Una sfida alla vita religiosa: l’ecumenismo

Book Cover: Una sfida alla vita religiosa: l'ecumenismo
Parte di Ecumenismo series:

Sandro Spinsanti

UNA SFIDA ALLA VITA RELIGIOSA: L'ECUMENISMO

Edizioni Paoline, Alba 1976

pp. 71

INDICE

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5       Introduzione

7       L’ecumenismo al di là della moda per l’ecumenismo

11     La vita religiosa nelle vicende storiche dell’unità dei cristiani

12     Lo scandalo protestante per la vita religiosa

14     La riscoperta della vita comunitaria

16     Comunità religiose di indirizzo ecumenico

27     La vita religiosa segno di contraddizione

28     Discepoli di Cristo o discepoli dei Farisei?

35     Critica dei modelli soggiacenti alla vita religiosa

42     Vivere l’ecumenismo

42     L’ecumenismo come prassi di tutta la Chiesa

44     L’ecumenismo come dialogo

47     L’ecumenismo come riforma e conversione

51     Conoscersi per amarsi

53     L’unità nel servizio all’uomo

56     La vita religiosa secondo lo spirito delle beatitudini

56     La felicità come progetto e come dono

59     Il Cristo, l’uomo della felicità del Regno

60     Una felicità che crea una festa intima

63     Nuovi rapporti umani nello spirito delle beatitudini

66     Spunti di revisione di vita

68     Bibliografia

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INTRODUZIONE

Capita frequentemente di imbattersi in istituti religiosi e case generalizie imponenti per la loro grandiosità. Si presentano come costruzioni solide, riflesso di una sicurezza interiore, destinate a sfidare l’usura del tempo. Eppure sulla maggior parte dei portoni di quelle case si potrebbe appendere il cartello: «Chiuso per restauri». Le comunità religiose sentono il bisogno di una pausa di ripensamento; anche quando non ne sentissero psicologicamente il bisogno, vi sono costrette dalle circostanze. All’interno sono travagliate, infatti, dall’assenza di vocazioni, da abbandoni, da un senso di diffuso disagio. Non sono solo istituzioni che crollano, ma anche coscienze che si lacerano. L’abito religioso sta stretto, e ciò anche là dove si è cambiato il saio con il clergyman, le gonne sono state accorciate di qualche centimetro e gli abiti hanno acquistato in praticità. All’esterno la vita religiosa diventa sempre più estranea alla cultura secolare. La sua testimonianza cade nel vuoto. Con crescente angoscia ci si domanda come far passare il messaggio evangelico nella civilizzazione di massa.

Esiste infine una causa di ripensamento teologico-ecclesiale. Il Concilio, nonostante i tentativi successivi di recupero, ha posto in modo irreversibile il problema di una nuova identità ecclesiale. Caduti i baluardi eretti dall’integrismo, i cattolici sono stati invitati a confrontarsi nel dialogo con i fratelli che si richiamano a Cristo in maniera diversa da come è invalso nella Chiesa cattolica romana.

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L’apertura ecumenica è solo una provocazione, un problema ulteriore per la vita religiosa, oppure è una chanche che non deve essere lasciata cadere?

Prendere sul serio le istanze, i rifiuti, le rimesse in discussione che derivano dai modi diversi di intendere e di obbedire al Vangelo, è solo un’altra causa di turbamento, oppure è un aiuto fecondo per ripensare la vita religiosa?

Si può rispondere in modo responsabile a queste domande solo se si tiene presente che cosa significa l’ecumenismo per la Chiesa intera.

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L’ECUMENISMO AL DI LÀ DELLA MODA PER L’ECUMENISMO

Pochi cristiani, che abbiano avuto la loro formazione religiosa negli anni più recenti, sospetterebbero che l’ecumenismo sia una pianta molto giovane. I suoi rami sono cosi estesi da dare l’impressione che da sempre stiano lì a proteggere le iniziative più svariate che vanno a rifugiarsi alla sua ombra: riunioni di preghiera, colloqui teologici, iniziative pastorali, azioni caritative o assistenziali. L’ecumenismo sembra diventato la versione moderna di quel manto della Vergine che vediamo in certi quadri tardo-medievali, sotto le cui ampie falde si rannicchiano, con beata espressione di sicurezza, gruppi di devoti.

