Janus 27 – Vivere mala-mente: medicina e salute psichica

Book Cover: Janus 27 - Vivere mala-mente: medicina e salute psichica

Sandro Spinsanti

Vivere mala-mente: medicina e salute psichica

Editoriale Janus 27 - Autunno 2007

 

A scanso di equivoci: non stiamo parlando di personaggi della drammaturgia napoletana “isso, issa e ‘o malamente’”... Il “mala-mente” che abbiamo preso a tema dell’“Obbiettivo” non è un personaggio, ma una condizione del nostro vivere. Più precisamente, ciò che grava in particolare sulla vita di alcuni,  in misura maggiore che sulla vita di tutti. E’ pur vero che, rispetto alle possibilità che avremmo, come esseri umani, nell’insieme viviamo tutti piuttosto malamente. Così è, se ci misuriamo con quanto lo scrittore Luigi Meneghello avrebbe desiderato vedere prima di morire: “Vorrei vedere la gente fremere d’amore intellettuale di Dio, lavorare con piacere, fabbricare giocattoli appassionanti, sciare ardita sulle coste dei monti, nuotare a farfalla lungo le coste dei mari; sentirla cantare inni di elementare grazia e potenza, avendo per inno nazionale un Inno alla mortalità in cui si esprimesse la rassegnazione a questo sgradevole aspetto della vita, e la contentezza di potere intanto produrre affetti e odi sereni, begli edifici, dolci macchine lisce come l’olio, istinti severi e soavi, e quell’onestà nel fare e nel non fare che ( quando c’è) cancella la paura e perfino il rimpianto di non poter sopravvivere per sempre”. Luigi Meneghello è morto, nel giugno scorso, senza vedere un cenno di inversione di rotta nella vita che ostiniamo a vivere così malamente. Alcuni, poi, all’ennesima potenza, perché portano il peso di disturbi psichici ed emotivi. E’ su questo “vivere mala-mente” che il dossier di questo numero di Janus fissa  la sua attenzione: su ciò che la medicina sa e può fare, su ciò che potrebbe fare e non sempre fa, per alleviare il  peso che tante persone devono portare.

Entrando nell’ambito della medicina, la malattia mentale suscita nelle persone attese e speranze comuni a tutte le patologie sanitarie. Dalla medicina ci aspettiamo risposte, non discorsi! Ma, più che qualsiasi altra patologia, quella psichiatrica rivela la complessità di cui la medicina è intessuta. Prendiamo, su suggerimento di Franco Fasolo (Psichiatria senza rete, Clemp 2005, p.176 s.), la domanda più semplice ed essenziale, che sta a cuore al paziente: “Ma io guarirò?”. La risposta dipende dalla professione di chi gliela dà. Per l’infermiere, il paziente è guarito quando è tranquillo e comunicativo; per lo psicologo, quando ha superato la posizione schizoparanoidea e riesce a mantenere una posizione discretamente depressiva a costi personali non troppo eccessivi; per l’assistente sociale quando ha un lavoro o l’assegno di invalidità e una discreta capacità di abitare accanto agli altri; per l’amministrativo, il paziente è guarito quando è dimesso; per lo psichiatra ospedalocentrico quando è in compenso psicopatologico perché è compliant e assume tutti i farmaci che servono; per lo psichiatra di comunità il paziente è guarito quando la sua carta di rete documenta che le sue relazioni sociali sono più ricche, autosostenibili, differenziate e più bilanciate tra legami forti e legami deboli (la guarigione la considera più una “restitutio ad interim” che una “restitutio ad integrum”...). E non abbiamo menzionato tutte le professioni che si occupano della malattia mentale, né tutti i modelli di malattia – terapia – guarigione ai quali le diverse scuole di pensiero fanno riferimento. I sintomi della sofferenza psichica, infatti, assumono un diverso significato a seconda del contesto professionale in cui sono inseriti.  Ogni professione si appoggia a un corpo dottrinale teorico (che mostra la tendenza a irrigidirsi in una “ortossia di scuola”) e si esprime in una pratica condivisa (rafforzata spesso da una specifica codificazione deontologica). Le diverse professioni costituiscono sovente dei mondi autonomi, senza comunicazione orizzontale, senza accessi reciproci.

