Sandro Spinsanti
Le cure servite a domicilio
Editoriale Janus 30 - Estate 2008
“Gli ospedali sono solo uno stadio intermedio della civiltà: l’obiettivo finale è quello di assistere (to nurse) tutti i malati a casa loro”. Un progetto utopico così generoso non può essere stato formulato che dalla nurse per eccellenza: Florence Nightingale. In controtendenza rispetto all’auspicio della disseminazione delle cure a domicilio, nei decenni seguenti l’ospedale si sarebbe sempre di più affermato come cittadella della scienza medica, luogo di elezione dove le terapie erano destinate a concentrarsi. Mentre gli ospedali crescevano, assumendo nel profilo urbanistico il posto che le generazioni precedenti avevano attribuito alla cattedrale come simbolo del nostro vivere in comunità, andava prendendo forma la critica all’ “ospedalocentrismo” della nostra organizzazione sanitaria. Nei progetti di politica sanitaria si delineavano sistemi integrati, nei quali le cure ospedaliere dovevano essere complementate dall’ home care e dalla long term care per i pazienti nella fase post-acuzie, senza tuttavia che si sia riusciti a vedere un’inversione di tendenza rispetto alla concentrazione ospedaliera. Anche di recente Elio Guzzanti, introducendo il numero monografico di Salute e società dedicato a “L’ospedale del XXI secolo” (n. 3, 2007), osservava: “Allo stato attuale, l’assistenza domiciliare in Italia è assicurata a un numero di anziani tre-quattro volte inferiore a quella della media dei paesi industrializzati e l’assistenza residenziale è anch’essa inferiore largamente rispetto alla media”..
A dispetto della realtà, le cure a casa hanno continuato a costituire il sogno profondo della maggior parte delle persone che nella navigazione della vita vengono a trovarsi in quella fase che nel linguaggio di poeti e di artisti è stata descritta come la ricerca del passaggio. Nel XVII secolo il poeta inglese John Donne nel suo Inno a Dio, il mio Dio, nella mia infermità aveva utilizzato la metafora della scoperta del “passaggio a Sud-Ovest”, quel passaggio per raggiungere l’Oriente viaggiando verso Occidente che tanto affaticò i navigatori fino a Magellano, per descrivere la sua condizione di malato tra la vita e la morte:
Mentre i miei medici, per loro amore
sono diventati cosmografi ed io
loro mappa, stesa su questo letto
perché da loro sia mostrato come io
scopra qui il mio passaggio a Sud-Ovest
per fretum febris, per
questi stretti morire
io giubilo, ché in tali stretti vedo
il mio Occidente.
(Traduzione di Cristina Campo)
Il varco da scoprire tra i ghiacciai della terra del fuoco è ancora impregnato di religiosità tradizionale (per Donne morire significa diventare musica di Dio e meditare sulla morte equivale ad accordare il suo strumento). Ma la metafora del passaggio permane anche in un contesto secolarizzato. La troviamo nel quadro di John Everett Millais, “Il passaggio a Nord-Est”, che abbiamo scelto di mettere in copertina di questo numero di Janus, dedicato alle cure domiciliari.
Il contesto è cambiato. La preghiera a Dio e la nostalgia del paradiso hanno lasciato il posto, nella seconda metà del XIX secolo, al nazionalismo e agli appelli alla volontà in lotta con i limiti della natura. La ricerca del passaggio a Nord –Est, per arrivare in Cina circumnavigando i ghiacci del polo artico, è l’impresa che il vecchio marinaio, teneramente confortato dalla figlia, lascia come eredità ai navigatori del suo paese. Navi su navi hanno fatto naufragio a quelle latitudini; coraggiosi esploratori come Henry Hudson e John Franklin vi hanno lasciato la vita: eppure la ricerca del passaggio deve continuare. Metafora di una dimensione non più mistica ma eroica dell’esistenza umana, il “passaggio a Nord-Ovest” rappresentato da Millais si colloca appropriatamente in un contesto domestico, con cure che provengono non dall’ “ars medica”, ma dalla “pietas” filiale.
Home care, si dice più appropriatamente in inglese, dove home ha connotazioni semantiche che vanno perse nel burocratico “domicilio”. La casa, il focolare domestico esprimono la pregnanza che hanno i gesti di cura, ricollocati nel centro pulsante dove prende forma la vita umana. L’ospedale, per quanto necessario con le sue terapie efficaci, è sempre simbolicamente un luogo provvisorio rispetto a questa eccedenza di significato che assume la cura quando si trasferisce in casa. L’economia può pensare alle cure domiciliari alla luce del contenimento dei costi, la razionalità medica può demarcare un limite oltre il quale gli sforzi terapeutici diventano insensati e bisogna riconoscere – infelice espressione! – che “non c’è più niente da fare”; la politica sanitaria può e deve pensare a forme alternative di cura e assistenza rispetto a quelle che si concentrano sull’ospedale. Pur rispettando e valorizzando tutte queste preoccupazioni, le medical humanities portano sulle cure domiciliari uno sguardo diverso. Riconoscendo che le azioni rivolte alla guarigione e al prolungamento della vita veicolano la ricerca di un compimento o di una pienezza che supera l’orizzonte della medicina, la casa e le cure a casa emergono dallo sfondo come simbolo della vita dell’uomo.
