Lo stile azienda in sanità

Book Cover: Lo stile azienda in sanità

Sandro Spinsanti

Lo stile azienda in sanità

Editoriale

in L'Arco di Giano, n. 7, 1995, p. 7-13

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EDITORIALE

Per la sanità italiana è suonata l’ora del cambiamento. Un cambiamento reso inevitabile dal collasso economico del Servizio sanitario nazionale; ma anche auspicabile per invertire la tendenza alla disaffezione verso un sistema sanitario pubblico ormai correntemente etichettato come “malasanità”. La qualifica di sistema in crisi è talmente abusata da non poter più essere proposta. A meno che, seguendo il suggerimento di un esperto della cultura manageriale (D’Egidio, 1993, p. 34), non ci decidiamo a guardare alla crisi attraverso l’ideogramma cinese che la rappresenta (fig. 1).

Fig. 1 — Ideogramma rappresentante la crisi

L’ideogramma nel suo insieme si legge crisi; ma, se lo si scompone, la parte superiore si legge ki, che sta per pericolo, quella inferiore si legge opportunità. Il cambiamento che la crisi rende necessario può anche essere visto come un’occasione da sfruttare con intelligenza, per cambiare il volto della nostra sanità. All’esplorazione di queste possibilità sono dedicati sia l’articolo di apertura (Focus), sia il dossier della rivista.

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Gli slogan che riassumono presso il grande pubblico il riordino in atto nel nostro sistema sanitario ruotano intorno alla aziendalizzazione e al ruolo attivo svolto dai manager nella conduzione delle aziende sanitarie. Ospedali-aziende e medici-manager: due fantasmi più adatti a creare equivoci che ad apportare al progetto di riordino la necessaria base di riflessione. La conduzione aziendale delle istituzioni che erogano servizi sanitari viene così associata a una ricerca di profitti a ogni costo. È naturale sollevare obiezioni in nome dell’etica: la salute non può essere trattata come una merce, né i servizi sanitari sottoposti alle leggi del mercato che regolano domanda e offerta.

Non minori sono gli equivoci generati dal termine manager. Come ci ricorda Beppe Severgnini, un “italiano con la valigia” che viaggiando ha imparato a conoscere gli strani destini delle parole: «Manager non vuol dire “alto dirigente” (che si dice executive); in Inghilterra si può essere manager di un negozio di bottoni» (Severgnini, 1992, p. 22). Ma in Italia il manager, identificato con il non plus ultra del sapere organizzativo, viene per lo più sentito come lontano dal livello decisionale di chi, come il medico, sta in prima linea sul fronte operativo. La sanità in mano ai manager suona come un’ulteriore espropriazione, mentre il senso del riordino in atto nella sanità è proprio il contrario: riportare l’accento sulla centralità dei decisori finali nelle scelte, per avere un sistema sanitario che garantisca non solo efficacia e qualità, ma anche efficienza ed equità distributiva.

Se invece di lasciarci guidare dagli slogan cerchiamo di ricostruire i grandi tratti della congiuntura culturale in cui nasce il progetto di riordino della nostra sanità, individuiamo in primo luogo la necessità di rendere più europea la nostra amministrazione, ponendo gli uffici pubblici al servizio degli utenti. Secondo l’analisi autorevole di Sabino Cassese, il ministro della Funzione pubblica che nel governo Ciampi ha coraggiosamente affrontato la questione amministrativa, «la sfiducia nelle istituzioni che ha aperto la quinta fase costituzionale dell’Italia unita, dopo quella oligarchica (dall’unità alla fine del secolo scorso), quella liberaldemocratica (dall’inizio del secolo al 1922), quella fascista (1922-1943) e quella democratica (1943-1994), non si deve solo ai pessimi voti raccolti dai partiti che sono scomparsi, ma anche alla brutta pagella dell’amministrazione italiana» (Cassese, 1994a, p. 275). La questione amministrativa, fino all’aprile 1993, attirava scarsa attenzione. Non che l’inefficienza dell’amministrazione non fosse percepita dal pubblico, ma la politica mostrava disinteresse verso l’amministrazione: «Come tutto ciò che non interessa, il funzionamento dell’amministrazione rimaneva affidato alla buona volontà di poche persone. Si può dire che l’amministrazione era lasciata esistere

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(...). Proprio perché staccata dalla società, l’amministrazione era introflessa, poco attenta a quello che accadeva intorno, alle esigenze degli utenti» (Cassese, ivi).

