
Sandro Spinsanti
QUANDO L'ETICA SI TRAVESTE DA ESTETICA
Nell’elenco delle preferenze che vengono presentate come opzioni ideali di una “morte à la carte” non si trova mai menzionata una morte “graziosa”. L’accostamento suona provocatorio: come si fa a parlare di una morte graziosa? Solo la formulazione ci fa rabbrividire: non riusciamo a immaginarla neppure sotto forma di ossimoro. No: non riusciamo proprio a cantare la “bellezza dell’infelicità” al suo grado estremo, quando la vita ci viene strappata. Eppure…: un legame tra la morte e le Grazie è giustificabile. Qualche chiarimento linguistico ci aiuterà a delineare il percorso che intendiamo proporre verso una morte in braccio alle Grazie.
Anzitutto: la Grazia o la grazia? Se ci muovessimo in un contesto teologico sembrerebbe d’obbligo la maiuscola. Per il credente la morte è il momento di transizione tra il tempo e l’eternità: la Grazia gli permette di essere accolto nella realtà definitiva. La Grazia fa della morte la porta per accedere alla salvezza eterna. La “buona morte” richiede consapevolezza e fonda l’obbligo di una preparazione. Nella corte pontificia era stata istituzionalizzata la figura del “nuncius mortis”: il cardinale che aveva il compito di annunciare al pontefice che la morte era imminente e che si doveva predisporre al trapasso. Come ogni buon cristiano, doveva confessarsi, chiedere il perdono dei peccati, consacrare il passaggio ricevendo i sacramenti. Lo stesso, a un livello più modesto, faceva ogni buon ministro del culto, quando appariva al capezzale di un morente. “Non c’è più niente da fare: chiamate il prete” era la frase che sanciva la transizione dalle competenze del medico a quelle del sacerdote.
Questo era lo schema. Almeno fino al momento in cui la cultura – medica, ma non solo – ha attribuito al curante il compito di nascondere a chi era sul punto di morire la propria condizione. La pietas si traduceva in nascondimento della gravità della condizione del malato; ancor più, in vera e propria menzogna. Il dramma di Arthur Schnitzler Professor Bernhardi, del 1912, rappresenta efficacemente il cambio culturale (1). L’imperial-regia polizia viennese ne proibì la rappresentazione, in quanto infrangeva “gli interessi pubblici”. Questi erano minacciati dalla revisione delle rispettive competenze della medicina e della religione sulla soglia della morte.
La vicenda messa in scena prende l’avvio in una clinica, diretta dal Professor Bernhardi. Una giovane donna, Philomena, è ricoverata per una setticemia dopo un aborto clandestino. Sta morendo, ma non ne è consapevole. Una infermiera manda a chiamare il cappellano, affinché le impartisca l’estrema unzione. Il professor Bernhardi si oppone, perché vuole evitare il trauma alla giovane donna. La sua visione di ciò che è giusto fare cozza frontalmente con quella del rappresentante della religione:
La paziente, reverendo, è completamente inconsapevole. Si aspetta tutt’altro che questa visita. E’ invece presa dalla felice illusione che nelle prossime ore qualcuno, che è a lei vicino, si presenterà e la porterà via, per riprenderla con sé – nella vita e nella felicità. Credo, reverendo, che non sarebbe un’azione buona, oserei quasi dire un’azione gradita a Dio, se qualcuno la volesse svegliare da questo ultimo sogno.
Il cappellano, ovviamente, vede la cosa da un’altra angolatura. Nascondere al morente la sua situazione significa sottrargli l’occasione di un supremo incontro con la Grazia. Si instaura un duro confronto. Mentre stanno discutendo che cosa sia giusto fare, la ragazza muore, disperata, avendo appreso della presenza e delle intenzioni del prete. Il conflitto tra il medico e il cappellano verte proprio sui compiti rispettivi. Il Professor Bernhardi sostiene che il dovere del medico sia di “fornire una morte felice”. Un altro medico della clinica arriva ad affermare: “Mentire è la parte più difficile e più nobile della nostra professione”.
