Sandro Spinsanti
Le cure sanitarie nell'era dei limiti
Editoriale
in L'Arco di Giano, n. 11, 1996, pp. 5-10
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EDITORIALE
Lo scenario della nuova sanità che in Italia è stata avviata con il disegno di riordino del Servizio sanitario nazionale (d.leg.vi 502/1992 e 517/1993) è efficacemente descritto da una frase del Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-1996, là dove vengono presentati gli obiettivi del Piano stesso:
Non esiste più il sogno utopistico di uno Stato che si proponga di rispondere a tutti i bisogni di salute dei cittadini; in sanità sarà sempre più pesante la divaricazione tra domanda e offerta, perché la società invecchia ed è sempre più affetta da malattie degenerative. Questi cambiamenti di scenario impongono la dura necessità di fare delle scelte, sia a livello macro sia a livello microeconomico, al fine di riuscire a massimizzare i benefici ottenibili dalle risorse disponibili.
Per molti, anche tra coloro che sono stati investiti nei più alti ruoli nella guida della sanità, questo nucleo duro del cambiamento ― la necessità di contenere i costi di un servizio sanitario che rischia di sfuggire a ogni controllo ― ha caratterizzato l’essenza della nuova sanità. L’aziendalizzazione è stata intesa esclusivamente come un impegno a realizzare un pareggio di bilancio. Non è questo il senso del cambiamento come è prospettato dal Piano sanitario nazionale. Subito dopo la frase relativa all’orizzonte delle risorse limitate, infatti, leggiamo un invito a trascendere il solo piano economico in sanità:
La necessità di ripensare a fondo il profilo stesso di un programma sanitario per il paese si presenta come una straordinaria opportunità per ridefinire il progetto di civiltà, che è l’obiettivo di una politica della salute. Per anni si è pensato che la promozione della salute richiedesse solo nuovi investimenti in tecnologie, strutture e personale sanitario, nella fiducia di ottenere solo da tale impegno un migliore livello di salute. L’inversione di rotta cui il momento attuale costringe punta a un miglioramento che si sviluppa sotto il segno della
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qualità, più che della quantità. La pressione della scarsità delle risorse orienta a immaginare un servizio alla salute che accetti in senso positivo la sfida dell’autolimitazione.
La duplice indicazione del Piano sanitario nazionale ― la restrizione dell’offerta dei servizi sanitari causata dalla scarsità delle risorse e il passaggio dal paradigma della crescita quantitativa a quello della qualità dei servizi erogati ― si trova in perfetta sintonia con i risultati di un’ampia ricerca ― Il futuro della sanità in Europa ― che ha coinvolto 3000 esperti di una decina di paesi. Gli studiosi interrogati hanno identificato due sfide comuni a tutti i sistemi sanitari nei prossimi anni: migliorare la qualità dei servizi e contenere i costi. Se questo è lo scenario non solo del processo di innovazione avviato in Italia, ma della sanità europea in generale nel prossimo quinquennio, il compito che si impone in modo prioritario è quello di affrontare il rinnovamento necessario predisponendo la cultura che lo favorisca.
Il cambiamento della cultura medica che ciò implica non è di poco conto. La “produttività” ― termine bandito dall’orizzonte delle preoccupazioni dei sanitari, perché considerato contrario al rispetto dovuto al malato ― dovrà entrare nel linguaggio quotidiano di chi lavora in sanità. Anche l’etica, intesa come rispetto per la soggettività del paziente e come attenzione per la qualità del servizio prestato e per la soddisfazione del paziente, deve avere nella pratica quotidiana della medicina uno spazio non marginale. E di tale etica i sanitari devono essere i soggetti attivi: non darla semplicemente in appalto a filosofi, teologi, bioeticisti ed altri esperti, per limitarsi al consumo di prescrizioni comportamentali elaborate da altri. La conquista di un ruolo attivo nell’elaborazione di una riflessione etica, nella gestione delle risorse e nella promozione della qualità si rivela anche come la via regia per la rimotivazione degli operatori dell’ambito sanitario.
Il tema del dossier, focalizzandosi sui “limiti” come caratteristica emergente delle cure sanitarie nella nostra epoca, si riallaccia esplicitamene ad altre riflessioni già avviate dalla rivista. Ci riferiamo in primo luogo al fascicolo monografico dedicato a «Lo stile azienda in sanità» (n. 7, 1995), con contributi miranti ad armonizzare l’“aziendalizzazione” in corso con i valori propri della sanità in generale, e della sanità pubblica in particolare e al saggio di Daniel Callahan: «Porre dei limiti: problemi etici e antropologici» (Callahan, 1994), che dell’attuale dossier si può considerare una prima anticipazione.
