Sandro Spinsanti
Guadagnare salute
Editoriale Janus 25 - Primavera 2007
Associando guadagno e salute, dobbiamo chiarire preliminarmente: non stiamo parlando di un guadagno sulla salute, ma di salute. Certo, l’industria della salute, che misura il guadagno in termini di fatturato, ha da tempo scoperto questo settore come uno dei più promettenti. Siamo diventati sempre più consapevoli che alle spalle della salute si apre un mercato tra i più floridi, molto abile nell’allargare i propri confini. Malattia e salute sono realtà dai confini labili e a volume variabile. “Si possono fare molti soldi dicendo alle persone sane che sono malate”: lo afferma un editoriale del British Medical Journal (“Selling sickness: the farmaceutical industry and disease ………….”: BMJ 2002; 324: 886-91) che mette sotto accusa la creazione interessata, da parte dell’industria, di stati patologici da curare. Una seconda mossa strategica, oltre ad acquistare clienti tra i sani dichiarandoli malati, può essere quella di convincerli che di salute non ce n’è mai troppa: per quanto sani, si può “guadagnare più salute”! il tema è così nuovo e importante, che abbiamo programmato di dedicarvi il prossimo numero di Janus (”Quando la medicina cura i sani”: estate 2007).
Non è in quest’ottica che il Ministero della salute ha lanciato il progetto finalizzato, appunto, a guadagnare salute. L’economia sta anche qui sullo sfondo, ma con segno diverso. La sanità pubblica ha interesse non ad aumentare i consumi di servizi medici e sanitari, ma al loro contenimento. L’esplosione dei costi, determinata anche dall’allungamento della vita dei cittadini, ha portato in primo piano la preoccupazione per prevenire le condizioni patologiche croniche, che mettono in ginocchio i servizi sanitari a orientamento universalistico. Guadagnare salute comporta, in questo contesto, avere più risorse per curare i malati.
Il quadro costituito dalla sanità pubblica va completato con un altro elemento di contesto: la salute di cui parliamo non dipende dalla medicina, ma dagli stili di vita delle persone: da come e quanto si magia, dall’attività fisica, e anche da come ci si veste. Sì, anche da questo: è il motivo per cui politica e cultura hanno cominciato a parlare della grandezza delle taglie, dei modelli di bellezza che esprimono, delle patologie alimentari a cui danno origine. Questi guadagni di salute hanno luogo lontano dagli ospedali e dagli ambulatori medici; la politica sanitaria è perciò obbligata a giocare in trasferta.
Il progetto è innovativo e merita ogni sostegno. L’attenzione del nostro dossier è dedicata per lo più a questo progetto del Ministero della salute, che apre un nuovo capitolo della sanità pubblica: oltre alla cura delle malattie e alla riabilitazione, è intenzionato a promuovere la prevenzione intervenendo sullo stile di vita dei cittadini. Dobbiamo tuttavia essere consapevoli che l’intervento sui comportamenti quotidiani dei cittadini ha anche un lato d’ombra. Quando ci si confronta con gli stili di vita delle persone, si entra inevitabilmente in contatto con le loro scelte. Consideriamo una crescita culturale irreversibile aver superato il modello del paternalismo medico, secondo il quale erano i professionisti sanitari gli unici abilitati a definire i confini tra salute e patologia e a prescrivere i comportamenti appropriati per recuperare la salute. La pratica medica contemporanea deve confrontarsi con le preferenze personali e l’autodeterminazione dei cittadini, mettendo in discussione l’autoreferenzialità di coloro che praticano la medicina (doctor knows best). Il nuovo modello ha fatto fatica a farsi strada, ma è ormai esplicitamente fatto proprio dal Codice deontologico dei medici. Almeno in linea di principio, i medici italiani hanno adottato questa prospettiva nella più recente revisione del Codice: l’art. 6 - “Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse.” – riconosce come elementi qualificanti della buona medicina, oltre alle cure che, allo stato attuale della scienza sono considerati più efficaci, anche il rispetto dell’autonomia delle persone, e quindi delle loro preferenze, e l’impegno a collaborare per ottimizzare l’uso delle risorse. L’intervento negli stili di vita dei cittadini rischia, però, di legittimare nuove forme di paternalismo: attribuibili questa volta non alla corporazione medica, ma allo Stato. E’ la tesi sostenuta da M. Fitzpatrick in un saggio molto polemico: The tiranny of health. Doctors ande the regulation