L’ecumenismo tra i cristiani è invece una realtà recente. E tra i cattolici ancor più recente che presso i cristiani delle altre confessioni. Nel 1919, l’arcivescovo luterano di Uppsala, Soederblom, scrisse un articolo nel quale, per la prima volta, proponeva un «Consiglio ecumenico delle Chiese». Il tipografo compositore pensò a un errore di scrittura dell’ecclesiastico e stampò: «Consiglio economico delle Chiese». Non era solo il termine che costituiva un’innovazione. Anche ciò che il termine voleva esprimere, cioè quell’atteggiamento nuovo da inaugurare tra i cristiani, costituiva qualche cosa di inedito. Le separazioni ecclesiali avvenute nel corso dei secoli, cementate dalle polemiche dottrinali e bagnate dal sangue delle guerre di religione, avevano indurito i cuori e deformato lo sguardo. Ancor più funesta delle esplosioni di odio e delle espressioni di intolleranza era la convinzione tetragona di essere, con

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la propria Chiesa, nel giusto, e di non aver altro da fare che aspettare la conversione e il ritorno dell’«altro», della pecora fuggita dall’ovile.

Il movimento ecumenico, sorto all’inizio del secolo ad opera di un drappello tanto sparuto quanto coraggioso di precursori, non tardò a diffondersi tra le Chiese della Riforma. Nel 1948 veniva fondato ad Amsterdam il Consiglio ecumenico delle Chiese. I cattolici tuttavia continuavano a guardarlo con diffidenza. Ancora nel 1949 un’istruzione del S. Uffizio metteva in guardia i fedeli cattolici contro i pericoli dell’ecumenismo. I vescovi erano esortati a vigilare perché «col pretesto che si dovrebbe dare maggiore considerazione a quanto ci unisce che a quanto ci separa dagli acattolici, non venga favorito l’indifferentismo». Bisognava attendere ancora tre lustri, perché il decreto conciliare sull’ecumenismo riconoscesse un disegno della grazia di Dio nel diffondersi «nei cristiani tra loro separati l’interiore sentimento di penitenza e il desiderio dell’unione»: «numerosissimi ovunque sono gli uomini penetrati da questa grazia, e anche tra i nostri fratelli separati è sorto, per grazia dello Spirito Santo, un movimento di giorno in giorno più grande per il ripristino dell’unità di tutti i cristiani»; e il documento invita quindi i cattolici a unirsi agli sforzi comuni per l’unità (cf UR, 4).

Questa premessa era necessaria. Non fa piacere disturbare la gioia della festa col ricordo dei ritardi nella preparazione di essa; tuttavia è necessario tener presente le tappe dell’apertura dei cristiani all’ecumenismo per non cadere in un trionfalismo euforico. Il rischio più grave per l’ecumenismo potrebbe proprio essere quello costituito dal suo successo rapido e troppo facile. Un passaggio indolore dall’apologetica antiprotestante alla professione di ecumenismo non è esente da sospetto. Non si rischia di continuare a vendere la stessa merce, dopo aver cambiato solo la carta d’imballaggio?

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Restringendo il campo di osservazione alle comunità religiose, dobbiamo domandarci a che livello abbiano fatto propria la svolta ecumenica della Chiesa conciliare; quale sia la qualità dell’ecumenismo che vi si professa. Certo non c’è oggi comunità religiosa che non celebri almeno la settimana di preghiere per l’unità dei cristiani, dal 18 al 25 gennaio. La preghiera per l’unità è diventata una pratica di pietà abituale; forse però non è niente più che questo: una pratica tra altre. Quand’anche l’ecumenismo avesse un posto privilegiato tra gli interessi spirituali di coloro che vivono in una comunità la loro consacrazione al Signore, non si potrebbe ancora concludere che sia resa pienamente giustizia alla causa ecumenica. Questa è estremamente esigente. Domanda molto più che qualche pratica di pietà o qualche iniziativa: richiede una vera e propria conversione.