In bocca ai medici di Schnitzler prendeva forma la consapevolezza di una transizione avvenuta: la morte e il morire erano entrati a far parte del dominio della medicina. Un dominio esclusivo, che i professionisti medici non avrebbero condiviso con altri. Visto dal punto di vista delle persone oggetto di cura, si trattava di un cambiamento sotto il segno della continuità: da un paternalismo all’altro. E il paternalismo medico non aveva niente da invidiare a quello religioso. Si esprimeva con le categorie della cura (“Fare il bene del paziente, in scienza e coscienza”) e della pietas (fornire una “morte felice”). Il paziente non aveva niente da narrare circa se stesso e le sue preferenze; e la narrazione che i curanti facevano a lui assomigliava piuttosto a un “raccontar storie”. Diagnosi addomesticate, prognosi reticenti, piccole e grandi bugie. Con la partecipazione sollecita e volenterosa dei familiari: loro sì informati, ma coinvolti in una recita tendente a mantenere il malato in quello stato che Kant avrebbe chiamato “una minorità non dovuta”, destinato a essere superato solo quando si entra nell’area culturale dell’Illuminismo (2).
Nel cambiamento del modello di rapporto tra chi muore e chi resta la Grazia perde la maiuscola e diventa la grazia dell’inconsapevolezza. “E’ morto senza accorgersi di nulla”: è molto spesso l’elogio che i superstiti fanno della propria abilità nel nascondere la realtà al morente, instaurando una tragi-commedia degli inganni. Questa strategia della negazione significa il naufragio di un secolare atteggiamento religioso che ha prodotto il genere letterario dell’”ars moriendi”, diffuso dal medioevo al rinascimento. La morte era vista come un processo per il quale l’uomo aveva bisogno di aiuto. Così come per entrare nella vita, alla nascita. Conosciamo 300 manoscritti e circa 100 incunaboli di “ars moriendi”, culminati nel capolavoro di Erasmo sa Rotterdam: La preparazione alla morte (1533). La pratica ascetica della simulazione mentale della propria morte (molto popolare l’Apparecchio alla buona morte di S. Alfonso Maria de’ Liguori, del 1758) era molto coltivata. Tutto questo mondo culturale tramonta una volta che l’imperativo dominante diventa quello di sottrarre al morente la conoscenza del suo stato. Professionisti della cura e familiari diventano complici in quest’opera di nascondimento, intesa come suprema pietas.
Nascondere la morte comporta anche il rinnegamento della strategia filosofica che ha tradizionalmente indicato nella consapevolezza di fronte alla morte la via della saggezza. “Cerchiamo di entrare nella morte con gli occhi aperti”: è la suprema esortazione che Marguerite Yourcenar mette in bocca al suo imperatore Adriano (3). “Filosofare è imparare a morire”, aveva intitolato Montaigne uno dei suoi saggi più celebri (4). Dal guardare la morte in faccia siamo transitati al nascondimento programmatico. Sia in ambito religioso che laico. Viene praticato anche quando nel contesto sanitario il passaggio di consegne del “chiamare il prete” cede il passo al caricaturale: “Non c’è più niente da fare: chiamate il palliativista”. Persevera la strategia del nascondimento. Le indagini sulle informazioni ricevute e sulla consapevolezza del decorso della propria malattia tra coloro che concludono la propria vita negli hospice danno risultati molto deprimenti: la stragrande maggioranza delle persone vicine alla morte non è stata messa in grado di avvicinarsi ad essa in modo consapevole. Dall’aspirazione a morire in Grazia di Dio il centro di gravità si è spostato sulla grazia di morire senza accorgersene.
Ci sono altre fattispecie della grazia con la lettera minuscola. Parliamo del “morire con grazia”. L’espressione ricorre in uno scritto di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 25 luglio 2016), riferito alla morte di una giornalista, Letizia Leviti. Prima di morire – a 45 anni, dopo una lotta di due anni con un carcinoma – ha lasciato un messaggio di addio ai colleghi: quasi un testamento spirituale, disponibile in rete e molto cliccato (cfr. www.corriere.it). Rispondendo idealmente con una lettera al messaggio della morente, Dacia Maraini riflette su quella morte sullo sfondo dei traumi causati dalle morti procurate con atti terroristici. Del messaggio di addio sottolinea “le parole serene che dispensano serenità in un momento così drammatico in cui la morte si sta portando via, senza nessuno scrupolo, tanti giovani innocenti. Il mondo sarebbe decisamente migliore se tutti coloro che sono vicini alla fine si comportassero con la tua grazia”. E concluse: “Grazie di cuore per averci consegnato questo esempio di ferrea e dolcissima serenità”. L’arte del morire acquista un profilo più basso: l’ideale è morire da persone educate, come se il galateo odierno richiedesse la parte del restare vivi, senza fratture traumatiche.
