
Sandro Spinsanti
LE NORME MORALI DELLE RELIGIONI NELL'ORIZZONTE DELLA BIOETICA
in Cuamm notizie
anno IX, n. 2, maggio-agosto 1994, pp. 7-11
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La complessità dei problemi connessi con la medicina tecnologica ha costretto l’etica a uscire dal suo astratto accademico e a occuparsi di problemi concreti. In altre parole, l'orizzonte della bioetica ha restituito all'etica la serietà e la rilevanza sociale che sembrara aver perduto. Qualcosa di analogo possiamo affermare circa le religioni. La stretta in cui si trova la vita sulla terra sembra fornire alle religioni un’opportunità insperata di essere presenti sulla scena del mondo. Il loro patrimonio di saggezza è ascoltato con una serietà che era data per scomparsa per sempre dopo il trionfo dell'Illuminismo. Il magistero morale delle religioni nell'ambito delle questioni collegate con l'etica della vita ha una risonanza che eccede ampiamente la cerchia dei fedeli. La Conferenza del Cairo è lì a dimostrarlo.
Ma si pone un quesito di fondo: meritano le religioni l’apertura di credito nei loro confronti che il mondo contemporaneo va loro facendo nelle problematiche della bioetica?
Questo articolo di Sandro Spinsanti, docente di Bioetica, ruota attorno a due temi principali: la definizione di bioetica e il rapporto della religione con l’etica “civile”.
La bioetica si occupa dei comportamenti nei confronti della vita, non più soltanto dei problemi medici; rientrano perciò nel suo campo anche i temi dello sviluppo demografico, discussi nella recente Conferenza del Cairo.
Partendo da questo evento, Spinsanti pone la questione della ricerca del consenso sui comportamenti (che ha luogo all’interno della bioetica) e perciò del rapporto della fede religiosa con l'etica civile, quest’ultima intesa come “minimo etico” che lo stato de ve esigere da tutti, ma proprio perciò definito con procedimenti partecipativi e democratici.
Dunque non “la verità” della fede, che nessuno può imporre alla coscienza umana, libera e capace di riconoscere la legge divina. Ma piuttosto la ricerca di livelli di consenso, da superare progressivamente attraverso il dibattito e l’educazione, senza costrizione.
Le riflessioni su tolleranza e fondamentalismo e la lettura “politica” della recente Enciclica “Veritatis Splendor” propongono spunti discutibili.
Ma sono importanti anche i contributi che non possiamo condividere del tutto, in quanto utili per approfondire e continuare il discorso.
P.C.
La conferenza dell’ONU su Popolazione e sviluppo, svoltasi al Cairo nel settembre scorso, ha agitato gli animi e sollevato forti passioni. L’immaginario collettivo è stato segnato da rappresentazioni sommarie degli eventi, modulate sullo schema di scontro tra sistemi ideologici: il papa contro Clinton, il Vaticano alleato all’Islam per dare scacco all'ONU, le religioni che si schierano contro la ragione, gli imperativi della morale difesi a prezzo delle sofferenze delle donne... È rimasto in tutti un retrogusto amaro per il dibattito che ha preceduto e accompagnato la conferenza, a causa di un uso disinvolto dell'informazione, che non ha permesso di elaborare delle opinioni in modo consono alla serietà della posta in gioco, che è la sopravvivenza stessa dell'umanità. È molto probabile che della conferenza stessa rimangano nella memoria solo le tracce del confronto/scontro tra le supreme istituzioni religiose e i vertici dell’organismo internazionale dell’ONU, invece che i risultati conseguiti nella volontà di tenere sotto contratto la crescita demografica, in modo che non pregiudichi lo sviluppo. In particolare, una connotazione negativa rischia di accompagnare la bioetica, come se questa fosse la versione moderna dell’intransigenza religiosa, in lotta perpetua contro il mondo vissuto nella prospettiva secolare. Ma è giusto questo ritratto della bioetica?
Gli orizzonti della bioetica
Utilizzando il vantaggio che offre la relativa lontananza cronologica della conferenza del Cairo, cerchiamo di elaborare qualche riflessione
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pacata sul ruolo che svolgono le religioni, con le loro prescrizioni morali volte a guidare il comportamento dei credenti, nella nuova ricerca di norme e regole rappresentata dalla bioetica. È diventato un uso linguistico accettato riferirsi all’insieme delle problematiche morali connesse con la cura e la promozione della vita servendosi del termine bioetica.
