Sandro Spinsanti
IN BRACCIO ALLE GRAZIE, ALLA FINE DELLA VITA
Affiliazione Università degli Studi di Trento
Abstract
È possibile morire in braccio alle Grazie? Ripercorrendo il passo di Foscolo, l'autore riflette sulle criticità etiche legate al fine vita, e propone un percorso per interpretare il momento della morte da una prospettiva diversa. Un percorso che è anche un compito spirituale e un impegno etico, se vogliamo allinearci con la moderna cultura del vivere e del morire; ovvero di quel vivere che comprende anche il morire.
No, non si tratta di una mossa strategica per deviare il discorso, pilotando l’attenzione su Eros per distoglierla da Thanatos… La proposta di una morte in braccio alle Grazie – questa la formulazione più appropriata, piuttosto che una morte “graziosa” – vuol indicare un percorso. Andare incontro alla morte muovendosi nel territorio che Ugo Foscolo, a suo tempo, aveva indicato come quello dove si possono incontrare le Grazie. In questa prima fase della nostra riflessione consideriamo le tre divinità come un’unità; in un secondo momento le chiameremo per nome e indicheremo la specificità di ognuna, a beneficio del percorso che ci fa approdare nel loro abbraccio, alla fine della vita.
Il riferimento è alle divinità che la mitologia greca ha posto a tutela della bellezza. Quelle che ci vengono incontro nella rappresentazione scultorea che ne ha fatto Canova; o che danzano leggere nella Primavera di Botticelli. Ci domandiamo, dunque: è possibile morire in braccio alle Grazie? Ugo Foscolo, che ha riflettuto a lungo sulle Grazie, dedicando loro un poema incompiuto, ha osservato che le Grazie rimandano a stati d’animo che si collocano tra «la smodata gaiezza e il profondo dolore» (Foscolo 1966). Mutuiamo dal poeta i due pilastri che delimitano il territorio nel quale aspiriamo a incontrare le Grazie quali numi tutelari della “bella morte”, intesa come ideale etico dei nostri giorni.
A un estremo collochiamo il “profondo dolore”. Parliamo proprio del dolore fisico. Non si può morire in braccio alle Grazie se non viene fatto quanto è possibile per tenere sotto controllo
il dolore. Senza trionfalismi inappropriati – i clinici affermano che rimane pur sempre circa un 5% di forme cliniche di dolore resistente rispetto alle quali anche la migliore medicina antalgica risulta impotente – siamo tuttavia consapevoli che mai la nostra capacità di controllare il dolore è stata così sviluppata come ai nostri giorni. Purtroppo, essere in grado di controllare il dolore non sempre si traduce in un’azione concreta. Un documento del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), “La terapia del dolore: orientamenti bioetici” (CNB 2001) introduceva la necessità di dare uno spazio prioritario nella nostra agenda etica e sanitaria alla lotta al dolore non necessario con un rilievo che suona come una accusa di omissione da parte della medicina: «Tra quanto è possibile e giusto fare per eliminare e controllare il dolore fisico e quanto in pratica viene fatto riscontriamo una vistosa differenza» (Mann 1992). Una differenza non solo vistosa: la possiamo anche francamente qualificare come scandalosa.
Non si può morire bene se dolore e sintomi devastanti sconvolgono la fase terminale della vita. Il percorso culturale che identifica nella terapia del dolore un aspetto prioritario della sanità pubblica ha prodotto anche una legge: “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”(1). L’obiettivo finale è che nasca nei cittadini la consapevolezza che avere accesso alle misure mediche per tenere sotto controllo il dolore è un loro diritto; e per i professionisti sanitari un dovere inderogabile fornirle.
La lotta al dolore è prioritaria in tutto l’ambito delle cure mediche. Ma diventa assolutamente indispensabile se si vuol propiziare la conclusione della vita nell’abbraccio delle Grazie.
Non è solo l’insensibilità di qualche professionista che distoglie dall’impegno nel contrastare il dolore. Paradossalmente, anche l’etica medica tradizionale può congiurare per demotivare i professionisti da questo impegno.
