- Il soggetto sperimentale come partner
- Sperimentazione nei soggetti fragili
Sandro Spinsanti
SPERIMENTAZIONI NEI SOGGETTI FRAGILI
in La ricerca scientifica al vaglio di comitati etici, I quaderni di Janus
Zadig, Roma 2007
pp. 104-111
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Finché le regole, sia metodologiche che etiche, per condurre la ricerca erano in mano ai ricercatori stessi che stabilivano autonomamente quali ricerche andavano fatte e in che modo, sono state fatte sperimentazioni su soggetti umani senza particolare clamore. Tra questi soggetti sperimentali erano compresi anche bambini e minori di età in genere. Tra la fine degli anni Sessanta del Ventesimo secolo e l’inizio del decennio successivo si è sviluppato, soprattutto negli Stati Uniti, il dibattito che porterà a riscrivere le regole del rapporto medico-paziente, e in particolare della ricerca: un’attenzione privilegiata è stata rivolta allora alla ricerca pediatrica.
Quando la ricerca pediatrica fa scandalo
Un’eloquente esemplificazione della tendenza a porre dei limiti alla discrezionalità dei ricercatori è offerta dal dibattito intorno alla ricerca nota come “Willowbrook Study”. La prima menzione la troviamo in un articolo apparso nel 1966 nel New England Journal of Medicine a firma di Henry Beecher, un anestesista di Harvard e del Massachusetts General Hospital. Beecher conosceva di prima mano la ricerca in medicina ed era paladino della sua importanza al servizio della società. Fu tra i primi a insistere sulla necessità di protocolli nella sperimentazione dei farmaci. Tuttavia, a metà degli anni Sessanta
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aveva cominciato a preoccuparsi per l’eticità del modo in cui la ricerca clinica veniva abitualmente condotta. Temeva che una ricerca dubbiosa dal punto di vista etico avrebbe potuto far impugnare la legittimità della sperimentazione, portando così discredito al principale elemento di progresso in medicina. Gli stava a cuore che una cattiva etica non compromettesse il perseguimento di una buona scienza.
Beecher aveva cominciato a raccogliere esempi di quelle che considerava ricerche di dubbia eticità, traendole da specifici protocolli di ricerca pubblicati nelle riviste mediche. Nell’articolo pubblicato nel Nejm ne elencava 22. Era una selezione arbitraria, non derivante da un’indagine sistematica, ma aveva il vantaggio di riprodurre tipici protocolli di ricerca di punta in istituzioni che avevano la leadership nella ricerca biomedica nel ventennio che va dal 1945 al 1965, un periodo in cui i ricercatori esercitavano la più ampia discrezionalità.
In tutte le ricerche riportate da Beecher la salute e il benessere dei soggetti sperimentali erano messi in pericolo, senza che gli interessati ne fossero a conoscenza e dessero la loro approvazione. Risultava che i pazienti ordinari non conoscevano i rischi per la loro salute, e talvolta per la loro stessa vita, a cui erano sottoposti per il bene della scienza.
Nell’elenco redatto da Beecher spiccava, al sedicesimo posto, la ricerca pediatrica condotta da Saul Krugman: il Willowbrook Study. Si trattava di un’infezione di epatite deliberatamente prodotta sui bambini che venivano ammessi nella scuola statale di Willowbrook per bambini ritardati mentali, alla periferia di New York, in cui era endemica una
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forma blanda di epatite. Krugman aveva disegnato una ricerca finalizzata a determinare il periodo di infettività dell’epatite e a studiare le risposte immunitarie spontanee; per questo la induceva artificialmente su un gruppo di nuovi arrivati nell’istituto.
Va aggiunto che Krugman era un ricercatore che godeva di alto credito. Dopo le ricerche condotte a Willowbrook dal 1956 al 1972, fu eletto presidente del dipartimento di Pediatria della New York University. Nel 1972 ottenne un premio dalla Markle Foundation, con una citazione che lo elogiava per aver mostrato come una ricerca clinica deve essere condotta. Nel 1983 gli fu conferita anche l’alta onorificenza del Lasker Prize.
