Janus 31 – Sistemi sanitari universalistici nell’era della globalizzazione

Book Cover: Janus 31 - Sistemi sanitari universalistici nell'era della globalizzazione

Sandro Spinsanti

Sistemi sanitari universalistici nell'era della globalizzazione

Editoriale Janus 31 - Autunno 2008

 

Azzardare previsioni sul futuro dei sistemi sanitari nel momento di crisi che stiamo attraversando appare temerario. Un movimento tellurico profondo sta sconvolgendo non solo l’economia ma gli assetti sociali così come ci sono familiari: nessuno è in grado di prevedere quale fisionomia avrà la società che emergerà dopo il riassestamento (se e quando avverrà). Eppure non è insensato cercar di guardare in faccia la crisi: non solo per i pericoli che costituisce, ma anche per le opportunità che rappresenta. È stato, infatti, opportunamente segnalato che l’ideogramma cinese usato per esprimere il concetto di crisi è costituito da due parti. La parte superiore sta per “pericolo”, quella inferiore per “opportunità”. Il cambiamento che la crisi rende necessario può essere visto come un’occasione da sfruttare per modificare le condizioni che hanno reso instabile l’ordine precedente. Ciò vale anche per i sistemi sanitari, all’interno di tutto l’ampio assetto economico. Anzi, ai sistemi sanitari si applica ancor più che al resto. Se il pericolo per i sistemi sanitari che abbiamo creato è quello di dover rinunciare alla dimensione universalistica, lasciando parte della popolazione allo scoperto o con minori tutele, l’opportunità che si profila è quella di andare a correggere le storture che li affliggono.

In un articolo divulgativo in cui Zigmunt Bauman cercava di spiegare, nei giorni dello tsunami delle borse, “come siamo finiti nell’abisso”, il sociologo riporta un vecchio aneddoto che illustra due diverse strategie commerciali. Due agenti di commercio giravano l’Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo, constatato che tutti giravano scalzi, inviò in ditta il messaggio: “Inutile inviare scarpe”. Il secondo invece telegrafò: “Spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe: qui tutti sono scalzi”. La storiella didattica serve a presentare due diverse filosofie imprenditoriali: la prima va dietro ai bisogni espressi, la seconda, più aggressiva, interpreta i bisogni e crea la domanda.

Applicate alla medicina, le due strategie sono state efficacemente presentate da Jules Romains nella sua celebre commedia Il dottor Knock o il trionfo della medicina, andata in scena a Parigi per la prima volta nel 1923. Una è impersonata dal dottor Parpalaid, l’anziano medico che sta lasciando la condotta al giovane dott. Knock, che lo sostituisce nel villaggio di St. Maurice. Anche se cerca dignitosamente di nasconderlo, il vecchio medico condotto non ha avuto alcun successo: parte povero, su una vecchia macchina scassata. I servizi medici che poteva offrire erano molto pochi, e mal retribuiti. Così descrive il quadro clinico della popolazione locale al giovane collega:

“Le polmoniti sono rare. Il clima è rude. Tutti i neonati di salute delicata muoiono nei primi sei mesi, senza che il medico debba intervenire, beninteso. Quelli che sopravvivono sono dei fusti dalla salute di ferro. Abbiamo tuttavia degli apoplettici e dei cardiaci. Non ne hanno il sospetto e muoiono fulminati verso la cinquantina”.

Il dott. Knock ha altre convinzioni di fondo e una strategia apposta. Le aveva condensate nella sua tesi di laurea, che aveva come titolo: “Sui pretesi stati di salute”; in epigrafe aveva posto una frase attribuita a Claude Bernard: “I sani sono dei malati che si ignorano”. Messo piede a St. Maurice, ritiene che, in linea di principio, tutti gli abitanti del cantone siano ipso facto suoi clienti designati. La commedia procede illustrando le abili mosse del dottore per portare il paese a entrare nell’ “era della medicina”. In sintesi, la sua filosofia consiste nello svuotare la nozione di salute, per lasciar entrare la medicina in ogni ambito della vita umana:

“La salute non è che una parola, e non ci sarebbe nessun inconveniente a cancellarla dal nostro vocabolario. Da parte mia non conosco che persone più o meno colpite da malattie più o meno numerose, a evoluzione più o meno rapida. Naturalmente, se voi andate a dire loro che stanno bene, non domandano altro che di credervi. Ma voi li ingannate. La vostra sola scusa è che abbiate già troppi malati da curare per prenderne degli altri (...) E’ una teoria profondamente moderna e parente prossima dell’ammirabile idea della nazione armata, che fa la forza dei nostri stati”.