All’inizio degli anni Settanta, quando il termine fu coniato e furono delineati i primi contorni della disciplina, il centro di gravitazione era ancora costituito dalla tradizionale etica medica. Si trattava di delimitare consensualmente le procedure lecite da quelle illecite, in un contesto in cui l’impatto dirompente della tecnologia aveva modificato i contorni tradizionali dell’atto medico e la società pluralista non permetteva piú un allineamento su un sistema di valori morali omogeneo. Oggi, dopo cinque lustri, la bioetica ha esteso i suoi interessi molto al di là dei problemi strettamente medici. Si occupa in misura sempre crescente della cura della vita in senso estensivo, riflettendo sui comportamenti responsabili nei confronti della vita nel suo insieme. L’ampliamento di orizzonte emerge con chiarezza se si confronta la prima con la seconda edizione dell’Encyclopedia of Bioethics.
Ambedue le opere, curate da Warren Reich, costituiscono un riferimento standard per la disciplina. La prima, in quattro volumi, è apparsa nel 1978 e praticamente ha accompagnato la nascita della bioetica stessa. La seconda edizione, in cinque volumi, è attesa per la fine del 1994. Se la voce Aborto è compresa in ambedue le edizioni ― un problema eterno e probabilmente destinato ad accompagnare con la sua ombra tutta la storia dell'umanità ― e così pure quella dedicata alle Tecnologie riproduttive, in quanto segno di quella modernità di problemi che legittima la creazione stessa della bioetica ― uno sviluppo del tutto nuovo rispetto all’edizione di quindici anni fa è riservato all’Etica ambientale e all’Etica demografica. I problemi che nascono nel contesto del rapporto che intercorre tra la dinamica demografica e la salute umana hanno assunto una crescente centralità nel dibattito degli studiosi, fino ad apparire nella conferenza del Cairo come “il” problema bioetico per eccellenza. Nella nuova edizione dell’Enciclopedia la voce Etica demografica analizza molto in dettaglio le strategie per il controllo della fertilità (cambiamenti nei comportamenti, forme di incentivazione e disincentivazione, persuasione, costrizione), il rapporto tra il controllo della fertilità e gli standards di salute, i problemi creati dalle migrazioni e dai rifugiati. Nel complesso di articoli dedicati all’etica demografica sono comprese trattazioni dedicate alle diverse tradizioni religiose. Vengono analizzate, successivamente, le prospettive dell’islamismo, del protestantesimo, della chiesa cattolica romana, dell’ebraismo, dell’induismo e del buddismo, nonché della tradizione ortodossa orientale.
L'etica della vita e il magistero morale delle religioni
Possiamo affermare che proprio l'attualità dirompente dei problemi connessi con la vita e il suo mantenimento ha dato alle religioni una visibilità insperata. Secondo la formula a effetto di Stephen Toulmin, la svolta avvenuta una ventina d’anni fa in medicina “ha salvato la vita all’etica”. Lo storico della filosofia intendeva dire che la complessità dei problemi connessi con la medicina tecnologica ha costretto l’etica a uscire dal suo astratto accademismo e a occuparsi di problemi concreti. In altre parole, l’orizzonte della bioetica ha restituito all’etica la serietà e la rilevanza sociale che sembrava aver perduto. Qualcosa di analogo possiamo affermare circa le religioni. La stretta in cui si trova la vita sulla terra sembra fornire alle religioni una opportunità insperata di essere presenti sulla scena del mondo. Il loro patrimonio di saggezza è ascoltato con una serietà che era data per scomparsa per sempre dopo il trionfo dell'Illuminismo. Il magistero morale delle religioni nell’ambito delle questioni collegate con l’etica della vita ha una risonanza che eccede ampiamente la cerchia dei fedeli. La conferenza del Cairo è lì a dimostrarlo.
