Janus 33 – Vent’anni e più di cure palliative: maggiorenni?

Book Cover: Janus 33 - Vent'anni e più di cure palliative: maggiorenni?

Sandro Spinsanti

Vent'anni e più di cure palliative: maggiorenni?

Editoriale Janus 33 - Primavera 2009

 

Il bilancio dello sviluppo delle cure palliative in Italia proposto dal presente numero di Janus è costruito sulla metafora di una parabola biografica. Avendo questa specifica pratica della medicina poco più di vent’anni, ci domandiamo quale è stata la sua infanzia, se e come si è resa autonoma dalla famiglia in cui ha avuto origine, in che modo è entrata nell’età adulta; e soprattutto quali sono i suoi progetti di crescita futura. La metafora era già stata proposta da uno dei pionieri delle cure palliative in Italia, Franco Toscani, in un “Amarcord” in cui rievocava il tempo degli inizi (“Eravamo veramente in pochi a spargere in Italia la buona novella: pochi, eccentrici, idealisti e folli, rinnegatori, nei fatti, delle proprie origini di anestesisti, oncologi, psicologi”). Ma soprattutto ricostruiva il momento di grazia che hanno conosciuto le cure palliative, quando sono state identificate come la risposta adeguata alla bufera che ha investito la medicina italiana con la crisi provocata dalla “terapia Di Bella” (Franco Toscani: “Il vero miracolo del prof. Di Bella”; Janus 17, primavera 2005). Il bisogno di governare una domanda che rimetteva in discussione l’affidamento della medicina ufficiale, identificando nel suo seno valide pratiche marginali cresciute in una semiclandestinità, ha dato visibilità alle cure palliative.

A questo punto anche l’handicap costituito da una denominazione quanto mai infelice (“palliativo”, in italiano, è sentito come alternativo a efficace; malgrado tutti gli encomiabili sforzi di creare un’ascendenza nobile con il riferimento al pallium e all’iconografia di san Martino che divide il suo pallio con il povero, la medicina che si qualifica come “palliativa” ha già perduto in partenza ogni possibilità di elevarsi allo stesso rango di quella “curativa”) è stato superato. Le cure palliative hanno visto riconoscersi fondi e strutture; abbinate al contemporaneo movimento della lotta al dolore “non necessario” e della promozione di “ospedali senza dolore”, sono state oggetto di un’attenzione crescente.

A dimostrazione, tuttavia, che niente può considerarsi acquisito una volta per tutte, dobbiamo registrare una relativa negligenza  della cultura delle cure palliative quando l’Italia ha dovuto affrontare, più di recente, il problema delle decisioni di fine vita. Il riferimento è ai dibattutissimi casi Welby e Englaro. Il patrimonio concettuale e di sapere pratico accumulato dalla lunga esperienza di coloro che accompagnano i malati nella fase terminale della vita avrebbe potuto essere consultato con utilità. Soprattutto quando ci si è accinti a metter mano a disegni di legge contenenti norme che coloro che fanno dell’accompagnamento dei morenti il loro mestiere quotidiano sentono in stridente contrasto con la pratica più responsabile. Invece sulle questioni della rinuncia a presidi che prolungano la vita, sull’alimentazione e idratazione artificiali, sul rispetto delle volontà previe ha prevalso il dibattito ideologico, con i suoi tristi strascichi di violenza verbale e di intolleranza. Le conoscenze maturate da coloro che praticano le cure palliative sono state considerate irrilevanti.

Proprio questa marginalità è istruttiva. Le cure palliative non sono al centro dell’attenzione perché non lo è la rivoluzione bioetica, di cui sono figlie. Non stiamo parlando dell’inflazionatissima bioetica che è diventata programma di partiti, nonché argomento di talk show televisivi, che si traduce in contrapposizioni frontali tra posizioni etiche, ridotte a essere “pro” o “contro” qualcosa (la fecondazione artificiale, la clonazione, l’eutanasia, l’ingegneria genetica...). Il movimento della bioetica è nato come risposta al bisogno di superamento dell’etica medica tradizionale, portando in medicina i principi della cultura liberale. Non si applica solo alle situazioni conflittuali che nascono sui territori di confine della ricerca biomedica più avanzata, ma anche a quanto ricade entro i trattamenti sanitari più quotidiani.

“We had a dream: dare forma alla bioetica”: è la ricostruzione degli inizi del movimento, a trent’anni dalla pubblicazione di Encyclopedia of Bioethics, fatta dal suo curatore, Warren Reich (cfr. Janus 32, inverno 2008). Mettendo in forte rilievo la soggettività del paziente, la bioetica riscriveva le regole con cui i medici erano soliti prendere le decisioni. Non era più sufficiente il riferimento alla “scienza e coscienza” del medico; l’informazione del malato non poteva più dipendere dalla benevolenza del medico, ma diventava un diritto della persona in trattamento; il consenso una condizione di liceità dell’atto medico; la volontà del malato si estendeva anche nella zona grigia in cui non fosse più attualmente in grado di esprimerla (direttive anticipate, o living will). Negli anni Sessanta, osserva Warren Reich, “si percepiva che si stava verificando un fenomeno eccezionale: un profondo cambiamento nella cultura e nella moralità, conseguenza delle trasformazioni sociali”. Con la bioetica, il cambiamento investiva la medicina.