L’interesse per l’ecumenismo, dopo aver pagato il suo tributo alla moda nella fervida stagione post-conciliare, è sensibilmente rifluito. Questo fatto può essere valutato positivamente, come occasione di sereno ripensamento e di approfondimento. Le comunità ecclesiali, nelle più diverse conformazioni, hanno ora la possibilità di appropriarsi l’ecumenismo, assimilandolo profondamente Dopo la recente esplosione, improvvisa e travolgente come lo sboccio dell’adolescenza, è necessario un periodo di consolidamento. Questo è il momento di una crescita non vistosa, ma non per questo meno importante.

Noi vogliamo appuntare la nostra attenzione sul coinvolgimento ecumenico delle comunità religiose. Escludiamo fin dall’inizio un approccio irenico, che consista nel semplice accostamento della vita religiosa e dell’ecumenismo ― come se la vita religiosa non fosse là altro che per aprirsi alla causa ecumenica o l’ecumenismo non attendesse che a ingrossare le proprie fila con l’adesione delle comunità religiose —. Il loro rapporto è estremamente più complesso. Ce lo attesta la storia. Come vedremo dettagliatamente, essa registra un rifiuto, di fatto e di principio, della vita religiosa da parte di tutte le Chiese che si richiamano

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alla Riforma. D’altra parte, alcune comunità religiose sono sorte proprio dall’esperienza ecumenica o hanno incontrato l’ecumenismo sulla loro strada. Questi fatti dovranno essere presi in considerazione. E si rifletterà anche sul senso teologico di questo essere segno di contraddizione. Tuttavia, se riconosciamo con il Concilio che il movimento ecumenico è sorto carismaticamente per un passaggio dello Spirito Santo nella nostra epoca, siamo autorizzati a vedervi una speranza per il rinnovamento di ogni forma di vita ecclesiale. Anche della vita religiosa.

Nell’ecumenismo può essere contenuta la grazia per il tempo della crisi. Piuttosto che aggiungere un’altra voce al coro delle geremiadi, vai meglio mettersi alla ricerca delle possibilità di rinnovamento che lo Spirito oggi ci offre. Anche se si tratta di un rinnovamento molto più radicale di un semplice «aggiornamento»; anche se si tratta di entrare forse nel dinamismo pasquale che fa passare attraverso la morte per entrare nella vita nuova.

L’ecumenismo è per la vita religiosa speranza di vita nuova. Non nel senso che offra una formula infallibile di rinnovamento. Neppure può suggerire le trasformazioni strutturali necessarie. Anche le comunità religiose ecumeniche delle quali parleremo non devono essere intese come modelli da copiare; del resto, esse stesse non esauriscono le possibilità che l’esigenza di «ecumenicità» pone alla vita religiosa. L’ecumenismo fa sentire la sua azione più in profondità, là dove sgorga originariamente l’intenzione di alcuni uomini e di alcune donne di consacrarsi insieme al Signore, nella sua Chiesa, per il bene di tutti gli uomini. Proprio a queste profondità vogliamo spingerci. Lo facciamo con timore e tremore, perché sappiamo che è facile scambiare i propri monologhi di saggezza umana per voce dello Spirito. Ma osiamo con fiducia, perché sappiamo che una tale audacia ci è comandata dal Signore stesso.

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LA VITA RELIGIOSA

NELLE VICENDE STORICHE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI

La crescita dei cristiani verso l’unità, che prende globalmente il nome di movimento ecumenico, ha seguito diverse strade. C’è stata anzitutto la presa di coscienza di alcuni precursori isolati, che hanno scosso le Chiese costituite richiamandole allo scandalo intollerabile della divisione (P. Portal e Lord Halifax, P. Couturier, gli animatori dei movimenti «Vita e Azione» e «Fede e Costituzione»). È seguita poi la lenta ma efficace azione dei rappresentanti delle istituzioni ecclesiastiche, che ha fornito le strutture necessarie perché il movimento penetrasse in tutta la cristianità.

