Sandro Spinsanti
Sanità amica in una società multietnica
Editoriale
in L'Arco di Giano, n. 22, 1999, pp. 3-11
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EDITORIALE
L’immagine architettonica che abbiamo scelto come simbolo per la nostra rivista ― L’Arco di Giano ― ci suggerisce che nel luogo d’incontro e di dialogo tra le medical humanities: si può accedere da diverse parti. L’invito che rivolgiamo ai nostri lettori è di entrare nell’architettura di questo fascicolo non attraverso il dossier, dedicato al tema: “Sanità amica in una società multietnica”, bensì attraverso una sua rubrica, quella dedicata a “L’attualità dei maestri”. Alla nostra attenzione viene proposto, quale maestro nelle medical humanities, il compianto epidemiologo Jonathan Mann (1947-1998).
Il titolo di maestro in questo caso non è un esercizio di retorica: per molte persone, soprattutto operatori nell’ambito della sanità pubblica, Jonathan Mann è stato un punto di riferimento dotato di quell’autorevolezza che non discende dalla carica ricoperta, ma dalla capacità di dar forma, con le parole e con la vita, a verità morali che si impongono alla nostra coscienza. Come avviene per i maestri, appunto. Il tributo che L'Arco di Giano gli dedica, tramite l’articolo di Vittorio Agnoletto, non vuol confondersi con una “beatificazione”, a cui la sua morte precoce e tragica (la sua vita, e quella della moglie Mary Lou Clements Mann, è stata stroncata nell’incidente aereo avvenuto il 2 settembre 1998, mentre da New York si recava a Ginevra per una riunione sull’Aids presso la sede dell’Oms) sembrerebbe destinarlo.
J. Mann ha effettivamente esercitato un’influenza profonda su medici, operatori sociali, epidemiologi e legislatori che sono stati investiti dal ciclone Aids. Dalle parole di V. Agnoletto, riferite in particolare all’impegno dell’associazione Lila in Italia, risulta in modo convincente la fascinazione intellettuale e morale che Mann ha esercitato su quanti si sono trovati schierati sul fronte della difesa dei diritti umani nei tempi dell’Aids.
Il molo di maestro non è legato solo alla volontà determinata di J. Mann di combattere l’epidemia senza deflettere dalle esigenze dell’etica, sia a livello individuale che sociale. Come ogni vero maestro, ha esercitato la sua influenza non solo con ciò che ha affermato, ma ancor più per come ha operato. Tra le scelte che rendono esemplare la sua esistenza merita un rilievo singolare quella di porre fine alla carriera di
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direttore del programma mondiale dell’Aids dell’Oms. Chiamato a tale incarico nel 1986, in breve tempo era riuscito a progettare e a realizzare una strategia di mobilitazione mondiale. Ma nel 1988 è avvenuto un cambio alla direzione generale dell’Oms e ben presto Jonathan Mann si è trovato in rotta di collisione con la gestione burocratica del nuovo direttore, Hiroshi Nakajiama, che di J. Mann voleva ridurre peso e immagine. Rassegnate le dimissioni, nel 1990 Mann tornava negli Stati Uniti, come docente di epidemiologia alla Harvard School of public health di Boston. Anche per questa libertà interiore nei confronti delle cariche e la non disponibilità ai compromessi che avvengono a scapito della dedizione a una causa, è stato maestro.
Particolarmente appropriata ci appare la collocazione del tributo a Jonathan Mann nel quaderno de L Arco di Giano dedicato tematicamente alla salute degli immigrati. Un tema conduttore del suo pensiero e della sua politica è stata la tenace convinzione che il principale problema che poneva l’Aids fosse quello della marginalità e che la terapia più efficace passasse attraverso l’allargamento dell’area dei diritti umani. Il suo slogan incisivo “Siamo tutti sieropositivi” riassumeva l’invito all’umanità dei più perché non isolasse una minoranza debole e colpita, pena una sconfitta per tutti.