L’intervento di Beecher fu mal recepito dalla comunità scientifica. Anche se aveva cercato di attenuarne il tono, il suo articolo costituiva la rivelazione, portata davanti al grande pubblico, di procedure contestabili dal punto di vista morale seguite nelle ricerche con soggetti umani. Era quanto avveniva in vari ambiti della medicina, non esclusa la pediatria. Per un intervento censorio di questo genere l’americano usa l’espressione del linguaggio sportivo blow whistler, che equivale al fischio con cui l’arbitro blocca un intervento falloso. Solo che in questo caso il dito veniva puntato non su procedure che avvenivano contro le regole del gioco, ma su un gioco che si svolgeva in assoluta mancanza di regole.
Per non demonizzare la sperimentazione di Willowbrook e non considerarla come frutto di cinismo e di insensibilità etica, bisogna ricollocarla nel contesto della ricerca scientifica nel periodo postbellico. La ricerca clinica è uscita dall’infanzia
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ed è entrata nell’adolescenza quando il progresso medico godeva di un primato assoluto. La generazione dei ricercatori che aveva operato durante la seconda guerra mondiale era circondata da grande prestigio. I ricercatori erano considerati eroi nel laboratorio, così come i soldati lo erano sul campo di battaglia. La ricerca creava vaccini efficaci, test diagnostici, medicine miracolose come la penicillina. Nessuno avanzava dubbi o riserve sui metodi usati.
Dopo la guerra continuò la stagione d’oro della medicina. I ricercatori fornivano prodotti straordinari: una serie di antibiotici, che assicuravano anche una cura per la tubercolosi; vari farmaci che curavano le anomalie cardiache; una nuova comprensione dell’epatite. Nessuno sognava di mettere un freno a tanta genialità e creatività, intromettendosi nei laboratori per regolare i comportamenti dei ricercatori. L’orientamento era quello di dar fiducia ai ricercatori, attendendosi da loro in cambio un successo dopo l’altro.
Se vogliamo nobilitare in senso filosofico quest’orientamento, lo potremmo qualificare come “utilitarista”: si trattava di promuovere il maggior bene per il più grande numero di persone. Nessuno si poneva il problema dei costi, tanto meno di quelli etici.
È l’atteggiamento che si intravede anche dietro la ricerca di Krugman: era animato dalla convinzione che, se avesse potuto vincere l'epatite, avrebbe procurato il bene di un maggior numero di persone. Quello che faceva, provocando l’epatite, non lo sentiva come un abuso sui bambini. Non si sentiva certo affine agli sperimentatori nazisti, ma aspirava piuttosto a diventare un grande benefattore dell’umanità.
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La ricerca era saldamente in mano ai ricercatori, i quali non ritenevano necessario chiedere il consenso ai soggetti sperimentali. Il fatto che molti di questi fossero incapaci di intendere e di volere (come per definizione avviene nel caso dei bambini) non cambiava la valutazione. Era solo un’ulteriore sottolineatura del diritto dei ricercatori di far valere il loro discernimento, e di sostituire il loro giudizio a quello dei soggetti sperimentali. Questo è contesto in cui negli anni Sessanta si cominciò a porre interrogativi sulla ricerca clinica, con alcuni ricercatori nel ruolo dei blow whistler.
La ricerca con i bambini
Le linee guida che, sotto la spinta del movimento bioetico, si sono andate imponendo non sono, di per sé, modellate sui bambini quali soggetti sperimentali. Presuppongono dei soggetti adulti, con normali capacità mentali, informati e consapevoli. Dalle ricerche vengono esplicitamente escluse donne incinte e persone la cui libertà sia compromessa (malati gravi, reclusi, persone in disperato bisogno di denaro). E naturalmente i minori.
L’argomentazione per giustificare ricerche biomediche condotte sui bambini è che, dal punto di vista fisiologico, i bambini non sono puramente dei “piccoli adulti”.