C’è una celebre pagina letteraria, tratta dal romanzo "I Buddenbrook"- di Thomas Mann, che ci permette di dare concretezza all’affermazione che anche l’etica può contribuire a relegare in secondo piano la lotta contro il dolore. In una scena culminante, l’anziana madre del console Thomas Buddenbrook giace sul letto di morte. L’agonia si protrae dolorosamente. La morente, in grandi difficoltà respiratorie, chiede ai due medici che l’assistono un calmante per dormire. Supplica: «… Qualcosa per dormire … Dottori, per pietà! Qualcosa per dormire!» (Mann 1992). Ma i medici ritengono che l’azione di un sedativo abbrevierebbe la vita; per cui respingono la richiesta, rifacendosi a dei vaghi motivi etici che non sanno articolare, ma che nondimeno sentono come vincolanti.
Annota Thomas Mann:
«Ma i medici conoscevano il loro dovere. Bisognava in ogni caso conservare ai parenti il più a lungo possibile quella vita, mentre un calmante avrebbe subito provocato la resa dello spirito senza più opposizione. I medici non sono al mondo per facilitare la morte, ma per conservare la vita a qualunque prezzo. In favore di ciò spingono anche certi principi religiosi e morali, dei quali avevano sentito parlare all’università, anche se in quel momento non se li ricordavano bene» (Mann 1992).
Questo tipo di sensibilità morale fa sì che la madre del console Buddenbrook muoia al termine di un’agonia terribile, per la quale i medici hanno ritenuto loro dovere non fare niente, per quanto la morente abbia cercato di indurli a lenire il dolore appellandosi alla loro compassione. Consideravano, infatti, il dolore della morente come un dolore necessario. La nostra sensibilità morale si ribella. Eppure dobbiamo riconoscere che la tendenza che Thomas Mann rileva nella medicina del XIX secolo (ispirata a un’etica che imponeva al medico l’obbligo di far vivere l’ammalato il più a lungo possibile, senza individuare anche nel lenimento del dolore un dovere etico stringente) non è estranea alla medicina del nostro tempo. Se identifichiamo come obiettivo della medicina esclusivamente la guarigione, rischiamo di entrare nel vicolo cieco che coinvolge la medicina medesima: si sente mobilitata a fare tutto il possibile per guarire, ma non fa niente – o quanto meno non agisce con un impegno analogo – per sedare il dolore.
All’altro estremo per delimitare il territorio delle Grazie, Foscolo colloca “la smodata gaiezza” (Foscolo 1966). Non credo che il poeta correlasse questo stato d’animo con la morte. Neppure pensando al suo Jacopo Ortis, che si compiace morbosamente nel percorso che lo porterà al suicidio. Ai nostri giorni, purtroppo, dobbiamo farlo. Il pensiero corre ai cosiddetti “martiri”, che concludono la propria vita in una morte cercata. E selvaggiamente procurata, a quante più persone possibile. Distanziandoci dall’ambito del terrorismo jihadista e del sadismo autodistruttivo, possiamo trovare altri esempi in cui il morire avviene in uno stato d’animo di “smodata gaiezza”. Un esempio indimenticabile è la morte del “Malato di cuore” cantato da Fabrizio de Andrè, rivisitando alcuni epitaffi dell’"Antologia di Spoon River" di Edgar Lee Masters. La morte coglie il giovane nell’estasi amorosa, nella quale si era gettato infrangendo le limitazioni che gli imponeva la sua patologia.
Concludere la vita in un raptus erotico: anche questo per qualcuno può essere qualificato come “chiudere in bellezza”. Ma non è quello che intendiamo quando, adottando il magistero foscoliano, parliamo di “morire in braccio alle Grazie” nello spazio emotivo che si apre tra la smodata gaiezza e il profondo dolore. Teniamo fuori dalla nostra considerazione anche chiva incontro alla morte per decisione suicidaria, sia che il suicidio avvenga per mano propria o con l’assistenza altrui. Isoliamo la questione della fine volontaria della vita affinché emerga
con più chiarezza il percorso che ci porta, al termine dell’esistenza, attraverso le scelte nostre e di coloro che ci accompagnano, nelle braccia delle Grazie.