L’inversione di tendenza consisteva nel puntare a un’amministrazione al servizio del cittadino e degli utenti, consumer oriented, operante non solo nell’interesse pubblico, ma nell’interesse del pubblico. L’impulso che il breve ma deciso ministero di Sabino Cassese imprimeva all’amministrazione pubblica in Italia intendeva far allineare il nostro paese con le riforme amministrative già in atto negli Stati Uniti d’America (decisivo è stato, a questo proposito, il rapporto a cui è stato attribuito il titolo programmatico «Reinventare il governo. In che modo lo spirito aziendale sta trasformando il settore pubblico»: Osbome, Gaebler, 1992), nel Regno Unito (in particolare con i controlli di efficienza e la «Carta dei cittadini») e in Francia (Cassese, 1994b).

L’operazione di ridare sovranità agli utenti non poteva non coinvolgere in modo prioritario la sanità, uno dei pubblici servizi erogati dallo stato di maggiore importanza nella lista delle priorità. Il saggio di Andrea Papini conferisce concretezza alle ripercussioni che l’adozione dello standard qualitativo implicato dalla Carta dei servizi pubblici può avere nella sanità. Il contributo di Michele T. Loiudice, a sua volta, individua nelle ricerche volte a rilevare la soddisfazione del paziente lo strumento di cui la sanità dispone per migliorare la qualità dei servizi offerti. L’originale ricerca di Andrea Cambieri, che ha analizzato l’offerta di formazione manageriale in sanità, permette di rilevare quanto cammino debba ancora fare in Italia la proposta dello stile azienda in sanità.

Un secondo tratto del rivolgimento culturale nel quale va collocato il riordino in atto nella nostra società è la fine, voluta e prevista, di quella vistosa degenerazione che il sistema pubblico di erogazione delle cure ha subito progressivamente, dopo l’introduzione della riforma sanitaria della 833 nel 1978, ad opera dei partiti politici. Già nel primo numero programmatico de L’Arco di Giano l’articolo dedicato alla politica sanitaria denunciava senza mezzi termini la situazione come patologica: «La politica ha prestato alla sanità i suoi uomini, il simbolismo della sua parola ― nella versione più fatua, quella caratterizzata da logorrea e vacuità ― e, purtroppo, il più importante dei suoi vizi: il clientelismo» (Di Michele, 1993, p. 116). Il progetto originario sottostante alla riforma sanitaria e all’introduzione del Ssn è stato deviato, dando origine alla sanità dei partiti.

L’invasione dei politici sulla scena della sanità è stata qualificata

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come una colonizzazione. Il processo correttivo per riportare la sanità alla sua originaria vocazione equivale, quindi, a una decolonizzazione. Il senso metaforico di questa parola esprime con sufficiente chiarezza il bisogno di fare piazza pulita con personaggi che nella sanità si sono comportati come funzionari coloniali nelle terre occupate. Ma il riferimento alla decolonizzazione, intesa come un processo culturale, può essere inteso in modo molto più proprio di quanto è concesso a una metafora.

Sulla decolonizzazione si è dovuto riflettere intensamente quando, circa tre decenni fa, sono giunti al tramonto gli ultimi regimi coloniali. Agli inizi degli anni Sessanta il libro di Frantz Fanon I dannati della terra costituiva la lettura d’obbligo degli intellettuali progressisti. Fanon, psichiatra e politico, era arrivato alla conclusione che la colonizzazione non cessa automaticamente il giorno in cui si dichiara l’indipendenza politica di un paese. Cambia il regime, ma le strutture più profonde che reggono il modo di pensare e di comportarsi rimangono le stesse. Con la sua solita abilità a fornire formule trasparenti, Sartre riconduceva il tema della decolonizzazione a una questione psicopatologica: «L’indigenato è una nevrosi introdotta e mantenuta dal colono nei colonizzati con il loro consenso» (Fanon, 1962, p. XVII).