A passi discreti siamo così entrati in un territorio confinante con quello delle Grazie. Al plurale: ci riferiamo alle divinità che la mitologia greca ha posto a tutela della bellezza. Quelle che ci vengono incontro nella rappresentazione scultorea che ne ha fatto Canova; o che danzano leggere nella Nascita di Venere di Botticelli. Ci domandiamo, dunque: è possibile morire in braccio alle Grazie? Ugo Foscolo, che ha riflettuto a lungo sulle Grazie, dedicando loro un poema incompiuto, ha osservato che le Grazie rimandano a stati d’animo che si collocano tra “la smodata gaiezza e il profondo dolore”. Mutuiamo dal poeta i due pilastri che delimitano il territorio nel quale aspiriamo a incontrare le Grazie quali numi tutelari della “bella morte” intesa come ideale etico dei nostri giorni.
A un estremo collochiamo il “profondo dolore”. Parliamo proprio del dolore fisico. Non si può morire in braccio alle Grazie se non viene fatto quanto è possibile per tenere sotto controllo il dolore. Senza trionfalismi inappropriati – i clinici affermano che rimane pur sempre circa un cinque per cento di dolore che non si riesce a rimuovere con i mezzi di cui la medicina oggi dispone – siamo tuttavia consapevoli che mai la nostra capacità di controllare il dolore è stata così sviluppata come ai nostri giorni. Purtroppo ciò non vuol dire che lo si faccia. Un documento del Comitato Nazionale per la Bioetica: “La terapia del dolore: orientamenti bioetici” (2001) introduceva la necessità di dare uno spazio prioritario nella nostra agenda etica e sanitaria alla lotta al dolore non necessario con un rilievo che suona come una accusa di omissione da parte della medicina: “Tra quanto è possibile e giusto fare per eliminare e controllare il dolore fisico e quanto in pratica viene fatto riscontriamo una vistosa differenza”. Una differenza non solo vistosa: la possiamo anche francamente qualificare come scandalosa.
Non si può morire bene se dolore e sintomi devastanti sconvolgono la fase terminale della vita. Il percorso culturale che identifica nella terapia del dolore un aspetto prioritario della sanità pubblica ha prodotto anche una legge: “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” (Legge n.38/ 2010). L’obiettivo finale è che nasca nei cittadini la consapevolezza che avere accesso alle misure mediche per tenere sotto controllo il dolore è un loro diritto; e per i professionisti sanitari un dovere inderogabile fornirle.
All’altro estremo per delimitare il territorio delle Grazie Foscolo colloca “la smodata gaiezza”. Non credo che il poeta correlasse questo stato d’animo con la morte. Neppure pensando al suo Jacopo Ortis, che si compiace morbosamente nel percorso che lo porterà al suicidio. Ai nostri giorni, purtroppo, dobbiamo farlo. Il pensiero corre ai cosiddetti “martiri”, che concludono la propria vita in una morte cercata. E selvaggiamente procurata, a quante più persone possibile. Distanziandoci dall’ambito del terrorismo jiadista e del sadismo autodistruttivo, possiamo trovare altri esempi in cui il morire avviene in uno stato d’animo di “smodata gaiezza”. Un esempio indimenticabile è la morte del “Malato di cuore” cantato da Fabrizio de Andrè, rivisitando alcuni epitaffi del l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. La morte coglie il giovane nell’estasi amorosa, nella quale si era gettato superando le restrizioni che la patologia gli aveva sempre prescritto:
Farti narrare la vita dagli occhi
E non poter bere alla coppa d’un fiato
Ma a piccoli sorsi interrotti.
Eppure un sorriso io l’ho regalato…
Quando il cuore stordì e ora no, non ricordo
Se fui troppo sgomento o troppo felice,
E il cuore impazzì e ora no, non ricordo
Da quale orizzonte sfumasse la luce…
Ma che la baciai questo sì lo ricordo
E il mio cuore restò sulle labbra…
E l’anima all’improvviso prese il volo…
(dall’album Non al denaro non all’amore né al cielo, 1971).