Meritano le religioni l’apertura di credito nei loro confronti che il mondo contemporaneo va loro facendo nelle problematiche della bioetica? La domanda non vuol essere una insolenza, né una gratuita provocazione. Nasce piuttosto dalla dolorosa consapevolezza ― tanto più dolorosa proprio per i credenti ― che le religioni hanno alle spalle un lungo passato di intolleranza. Restringendo la visuale ai nostri paesi latini, sviluppatisi con l’eredità del cristianesimo, dobbiamo riconoscere che nella nostra tradizione la tolleranza non era compresa nella lista delle virtú. Anzi, era sospettata come un vizio, mentre la vera virtú era l'intolleranza, identificata con la difesa a oltranza della verità. Di qui la lunga sequela di guerre di religione e l’oppressione delle coscienze, di cui l’Inquisizione è solo il simbolo piú noto. La tolleranza come virtú è stata scoperta dagli anglosassoni nel XVII secolo. Ad essa dobbiamo il rispetto della diversità morale e la scelta del pluralismo come alternativa al fanatismo. Il fanatismo afferma che i valori sono completamente assoluti e oggettivi, e devono essere imposti agli altri con la forza; la tolleranza, invece, sottolinea l’autonomia morale e la libertà di tutti gli esseri umani e la ricerca di un accordo morale mediante il consenso.
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Il Concilio Vaticano II: la virtú della tolleranza
Coloro che hanno partecipato con più intensità al processo di cambiamento che ha attraversato la Chiesa Cattolica nella seconda metà del nostro secolo ricorderanno l’appassionato dibattito intorno alla libertà religiosa nato nel Concilio Vaticano II. Alla fine, dopo molti contrasti, la dichiarazione “Dignitatis humanae” ha potuto essere approvata il 7 dicembre 1965. Per molte persone religiose, cresciute alla scuola della intolleranza, è stato un trauma. Il Concilio ha proclamato, tra l’altro, che “l’uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza”. A questo riconoscimento teorico deve seguire un cambiamento nella prassi secolare dell’intolleranza, se le religioni vogliono sintonizzarsi con quella ricerca di consenso sui comportamenti che ha luogo all’interno della bioetica.
Questo richiamo alla virtú della tolleranza e alla necessità che le religioni se ne facciano paladine nel dibattito bioetico diventa tanto più urgente, quanto piú ci sembra di constatare un cambiamento in corso nel rapporto stabilitosi tra le religioni e la bioetica. Tracciando a grandi linee uno schema evolutivo, possiamo dire che il pensiero religioso, dopo una fase di presenza discreta e animazione dall’interno della riflessione bioetica, sta cercando una collocazione piú vistosa nel dibattito, accentuando lo specifico religioso.
Le grandi religioni storiche hanno tradizionalmente portato un vivo interesse ai problemi connessi con l’arte del guarire e si sono intensamente impegnate a elevare in senso etico e spirituale la motivazione dei sanitari. Erano perciò spontaneamente orientate a sintonizzarsi sulle tematiche proposte dal nuovo movimento della bioetica. Questa, da parte sua, non ha soltanto un legame storico con l’etica medica promossa dalle religioni della tradizione culturale dell’Occidente. Anche nel più recente passato e nel presente esistono delle interconnessioni profonde tra la riflessione filosofica nata all’interno delle scienze della vita e l’impegno umanistico condotto in nome della fede religiosa. Basti pensare al ruolo svolto negli Stati Uniti dalla Society for health and human values, particolarmente sostenuta dalla chiesa presbiteriana, per riportare i valori umani all’interno della pratica della medicina e delle scienze della vita. Alla sua azione va riconosciuto uno degli impulsi piú decisivi per lo sviluppo del movimento della bioetica. Tuttavia, quando la bioetica si è elevata alla condizione di dimora intellettuale per un gruppo ben individuato di pubblici esperti nei problemi posti dalla biologia e dalla medicina, il ruolo svolto dagli studiosi esplicitamente radicati nella teologia è diventato sempre più marginale.