Non sembri sproporzionato mettere in rapporto questi processi con quello che avviene nella sanità in Italia. Se è vero che il sistema sanitario è stato colonizzato dal lato peggiore della politica, è ipotizzabile che nei sanitari si riscontrino le deformazioni tipiche del coloni. Come tratti caratteristici della nevrosi del colonizzato si possono menzionare la propensione al lamento sterile, l’autodenigrazione, le recriminazioni velleitarie e l’impressione di essere straniero a casa propria. La decolonizzazione è effettiva solo quando i coloni si liberano dalle strutture mentali che hanno interiorizzato. Per i professionisti sanitari ciò implica l’abbandono di quella impotenza consensuale ― anche se opera a livello inconscio, come tutte le nevrosi ― che porta ad attendere la soluzione dei problemi dal di fuori: dai politici e dagli amministratori. La quintessenza di questo processo di decolonizzazione è la rinuncia da parte di chi lavora professionalmente in medicina alla condizione psicologica di indigeno e la riappropriazione del ruolo che gli compete nella gestione quotidiana del sistema di somministrazione delle cure. Questa è, ricondotta all’istanza di fondo che la regge, la svolta verso la managerialità con cui si intende rispondere ai mali della nostra sanità.

Numerosi articoli del dossier analizzano la funzione del medico quale manager delle realtà in cui opera. Alcuni prendono in considerazione gli orientamenti generali e i presupposti teorici (Emanuele Ranci Ortigosa, Cesare Catananti e Claudio Morgagni), altri illustrano esperienze

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straniere (Angelo Stefanini) e italiane (Mario Cirilli, Aldo Pagni e Giorgio Carlo Monti). Altri contributi sono dedicati invece agli orientamenti normativi e al quadro legislativo che delinea il profilo della nuova sanità italiana: Elio Borgonovi tratteggia il passaggio alla struttura di azienda; Fortunato Marino e Marzio Scheggi indicano le innovazioni richieste dalla nuova normativa; Mariapia Garavaglia nell’articolo del Focus affronta con determinazione la delicata questione della competenza dello stato e di quella delle regioni nell’erogazione dei servizi sanitari.

La terza dimensione del cambiamento generale che giustifica l’adozione dello stile azienda in sanità è quella relativa all’etica. La somministrazione di cure sanitarie si è sempre ispirata al rispetto di alcuni valori, comprendendosi quindi come attività eminentemente etica. Ma i valori di riferimento si sono modificati. Il modo tradizionale di concepire il ruolo del medico correlava la sua attività unicamente al valore della salute da riconquistare o da promuovere. Il sanitario nelle sue decisioni aveva un solo vincolo: lasciarsi guidare dalla considerazione del bene del malato. Al medico del cancelliere Bismarck è stata attribuita la frase che sintetizzava quell’ideale: «Quando io curo un malato, siamo io e lui soli su un’isola deserta». Fare tutto il possibile per guarire il malato che aveva davanti: gli obblighi morali del medico erano circoscritti da questo imperativo dell’etica medica. Anche nell’altra scuola che si è sviluppata dal ceppo della tradizione ippocratica, la medicina omeopatica, i doveri del medico sono stati modulati unicamente sull’attività terapeutica. Il primo paragrafo dell'Organon di Hahnemann (1993) si apre con la dichiarazione perentoria: «L’unico compito del medico è guarire presto, dolcemente, durevolmente».

L’estraneità del medico a considerazioni di ordine sociale ed economico, come il contenimento dei costi e l’eliminazione degli sprechi, è stata ulteriormente aggravata dalla socializzazione delle cure sanitarie nell’ambito dei vari programmi di welfare state: la presenza di un terzo pagante ― la mutua, il Servizio sanitario nazionale ― ha dispensato sempre più il medico dal gestire le risorse secondo criteri di economicità e di equità. L’innovazione culturale in corso ci dice che quell’epoca deve essere considerata come definitivamente tramontata.

L’adozione dello stile azienda non abolisce i vincoli tradizionali dell’etica e dell’attività del medico: semplicemente, ne allarga l’orizzonte, includendovi altri riferimenti. L’articolo di Ernesto Veronesi stabilisce queste coordinate essenziali, dove la qualità etica e quella economica si implicano reciprocamente. Chi teme che l’interesse a soddisfare (e quindi a conservarsi) il paziente-cliente dell’azienda

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sanitaria possa svuotare di contenuto morale la pratica della medicina, può tranquillizzarsi. Anche le imprese che pur tendono ai profitti devono fare i conti con le esigenze dell’etica (è nata anche una rivista specifica Etica e affari, epigona di altre da tempo fiorenti in ambiente anglosassone). Il confronto con l’etica è tanto più necessario per aziende di servizio, e di servizio pubblico. La soddisfazione del cliente, ottenuta in qualsiasi modo, non può essere un imperativo assoluto. Prima di tutto, perché un paziente soddisfatto, ma imbrogliato, si vendica. In sanità le bugie hanno le gambe particolarmente corte e sarà sempre più difficile, con la maggiore informazione in materia di salute, avere pazienti soddisfatti se quello che è stato offerto non ha risposto alle loro legittime attese.