A questo punto sentiamo la necessità di chiamar le tre Grazie per nome. Hanno nomi che, seguendo la loro etimologia, contengono un programma. Talia evoca accrescimento, abbondanza;
Eufrosine equivale a felice equilibrio; Aglaia contiene in sé la serenità. E dunque: la morte può essere crescita? Si può morire in uno stato d’animo equilibrato, avvolti in un manto di serenità? È questa, in concreto, la sfida.
La prima Grazia a cui ci affidiamo è Eufrosine. La mente saggia (phronesis) tiene sotto controllo le emozioni e guida le scelte. Soprattutto, riguarda la scelta fondamentale: il giusto equilibrio (eu) tra interventi curativi e cure palliative. Ciò richiede il saper cambiare marcia quando la morte è inevitabile. Dal c.d. accanimento terapeutico possiamo aspettarci solo una morte peggiore. In un convincente capitolo del libro di Atul Gawande: "Con cura. Diario di un medico deciso a fare meglio" troviamo una descrizione operativa della desistenza terapeutica. Afferma il noto medico-scrittore: «Un tempo pensavo che la cosa più ardua del mestiere di medico sia acquisire le necessarie competenze... mi sono reso conto che la cosa più difficile è capire dove comincia e dove finisce il nostro potere... Oggi disponiamo delle sofisticate risorse della medicina moderna. Imparare a usarle è piuttosto difficile. Ma la cosa in assoluto più difficile è comprenderne i limiti... La regola in apparenza più semplice e sensata da seguire, per un medico, è ‘lottare sempre’, cercare sempre qualcosa di più da fare. È il modo migliore per evitare l’errore peggiore, quello di arrendermi con qualcuno che avremmo potuto aiutare... È vero che il nostro compito è ‘lottare sempre’. Ma lottare non significa necessariamente fare di più. Significa fare la cosa giusta per il paziente, anche se non è sempre chiaro che cosa sia giusto» (Gawande 2007).
Un secondo elemento costituisce il felice equilibrio per il quale dobbiamo mobilitare tutta la saggezza di cui siamo capaci: quello tra ciò che siamo capaci di sopportare e ciò che eccede le nostre forze. A cominciare dall’esposizione alla realtà dei fatti. Alcuni preferiscono sapere quando la morte è imminente; altri preferiscono andarle incontro a occhi chiusi, o guardando da un’altra parte. Senza dimenticare la possibilità di un’ambivalenza tra ciò che si dichiara di voler sapere e la volontà inconscia di ignorarlo.
Anche la misura della tollerabilità del dolore è soggettiva. Per alcune persone la soglia è più alta, per altre più bassa. In ogni caso, nessuna esaltazione spiritualistica del valore del dolore autorizza a infliggerlo ad altri. A questo proposito, è utile riportare una testimonianza commovente comunicata da un professionista del settore. Una suora affetta da un carcinoma e prostrata da un dolore che i sanitari non avevano degnato di considerazione, si rivolge a un medico palliativista. Questi imposta, con successo, una terapia antalgica. Dopo un po’ di tempo la suora ritorna dal curante per ringraziarlo e per chiedergli di proseguire nel trattamento: «Prima non riuscivo neppure più a pregare! Lo combatta, dottore; ma non elimini il dolore del tutto. Me ne lasci un pochino: mi ricorda la mia vocazione…». Ecco: la giusta misura può essere trovata solo dalla persona coinvolta, capace di stabilire il felice equilibrio.
Su questo orizzonte troviamo, alla fine del percorso, la possibilità di una sedazione profonda, che tolga la coscienza. Quando i sintomi sono refrattari – basti pensare alle difficoltà respiratorie connesse con un’apnea incontrollabile – il malato può trovare sollievo in un intervento farmacologico che lo deconnetta in modo irreversibile. Anche il Comitato Nazionale per la Bioetica è giunto ad accettare questa possibilità, senza che nessuno sia autorizzato a evocare lo spettro dell’eutanasia (CNB 2016).