Nell’articolo dell’autorevole direttore dello Hastings Center troviamo un forte richiamo a non intendere il discorso sui limiti esclusivamente in termini economici: non si tratta sono di promuovere un razionamento
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occulto o esplicito delle risorse, di mettere in atto meccanismi di contenimento della spesa o di sottoporre a un controllo pubblico le misure di allocazione di risorse scarse. I limiti ― suggerisce Callahan — vanno riportati sul modello stesso di vita umana proposto dalla nostra cultura e sul ruolo che attribuiamo alla scienza per realizzare tale modello. L’argomentazione antropologica di Callahan sfuma in una perorazione per il recupero di un atteggiamento rispetto alla vita ispirato alla saggezza: «La medicina moderna è stata la beneficiaria della fede nel progresso e della volontà di perdonare i fallimenti della tecnologia ― e questo è abbastanza insolito ―, forse perché abbiamo lasciato che la nostra fede e la nostra speranza si allontanassero dal senso comune. È ancora tempo di fermarsi e di capire che siamo ancora creature finite e limitate» (Callahan, 1994, p. 85).
La tematizzazione dei limiti, in termini filosofici e non puramente economici o aziendalistici, ci obbliga a spostare l’accento dall'offerta di servizi sanitari alla domanda. Non solo la domanda che si riversa nelle strutture pubbliche o private che erogano servizi (ospedali, cliniche, ambulatori, farmacie, servizi territoriali), ma la domanda stessa che si formula nell’animo ― speranze, attese realistiche o irrealistiche, miti e utopie — di chi si rivolge alla medicina. Da una medicina umanistica ci aspettiamo che sappia svolgere un ruolo di discernimento, tanto più difficile quanto più profondo e incerto è il territorio dell’animo umano da cui nasce la domanda.
Tanto nel dossier quanto nella rassegna vengono aperte numerose piste esplorative di quel territorio, per lo più ancora ignoto, che è la sanità pubblica nell’era dei limiti. Segnaliamo la convergenza sulla necessità di tener ferme le acquisizioni dello stato sociale in tema di servizi sanitari (Bompiani, Collicelli, Mazzetti); la vigilanza raccomandata affinché non si applichi alla sanità una nozione di mercato che è inconciliabile con i valori che sono propri delle cure sanitarie (Maciocco, Ranci Ortigosa); la critica perseverante alle modalità surrettizie di razionamento delle risorse scarse (Collicelli, Maiorca). Il confronto con la scelta della sanità pubblica francese di contenere le spese delle prescrizioni improprie mediante dei protocolli ― le “References medicales opposables” ― può aprire un dibattito fecondo tra i medici italiani (Segouin). Fedeli al concetto ampio di “limiti” adottato, abbiamo preso in considerazione anche la limitatezza intrinseca al tempo lavorativo professionale (Lorenzini), al desiderio di fecondità (Catti) e al prolungamento della vita (Trabucchi). Nell’insieme ci sembra di avere fondati motivi per ritenere che la medicina che si profila nell’orizzonte dei limiti guadagni in credibilità rispetto a quella che nutre attese miracolistiche.
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La presentazione editoriale di questo numero della rivista deve purtroppo includere anche una nota triste, per la scomparsa di uno dei più fedeli collaboratori. Il 10 maggio di quest’anno è deceduto Stefano Jacomuzzi, membro fin dall’inizio del comitato di redazione, a cui era affidato il coordinamento di uno degli ambiti più delicati per una rivista di medical humanities: la letteratura. Nel primo numero programmatico Jacomuzzi aveva delineato con tratto sicuro il ruolo che spetta alla creazione letteraria in un progetto umanistico di cure mediche. Appoggiandosi all’autorevole opinione di A.N. Whitehead, secondo il quale: «è nella letteratura che il volto concreto dell’umanità trova la sua espressione», Jacomuzzi trovava la giusta collocazione per la letteratura nel concerto di voci delle medical humanities:
Quale tipo di presenza potrà avere il testo letterario, di ieri e di oggi, in una rivista come L’Arco di Giano? Una presenza periferica, ma che deve acquistare la sua importanza nel porsi come alternativa. Non nel senso oppositivo, come le voci di dissenso programmatico, ma propositivo, perché la sua caratteristica è appunto quella di proporsi come “altro”, o come altro modo di proporre le cose. Là dove il linguaggio scientifico si arresta e si assesta nei suoi tentativi di misura, si estende ancora un immenso territorio, che solo la parola poetica può tentare di esplorare, senza mai porre fine alla sua ricerca. L’ambiguità della parola, che deve essere ridotta al minimo o del tutto eliminata nei territori delle scienze esatte, diventa invece la ricchezza della parola poetica e il suo modo di confrontarsi con la molteplicità dei fenomeni. La storia stessa della parola, la stratificazione delle impressioni e gli echi delle sue infinite pronunce collettive e individuali contribuiscono ulteriormente a fame uno strumento raffinato di interpretazione (Jacomuzzi, 1993, p. 92)
Il programma della rivista, nelle sue intersecazioni con l’approccio della realtà umana del nascere, patire il dolore, guarirsi, decadere e morire affidato alla narrazione, era così tracciato. Sotto la guida di Jacomuzzi la rivista, negli anni seguenti, ha potuto mantenere l’impegno di dare lo spazio appropriato alla creazione letteraria. La rubrica «L’attualità dei classici» ha rivisitato grandi opere della tradizione letteraria ―da La montagna incantata di Thomas Mann a La morte di Ivan Illich di Tolstoj, da La coscienza di Zeno di Svevo ai Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke ― e di quella spirituale (i libri biblici di Giobbe e di Qohelet, commentati rispettivamente da Sergio Quinzio e da Gianfranco Ravasi). Jacomuzzi ha seguito con cura e interesse appassionato il dipanarsi della rubrica, indicando le opere da “attualizzare” e segnalando gli studiosi capaci di rendere “parlanti” questi testi anche ai cultori delle medical humanities.
