La casa per l’uomo fragile

Book Cover: La casa per l'uomo fragile

Sandro Spinsanti

La casa per l'uomo fragile

Editoriale

in L'Arco di Giano, n. 3, 1993, pp. 13-17

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EDITORIALE

C’è un affollamento di architetti sotto L'Arco di Giano, in questo fascicolo. Convocati non per un restauro del monumento che abbiamo scelto come simbolo delle medical humanities: di restauri la gloriosa costruzione dell’antichità romana sembra proprio non avere bisogno. Neppure dopo l’infame attentato del 27 luglio scorso, che ha fatto scempio della vicina chiesa di S. Giorgio al Velabro. Gli architetti sono stati invitati a incontrarsi nello spazio che lo “janus” (il portico coperto) ci fornisce per un confronto su un tema inusuale: la casa per l’uomo fragile.

L’architettura, arte quanto mai nutrita di tecnica, intrattiene rapporti stretti con l’integrazione dei saperi che è propria della tradizione umanistica. Secondo Umberto Eco, l’architetto non può essere che umanista: «L’architetto, per costruire, è continuamente obbligato ad essere qualcos’altro da se stesso. È costretto a diventare sociologo, politico, psicologo, antropologo, semiologo... Costretto a trovare forme che mettano in forma sistemi di esigenze su cui non ha potere, costretto a articolare un linguaggio, come l’architettura, che deve sempre dire qualcosa di diverso da se stesso (...), l’architetto si trova condannato, per la natura del proprio lavoro, ad essere forse l’unica e ultima figura di umanista della società contemporanea: obbligato a pensare la totalità proprio nella misura in cui si fa tecnico settoriale, specializzato, inteso a operazioni specifiche e non a dichiarazioni metafisiche» (Eco, 1968, p. 245).

Se questa intima vocazione dell’architettura a pensare il proprio compito in un orizzonte umanistico corrisponde a verità, gli architetti devono avere una naturale predisposizione per le tematiche e il metodo promossi dalle medical humanities. È quanto il tema prescelto ci permette di verificare.

Il rapporto tra la casa e l’uomo nella sua dimensione di fragilità acquista rilievo se consideriamo la vocazione intrinseca della casa a

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contenere l'uomo in tutte le fasi e le espressioni del suo itinerario autorealizzativo. L’uomo “forte” si costruisce la casa che lo esprime. Nel libro biblico dei Proverbi questo compito è affidato alla Sapienza: edificherà una casa” (Prov, 9.1).

Per C.G. Jung la casa può essere intesa come una rappresentazione di quel processo che egli ha chiamato dell’“individuazione”; è il simbolo della totalità psichica, in cui l’uomo realizza ciò che è chiamato ad essere. Nel libro che raccoglie i suoi Ricordi, sogni, riflessioni un intero capitolo è dedicato alla Torre di Bolingen, cioè la casa che Jung si è costruito nel corso degli anni sulle rive del lago di Zurigo. Quella casa, quasi una “professione di fede in pietra”, una rappresentazione dei pensieri più intimi, è cresciuta nel tempo con il sapere e la coscienza del suo costruttore. La Torre di Bolingen è diventata per Jung un simbolo: «un luogo in un certo senso di maturazione, un grembo materno o una figura materna nella quale potessi diventare ciò che fui, sono e sarò» (Ricordi..., 1992, p. 272).

La casa come spazio per l’infinito sogno sotterraneo della psiche, dove si dà convegno ideale una silenziosa e più grande famiglia, che si estende nei secoli, per completare un’opera spirituale che trascende l’individuo: non meno di questa dimensione trans-personale evoca l’immagine della casa per l’uomo “forte”, ovvero autorealizzato.

Anche Gaston Bachelard, analizzando la poetica della casa attraverso le tracce presenti nell’immaginario dei poeti, giunge a una conclusione analoga: con l’immagine della casa abbiamo un vero principio di integrazione psicologica (Bachelard, 1992, p. 18). Se l’immagine della casa diventa la topografia del nostro essere intimo, la casa può diventare uno strumento per analizzare l’anima umana e per individuare i bisogni dell’uomo. Soprattutto quando lo incontriamo nella condizione di fragilità.

Una seconda associazione tra la casa e l’uomo nella sua dimensione di forza ci conduce all’opera di Mario Praz, La casa della vita. La descrizione di una casa concresciuta alla vita del suo abitante, intrecciandovisi in modo inestricabile, è più che un tributo pagato alla passione piuttosto frivola di un collezionista di oggetti antichi o al culto della casa adorna. Anche per Praz la casa è una proiezione dell’io. Nella fusione tra l’individuo e l’ambiente, anche collezionare curiosità appare essere a servizio di uno scopo più alto: «scrivere il mistero di se stesso nel mobilio» (Praz, 1986, p. 424).

C’è una provocazione nel racconto che costituisce La casa della vita: questa espressione ― mutuata nell’antico Egitto, dove designava il luogo in cui si conservavano le mummie ― viene utilizzata polemicamente

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nei confronti della concezione oggi dominante che riduce la casa a machine à habiter. Praz vuol promuovere invece una correlazione forte tra la casa e la vita, intendendola come luogo dove la memoria si conserva viva e, attraverso la luce riflessa dagli oggetti, si mantiene la compresenza alle persone e agli affetti.

La casa appare così iscritta in un progetto di saggezza, secondo l’enigmatica indicazione biblica del libro della Sapienza. Di questa saggezza concreta la casa è lo strumento: la casa fa l’uomo, non meno di quanto l’uomo faccia la casa.