Ci piace riportare un brano della relazione tenuta da J. Mann in occasione della XII conferenza mondiale sull’Aids:
Per anni le persone omosessuali, le persone affette da Aids, gli emarginati per qualunque motivo, soggetti i cui diritti umani sono sistematicamente violati, hanno provato a dirci, a farci capire chiaramente che l’isolamento ― la separazione tra le persone ― è la fonte più profonda di sofferenza e di disperazione. Che l’antica tendenza umana a vedere il mondo in termini di “NOI” e “LORO” sia stata parte di questa epidemia non ci sorprende. Malgrado tutto, abbiamo resistito (...) Così, attraverso il nostro impegno contro una pandemia, siamo diventati pionieri nel mondo della solidarietà umana. La nostra responsabilità è storica. Poiché, quando la storia dell’Aids e la risposta globale saranno scritte, il massimo contributo può ben essere
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considerato il tatto che. al tempo della pestilenza, noi non siamo fuggiti, né ci siamo nascosti, né ci siamo separati gli uni dagli altri 1.
Dobbiamo riconoscere che la proposta articolata da J. Mann di considerare le grandi sfide alla salute come un invito a riscoprire lo stretto legame tra la salute e i diritti dell’uomo e la politica sanitaria come parte integrante della strategia di sviluppo dei popoli rappresenta piuttosto l’eccezione che la regola. Il riflesso condizionato che scatta più spesso è quello di una chiusura nei confronti di chi rappresenta una minaccia che incombe dall’esterno.
Una esemplificazione ci è offerta da una lettera di un medico, pubblicata dalla rivista Medici Oggi, che si presenta come “mensile di formazione continua”. Il lettore riferisce di una sua visita al museo dell’isoletta di Ellis Island. nei pressi di New York, dove gli immigrati venivano sottoposti a vari controlli, inclusi quelli sanitari. La visita oculistica prevedeva che l’immigrato con segni di tracoma venisse rispedito al suo paese. Riferita la notizia, il medico aggiunge: “Le nostre autorità non hanno imparato nulla dall’esperienza americana, che coinvolse migliaia e migliaia di emigranti italiani. Eppure si sa che molti extracomunitari sono portatori di malattie infettive come la tubercolosi”. L’assenza di ogni commento lascia presumere che la direzione della rivista condivida tale atteggiamento. Ebbene, i lettori della nostra rivista sappiano che le voci raccolte dal nostro dossier sono più in sintonia con la linea rappresentata da Jonathan Mann che con quella che auspicherebbe controlli alla frontiera per difendere “noi” da “loro”, filtrando coloro che potrebbero compromettere la nostra buona salute.
La struttura portante del dossier è costituita dal quadro normativo italiano, ricostruito e presentato organicamente da Maurizio Marceca. Lo stato italiano ha fatto la scelta di estendere le cure ambulatoriali e ospedaliere a tutti gli stranieri
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presenti sul territorio nazionale, indipendentemente dal loro status giuridico. Nessuna prestazione sanitaria deve comportare una segnalazione all’autorità giudiziaria. La legge che disciplina l'immigrazione e la condizione dello straniero (L. 40/1998) riconosce il diritto alla salute come diritto di tutti, anche se irregolari e clandestini, non solo come accesso straordinario, ma anche come cure ordinarie e continuative. Senza pregiudicare i meriti acquisiti in questo ambito dal volontariato e dall’associazionismo, sia di matrice religiosa che laica, va sottolineata la forte accentuazione dell’assistenza concepita come un diritto, non come un gesto riconducibile alla carità o alla filantropia. Un diritto, per di più, non legato alla cittadinanza, ma alla comune condizione umana, e quindi agli antipodi rispetto al meccanismo di esclusione che tende a privilegiare il gruppo in cui ci si riconosce ― il “noi” ― e a escludere gli estranei ― “loro”
L’atteggiamento di esclusione è stato variamente contrastato nella lunga storia educativa dell'umanità. La spinta più forte ad ampliare la capacità di inclusione viene dai modelli comunitari prodotti dalle religioni. Solo per accennare al filone ebraico-cristiano, pensiamo all’insegnamento contenuto nel Deuteronomio: «Amate il forestiero perché siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Deut. 10,18). Nella tradizione cristiana la spinta messianica si è tradotta in atteggiamenti universalistici. Un omaggio indiretto all’apertura della comunità cristiana è offerto dall’imperatore Giuliano, paladino di un ritorno al paganesimo, quando osserva che il cristianesimo esercita una forte attrazione proprio per l’abolizione dei confini tra “noi” e “loro”: «Ciò che fa forti [i cristiani] è la loro filantropia nei confronti degli estranei e dei poveri... È vergognoso per noi che i galilei non esercitino la misericordia solo con quelli che condividono la loro fede, ma anche con quelli che venerano gli idoli».
