Sandro Spinsanti
Nascere meglio
Editoriale
in L'Arco di Giano, n. 9, 1995, pp. 5-9
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EDITORIALE
Oggi in Italia si nasce meno. Con una percentuale di 1,2 nati per coppia, il nostro paese si è posto in testa al trend d’inversione dell’espansione demografica, con una caduta della natalità che comincia a costituire una fonte di preoccupazione per demografi e responsabili delle politiche sociali. Ma nella lista delle priorità non c’è solo l’impegno per un aumento numerico delle nascite: bisogna anche predisporre quanto è necessario perché si nasca meglio.
Nel concetto di qualità riferito alla nascita oggi è intrinseca la dimensione della libera determinazione della coppia. Fare un figlio è una scelta, non un evento biologico sottoposto unicamente al cieco gioco delle pulsioni. Neppure tra i credenti, che pur si pongono nei confronti della vita in una posizione spirituale di generosa partecipazione al compito di trasmetterne il dono, è più in vigore il modello arcaico di accettazione di “tutti i figli che vorrà Dio mandare”. Per tutti oggi paternità e maternità si coniugano con un accresciuto senso di responsabilità nei confronti dei figli che si decide di far nascere.
Responsabilità e preoccupazione appaiono come tratti dominanti del reticolo intergenerazionale che caratterizza la famiglia dei nostri giorni. Una felice immagine, tratta dal Quarto rapporto Cisf sulla famiglia in Italia, dedicato tematicamente all’analisi dell’intreccio tra le generazioni, ci permette di visualizzare la “relazione preoccupata” che costituisce oggi il collante morale di molte famiglie:
Se Virgilio dovesse riscrivere, ambientandola ai giorni nostri, la fuga di Enea da Troia, probabilmente cambierebbe l’immagine dell’eroe greco che ha sulle spalle l’eroe Anchise e tiene per mano il figlioletto. Intanto, dovrebbe provvedere almeno una figura femminile (sposa, sorella o madre che sia), non solo perché ― statisticamente ― oggi è meno probabile una sua scomparsa, ma perché sarebbe “politicamente corretto” attenuare un esclusivismo così smaccatamente sbandierato del protagonismo e della discendenza maschili. Se, poi,
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andiamo a sovrapporre all’immagine mitica quella sociologica attuale, la missione di Enea risulterebbe alquanto compromessa: sulle sue spalle verrebbe a gravare più di un antenato vivente ― ovvero a “impilarsi” almeno il padre di Anchise, recuperato grazie all’allungamento della vita media ―, mentre al suo fianco potrebbe arrancare una coppia di bambini, attenti ai comandi del padre come può esserlo chi “indossa” un walkman.
Sin qui un generico scenario occidentale, che, se volessimo renderlo più italiano, dovrebbe provvedere soprattutto la possibilità che Enea si trasformi o in un Eroe Decadente, privo cioè di discendenti, ma magari attorniato da un simpatico cagnolino, o in un Eroe Affaticato che, sempre in contatto via telefonino con i parenti, ansima vedendo caracollargli addosso un adolescente di oltre trent’anni, ben vestito e motorizzato (Padiglione, Pontalti, 1995, p. 188).
La rarefazione delle nascite alle nostre latitudini non dipende solo dal maggior grado di libertà nelle scelte procreative (limitare il numero delle nascite e distanziarle nel tempo) e dal peso crescente che l’intreccio familiare costituisce per tutti i protagonisti. La rarefazione è dovuta in buona misura anche alla sterilità. Le dimensioni del fenomeno sono poco divulgate. Basti pensare che in Italia nel 1994 sono state più di 18.000 le coppie alle quali, dopo almeno due anni di tentativi infruttuosi di avere un figlio, è stata diagnosticata una causa di sterilità. Considerando un tasso di matrimoni pari allo 0,5% della popolazione nazionale, ogni anno ci si aspetta dalle 50.000 alle 70.000 coppie sterili. La metà di queste richiede una consulenza specialistica. Un numero imprecisato, ma certamente imponente, si avvia per la strada della procreazione medicalmente assistita. Sono dati che ricaviamo dal rapporto finale della Commissione di esperti sulla procreazione medico-assistita istituita dal Ministero della sanità il 14.1.1994, presieduta da Elio Guzzanti (Procreazione medico-assistita, 1994).
La spettacolarizzazione attraverso i media di queste pratiche, che pongono sotto gli indiscreti riflettori della curiosità pubblica solo i nuovi traguardi tecnologici raggiunti e i casi-limite, rischia di far dimenticare il prezzo di queste nascite ottenute con l’ausilio della tecnologia medica. Non tanto il prezzo economico ― anche quello, beninteso: la “procreatica” ha dato origine a un mercato fiorente; molte coppie non esitano a investire nel figlio dei loro desideri le decine di milioni che può venire a costare un programma di fecondazione assistita quando ci si rivolge ai centri che operano nel privato ―, quanto quello di sofferenze psicologiche e morali. La frustrazione della volontà di avere un figlio diventa sempre più difficile da accettare, mentre ― come dimostra la ricerca condotta da Erminio Gius e collaboratori ― nascere con la tecnica è sempre più banalizzato, anche dal punto di vista morale, nella nostra società. In una cultura che ha fatto
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crescere la convinzione che non esistono più limiti naturali sembra possibile ottenere tutto, purché ci si affidi al “mago della provetta” che promette di risolvere qualsiasi problema.