Un altro cammino è stato quello delle comunità religiose. Tra ecumenismo e vita religiosa ci fu un’influenza reciproca: le comunità religiose furono attratte dall’ecumenismo (specialmente i grandi Ordini tradizionali — benedettini, francescani, domenicani — che fondarono propri centri ecumenici di grande valore culturale) e, inversamente, la ricerca dell’unità fece sorgere comunità religiose nuove. Il contributo di queste comunità alla causa ecumenica non può essere disatteso.

Tuttavia non bisogna dimenticare che la vita religiosa nel dialogo ecumenico ha anche una rilevanza di valore opposto. La vita religiosa non è solo una chance per l’unità, ma anche uno scandalo, che provoca divisione. Il mondo della Riforma nutre nei confronti della vita religiosa una secolare tradizione di condanna e di sospetto che risale agli stessi grandi riformatori. Il monachesimo, insieme alla sua giustificazione

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teologica e alle forme di vita spirituale da esso derivate, ha inciso in modo determinante nel complesso di cause che hanno portato alla rottura del XVI sec. in seno alla cristianità occidentale. Ci limitiamo ora a documentare la duplice valenza della vita religiosa rispetto all’unità. Successivamente tenteremo di darne un’interpretazione teologica, tenendo anche presente l’influenza dei fattori culturali.

Lo scandalo protestante per la vita religiosa

Durante il periodo, purtroppo molto lungo, nel quale prevalse l’odio confessionale e la polemica apologetica, l’immagine prevalente di Lutero che si trasmise in campo cattolico fu quella del cattivo monaco, abisso di malvagità, prodotto del diavolo. Era presentato come l’eresiarca che con i suoi errori ha condotto innumerevoli anime alla perdizione e ha distrutto l’unità della Chiesa. Facilmente si riduceva il dramma della Riforma alla tesi: Lutero si è ribellato contro la Chiesa perché non riusciva più a sopportare i voti monastici e voleva sposare Caterina Bora. Questa caricatura offende la figura religiosa e morale del riformatore ed è contraria alla verità storica. Lutero non fu un cattivo monaco, ma un monaco fervente, che prese sul serio la vita religiosa. Finché la considerò come la via per conseguire la salvezza, la percorse con coerenza e generosità. Ma quando elaborò la sua intuizione fondamentale sulla salvezza per sola grazia credette di comprendere che la volontà di santificarsi mediante la vita monastica era antievangelica. Abbandonò allora il convento e scelse la condizione laicale nel mondo come luogo in cui rispondere alla chiamata a seguire Cristo.

Il riformatore prese posizione contro la vita monastica soprattutto nel suo celebre scritto del 1522 Sui voti monastici: la rifiuta non per lassismo morale, ma perché la sente contraria al principio evangelico della salvezza per grazia.

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Non si indigna tanto per la decadenza della vita nei conventi — che era reale al suo tempo — si volge piuttosto contro quella che era considerata la più pura realizzazione della vita monastica: una via di perfezione più alta di quella del resto del popolo cristiano, la quale, in forza delle «opere buone», porta a capitalizzare meriti e ad acquistare la propria giustificazione. Un austero monaco di questo tipo era stato egli stesso. E proprio un tale monaco gli appare ora come il rappresentante della giustificazione antievangelica. Rifiuta la vita monastica tradizionale, i voti in particolare; con ciò intende soprattutto affermare positivamente l’impotenza dell’uomo a salvarsi e il trionfo della grazia di Dio che salva per pura benevolenza.

Anche Calvino prese posizione contro lo stato della vita religiosa, ma non per i motivi di Lutero, che vedeva in esso la perfetta antitesi alla vita cristiana. Calvino fu colpito soprattutto dallo stato di decadenza spirituale e morale in cui si trovavano numerosi monasteri.