Quando, dopo un anno, il dott. Parpalaid ritorna a St. Maurice per riscuotere la rata della condotta medica ceduta al dott. Knock, lo trova completamente trasformato: l’albergo è diventato un ospedale e il medico è assediato da pazienti che richiedono i suoi servizi.  Knock può celebrare il suo trionfo:

“E’ un paesaggio selvaggio, appena umano, quello che voi contemplavate. Oggi ve lo restituisco tutto impregnato di medicina, animato e percorso dal fuoco sotterraneo della nostra arte (...) In duecentocinquanta di quelle case ci sono duecentocinquanta camere in cui qualcuno confessa la medicina, duecentocinquanta letti in cui un corpo disteso testimonia che la vita ha un senso e, grazie a me, un senso medico”.

La commedia di Jules Romains rappresenta una profezia: i sistemi sanitari nel XX secolo si sarebbero sviluppati secondo la strategia del dott. Knock. Ma questa crescita della medicina è sfociata in una tragicommedia. O piuttosto, in una realtà ambivalente. L’espansione degli interventi sanitari è stata anche una conquista sociale di grande valore. Non diversamente che nell’immaginario St. Maurice, nelle nostre campagne fino alla metà del secolo che abbiamo alle spalle i servizi medici erano una realtà così scarsa che venivano utilizzati con grande parsimonia. Le testimonianze raccolte da Chiara Frugoni (Da stelle a stelle. Memorie di un paese contadino, Laterza 2003) sono molto eloquenti: gli anziani di Solto, il paese del bergamasco che ha deciso di raccontare la sua storia attraverso la voce dei suoi abitanti, ricordano che non si era soliti chiamare il dottore quando si ammalava un bambino: “Quasi tutte le famiglie dovevano contare i piccoli morti – moriva un terzo circa dei figli – ma la perdita veniva alleviata da un’altra nascita. Morivano le donne di parto, che avveniva in casa, in condizioni igieniche pessime. Se anche fosse stata presente la levatrice, i mezzi e gli strumenti a disposizione erano limitati. La morte rappresentava una tragedia economica e di affetti. Poi, a poco a poco, la ferita si stagnava e la famiglia, con l’aiuto di qualche parente, tornava ad affrontare le difficoltà quotidiane. Si moriva presto comunque, già verso i quaranta – quarantacinque anni, anche se qualche vecchio resisteva fino agli ottanta. A volte la crisi veniva superata, e la gente si passava la bella notizia”.

La colonizzazione medica a Solto non è stata introdotta dal dott. Knock, ma dal Servizio sanitario nazionale, che ha abbracciato questo paesino che si specchia sul lago d’Iseo, così come ogni più remota contrada d’Italia. Di questo aspetto del servizio sanitario universalistico di cui beneficiano tutti, cittadini e immigrati, non possiamo che tessere le lodi. Ma non possiamo ignorarne i limiti. Per individuarli dobbiamo risalire alle logiche che hanno guidato lo sviluppo di un’ assistenza sanitaria rivolta a tutti.

Vorremmo poter affermare, senza esitazione, che la crescita è avvenuta sotto la spinta dei più alti ideali solidaristici, a partire dal seme contenuto già, per quanto riguarda il nostro Paese, nella Costituzione. L’articolo 32, infatti, attribuisce allo Stato la tutela della salute, in quanto “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.  Su questa linea si è mossa la creazione di un Servizio Sanitario Nazionale (1978), di cui quest’anno ricorre, appunto, il trentesimo anniversario. Ma non possiamo negare che, accanto all’anima dei diritti umani, nell’estensione dell’assistenza sanitaria a tutti abbia giocato un ruolo decisivo il mercato. Facendo crescere i bisogni, sono stati inflazionati i consumi. Persone malate, pazienti potenziali e cittadini semplicemente desiderosi di un miglioramento delle proprie condizioni fisiche (quelli che in inglese vengono chiamati un-patients) sono tutti invitati alla tavola, generosamente imbandita, di servizi medici. Dopo le malattie, sono diventate competenze della medicina la bruttezza (medicina estetica) e la stessa infelicità umana. L’estensione del concetto di salute dall’assenza di malattie al completo benessere, promossa dall’OMS, ha fornito la legittimazione alla progressiva medicalizzazione di tutti gli aspetti della nostra vita.