Nella pluralità degli approcci professionali alla malattia mentale o psichica possiamo riconoscere il profilo di tre modelli ideali: quello psichiatrico, quello psicoanalitico/psicoterapeutico e il modello che potremmo chiamare “sapienziale”. Ogni modello lavora con un paradigma interpretativo, più o meno esplicito ed elaborato, della malattia mentale; ognuno accentua una dimensione dell’essere umano o attribuisce il primato a un diverso elemento. Mentre la psichiatria sottolinea la prevalenza della dimensione somatica - neurologica o biochimica del cervello - nel determinare la condizione patologica, la psicoterapia accentua il primato della persona; la prospettiva sapienziale si orienta invece verso la dimensione transpersonale. Di per sé, i tre approcci non si escludono a vicenda; solo quando i referenti dottrinali si irrigidiscono in dogmatismo tendono a negare il valore di altri sistemi e di altre modalità pratiche di rispondere all’appello di chi vive mala-mente.

I tre modelli ideali si modificano con il tempo. Il paradigma psichiatrico-sintomatico è stato profondamente scosso dalla svolta avvenuta in medicina con la recente scoperta di farmaci efficaci. Nella medicina dell’inizio del XX secolo (e in buona parte anche dopo) la diagnostica procedeva più celermente della terapeutica. I migliori medici sapevano diagnosticare egregiamente l’ubicazione e la modalità delle malattie; ma, quanto al trattamento, erano in grado tutt’al più di palliare i mali, non di curare le cause. La rivoluzione farmacologica - con l’uso di antibiotici a largo spettro, corticosteroidi, psicofarmaci ecc. – ha permesso di bloccare le manifestazioni morbose, anche senza conoscere le loro vere cause. L’introduzione degli psicofarmaci ha sconvolto il nichilismo terapeutico della psichiatria tradizionale, che per questo era costretta a ricorrere ai sistemi di contenzione in uso negli ospedali psichiatrici. La possibilità di eliminare i sintomi non ha condotto a rimettere in discussione il paradigma psichiatrico-sintomatico; anzi, non pochi psichiatri hanno ripiegato su un organicismo sempre più radicale.

La pratica psicoterapica - di cui la psicanalisi costituisce il caso eccellente ma non esclusivo - ha in abominio il procedimento esclusivamente sintomatico. Nel suo paradigma il sintomo è piuttosto un messaggio da interpretare; costituisce una crisi in un’autobiografia, o in un sistema relazionale, ed equivale a un appello e a uno stimolo al cambiamento. La terapia consiste essenzialmente nel far parlare ciò che è stato “scomunicato” (nel senso letterale della parola, ossia sottratto alla comunicazione).

Questo paradigma si può anche trovare, senza alcuna forzatura, nella medicina tradizionale, almeno in quella che si proponeva di leggere il sintomo come segno. Con gli sviluppi dell’arte medica più recenti l’interpretazione dei sintomi, finalizzata alla svolta e al cambiamento, è diventata estranea alla pratica medica, per essere riservata all’esercizio della psicoterapia. Questa divisione di compiti e funzioni è stata profondamente interiorizzata dal paziente dei nostri giorni: dal medico (psichiatra) ci si aspetta che tolga il sintomo, senza lavoro interpretativo o di scavo; chi vuole altro, va dallo psicoterapeuta. Il medico curante si trova così costretto a colludere col desiderio del paziente, teso a coprire con il farmaco più efficace il male più profondo che si manifesta nei sintomi (ansia, insonnia, depressione, disturbi neurovegetativi...). I pazienti stessi non accetterebbero un procedimento diverso.