La bioetica si è sviluppata come un discorso secolare, condotto dai filosofi, volgendo deliberatamente le spalle all’ispirazione religiosa. Parallelamente all’emergere delle voci dei “bioeticisti”, sempre più accreditati a prendere la parola in pubblico per articolare la riflessione sulle questioni connesse con il progresso biomedico, i teologi si ritiravano nei loro territori. Questa, almeno, è la ricostruzione storica della vicenda americana che si ricava dal libro Theological voices in medical ethics, recentemente edito a cura di A. Verhey e S. Lammers. Si tratta di una serie di saggi su teologi della prima generazione di studiosi che si sono occupati di bioetica. Vediamo sfilare, tra i cattolici, Bernard Häring, German Grisez e Richard McCormick; tra i protestanti, figure della statura di Paul Ramsey, James Gustafson, Stanley Hauerwas e James Childress. Non manca neppure un rappresentante dell’ebraismo, nella persona del rabbino Immannel Jakobovits. Dalla presentazione e analisi critica del loro pensiero emerge in modo incontrovertibile il contrasto tra il posto significativo che la teologia ha occupato agli inizi del movimento della bioetica e la sua marginalità attuale. La disciplina è andata sempre piú sviluppandosi all’insegna della filosofia morale, mentre l’articolazione religiosa del discorso è stata relegata nell’ambito privato dell’esperienza morale.
I pericoli attuali del "fondamentalismo"
L’impressione che si è avuta dallo schieramento di posizioni definite che si è avuto alla conferenza del Cairo è che questo corso delle cose non sia gradito a quelle istituzioni religiose che sono piú determinate a far prevalere la propria visione dell’uomo e la morale che ne consegue. Questo discorso vale in modo particolare per la Chiesa cattolica. Il suo irrigidimento ― che confina talvolta con l’intransigenza ― nelle questioni di bioetica è congruente con l’evoluzione della teoria morale avvenuta nel magistero pontificio nel corso dell’ultimo pontificato. Essa è culminata, come è noto, nell’enciclica Veritatis splendor, del 1993. Il comportamento del Vaticano, in quanto articolazione politica del vertice magistrale della Chiesa cattolica, nella conferenza del Cairo è una chiara esemplificazione di che cosa comporta, in concreto, quel modo di rapportare l’etica alla fede e alla cultura.
L’enciclica in sé è un discorso molto tecnico, che ha per oggetto i problemi di cui si occupano filosofi e teologi che
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riflettono sui fondamenti e le condizioni della moralità. Una meta-etica, in sostanza, che non si riferisce al discorso etico così come lo incontriamo nella vita quotidiana, dove siamo chiamati a fare le nostre scelte districandoci in un insieme di doveri talvolta contrastanti e dove la buona decisione è piú spesso legata ad atteggiamenti interiori virtuosi, più che alla capacità di ragionare in modo ineccepibile (“video meliora proboque, deteriora sequor”...).
Le informazioni assolutamente indispensabili che bisogna avere previamente per comprendere la portata dell’enciclica riguardano il movimento teologico che in parte ha preceduto e soprattutto ha fatto seguito al Concilio Vaticano II. Una corrente di moralisti ha proposto di identificare lo specifico della morale cristiana non in “contenuti” concreti (che, di fatto, non sono sostanzialmente diversi da quelli delle altre religioni o da quelli elaborati da molte etiche basate sulla pura ragione naturale), bensì nella “opzione fondamentale”, che proviene da quella libertà fondamentale mediante la quale una persona decide globalmente di se stessa. È quella che Joseph Fuchs chiama la dimensione “trascendentale” della morale, ed altri la “forma” morale. A questa corrente hanno aderito, con accentuazioni diverse, i principali moralisti del mondo cattolico degli ultimi venti anni. Oltre al già menzionato Fuchs, vanno fatti almeno i nomi di Franz Böckle e di Bernhard Häring, il quale con le sue due grandi somme La legge di Cristo (1953) e Liberi e fedeli in Cristo (1988) ha segnato la grande transizione verso la nuova teologia morale cattolica.
L’obiettivo dell’enciclica sembra essere quello di delegittimare questa corrente. La tesi di fondo è che lo specifico della morale cristiana non ha solo carattere formale o trascendentale, bensì si estende anche ai contenuti concreti. Esiste un ethos cristiano assolutamente specifico, identificato dalla legge veterotestamentaria, dalle prescrizioni neotestamentarie e dalla tradizione della Chiesa, sotto la guida del magistero. Questa morale è, in ultima analisi, rivelata, e per questo è inseparabile dalla fede. Di fatto, la ragione naturale da sola non è capace di stabilire un sistema morale coerente e completo, come conseguenza del peccato originale. Per questo ha senso che esista una rivelazione morale specifica, e che la Chiesa sia la sua unica interprete. Su questo terreno, perciò, non c’è spazio per la libertà di opzioni, né è possibile un pluralismo teologico. Le istruzioni che l’enciclica impartisce ai vescovi si concludono con la richiesta di allontanare dall’insegnamento i teologi moralisti che appartengono alla corrente non autorizzata e di ritirare l’appellativo di “cattolico” a istituzioni che non si allineino con questo orientamento: scuole, università, cliniche e servizi socio-sanitari.
