alla medicina viene attribuito in misura crescente un ruolo di moralizzazione: non deve limitarsi a curare le malattie, ma le è richiesto di “promuovere la salute”. Con l’aiuto, ben volentieri prestato, dei divulgatori, la medicina è venuta sviluppando una visione etica della vita che interferisce con le dimensioni dell’esistenza che dovrebbero essere lasciate alle scelte private. La politica sanitaria dà una mano: dalla proposta del ministro della Salute italiano Sirchia a definire per decreto le porzioni dei ristoranti, per combattere l’obesità, al suggerimento del governo spagnolo di proibire le taglie dei vestiti sotto la misura 38 per contrastare l’anoressia mentale.
Eccoci alla più aggiornata versione della colpevolizzazione del malato: la malattia colpisce chi non si impegna a conoscerla, ricorrendo alla sterminata offerta di screeing, check-up e diagnosi precoci, o chi se l’è andata a cercare con il proprio stile di vita. La presenzione, che si presenta come trionfo di una razionalità che promette il controllo sulla propria vita, non esita a fare ricorso a programmi “educativi” che riescono a far sentire in colpa o a disagio il soggetto che assume comportamenti giudicati non sani. Con più di un secolo di ritardo sembra essersi realizzata l’utopia negativa di un mondo capovolto immaginata da Samuel Buttler nel celebre Irewhon (pubblicato nel 1872). In quella società sottosopra, il malato era indotto a sentirsi colpevole per la sua malattia; e ciò appunto “per prevenire il diffondersi del decadimento e delle malattie”, come spiega il giudice che nel capito XI del romanzo condanna il malato per il “grave delitto di tubercolosi polmonare” (S. Buttler, Irewhon, Adelphi 1975, p. 89).
Il dossier che Janus ha predisposto ci mostra la colpevolizzazione legata alla malattia presente nella nostra società nelle sue molteplici varianti: da quelle arcaiche a quelle post-moderne. La responsabilità per l’evento patologico, attribuita al medico, al familiare, o al malato stesso, rimbalza dall’uno all’altro, con protagonisti disposti ad addossarsi le colpe e altri determinati a cercare altre spalle su cui farle ricadere. I contributi non si limitano a far emergere una fenomenologia della colpevolizzazione; indicano anche i possibili rimedi. Si intravedono sinergie tra una religione che interpreta se stessa come potenziale strumento di liberazione (sì, esiste anche una visione teologica e una pratica pastorale che si collocano agli antipodi della strumentalizzazione dei sensi di colpa), una psicologia attenta a non favorire momenti di regressione e un “marketing per la salute” autentico che punti a dare potere e autocontrollo al cittadino. Non solo la cultura, ma l’organizzazione sanitaria stessa deve evitare di prendere la strada dell’attribuzione di colpe. È la convinzione maturata all’interno del movimento che si propone di contrastare gli errori in medicina: se non rinunciamo ad andare a cercare i colpevoli, non faremo che rafforzare i comportamenti di nascondimento. Con la stessa determinazione dobbiamo perseguire una no-blame organization, che si fonda su una no-blande culture. La colpevolizzazione si presenta come una seducente scorciatoia per rispondere alle domande che ci poniamo sulla malattia. Può darsi che dia le risposte che amiamo ascoltare; ma le domande non sono quelle giuste.