Il terzo scenario, quello che abbiamo chiamato “sapienziale”, ha un antecedente nel paradigma religioso. Anche qui bisogna riconoscere una rilevante trasformazione storica, che ha portato la religione istituzionalizzata a lasciare progressivamente il campo dei fenomeni psichici, compresi quelli a contenuto religioso, a discipline specialistiche. L’ambito spirituale si è psichiatrizzato. Oggi non si rischia più di finire sul rogo se si pretende di aver avuto “commercio con il diavolo”; ma neppure si ha l’opportunità di avere l’onore degli altari per visioni e rivelazioni... (semmai, se qualcuno confessa al padre spirituale di sentire delle voci, ha un’alta probabilità di ricevere, di rimando, l’indirizzo di uno psichiatra di fiducia!).

È piuttosto al di fuori delle istituzioni religiose che più di recente si è appuntata l’attenzione verso espressioni psichiche, abitualmente interpretate in senso psichiatrico, ma che potrebbero essere invece il segno di un’«emergenza spirituale» (per utilizzare un’espressione di Stanislav Grof). C’è un malessere che nasce dal non essere quelle persone realizzate che potremmo e dovremmo essere. Il movimento transpersonale afferma con forza una concezione antropologica che vede nell’uomo anche una potenzialità spirituale, che tende a stati di coscienza unitiva con il Tutto, meglio descritti con il linguaggio dei mistici che degli psichiatri. La prospettiva transpersonale può educare la comunità scientifica, che non scelga di chiudersi pregiudizialmente a tale ipotesi, a nutrire quanto meno il sospetto che ci possa essere una dimensione di crescita -e di salute mentale- che punta in questa direzione. Il sospetto appare più saggio della sufficienza scientista, che induce a negare rilevanza al vivere “mala-mente” che dipende dalla mancata crescita oltre il livello del benessere della persona. Pur rimanendo in una prospettiva laica, aliena dal contaminare il naturale con il soprannaturale.

Per percorrere queste strade abbiamo bisogno di altri compagni di viaggio, oltre agli esperti delle scienze biomediche. Poeti, per esempio. Non va sottovalutato che due delle maggiori poetesse italiane contemporanee hanno dato voce alla sofferenza psichica passata al crogiolo della psicoterapia –Vivian Lamarque– e alla stessa esperienza dell’ospedale psichiatrico –Alda Merini-. Per quest’ultima il “vivere mala-mente” è più concentrato nella vita da sano che da malato mentale (cfr. Clinica dell’abbandono, Einaudi 2003); in una dichiarazione pubblica, Alda Merini ha confessato: “Ho sofferto molto di più fuori che in manicomio. Lì dentro mi sentivo protetta... c’era il rispetto per la malattia mentale: adesso non c’è neanche più il rispetto delle persone. Fuori dal manicomio ho trovato delle vere canaglie; qualcuno mi ha ricattata e ferita anche su quell’esperienza che mi ha lasciato comunque in uno stato di turbamento”.

Con una buona dose di consapevole ottimismo, se non di ingenuità, possiamo considerare un segno positivo che all’ultimo festival di Sanremo, il primo posto nel tempio della futilità sia stato scalato da una canzone che ha preso a tema la malattia mentale. Il suo autore, Simone Cristicchi, nel libro Centro di igiene mentale. Un cantastorie tra i matti (Mondadori 2007) ha voluto recuperare le tracce del passaggio doloroso di tanti malati mentali nei manicomi come monito di un percorso tutt’altro che concluso. Le parole, attribuite in epigrafe a un rappresentante ideale del “vivere mala-mente” valgono come monito, e come promessa, a tutta la società:

“Sono Matto e rappresento la vostra Salvezza.
Quella sfocata percezione di essere nella ragione.
Io sarò sempre il torto, il distorto, l’adunco.
Sono una meravigliosa imperfezione, come uno
stupendo sbaglio di Dio”