È impopolare dire che la percentuale di successo delle tecniche in questione è talmente bassa (e i risultati spesso presentati in modo tutt’altro che trasparente) che è molto più probabile un insuccesso che il sospirato “figlio in braccio”. Eppure bisognerà che qualcuno si assuma l’ingrato compito di richiamare alla sobrietà, riportando questo discorso dall’enfasi trionfalista nutrita dai miti dell’onnipotenza al livello di un salutare confronto con i fatti. Il sogno di un figlio da ordinare “alla carta”, sempre e comunque disponibile, è un più il prodotto di un’abile promozione delle nuove tecnologie che un riflesso della realtà. La nascita di un figlio è ancora il frutto di un mix a dosi variabili di programmazione e sorpresa, di progetto e dono. In questo contesto il counseling alle coppie che ricorrono alla procreazione medico-assistita, proposto da Bianca Gelli, diventa una tutela della salute, in senso globale, delle coppie che percorrono questi cammini accidentati per procreare un figlio.
Sulla necessità di porre un freno alla deregulation attualmente vigente in Italia in materia di procreatica si sta evidenziando un consenso crescente, anche tra esponenti di visioni antropologiche ed etiche molto divergenti. Non possiamo continuare a permettere che in questo ambito imperversino il capriccio e l’arbitrio. Soprattutto non si può più tollerare che i padri che hanno dato il loro consenso alla fecondazione artificiale con gameti di donatori siano autorizzati successivamente dalla legge a disconoscere il bambino, semplicemente perché nei rapporti interpersonali sono entrati in collisione con la moglie.
È vero che i casi di questo genere sono statisticamente pochi. Tuttavia sono avvenuti e hanno avuto ampia risonanza nelle cronache. A ragione, per il significato che rivestono: una civiltà si riconosce in gesti e fatti che hanno valore simbolico. E una decisione di grande rilievo simbolico è quella di attribuire alla persona del bambino una fisionomia giuridica e morale propria, tutelandola da evenienze infauste come quella di rimanere “orfano” per via di legge. Il bambino non è un’appendice del desiderio dei genitori; va perciò sganciato dalle eventuali fluttuazioni di questo. Tra le varie misure di politica sanitaria per la tutela della salute materno-infantile necessarie, dobbiamo includere anche quella forma di prevenzione che impedisca al nascituro di vedere la luce in un “buco nero” della legge.
In passato la grande precarietà dell’esistenza del bambino alla nascita ― una percentuale impressionante di neonati non superava la dura selezione naturale dei primi mesi di vita ― non favoriva un legame affettivo precoce da parte dei genitori. Oggi lo scenario si è rovesciato.
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I bambini sono come una merce rara, su cui si riversa un torrente di attese, sogni, desideri di autorealizzazione e bisogno di fecondità della coppia genitoriale. Per permettere loro di nascere bisognerà difendere con la maggior determinazione possibile il carattere di persona di ogni essere umano, fin dalla nascita; anzi, già prima che venga al mondo. È la dimensione etica in cui dovrà svilupparsi la consulenza genetica prenatale, a cui ha dedicato un articolo Gaia Marsico, con particolare attenzione alle linee-guida, etiche che si stanno sviluppando negli Stati Uniti. Anche il contributo di Marina Cuttini sui problemi che nascono intorno alle culle dei bambini prematuri ci presenta una medicina in cui l’aumento delle possibilità tecniche costringe a un confronto serrato con le questioni etiche.
La congiuntura culturale attuale ci obbliga ad aggiungere qualche nuovo tratto al “nascere bene”: per nascere “meglio”, oltre alla sicurezza che offre oggi una medicina infinitamente più efficace che in passato, il bambino deve essere accolto con la dignità che spetta alla persona umana. Questo ampliamento delle esigenze sul fronte dell’etica non è senza analogie con quell’arricchimento della cultura del parto di cui è stato protagonista Frédéric Leboyer. In anni che vedevano una crescente medicalizzazione del parto ha raccontato l’avventura della nascita nel libro Per una nascita senza violenza (Leboyer, 1975). Per reagire a quell’ottica moderna e progressista che fa del parto una malattia da affidare alle cure dei medici, ha proposto la nascita sotto la metafora di un viaggio pericoloso al termine del quale il bambino approda nel nostro mondo. Siccome il suo discorso fu equivocato ― come se semplicemente stesse suggerendo un nuovo metodo per risparmiare alle donne le angosce del partorire ― alzò ancora il tiro con Natività. Si appoggiò agli artisti e ai poeti, per rendere conto di ciò che succede quando una donna partorisce. «Nella nascita ― ha spiegato ― c’è qualcos’altro oltre la fisiologia e la biochimica. Oltre la carne e il sangue. Su questo grande mistero l’artista, il pittore possono forse comunicare cose che l’uomo di laboratorio o il medico-tecnologo non conoscono» (Leboyer, 1982, p. 15).
Nella nascita c’è più del parto, come nella natività c’è più della nascita. Nella ricerca di questa eccedenza di significato ci vengono incontro oggi l’etica e tutto il corteo delle medical humanities. Perché la venuta al mondo di un bambino non è solo un problema tecnico da risolvere in modo corretto, ma un mistero dal quale farsi prendere.
Riferimenti bibliografici
Padiglione R., Pontalti C., Fra le generazioni modelli di connessione simbolica, in Donati P. (a cura di), Quarto rapporto Cisf sulla famiglia in Italia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pp. 187-220.
Leboyer F., Per una nascita senza violenza, Bompiani, Milano 1975.
Leboyer F., Natività, Edizioni Emme, Milano, 1982.