of lifestyles (Routledge – Taylor, 2005). Le preoccupazioni per la salute, supportate dalle campagne di sanità pubblica, tendono a incoraggiare un senso di responsabilità individuale nei confronti della malattia. Ma per questa strada le politiche governative possono diventare un programma di controllo sociale, rappresentato come “promozione della salute”. Non possiamo nascondere un certo disagio quando il servizio sanitario pubblico, esaurite le risorse della “moral …….”, passa alle maniere forti. Il riferimento è alle misure annunciate sia in Inghilterra che in Germania, per indurre i cittadini a far ricorso alla medicina preventiva e ad assumere comportamenti responsabili ( si parla di posporre persone obese nelle liste di attesa per interventi chirurgici o di far gravare la spesa per cure ……….su cittadini che non hanno utilizzato i servizi di diagnosi precoce messi a loro disposizione). Questa concezione della perdita di salute come frutto di scelta di stili di vita fatte liberamente è molto approssimativa e ingenua; manca infatti di considerare quanto sui comportamenti influiscano le motivazioni inconsce e le induzioni culturali. Non è senza significato che le persone in soprappeso od obese appartengano in percentuali significative alle persone con istruzione elementare (circa il 50%), mentre solo il 30% a persone laureate. Percentuali analoghe si riscontrano tra i fumatori. Se ci si limitasse alla pura informazione, si rischierebbe di accrescere ulteriormente il divario di salute tra coloro che sono in grado di beneficiare delle informazioni e quelli che non lo sono. Ovvero, che i guadagni di salute sarebbero ulteriormente sperequati. L’azione preventiva riconducibile all’obiettivo di ottenere un guadagno di salute, per rispondere ai criteri di equità, dovrà tener conto della discriminazione che potrà, involontariamente, creare. Disponiamo di dati che ci confermano che dalle campagne preventive ed educative traggono beneficio soprattutto le classi medio-alte, che più godono di un migliore stato di salute. In America i poveri fumano tre volte più dei ricchi, benché negli anni ’60, quando iniziarono sul serio le campagne contro il fumo, la proporzione fosse la stessa. La correzione della disparità di classe richiederebbe dalle pubbliche autorità di decidere di allocare più denaro per raggiungere gli svantaggiati. La domanda spregiudicata con cui bisognerebbe confrontare i risultati di interventi di prevenzione indubbiamente benefici: a chi vanno i guadagni di salute?
Possiamo collocare il progetto “Guadagnare salute” in una prospettiva più ampia, dando alla salute una valenza antropologica di maggior spessore. La salute non è solo quantificabile con parametri medici ed epidemiologici e con indicatori appropriati di politica sanitaria: è anche un sinonimo di autorealizzazione personale. Ci riferiamo a quello stato che Friedrich Nietzsche chiamava “la Grande Salute”. Su questa dimensione della salute attira l’attenzione il contributo di Mario Melazzini. Guadagnare salute in questo senso equivale, praticamente, a guadagnare umanità. La Grande Salute non si definisce antiteticamente rispetto alla malattia: anzi neppure rispetto alla morte. Nel romanzo di Irvin Yalom: La cura Schopenauer (Neri Pozza ed., 2005), il ruolo principale è affidato a Juluis, uno psicoterapeuta che, a 65 anni, si trova a dover personalmente affrontare la minaccia alla sua vita costituita da un melanoma metastatizzato. Dai suoi ricordi dell’attività professionale passata emerge solo la figura di Carles, un uomo che aveva avuto in terapia: “Carles era un uomo particolarmente sgradevole, grossolano, egoista, superficiale, con una forte pulsione sessuale, che si era rivolto a lui quando gli era stato diagnosticato un linfoma mortale. Juluis aveva aiutato Carles a operare dei cambiamenti notevoli, specialmente nell’ambito delle connessioni interpersonali, e questi cambiamenti gli avevano consentito di conferire con senso a tutta la sua esistenza precedente.
Poche ore prima di morire aveva detto a Juluis: “Grazie per avermi salvato la vita” (p.340).
Questo è il guadagno di salute che ci sembra l’obiettivo più alto a cui tendere. Si tratta di promuovere la parte migliore dell’altro, indipendentemente dagli standard di salute e di malattia socialmente accreditati. Può avvenire nella medicina come nella psicoterapia: avviene in ogni rapporto interpersonale autentico. È il volto genuino di quella dea che gli antichi romani chiamavano Cura.