A questo punto anche le persone piú orientate a voler ignorare una diatriba interna alla Chiesa cattolica non possono non considerare il significato politico del documento. Esso tende a presentare la Chiesa come un gruppo sociale e ideologico, con una dottrina morale ben identificata. Chi vede la Chiesa cattolica dal di fuori deve sapere quale è la sua morale e deve negoziare con la Chiesa come una istituzione che ha un suo codice morale unico e inconfondibile. E coloro che vedono la Chiesa dal di dentro, devono accettare questo codice, sotto pena di cessare di appartenervi. In questo modo i cattolici sapranno esattamente quali sono i loro obblighi morali e nei paesi nei quali sono in maggioranza potranno imporre i loro punti di vista morali nella vita civile.
Si profila uno scenario in cui nell’arena della vita sociale i diversi gruppi ideologici domandano considerazione e rispetto, senza che si entri a discutere i loro argomenti. È così, in fondo, che diamo spazio ai Testimoni di Geova: accettiamo che non vogliano ricevere il sangue, senza discutere i loro argomenti. Questo è lo statuto civile che, secondo l’enciclica, sembra rivendicare anche la Chiesa cattolica. Una situazione che in inglese potrebbe essere descritta con il termine “parochialism” (con tutte le connotazioni negative della parola). Fatte le debite proporzioni, la Chiesa cattolica verrebbe trattata come la Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni o come la setta dei Mormoni (e la Veritatis Splendor avrebbe la stessa rilevanza di un documento con cui, a Salt Lake City, si esautorasse come non ortodossa una scuola di pensiero morale).
È una situazione che rischia di trovare il consenso di due gruppi molto distanti tra di loro: i cattolici fondamentalisti, arroccati in una posizione di difesa, e i rappresentanti del pensiero laico che desiderano un avversario ben identificato e ricondotto a posizioni standardizzate (“Così pensano i cattolici sull’aborto e l’eutanasia, così invece il pensiero laico”...). Siamo invece molto lontani dalla bioetica come ricerca di un’etica civile, che si articola con la morale individuale in una dialettica di etica del “minimo morale” ed etica dei “massimi morali”. Una eccellente proposta in questo senso è quella che viene da Diego Gracia, proposta nei libro Fondamenti di bioetica, Ed. San Paolo, 1993.
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Delegittimati o meno, molti cattolici, per i quali la Chiesa è Chiesa, e non “parrocchia”, stanno pensando e agendo in quella direzione. Insieme a molti altri uomini di fedi e orientamenti ideologici diversi. Questo orizzonte fa la differenza tra la bioetica e l’etica confessionale.
La belligeranza delle religioni contro la modernità ― che include la contestazione della possibilità di elaborare un progetto secolare veramente morale ― suscita come reazione la belligeranza delle etiche laiche contro le religioni, mettendo in discussione la loro pretesa di determinare le condotte umane come buone per una via diversa da quella puramente razionale. Il confronto fondamentalista non è una soluzione accettabile, così come non lo è il compromesso. La via di soluzione passa per lo scrupoloso rispetto della libertà religiosa di tutte le persone, da una parte, e per l’accettazione, dall’altra, da parte delle religioni dei minimi etici che lo Stato deve esigere coercitivamente da tutti, cioè l’etica civile. Questa deve essere stabilita mediante procedimenti partecipativi e democratici, e pertanto deve rispettare il parere di tutti, secondo i meccanismi che portano alla formazione della maggioranza.
È vero che le opinioni morali ― anche quelle della maggioranza ― possono essere sbagliate, o può sembrare ad alcuni che lo siano. Ma questa convinzione legittima solo a iniziare un dibattito o un processo di educazione morale della società, nel quale esercitare la propria capacità di convincere gli altri, con argomenti razionali, a far proprie le ragioni addotte. Ogni altro procedimento, che invece di proporre ed educare cerchi di imporre, deve considerarsi, in linea di principio, inaccettabile nella nostra epoca.