Il passaggio dalle cure erogate in ospedale al domicilio è più che una questione organizzativa: implica un cambiamento profondo nel modo di concepire la medicina, il rapporto con il paziente, il senso e il fine dell’attività terapeutica. In pratica, equivale a un cambiamento di paradigma. Il setting domiciliare ristruttura il rapporto tra i professionisti sanitari e la persona assistita, modellandolo sul rapporto ospite/ospitante (in modo antitetico ai rapporti propri dell’ospedale, dove il medico, oltre ad avere una posizione dominante per la sua attività professionale, è anche l’ospitante, e il malato l’ospite). La casa è la sintesi più concentrata della territorialità e del potere a essa connesso.
Il cambiamento del contesto non ha solo conseguenze sulla modificazione del comportamento esterno: provoca qualcosa che è riconducibile a una nuova Gestalt (vale a dire, secondo la psicologia della percezione, un tutto strutturato che è più della somma delle parti e tende a imporsi al soggetto percipiente). Nel setting domiciliare il contesto da sfondo diventa figura. Nella nuova Gestalt la condizione di patologia o di fragilità acquista un altro profilo. Tutto nella casa parla del paziente e della sua famiglia in modo diverso rispetto all’ospedale. La malattia, specie se cronica, non può essere ridotta a una patologia definita nei termini del sapere biomedico. Emerge in primo piano tutto il non biologico – i fattori sociali, psicologici e spirituali - che specialmente nelle situazioni di cronicità e di malattia a lungo termine si connettono con quelli biologici in modo inseparabile. Nelle cure domiciliari l’ideologia della medicina olistica – curare tutto l’uomo considerando il paziente come persona – da discorso accademico e idealistico, a carattere esortativo, ha la possibilità di diventare una concreta realtà operativa.
La trasformazione del paradigma delle cure può essere individuata come la causa delle forti resistenze dei sanitari al diffondersi delle cure domiciliari. Basti pensare – per citare solo uno degli elementi di maggior rilievo – alla considerazione che in questo paradigma spetta alla famiglia del malato. Essa non può più essere un elemento di contorno, che si cerca il più possibile di isolare (riducendo la presenza alle ore di visita in ospedale). Va considerata come fondamentale risorsa per la cura del malato, oppure come il principale ostacolo a essa: un bene il più delle volte ambivalente, ma imprescindibile per ogni vero progetto terapeutico. Le cure spostate a domicilio comportano una redistribuzione del potere (e delle responsabilità) che scardina i rapporti tradizionali in medicina.
Nelle cure domiciliari si condensano i principali valori promossi dalla medicina umanistica. Meritano quindi un’alta considerazione; senza facili entusiasmi, però. Guardando molto in alto, si rischia di cadere in banali fossati. Non si devono scotomizzare i lati d’ombra delle cure domiciliari. A cominciare da una valutazione realistica dei pesi della cura. Su quali spalle vanno a cadere, quando terapia e assistenza emigrano dall’ospedale al domicilio? Ciò che paventano le famiglie è che le acque del welfare state si vadano prosciugando e, in nome dell’umanizzazione delle cure, si ritrovino i propri cari bisognosi di assistenza scaricati a domicilio. Dopo aver fatto incetta di badanti, attingendo all’immigrazione, regolare e clandestina, ci accorgiamo che i bisogni crescono in misura esponenziale e l’affanno delle famiglie non diminuisce.
E ancora: spostando la cura nelle famiglie, non sempre garantiamo il benessere – e la stessa integrità – delle persone fragili. Ci riferiamo ai maltrattamenti che gli anziani e le persone non autosufficienti possono subire nel contesto familiare. A differenza di quanto è successo per donne e bambini, i maltrattamenti che riguardano queste categorie di persone non hanno finora attirato l’attenzione sociale. Eppure le relazioni di cura familiare sono più che mai esposte a rischio di cortocircuito. I caregiver possono andare in burn-out tanto quanto i professionisti; ancor più: i sensi di colpa che accompagnano queste reazioni sconsiderate tendono a farle seppellire in un silenzio omertoso. E non dimentichiamo i maltrattamenti che vanno in senso contrario: quando la persona assistita non accetta la perdita di potere, la fragilità, la dipendenza, può dar luogo a una violenza agita sul caregiver.
Mentre si vanno moltiplicando le sperimentazioni di nuovi modelli nella organizzazione della cura tra ospedale e domicilio, e dei quali il dossier di questo numero di janus dà ampio conto, non cessiamo di tener alta la vigilanza sulla qualità delle cure domiciliari. Non vorremmo che, trascinata dalla retorica sulla casa, si facesse strada una pratica dell’assistenza regressiva rispetto alle conquiste che la medicina recente ci ha assicurato.