Non è solo la morale religiosa che spinge verso un allargamento dei confini del “noi”, ovvero della inclusività. Basti pensare al ruolo che ha tradizionalmente svolto V ethos medico. Alla domanda: “Verso chi è obbligato il medico?”, è stata data una risposta universalistica, fondata sul
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bisogno: il medico è tenuto a prestare la sua opera professionale verso chiunque abbia la vita o l’integrità fisica minacciata da un evento morboso. La risposta medica alla malattia è trasversale alle divisioni etniche, culturali, ideologiche.
Concretamente, una prospettiva mirante a estendere i benefici dell’assistenza sanitaria a strati sempre più ampi della popolazione in nome non della carità ― o della filantropia ― ma della giustizia si è realizzata con l’affermarsi del welfare state. È stato necessario superare le resistenze avanzate del pensiero liberale. La pars destruens della posizione liberale consiste nella critica dell’assistenzialismo e alla beneficenza, quali meccanismi per la redistribuzione delle risorse. Il liberalismo tende a valorizzare l’individuo e le sue risorse, piuttosto che lo stato; più che delle provvidenze pubbliche, si fida del mercato (questa è la pars construens del pensiero liberale).
Il liberalismo non è stato sconfitto dal prevalere dei modelli organizzativi sociali, come dimostra il forte vento neo-liberale che spira nei nostri sistemi, senza risparmiare la sanità. È importante tener presenti i valori del liberalismo riferito all’assistenza sanitaria. Un frutto della rivoluzione liberale è l’introduzione del concetto dei “diritti”. La prospettiva cambia radicalmente se concepiamo l’assistenza sanitaria come prodotto di intenzioni caritatevoli o come diritto rivendicabile.
Anche il rispetto delle individualità ― personali e culturali ― è un portato del liberalismo. Tuttavia bisogna riconoscere che il modello liberale non sa offrire una protezione sufficiente agli “ultimi della fila”. Argomenta in modo efficace Norberto Bobbio nella sua Lettera al volontariato: «Il mercato regola i rapporti di scambio tra chi soffre e chi domanda, tra chi dà e chi riceve. Ma per chi non ha nulla da offrire o da dare? Che cosa hanno da offrire o da dare i vecchi non autosufficienti, gli handicappati, i malati cronici, i malati di mente e, allargando i confini del nostro Paese, i poveri di tutto il mondo, coloro che costituiscono il pianeta dei naufraghi?». È in questo
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vasto disegno di protezione da offrire ai fragili che si collocano le misure che estendono a tutti i cittadini i servizi sanitari ― così come sono state formulate dal Servizio sanitario nazionale introdotto m Italia nel 1978 e riaffermato in tutti i successivi disegni di riordino ― e la legislazione relativa agli immigrati che estende l’assistenza a tutti coloro che sono presenti nel nostro territorio.
La normativa che abbiamo considerato risponde alla domanda se dobbiamo offrire assistenza sanitaria agli immigrati; non ci dice invece come. Il “come” è fondamentalmente riassumibile nelle modalità riconducibili all’intercultura. La presenza simultanea di diverse culture è una novità per la nostra società. Soprattutto nell’ambito sanitario. Il preteso universalismo dell’etica medica ― che per l’occidente è stata formulata dalla medicina ippocratica e non ha sostanzialmente mutato la sua struttura per 25 secoli ― ha fatto ritenere irrilevanti le differenze riconducibili alla cultura. La convivenza di culture diverse, tanto da fare del pluralismo culturale un’opportunità, comincia appena a essere affrontata nel nostro paese. Tra le iniziative pionieristiche in questo ambito si segnala l’attivazione di un corso di laurea in “Scienze e tecniche dell’interculturalità” presso la facoltà di lettere e filosofia dell'università di Trieste, con il conferimento di un “dottorato in interculturalità”.