Se l’uomo “forte” intrattiene con la casa quella relazione privilegiata che gli permette di investire in essa energie e di attingervi significati, non meno radicalmente è legato alla casa l’uomo “fragile”. Benché il suo legame si sviluppi sotto il dominio del pathos, piuttosto che dell’eros. L’inversione di segno algebrico nella considerazione dell’uomo si riflette nello spazio che lo contiene. L’uomo “fragile” non evoca l’immagine di spazi felici, spazi di possesso, difesi contro le forze avverse. Casa e uomo fragile sono correlati, ma sotto il segno del dolore e dell’impotenza.

La casa per l’uomo fragile: il dossier esplora in tutte le pieghe le possibili articolazioni delle fragilità legate all’abitare. L’architetto e tutti coloro che progettano e costruiscono i luoghi per vivere la fragilità ricevono indicazioni feconde dalla metodologia che è propria delle medical humanities. Le quali, senza prescrivere comportamenti, aprono prospettive di innovazione attraverso la circolazione dei saperi specialistici e l’assunzione di punti di vista che si confrontano.

Una parola anche sugli altri appuntamenti abituali de L’Arco di Giano con i suoi lettori. L’attualità dei classici invita alla rilettura di Montaigne. La rapidità e la profondità dei cambiamenti culturali nei confronti del corpo e dell’arte di recuperare e mantenere la salute suscita il desiderio di considerare con più interesse l’eredità con cui andiamo incontro al futuro. È un movimento affine alla strategia che invita a reculer pour mieux sauter.

Montaigne ripaga generosamente l’audacia che ci induce a cercare lumi in un autore così lontano da noi nel tempo. Proprio perché, come risulta chiaro dalla griglia interpretativa che ci propone Lionello Sozzi, il confronto con la malattia, la salute, il corpo e la guarigione, la vita fisica e la morte ha costituito l’asse portante della riflessione di Montaigne. La guida alla lettura di Montaigne che egli ci offre conferma l’intuizione di Sergio Solmi, nell’introduzione alla traduzione italiana dei Saggi pubblicata dall’Adelphi, circa la centralità della salute in

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quel modello di vita saggia che si pone a cerniera tra il Rinascimento (presente attraverso la ruminazione dell'antichità classica) e l'epoca moderna: «Il processo della saggezza di Montaigne consiste in una progressiva corrosione di tutti gli ideali e gli scopi che rendono difficile la vita, per proporre l’ideale più elementare e semplice possibile: quello di uno sciolto, esatto aderire dell’individuo al naturale movimento e ritmo della vita stessa. Un ideale che potrebbe chiamarsi, con parola intesa in senso lato, la salute» (Solmi, 1992, p.XXVII).

L’invito di Solmi di ritornare a Montaigne per riascoltare un’antica musica di saggezza ci è sembrato degno di essere accolto. Grazie alla mappa fornitaci da L. Sozzi, possiamo viaggiare nel continente Montaigne con la prospettiva di appassionanti scoperte riservate anche al lettore del XX secolo (più esattamente, un lettore che già si sporge sul XXI secolo).

La rubrica L’attualità dei maestri ci porta al di là dell’Atlantico, a incontrare Edmund Pellegrino. Per lasciarci illustrare i legami profondi che la bioetica americana, di cui Pellegrino è uno dei cultori più ascoltati, conserva con la tradizionale filosofia della medicina. A Pellegrino si deve uno dei tentativi più interessanti di coniugare la svolta moderna nell’etica medica, riassumibile nel rispetto dell’autonomia del paziente, con i solidi valori del rapporto medico-paziente ereditati dalla medicina del passato.

Terminiamo presentando il saggio che introduce il fascicolo. Il Focus dell’attenzione è concentrato su un contributo che illustra in modo esemplare la metodologia tipica delle medical humanities. L’antropologo di Harvard Arthur Kleinman ci invita a riflettere sulle sfide che ci pone la comprensione della sofferenza umana, in particolare il dolore cronico. Esaminate con gli strumenti concettuali offerti dall’antropologia medica, la malattia cronica e la sua terapia appaiono come un ponte simbolico che connette il corpo, il Sé e la società. Ne risulta una rete che collega i processi fisiologici, i significati e le relazioni, agganciando il mondo sociale con l’esperienza interiore.

L’insufficienza del paradigma biomedico a far fronte alla situazione creata dal dolore cronico, che innesca complesse reazioni intrapsichiche e sociali, è vista come occasione per ampliare il paradigma stesso, integrandolo con i saperi e le competenze che derivano dall’ambito umanistico. Ne risulta non un controaltare alla medicina, ma una medicina di maggior spessore, capace di parlare dell’uomo e all’uomo nel concreto del suo vissuto di malattia, in continuità con la Grande Medicina della tradizione umanistica.

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Riferimenti bibliografici

Bachelard G., La poétique de l’espace, Puf, Paris 1992.

Eco U., La struttura assente, Bompiani, Milano 1968.

Praz M., La casa della vita, Adelphi, Roma, 1986 (sec. ed.).

Ricordi, sogni, riflessioni, di C.G. Jung (a cura di Aniela Jaffé), Rizzoli, Milano 1992.

Solmi S., La salute di Montaigne, introduz. a De Montaigne M., Saggi, Adelphi, Milano 1992, vol. I, pp. IX-XXIII.