Concludere la vita in un’estasi amorosa: anche questo per qualcuno può essere qualificato come “chiudere in bellezza”. Ma non è quello che intendiamo quando, adottando il magistero foscoliano, parliamo di “morire in braccio alle Grazie” nello spazio emotivo che si apre tra la smodata gaiezza e il profondo dolore. Una pista concreta può essere fornita dai loro nomi. Le tre Grazie hanno nomi che, seguendo la loro etimologia, contengono un programma. Talia evoca accrescimento, abbondanza; Eufrosine equivale a felice equilibrio; Aglaia contiene in sé la serenità. E dunque: la morte può essere crescita? Si può morire in uno stato d’animo equilibrato, avvolti in un manto di serenità? E’ questa in concreto la sfida.
La prima Grazia a cui ci affidiamo è Eufrosine. La mente saggia (phronesis) tiene sotto controllo le emozioni e guida le scelte. Soprattutto la scelta fondamentale: il giusto equilibrio (eu) tra interventi curativi e cure palliative. Ciò richiede il saper cambiare marcia quando la morte è inevitabile. Dall’accanimento terapeutico possiamo aspettarci solo una morte peggiore. In un convincente capitolo del libro di Atul Gawande: Con cura. Diario di un medico deciso a fare meglio (6) troviamo una descrizione operativa della desistenza terapeutica. il capitolo è intitolato “Saper lottare, sapersi arrendere”. Afferma il noto medico-scrittore:
“Un tempo pensavo che la cosa più ardua del mestiere di medico sia acquisire le necessarie competenze...mi sono reso conto che la cosa più difficile è capire dove comincia e dove finisce il nostro potere... Oggi disponiamo delle sofisticate risorse della medicina moderna. Imparare a usarle è piuttosto difficile. Ma la cosa in assoluto più difficile è comprenderne i limiti... La regola in apparenza più semplice e sensata da seguire, per un medico, è ‘lottare sempre’, cercare sempre qualcosa di più da fare. È il modo migliore per evitare l’errore peggiore, quello di arrendermi con qualcuno che avremmo potuto aiutare... E’ vero che il nostro compito è ‘lottare sempre’. Ma lottare non significa necessariamente fare di più. Significa fare la cosa giusta per il paziente, anche se non è sempre chiaro che cosa sia giusto”.
Un secondo elemento costituisce il felice equilibrio per il quale dobbiamo mobilitare tutta la saggezza di cui siamo capaci: quello tra ciò che siamo capaci di sopportare e ciò che eccede le nostre forze. A cominciare dall’esposizione alla realtà dei fatti. Alcuni preferiscono sapere quando la morte è imminente; altri preferiscono andarle incontro a occhi chiusi, o guardando da un’altra parte. Senza dimenticare la possibilità di un’ambivalenza tra ciò che si dichiara di voler sapere e la volontà inconscia di ignorarlo.
Anche la misura della tollerabilità del dolore è soggettiva. Per alcune persone la soglia è più alta, per altre più bassa. In ogni caso nessuna esaltazione spiritualistica del valore del dolore autorizza a infliggerlo ad altri. Una testimonianza commovente comunicata da un professionista del settore. Una suora affetta da un carcinoma e prostrata da un dolore che i sanitari non avevano degnato di considerazione, si rivolge a un medico palliativista. Questi imposta, con successo, una terapia antalgica. Dopo un po’ di tempo la suora ritorna dal curante per ringrazialo e per chiedergli di proseguire nel trattamento: “Prima non riuscivo neppure più a pregare! Lo combatta, dottore; ma non elimini il dolore del tutto. Me ne lasci un pochino: mi ricorda la mia vocazione…”. Ecco: la giusta misura può essere trovata solo dalla persona coinvolta, capace di stabilire il felice equilibrio.
Su questo orizzonte troviamo, alla fine del percorso, la possibilità di una sedazione profonda, che tolga la coscienza. Quando i sintomi sono refrattari - basti pensare alle difficoltà respiratorie connesse con un’apnea incontrollabile - il malato può trovare sollievo in un intervento farmacologico che lo de connetta in modo irreversibile. Anche il Comitato Nazionale per la Bioetica è giunto ad accettare questa possibilità, senza che nessuno sia autorizzato a evocare lo spettro dell’eutanasia (cfr. CNB: Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte, 29 gennaio 2016).