Fine studioso di letteratura italiana, che ha insegnato all’università
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di Torino, passato egli stesso alla creazione letteraria con opere che hanno destato l’ammirazione dei lettori più attenti per lo spessore degli interrogativi esistenziali che lasciavano trasparire ― ricordiamo: Un vento sottile, 1988; Storie dell’ultimo giorno, 1993 e il recente Cominciò in Galilea, 1995, cui ha arriso un particolare successo di critica e di pubblico — Jacomuzzi aveva trovato nella scrittura creativa lo strumento più adatto a riprodurre le inquietudini metafisiche sulle quali si andava sempre più appuntando la sua riflessione. Cercava nella natura i rumori e i segnali della “creazione che continua” e non cessava di porre le eterne domande senza risposta sulla vita e sulla morte, sul dolore e la pietà.
Questa apertura intellettuale predisponeva Jacomuzzi a collocarsi nel comitato editoriale della rivista, assumendosi la responsabilità di guidare la riflessione di coloro che, nell’ambito delle medical humanities, sono interessati all’incontro della letteratura con i problemi della medicina. La sua generosità ― che, tra le doti umane apprezzate in lui da chi ha avuto la fortuna di frequentarlo, non era la minore delle virtù ― ha fatto il resto. I lettori della rivista avvertiranno la sua mancanza. Ancor più la sentiranno i membri del comitato di redazione che, nell’incontro annuale di programmazione, avevano un gradito appuntamento con l’intelligenza, l’ottimismo costruttivo e il sottile umorismo del loro collega letterato.
Negli ultimi mesi della sua vita Jacomuzzi si era più volte riproposto di scrivere egli stesso, per il prossimo fascicolo della rivista, un commento ai racconti di Dino Buzzati. Era particolarmente colpito dal racconto Sette piani. Il protagonista Giuseppe Conte, ricoverato in clinica per un lieve malessere, scopre ben presto che l’ospedale aveva una singolare caratteristica:
I malati erano distribuiti per piano a seconda della gravità. Al settimo, cioè all’ultimo, erano ospitate le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile operare.
Messo piede nel settimo piano, Giuseppe Conte inizia la progressiva, inarrestabile discesa. Alla fine ― per circostanze fortuite, per errore umano, per l’ingranaggio burocratico ― si trova all’ultima stazione: il reparto dei moribondi:
Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Conte con implacabile peso. In quanti anni ― sì, bisognava pensare proprio ad anni ― in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo quel precipizio?
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Mentre medita la velleitaria risalita, le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente chiudendo il passo alla luce.
Jacomuzzi era contrariato per il fatto che il calo delle forze fisiche gli impediva di concretizzare il saggio di medical humanities sull’opera di Dino Buzzati che stava meditando da tempo. Rimandava di settimana in settimana. Chissà se si è reso conto che la vicenda emblematica di Giuseppe Conte era destinato non a commentarla con la penna, ma a ricalcarla con la sua vita. Per i lettori de L’Arco di Giano suona come un lascito testamentario che l’ultimo scritto che Stefano Jacomuzzi ha avuto in mente fosse un contributo per la rivista alla quale ha dato tanto.
Riferimenti bibliografici
Jacomuzzi S., Letteratura, in L’Arco di Giano, 1, 1993.
Callahan D., Porre dei limiti: problemi etici e antropologici, in L’Arco di Giano, 4, 1994.
Ronconi F. (a cura di), Il meglio dei racconti di Buzzati, Mondadori, Milano 1989.