Quanto fossero “benefici” i trattamenti non poteva più deciderlo il medico da solo: diventava quantomeno una decisione da prendere in due. Se da una parte c’era quanto la medicina era in grado di fare – poco, molto, talvolta troppo... –, dall’altra andava considerata la valutazione che ne fa la persona interessata.  Se entriamo negli scenari drammatici di fine vita, osserviamo che  alcune persone sono determinate a contendere alla morte ogni centimetro di terreno; desiderano tutti i trattamenti, anche quelli futili. Purchè possano prolungare la vita, non si preoccupano del come. Altri invece considerano intollerabili condizioni di sopravvivenza che per altre persone sono tollerabilissime. Per non parlare della soggettività circa la soglia del dolore: per alcuni è relativamente alta, altri invece sono disposti a pagare il controllo efficace del dolore con un’abbreviazione della vita stessa. Il principio fondamentale della bioetica – la “buona medicina” della modernità non si può fare senza il coinvolgimento del paziente nelle scelte che lo riguardano – riguarda tutta la pratica medica, ma diventa drammaticamente evidente soprattutto quando la vita volge al termine. Le decisioni di fine vita, ancor più di quelle che si aprono sul recupero della salute o sulla permanenza in vita in condizioni di cronicità, non possono essere “a taglia unica”: vanno modellate su misura, perché probabilmente non ce ne sono due identiche. La medicina deve affrontare non solo il pluralismo etico di una società che non è più moralistica, ma multietnica e multietica, ma ben di più: le buone decisioni mediche devono essere “tagliate su misura” delle singole persone.

Se è così, le cure che si occupano della fine della vita, e che per convenzione chiamiamo “palliative”, non sono rette da un’etica diversa da quella che vige nelle medicina curativa. Schematizzando, non è pensabile che ci sia una parte della pratica medica che possa essere condotta con le regole del paternalismo benevolo (il medico tiene il paziente all’oscuro della diagnosi e della prognosi, sceglie il percorso terapeutico che ritiene, “in scienza e coscienza”, più appropriato e cerca di procurare al paziente ciò che ritiene essere il bene maggiore per lui) e una parte che invece presupponga un ruolo attivo del malato. Questa suddivisione si realizza, in maniera caricaturale, qualora  si pensi che tra medicina curativa e medicina palliativa si possa instaurare una specie di corsa  a staffetta. Quando la medicina che cura è arrivata al termine delle sue possibilità – che ha condotto decidendo sul paziente, ma non con lui – passa il testimone al “palliatore”, inteso come specialista della fase finale. Quando si realizza questa frammentazione, non solo le cure palliative hanno perso la loro potenzialità di rinnovare la teoria e la pratica della medicina, intesa come processo unitario, ma si mette una ipoteca sulla loro praticabilità alla fine della vita. Almeno finchè si intendono le cure palliative in modo pieno: non solo come terapia del dolore e trattamento efficace dei sintomi, ma come medicina che permette a ciascuno di modellare la cura in armonia con la propria concezione di vita (e di morte).

Tra le parole chiave che il movimento della bioetica ha introdotto nel discorso pubblico ha grande rilievo quella di “limite”. Setting limits: è il titolo incisivo di un saggio del direttore  dello Hastings center, Daniel Callahan. I limiti di cui parla la bioetica non sono solo quelli dell’appropriatezza dei trattamenti, qualora si tenga in debito conto della limitatezza delle risorse e del criterio della giustizia nella loro allocazione. Oltre a questi limiti, dobbiamo considerare quelli che derivano dalle preferenze personali. Sono queste preferenze che tolgono il terreno sotto i piedi a una definizione di accanimento terapeutico affidata a parametri oggettivi, e quindi potenzialmente validi per tutti. Per qualcuno misure estreme di mantenimento in vita sono un incubo, per altri invece una speranza. Solo una medicina “tagliata su misura” per ogni persona impedisce che con trattamenti definiti a priori, magari per legge, si faccia violenza agli uni o agli altri, fornendo troppo o troppo poco.

In che direzione cresceranno le cure palliative nel contesto della medicina italiana? Gli esperti convocati da Janus indicano, con buoni argomenti, diversi percorsi possibili e auspicabili. Ci auguriamo che siano portati a compimento, con lo stesso cordiale slancio con cui aderiamo a ogni sforzo che si proponga di migliorare la nostra vita (e la nostra morte). Ma soprattutto auspichiamo che le cure palliative non dimentichino la promessa che era insita, in germe, nel movimento che le ha fatte nascere: non solo che dessero una risposta efficace al problema settoriale di come aiutare le persone a morire bene, ma ancor più che rinnovassero il modo stesso di fare medicina. Una medicina che non si occupi solo della biologia delle persone, ma sappia rispettare la loro biografia; che integri le conoscenze antropologiche a quelle delle scienze naturali, dando il debito spazio alle medical humanities; che riconosca la dimensione trans-personale delle persone che cura, comune tanto a coloro che pensano a se stessi entro un orizzonte religioso, quanto a coloro che si riconoscono in un mondo definito in termini di secolarità. Insomma, una medicina molto diversa da quella che oggi, pur curandoci con risultati di un’efficacia senza pari rispetto a quella raggiunta in passato, ci lascia però molto spesso profondamente insoddisfatti. Le cure palliative contenevano una speranza: aiutando i malati a morire bene, contribuire a far nascere una migliore medicina. Questa seconda parte della promessa è ancora in gran parte incompiuta.