Molti farmaci, per esempio, producono effetti completamente diversi negli adulti e nei bambini. Se non sono condotte ricerche accurate sulle reazioni pediatriche a questi farmaci, i bambini rischiano di ricevere dosi troppo basse (e quindi inefficaci) o troppo alte (e quindi tossiche). Inoltre la ricerca si deve occupare anche di bambini non affetti da patologie,
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per accrescere le conoscenze sullo sviluppo normale (in riferimento, per esempio, alla resistenza alle malattie, oppure ai bisogni nutrizionali).
Se si considera la distinzione tra ricerca terapeutica e non terapeutica, la particolare condizione dei bambini fa sorgere problemi etici peculiari. Mentre per la ricerca terapeutica (quella cioè condotta avendo di mira il beneficio del bambino che vi partecipa) è facile presumere che i genitori siano autorizzati a dare il loro consenso informato al posto del bambino (così come avviene per i trattamenti curativi: la ricerca terapeutica, infatti, può essere sostanzialmente assimilata alla terapia), interrogativi notevoli sorgono per la ricerca non terapeutica. È accettabile che i genitori diano il consenso anche per questo tipo di ricerca?
Due posizioni contrapposte si sono evidenziate tra gli esperti di bioetica. Una risposta negativa è stata data da Paul Ramsey. A suo avviso, la ricerca pediatrica non terapeutica non può essere giustificata eticamente, in quanto nessuna sperimentazione può essere fatta senza il consenso del soggetto sperimentale e i genitori non possono prendere decisioni che non siano direttamente finalizzate al bene del figlio, di cui hanno la cura e la responsabilità.
Sul polo opposto si colloca invece Richard McCormick, secondo cui quando la ricerca pediatrica non terapeutica comporta rischi minimi, mentre promette un beneficio sostanziale a molti altri bambini, può essere autorizzata. Il fondamento di questa tesi McCormick lo cerca non nell’utilitarismo, ma in una visione sociale della natura umana. Tutti i membri della società sono interdipendenti e hanno perciò un
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minimo di doveri morali gli uni nei confronti degli altri. Anche i bambini, come membri della società, hanno quest’obbligo e, analogamente agli adulti, devono promuovere il bene sociale. Ciò legittima i genitori a dare un consenso (proxy consent) perché partecipino a ricerche che includano un rischio minimo.
Le due posizioni possono essere esemplificate prendendo in considerazione un caso ipotetico. Immaginiamo che un ricercatore progetti di prelevare piccoli campioni di sangue da neonati per cercare di capire perché questi bambini sono naturalmente immuni da certe malattie. Supponiamo anche che lo scopo del ricercatore sia quello di sviluppare, a lungo termine, un vaccino contro la polmonite da utilizzare a vantaggio dei neonati. Dal momento che la ricerca non è diretta a procurare il beneficio immediato dei neonati a cui viene prelevato il sangue, non sarebbe moralmente accettabile, secondo la prospettiva di Ramsey.
Dal punto di vista di McCormick, invece, la ricerca ricadrebbe entro l’ambito di ciò che i neonati sono “tenuti” a fornire alla società, cosicché la ricerca potrebbe essere considerata moralmente corretta.
Come si intuisce, una posizione è più sensibile alla protezione del bambino da ogni possibile prevaricazione, mentre l’altra è più rivolta alla promozione della ricerca scientifica, necessaria per una medicina di qualità.
Le linee guida pratiche devono cercare di integrare le due preoccupazioni. Una solida base di consenso è possibile. Lo dimostrano le linee guida elaborate dall’Associazione pediatrica britannica nel 1980.
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Può essere utile riportare le quattro premesse che, secondo questo documento, possono essere accettate universalmente come base per elaborare regole più dettagliate:
― la ricerca che implica i bambini apporta importanti benefici a tutti i bambini; deve essere sostenuta e incoraggiata, e condotta in modo etico
― la ricerca non deve mai essere fatta sui bambini se la stessa ricerca può essere fatta su adulti
― la ricerca che implica un bambino e non porta un beneficio a questo bambino (ricerca non terapeutica) non è necessariamente contraria all’etica o alla legge
― il grado di beneficio che risulta dalla ricerca deve essere stabilito in rapporto al rischio di disturbo, disagio o dolore (rapporto rischio-beneficio).