Janus 34 – Una medicina che abbraccia la terra

Book Cover: Janus 34 - Una medicina che abbraccia la terra

Sandro Spinsanti

Una medicina che abbraccia la terra

Editoriale Janus 34 - Estate 2009

 

La Terra è malata. Un urlo senza fine attraversa la natura: è da questa immagine, affacciatasi alla coscienza di Edvard Munch in una notte di incubo, che è nato il celebre quadro, diventato un’icona del XX secolo. Il grido ha preso ben presto forma di appello all’azione: da questa matrice è sorta la bioetica. Mentre il concetto di biosfera ci rendeva consapevoli che la vita sulla terra, nelle sue varie forme, costituisce un’unità, e che questa vita è in pericolo per i comportamenti degli esseri umani, l’imperativo della sopravvivenza si traduceva nell’urgenza di modificare i nostri rapporti con i viventi, animali e piante compresi. Quando parliamo di biosfera ci riferiamo a quella sottile pellicola che copre il pianeta, nella quale si trovano, ognuno nella propria nicchia, i sistemi viventi: gli animali – dal batterio ai cetacei giganti – e le piante. È una pellicola sottile (pesa solo un miliardesimo di tutto il pianeta), ma ad essa dobbiamo tutta la preziosa differenza che rende la Terra abitabile. L’uomo è inserito in essa, con un ruolo decisivo: con i suoi comportamenti è la peggiore minaccia per la sopravvivenza della biosfera.

La nascita culturale della bioetica – nonché la coniazione stessa del neologismo, ad opera di Van Renselaer Potter, all’inizio degli anni ’70 – è tributaria della consapevolezza che il volto del pianeta Terra non sarebbe più lo stesso se il “bios” su di essa si dovesse estinguere. Ciò che Potter intendeva come bioetica era un cambiamento culturale inteso come una mossa efficace per contrastare il flusso fatale verso lo sconvolgimento degli equilibri vitali così come noi li conosciamo. Garantire la sopravvivenza della vita non è solo questione di scienza e di tecnologia. Per assicurare l’inversione di tendenza – proponeva Potter quarant’anni fa – è necessaria una “bioetica”: l’uomo deve regolare i propri rapporti con gli animali e le piante, modificando gli atteggiamenti tradizionali nei confronti della natura. L’estensione dell’etica a questo ambito è l’unica possibilità evolutiva. La bioetica nella sua ispirazione originaria è, dunque, un intreccio di elementi diversi: presa di coscienza del pericolo che minaccia la biosfera, cambiamento della nostra filosofia della natura, sviluppo di comportamenti responsabili, vincoli e restrizioni posti dalla società agli interventi nell’ambito della biosfera.

La posta in gioco non era solo la dismissione di comportamenti umani che avvelenano la natura e la rendono inabitabile. Far entrare la Terra come organismo vivente nella nostra coscienza è un avvenimento di grande importanza: non costituisce solo la premessa per la sopravvivenza della vita, ma è anche un momento determinante di crescita spirituale dell’umanità. È un gradino che segna un salto di qualità.

La presenza della natura nella coscienza va intesa nel duplice significato di coscienza: psicologico e morale. La vita è una realtà di cui ci si accorge (come quando si “prende coscienza” di qualcosa che pur era presente, ma si trovava fuori del nostro raggio di attenzione) e allo stesso tempo è una realtà che crea un obbligo morale. Non che l’umanità solo oggi si renda conto di essere circondata dalla natura: questa coscienza è antica quanto l’umanità stessa. La natura, tuttavia, era concepita come l’ “oggetto” che si contrapponeva al soggetto umano, un serbatoio da cui attingere le risorse necessarie per la sopravvivenza, mentre per alcuni era occasione di contemplazione, di ispirazione poetica, di elevazioni religiose; ma non una fonte di interpellazione etica. Nelle tradizioni dell’Occidente la natura non si rivolgeva alla coscienza morale dell’uomo. L’elaborazione di una dottrina dei doveri – cioè la riflessione etica – è avvenuta sempre intorno all’uomo come persona. Il “dialogo con la natura”, a meno che non sia concepito come momento di poesia o come figura retorica, è lasciato come esperienza alle culture più arcaiche, che non si sono ancora sottratte al fascino del sacro percepito negli avvenimenti naturali. Nella nostra tradizione l’uomo amava considerarsi “signore e padrone della natura” (secondo la formula di Descartes); la regola fondamentale dell’etica razionalista stabilita da Kant (trattare l’ “altro” come fine, non solo come mezzo) si applicava solo all’ “altro” a cui veniva riconosciuto carattere umano, non ai viventi in genere.