La serenità, che è il dono di Aglaia, per molte persone è collegata con la convinzione di avere il controllo del processo del morire. «Sapere che ho la medicina in tasca mi dà serenità»: è stata la dichiarazione, molto reclamizzata dai media, di Brittany Maynard, la giovane donna americana affetta da un carcinoma inarrestabile al cervello che ha deciso di accelerare la parabola della fine prima che la malattia producesse tutta la sua opera di devastazione. Non tutti si spingono fino a questi limiti del controllo del processo di morte, richiedendo un intervento attivo per abbreviare il processo di degradazione fisica. Ma in tutto lo spettro delle posizioni etiche si registra un consenso crescente sul diritto all’autodeterminazione che comporta il rispetto della volontà di porre dei limiti ai trattamenti, espressa prima di perdere la facoltà di esternarla.
Anche il Codice di deontologia dei medici italiani, nella versione del 2006, riconosce esplicitamente tale diritto all’articolo 38: «Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tener conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato»(2). Siamo nell’ambito delle direttive anticipate. Sapere che le decisioni conflittuali che spesso sorgono sull’ultima soglia terranno conto in modo determinante di ciò che abbiamo avuto cura di indicare come auspicabile per noi può costituire una grande fonte di serenità. Così pure la certezza che la nostra volontà può essere autorevolmente rappresentata da un fiduciario da noi designato o da un amministratore di sostegno. Negli ultimi decenni del XX secolo il movimento della bioetica ha dato scacco matto al paternalismo del passato, rivendicando il diritto all’autodeterminazione. È come se l’auspicio di Kant relativo all’uscita da una minorità non dovuta si fosse realizzato in medicina con due secoli di ritardo. Solo con l’informazione appropriata possiamo essere protagonisti delle decisioni che ci riguardano, comprese quelle di fine vita. L’abbraccio più difficile è quello di Talia: la morte come compimento di un percorso che conduce alla pienezza della propria umanità. Il nome rimanda, etimologicamente, alla fioritura e alla maturazione. Abbiamo tutti un doppio lavoro nella vita: costruire il proprio Io e poi quello di superarlo, confluendo in quella dimensione che
possiamo chiamare “transpersonale”. È una prospettiva pensabile sia in un orizzonte religioso che in uno immanente. Non solo i credenti possono guardare oltre la fine della propria vita, considerandola come un compimento. Eufrosine, Agalia, Talia: una morte “graziosa”, in braccio a voi, è il supremo dono che la vita ci può offrire. Ma anche un compito spirituale e un impegno etico, se vogliamo allinearci con la moderna cultura del vivere e del morire; ovvero di quel vivere che comprende anche il morire.
NOTE
1. Legge 15 marzo 2010, n. 38, “Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”, cfr. http://www.parlamento.it/parlam/leggi/10038l.htm
2. Codice di Deontologia Medica (2006), art. 38, cfr. https://goo.gl/S1Zm3m.
*Per un approfondimento, si veda il volume Sandro Spinsanti (2017), Morire in braccio alle Grazie. La cura giusta nell’ultimo tratto di strada, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma (N.d.R.).
BIBLIOGRAFIA
• Comitato Nazionale per la Bioetica (2001), La terapia del dolore: orientamenti bioetici. Cfr. https://goo.gl/ovycXU.
• Comitato Nazionale per la Bioetica (2016), Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte, cfr.
• http://bioetica.governo.it/media/170736/p122_2016_sedazione_profonda_it.pdf
• Foscolo U. (1966) Le Grazie, in Opere (collana I Classici italiani), Mursia, Milano
• Gawande A. (2007), Con cura. Diario di un medico deciso a fare meglio, Einaudi, Milano.
• Mann T. (1992,) I Buddenbrook, tr. it. Il Corbaccio, Milano.
• Masters E.L. (2017), III edizione, Antologia di Spoon River, traduzione a cura di Fernanda Pivano, Giulio Einaudi Editore, Torino.