Anche per la sanità italiana si è aperta l’era dell’interculturalita. Il Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000 menziona esplicitamente, tra le “azioni” per la tutela dei soggetti deboli, «la formazione degli operatori sanitari finalizzata ad approcci interculturali nella tutela della salute». Il dossier si è proposto in via prioritaria di mettere a confronto le esperienze più rilevanti in questo ambito, come materiale di confronto e di riflessione. Ampio rilievo è dato ai resoconti di organizzazione di servizi sanitari per immigrati e nomadi (Salvatore Geraci, Nicoletta Diasio, Bianca Maisano) e alla riflessione antropologica relativa all’identità culturale e alle trasformazioni cui è sottoposta dall’immigrazione (Annamaria Rivera e Marco
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Mazzetti). Tanto più quando il cambiamento culturale si traduce in disagio psichico e in malattia mentale (Natale Losi). L’approccio interculturale deve ora essere assimilato da tutti gli operatori del settore sanitario pubblico e tradursi in progetti di formazione (Anna Coluccia e M. Luisa Mangia).
Dall’insieme dei contributi ricaviamo la convinzione che non si tratta di introdurre la medicina delle migrazioni come una nuova branca della medicina, e tanto meno come una nuova specializzazione. La medicina che si sviluppa prendendo sul serio l’interculturalità è fondamentalmente la medicina delle relazioni: reagendo alla tendenza a spostare sempre di più il piano diagnostico verso l’oggettivazione strumentale, come predilige il riduttivismo organicista, la medicina deve imparare a integrare gli scenari e i contesti socio-culturali, nonché le risorse individuali e collettive del paziente. Il gruppo di appartenenza, con la sua cultura, diventa la principale risorsa per il processo terapeutico.ù
Una seconda porta di accesso alla struttura di questo numero de L’Arco di Giano può essere individuata nell’“Attualità dei classici”, che questa volta propone ai lettori Il Golem dGustav Meyrink. Se il valore letterario dell’opera è tutt’altro che eccelso, merita tuttavia l’attenzione dei cultori delle medical humanities per il tema, tratto dalla tradizione popolare ebraica, e per la reinterpretazione che ne fornisce Meyrink. La leggenda del “Golem fatto d’argilla” è stata trasmessa come un episodio della vita del misterioso Maharal, rabbi Yehuda Loew, capo della comunità ebraica della Praga del sedicesimo secolo.
Alcune versioni di questa leggenda ― che di recente è stata riraccontata anche da Elie Wiesel (1986) ― dipingono il Golem come un simpatico e goffo individuo, creato dal rabbi con funzioni di servo; altre lo presentano come un mostro, un Frankenstein che si ribellò al suo creatore. Angelo Maria Ripellino ne tratta ampiamente nella sua indimenticabile Praga magica, sottolineando la tradizione che lo presenta come «una
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sorta di Faust giudeo» (Ripellino, 1973, p.160). A suo avviso nel romanzo di Meyrink il Golem sembra identificarsi con l'Ebreo Errante, quasi un emblema del giudaismo con supplementi di cristologia 2.
Luis Montiel ci guida a una lettura diversa del Golem di Meyrink. La tradizione esoterica e mistica recede sullo sfondo, per lasciar emergere un profilo che si iscrive dentro il perimetro di quel cammino di autorealizzazione che C.G. Jung chiama “processo di individuazione”. In altre parole, Meyrink ci ripropone la vicenda immaginaria del Golem come un cammino personale verso la maturità, in quanto autorealizzazione che si completa solo nella dimensione transpersonale. Con o senza esoterismo, è indubbiamente anche questo un punto focale delle medical humamties.