La serenità che è il dono di Aglaia per molte persone è collegata con la convinzione di avere il controllo del processo del morire. “Sapere che ho la medicina in tasca mi dà serenità”: è stata la dichiarazione, molto reclamizzata dai media, di Brittany Maynard, la giovane donna americana affetta da un carcinoma inarrestabile al cervello, che ha deciso di accelerare la parabola della fine prima che la malattia producesse tutta la sua opera di devastazione. Non tutti si spingono fino a questi limiti del controllo attivo del processo di morte, richiedendo un suicidio assistito. Ma in tutto lo spettro delle posizioni etiche si registra un consenso crescente sul diritto all’autodeterminazione. Che comporta il rispetto della volontà di porre dei limiti ai trattamenti, espressa prima di perdere la facoltà di esternarla.
Anche il Codice di deontologia dei medici italiani, nella versione del 2006, riconosce tale diritto: “Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tener conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato” (art. 38). Siamo nell’ambito delle direttive anticipate. Sapere che le decisioni conflittuali che spesso sorgono sull’ultima soglia terranno conto in modo determinante di ciò che abbiamo avuto cura di indicare come auspicabile per noi può costituire una grande fonte di serenità. Così pure la certezza che la nostra volontà può essere autorevolmente rappresentata da un fiduciario da noi designato o da un amministratore di sostegno. Negli ultimi decenni del XX secolo il movimento della bioetica ha dato scacco matto al paternalismo del passato, rivendicando il diritto all’autodeterminazione. E’ cone se l’auspicio di Kant – “l’uscita da una minorità non dovuta” – si fosse realizzato in medicina con due secoli di ritardo. Solo con l’informazione appropriata possiamo essere protagonisti delle decisioni che ci riguardano, comprese quelle di fine vita.
L’abbraccio più difficile è quello di Talia: la morte come compimento di un percorso che conduce alla pienezza della propria umanità. Abbiamo tutti un doppio lavoro nella vita: costruire il proprio Io e poi quello di superarlo, confluendo in quella dimensione che possiamo chiamare “transpersonale”. E’ una prospettiva pensabile sia in un orizzonte religioso che in uno immanente. Non solo i credenti possono guardare oltre la fine della propria vita, considerandola come un compimento.
Un solo esempio, proposto da Michele Serra nel libro Gli sdraiati (7). Mette in scena un nonno che lascia per lettera a una pronipote delle istruzioni che riflettono la saggezza da lui acquisita. Suggerisce una strategia da adottare a chi non accetta – come tutti! – di scomparire e deve imparare a farlo. L’esercizio di allenamento consiste nel piazzarsi davanti a uno specchio e poi, con uno scarto di lato, constatare che anche in nostra assenza lo specchio continua a riflettere il mondo: “Un pezzo di finestra e dentro la finestra i rami del platano e qualche uccellino cha va e viene”. L’esercizio è destinato ad alimentare in noi la gioia per la vita che rimane dopo di noi: “Non hai idea di come mi rassicuri vedere che gli uccellini neanche si accorgono che sono sparito (dallo specchio). Non mi tengono in nessun conto gli uccellini”. Per concludere:
”Tra morire bene e morire male, a parte le cause tecniche dell’evento, la sola vera differenza è essere contenti che ci siano anche quando tu non ci sei più, oppure dolersene e invidiare ai vivi la vita”.
Eufrosine, Agalia, Talia: una morte “graziosa”, in braccio a voi, è il supremo dono che la vita ci può offrire. Ma anche un compito spirituale e un impegno etico, se vogliamo allinearci con la moderna cultura del morire.
Riferimenti bibliografici
- Arthur Schnitzler: Commedie dell’etraneità e della seduzione: Terra sconosciuta, Professor Bernhardi, Commedia della seduzione, Ubulibri, Milano 1985.
- Immanuel Kant: “Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino, 1975.
- Marguerite Yourcenar: Mémoires d’Hadrien, Plon , Paris 1958.
- Michel de Montaigne: “Filosofare è imparare a morire”, in Saggi, cap. XX, Adelphi, Milano 1992.
- Ugo Foscolo: Le Grazie, in Opere (collana I Classici italiani), Mursia, Milano 1966.
- Atul Gawande: Con cura. Diario di un medico deciso a fare meglio, Einaudi, Milano 2007.
- Michele Serra: Gli sdraiati, Feltrinelli, Milano 2013.