Nell’ambito sanitario la strategia di espansione che si appoggia sulla creazione della domanda è apparsa vincente. Forse troppo: nessun sistema riesce oggi a far fronte in modo soddisfacente alle esigenze crescenti. Le solenni teorizzazioni a carattere internazionale hanno spostato il baricentro della sanità dalla cura delle malattie alla promozione della salute (Carta di Ottawa, novembre 1986). Più di recente la Carta di Bangkok per la promozione della salute in un mondo globalizzato (a conclusione della 6^ conferenza mondiale per la promozione della salute, 2005) chiede di mettere la promozione della salute al posto centrale nell’agenda dello sviluppo mondiale, facendola diventare “parte integrante della politica nazionale e delle relazioni internazionali, anche in situazioni di guerra o conflitti”. Confrontate con gli affanni attuali a tenere sotto controllo le turbolenze dell’economia e a scongiurare i pericoli della recessione, dichiarazioni di questo genere suonano a vuoto. L’enfasi sui diritti deve confrontarsi, per contrappeso, con i limiti dello sviluppo. E con la necessità di contenere le spese per la sanità.

Se dallo scenario mondiale spostiamo l’attenzione al palcoscenico nazionale, troviamo un ulteriore motivo di sfida al nostro sistema sanitario universalistico: il passaggio da un sistema pensato a base nazionale a uno modellato sul ruolo attribuito alle regioni e sul federalismo. Già le agenzie sanitarie regionali sono state pensate come correttivi a un SSN troppo distante da bisogni di conoscenza e di gestione locali. Ora il passo successivo, che parte dal federalismo fiscale e procede verso il ridisegno regionale della rete dei servizi, reca in sé il rischio di legittimare le disequità che continuano a scandalizzarci in senso morale. Se non freniamo il movimento che si sta disegnando su questa china scivolosa, il turismo sanitario, fenomeno vistoso già a livello internazionale, potrebbe avere anche una sua triste versione nazionale. Lo strumento da utilizzare per contenere i pericoli di disequità è una definizione rigorosa dei livelli essenziali di assistenza (LEA).

Tutte le misure correttive di portata internazionale e nazionale per contenere le spinte che rendono i sistemi sanitari universalistici ingovernabili devono essere integrate da forti interventi su coloro che beneficiano dei servizi. Finchè sono considerati come consumatori, presso i quali accendere sempre nuovi bisogni mediante strategie di marketing, medicalizzando tutte le risposte, non c’è speranza di mantenere i sistemi sanitari in un ragionevole equilibrio. Non è solo l’industria farmaceutica a spingere in questa direzione. Esistono siti capziosi e giornali pubblicitari che adescano malati e loro parenti disperati per indurli a comprare cure sprovviste di qualsiasi prova di efficacia. Nei confronti di questi soggetti deboli deve essere esercitata dai professionisti sanitari una funzione di “advocacy”.

Soprattutto è necessario ripensare il ruolo che spetta ai cittadini nel rimodulare i sistemi sanitari. Vanno considerati non come i beneficiari passivi dei servizi sanitari, ma come interlocutori attivi e responsabili. È quanto si propone chi vuol promuovere la partecipazione dei cittadini alle politiche della salute e utilizza in tale senso la comunicazione. Si è soliti chiamare questo rivoluzionamento empowerment dei cittadini. Il termine è così inflazionato che rischia di scivolare via senza bloccare la nostra attenzione. Basterebbe considerare che la parola rimanda al “potere” (power) da ridistribuire, per trovarci indirizzati sulla pista giusta di riflessione.

Soprattutto siamo consapevoli che una corretta comunicazione è destinata a promuovere il bene di cui sentiamo maggiormente la mancanza. Non stiamo parlando delle risorse economiche, ma della fiducia: fiducia tra cittadini e professionisti sanitari, nonché tra questi e i decisori politici. Se nel futuro dei nostri sistemi sanitari c’è, a causa della crisi economica globale, una diminuzione dei servizi offerti, dovrà essere “un meno che contiene un più” (per servirci della formula che l’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe aveva mutuato dal poeta Robert Browing: Less is more). Perché ciò si realizzi non solo nel design ma anche nei servizi sanitari è necessario che tutti gli attori – sanitari, cittadini e amministratori – partecipino alle decisioni in modo diverso da come è avvenuto fin’ora. È questa l’opportunità contenuta nella crisi.