Alla domanda essenziale relativa al processo di autorealizzazione possiamo ricondurre diversi contributi ospitati in questo fascicolo della rivista: la consapevolezza del parto come momento di massima significatività affettiva e simbolica nella vita della donna (Silvia Vegetti Pinzi); le questioni relative alla responsabilità morale e allo sviluppo del senso civico, come elementi costitutivi di una psicoterapia che non rifugga dall’interezza del suo compito (Marino Romeo); il superamento dell’ideologia individualistica nel disegno di strategie comunitarie di prevenzione (Eugenio Paci; cade opportuna, a questo proposito, una proposta utopica di Jonathan Mann: «Così come i movimenti ambientalisti hanno creato i partiti verdi per portare avanti la battaglia per la salvaguardia del pianeta, allo stesso modo dovrebbero nascere i partiti della salute che portino avanti il principio che la salute è un diritto dell’uomo e non un privilegio»); la
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crescita di un’attenzione nelle politiche sanitarie per i bisogni dei malati che non vanno verso la guarigione, per assicurare i benefici della medicina e il valore della solidarietà anche nella fase terminale della vita (Jean-Michel Lassaunière)
Per queste e per tante altre vie passa il cammino della medicina per l’uomo che auspichiamo. Ma forse, tra le tante urgenze, nessuna è così incombente come l’umanizzazione del morire. Sia lecito, a questo proposito, rievocare la morte del Golem “Yossel il muto”, così come viene raccontata con profonda pietIas da Elie Wiesel (lo scrittore deportato ad Auschwitz e Buchenwald, testimone di morti atroci, senza ombra di umanità, consacrato premio Nobel per la pace nel 1986):
Dieci anni dopo essere stato creato, il Golem tornò in polvere (...). Il Maharal salì in soffitta e il Golem lo seguì, con i suoi due discepoli alle spalle.
Per un attimo i quattro rimasero completamente immobili, come incollati alle loro ombre. Poi la voce del Maharal ruppe il silenzio: “Sdraiati, mio piccolo Yossel”. Il Golem esitò impercettibilmente prima di ubbidire. “Adesso distendi le braccia” disse il Maharal. E il Golem distese le braccia. “E le gambe” disse il Maharal. E il Golem distese le gambe. “Chiudi gli occhi” disse il Maharal. E il Golem chiuse gii occhi. “Respira lentamente, molto lentamente, sempre più lentamente” disse il Maharal. Il Golem ubbidì. “Ti senti invadere dal sonno? ” gli domandò il Maharal. Il Golem voleva abbassare il capo per dire di sì, ma le forze lo avevano abbandonato. “Hai compiuto il tuo destino” disse il Maharal “Puoi essere orgoglioso. Pochi uomini hanno salvato tante vite quante ne hai salvate tu. Che il tuo sonno sia dolce, mio caro Yossel; non preoccuparti, nessuno ti disturberà, te lo prometto” (Wiesel, 1986, p. 94 s.).
Riferimenti bibliografici
Ripellino A.M., Praga magica, Einaudi, Torino, 1973.
Wiesel E., Il Golem. Storia di una leggenda, Giuntina, Firenze, 1986.
Note
1 Il testo integrale della conferenza di J. Mann è disponibile, insieme ad altri suoi articoli, nella brochure curata da Leopoldo Grosso, Jonathan Mann. Aids e diritti umani, edito da Gruppo Abele & Lila, 1999.
2 «Per la sostanza larvale e notturna, per gli sgargianti ceroni dei personaggi, figure da gabinetto di cere, per il brulichio di alterego, per la stregheria e la scrittura-delirio, il romanzo di Meyrink partecipa dell’espressionismo. Vari elementi cospirano a dilatarne l’arcanità: influssi delle teorie voga e in genere del pensiero indiano, riferimenti al Talmud, dottrine occultistiche, bizzarrie della cabala e ogni sorta di negri prestigi. Si noti però che Meyrink, studioso di teosofia e di fenomeni metapsichici, ascrive impropriamente alla Cabala tutto ciò che ha sapore esoterico: ad esempio l’origine magica dei tarocchi e il libro Ibbuz, inesistente come il Necronomicon di cui discorre Lovecraft, benché il suo titolo riprenda un vocabolo con cui la mistica ebraica denota la “fecondazione dell’anima” (Seelenschwängtrun), ovvero l’aggiunta di una seconda anima» (Ripellino, 1973, p. 176).