Inoltre in medicina ci sono obblighi morali che vincolano comunque, indipendentemente dalla soddisfazione o insoddisfazione del paziente. Questi obblighi morali, che nella tradizione filosofica dell’occidente costituiscono l’“etica del minimo” o minima moralia, sono principalmente due: non procurare danno a nessuno (il “primum non nocere” ippocratico) e trattare tutte le persone con uguale considerazione e rispetto. L’etica dovrà vigilare affinché la soddisfazione del paziente vada di pari passo con le esigenze morali minime, che tutti riconoscono come inderogabili. Nei tempi lunghi, quindi, il successo sarà di chi ha come obiettivo non il paziente a ogni costo soddisfatto, ma il paziente “giustamente” soddisfatto.

L’editoriale non vuole essere un inventario completo dei tanti materiali che il lettore troverà in questo fascicolo de L’Arco di Giano. Numerosi percorsi sono aperti dalle opere di cui si dà conto nella Rassegna. Attraverso la storia della medicina e l’epistemologia, la pratica clinica e l’impegno sociale per i soggetti deboli si perviene a quella meta ideale ― una pratica della medicina ispirata al rispetto di tutti gli uomini e di tutto l’uomo ― a cui aspirano le medical humanities.

Come già i lettori abituali della rivista sanno, un percorso privilegiato è quello costituito dalla rilettura di un’opera, cui viene attribuita la caratteristica di “classico”. L’appuntamento questa volta è con La coscienza di Zeno. Giovanna Ioli, che ci guida in questa rilettura, mette al centro del tortuoso sviluppo del personaggio di Svevo la conquista di un diverso atteggiamento nei confronti della salute. È un cammino tutto interiore («La salute non analizza se stessa e neppure si guarda allo specchio. Solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi», sentenzia Zeno Cosini), ma dispiegato sul ricorso esterno alla medicina, alla “cura” del matrimonio e dell’impegno negli affari, fino all’uti- lizzo della psicanalisi come estrema risorsa. L’acquisizione finale («Io

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soffro bensì di certi dolori, ma mancano d’importanza nella mia grande salute. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole») rinvia alla saggezza quale suprema terapia dei mali dell’uomo.

Una parola, infine, sulla rubrica Medical humanities network che, a partire da questo fascicolo, sarà curata da Roberto Bucci. Essa ha una finalità eminentemente pratica. Vuol favorire la conoscenza di iniziative che nascono nell’ambito delle medical humanities, per facilitare contatti e collaborazioni. Nell’aprire questo spazio la rivista sollecita i suoi lettori a utilizzarlo attivamente.

Riferimenti bibliografici

Cassese S., La riforma amministrativa all’inizio della quinta Costituzione dell’Italia unita, in Il Foro italiano, maggio 1994a, pp. 250-271.

Cassese S., Aggiornamenti sulla riforma amministrativa negli Stati Uniti d’America, nel Regno Unito e in Francia, in Il Corriere Giuridico, 8, agosto 1994b, pp. 1029-1039.

D’Egidio F., Il sogno imprenditoriale. L’incredibile storia di un manager innovativo, Franco Angeli, Milano, 1993.

Di Michele N., Politiche sociali, in L’Arco di Giano, 1, 1993, pp. 113-119.

Fanon F., I dannati della terra, introduzione di Jean-Paul Sartre, Einaudi, Torino, 1962.

Hahnemann S., Organon dell’arte di guarire, ed. Simoh, Roma, 1993.

Osbome D., Gaebler T., Reinventing Government. How the entrepreneurial spirit is trasforming the pubblic sector, Haddis-Wesley, Reading Mass., 1992.

Severgnini B., L’inglese. Lezioni semiserie, Rizzoli, Milano, 1992.