Nell’agenda originaria del movimento della bioetica era previsto un programma dai vasti orizzonti: prendere coscienza della biosfera che è caratteristica della Terra; introdurre gli animali nel mondo dell’uomo, riconoscendoli come degni di rispetto e portatori di diritti e non solo utili oggetti di rapina; vedere nella natura non una riserva di risorse da sfruttare, ma un ambiente da conservare (secondo l’alto invito dell’americano Aldo Leopold a sviluppare una “Land Ethics”, cioè un’etica che riconosca il valore del paesaggio naturale). Per acquisire questi nuovi atteggiamenti era necessaria più che una generica iniezione di buoni sentimenti nel modo di comportarsi tradizionale: era richiesta una revisione profonda dei nostri comportamenti nei confronti della natura vivente.

Il modello razionalista dell’uomo che siamo abituati a coltivare presuppone implicitamente che la maturità emotiva comporti l’indifferenza verso il mondo animale e la natura: come se si diventasse uomini allontanandosi il più possibile dall’ animalità (la bestia continua a essere usata come simbolo oscuro del male, del demoniano, dell’antiumano...). Rovesciando questo modello, la bioetica ci invitava a riscoprire un canale di comunicazione profonda con la natura, la capacità di percepire e di rispondere agli stati interiori di animali di altre specie, il respiro divino di tutto ciò che è vivente, nonché l’intreccio profondo tra la creatura vivente e quella non vivente. Si trattava di collocarsi in compagnia di poeti, di scienziati – almeno quelli tipo Konrad Lorenz – e di bambini.

Questo cambiamento di scenario culturale, proposto dal movimento della bioetica, è riuscito a contagiare anche la medicina? Certo, alcuni incontri fatali sono avvenuti. La sperimentazione sugli animali, ad esempio, non potrà più essere la stessa del passato, quando si cominciano a guardare gli animali diversamente che come materia biologica a disposizione dell’uomo. Ma, in generale, si ha l’impressione che la bioetica che ha preso stanza nella medicina abbia lasciato cadere molte delle aspirazioni che hanno animato la bioetica agli inizi, affidandole al movimento ecologico. La bioetica medica è diventata un tema culturale di grande successo, ma a prezzo di un vistoso impoverimento. Per questo il più ampio orizzonte delle medical humanities si rivela un fecondo correttivo per una bioetica settoriale e troppo incline a lasciarsi ridurre a biodiritto in ambito medico.

Guardando retrospettivamente al cammino percorso da Janus, ci sembra di riconoscere che questo è stato il respiro che ha animato le nostre proposte. Quando abbiamo parlato di nascita e di morte, di sperimentazione e di miglioramento della salute, di politiche sanitarie e risorse terapeutiche, la figura che fungeva da sfondo alla nostra riflessione era costantemente quella di un rapporto con la Terra che rinuncia alla violenza. Una medicina che abbraccia consapevolmente la Terra da questo abbraccio si lascia anche curare. La dismisura – i greci la chiamavano hybris – è il pericolo che incombe costantemente sulle più alte realizzazioni dell’uomo. E non c’è dubbio che la medicina scientifica e tecnologica alla quale ci affidiamo sia uno dei prodotti più alti, del quale possiamo essere giustamente fieri. Ma è anche quello che ha più bisogno di vigilare che non si travalichi la giusta misura.

I temi che tocca il nostro dossier sono lungi dall’essere esaustivi. Nel rapporto con gli animali e con il cibo, nell’articolazione costituzionale dei diritti e nelle modalità di organizzazione della nascita si evidenziano solo alcuni degli approcci metodologicamente corretti che ci aspettiamo da una medicina che non fa violenza alla natura. In un momento culturale in cui l’etica in medicina si sente necessitata di valorizzare la categoria di “alleanza terapeutica” per qualificare il rapporto auspicabile tra coloro che curano e coloro che ricevono le cure, non è fuori luogo ricordare che tale categoria nel “Grande codice” dell’Occidente, che è la Bibbia, riposa su un patto che è più fondamentale di quello che possono stringere tra loro gli esseri umani. Il modello alla base di ogni alleanza è quello che nella Genesi è collocato dopo il diluvio universale: l’alleanza con Noè, i suoi figli e i loro discendenti abbraccia anche la vita sulla Terra, in tutte le sue forme (Gen. 9, 8-13). A tutta l’umanità, ancor prima che nello scenario biblico appaia Abramo e l’alleanza che fonda il monoteismo, l’alleanza noaica promette un vivere sulla Terra in un ordine universale che non deve più essere sconvolto. Proprio questa dimensione cosmica, che implica il giusto rapporto con la natura, costituisce il centro di gravità.