Egli tratta dei voti monastici nella sua Institutio christianae religionis, là dove parla del modo di andare a Dio. Comincia col mettere il dovuto accento sul «voto» del battesimo, come perpetua e totale offerta di tutto se stesso al Signore. Relativizza perciò gli altri voti, riservando loro il compito di essere espressione dì gratitudine, di ringraziamento, di riparazione; è necessario, a questo fine, che siamo ridotti nel numero, sobri e temporanei. Per i voti monastici il riformatore ginevrino è più severo, in conseguenza della loro pretesa di costituire coloro che li emettono in uno speciale «stato di perfezione». Il voto di castità perpetua, in particolare, fa di questa «vita angelica» un’«arroganza diabolica», una «sacrilega audacia».

I riformatori intendevano rifarsi alle origini del cristianesimo, inaugurare uno stile di vita cristiana di tipo evangelico, sbarazzandosi delle sovrastrutture medievali che deformavano o offuscavano il messaggio di Gesù. La vita religiosa, così come aveva preso forma nella cristianità,

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era sentita come uno di questi elementi deformati. Ma il monachesimo era assolutamente inconciliabile con la dottrina della giustificazione attraverso la sola grazia? Non era possibile un nuovo monachesimo, che rinunciasse all’autogiustificazione? Questi interrogativi non furono posti allora, all’alba della Riforma. Il movimento assunse una posizione radicale e spazzò via quasi ogni forma di vita monastica nei territori che aderirono al rinnovamento evangelico. L’atteggiamento critico dei padri spirituali della Riforma passò nei documenti ufficiali (così gli Articoli di Smalkalda del 1537 chiedono l’abolizione dei voti perché costituiscono una «bestemmia contro Dio»). L’avvenire delle Chiese riformate nei confronti della vita religiosa era così fissato per secoli.

La riscoperta della vita comunitaria

Malgrado l’ostilità dichiarata per la vita religiosa, il mondo delle Chiese uscite dalla Riforma riscoprì i valori evangelici di cui essa poteva essere espressione. I risvegli della vita comunitaria e la rinascita di ordini religiosi non germinarono dal pensiero dei Padri della Riforma; neppure ebbero origine per l’influenza di ciò che pur continuava ad esistere nella Chiesa cattolica. Le nuove forme evangeliche di vita religiosa sono derivate piuttosto dal rinnovamento della teologia e dallo sviluppo del movimento ecumenico.

È opportuno tener presente anche il modo giocato nel rinnovamento dalla situazione politico-sociale generale. Così, per esempio, tutti gli avvenimenti che seguirono la seconda guerra mondiale: spostamenti di popolazioni, campi di rifugiati, trasformazione collettiva di ideologie e di modelli etici. In Germania il crollo del nazismo segnò anche la fine dell’epoca borghese, il cui cardine era l’individualismo. L’epoca che sorge sarà più permeabile al valore della vita comunitaria, del legame fraterno e dell’incorporazione

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alla Chiesa. La tragedia della guerra influì anche sull’aspetto penitenziale e sul senso escatologico che ebbe, in alcune comunità, il rinnovamento religioso.

La riscoperta della vita religiosa è stata resa possibile soprattutto dal rinnovamento teologico. La rivoluzione portata in teologia da K. Barth aveva la sua espressione positiva nell’orientamento a Gesù Cristo, come norma di tutte le cose. Centrandosi su questo essenziale, un numero crescente di cristiani poteva sottrarsi al processo di assimilazione al mondo. Tramontava così l’epoca del trionfo ambiguo della teologia liberale, in cui il cristianesimo veniva ridotto a una forma di umanesimo. I cristiani che ritrovavano l’audacia di confessare Cristo come Signore, si scoprivano disponibili per avventure spirituali ancora più esigenti.

Un’influenza notevole fu anche quella esercitata dal teologo Dietrich Bonhoeffer, sia attraverso l’esperienza comunitaria da lui animata, sia attraverso alcuni suoi scritti in proposito. Nel 1935 egli fu incaricato, dalla «Chiesa confessante» tedesca, di dirigere un seminario in cui potevano formarsi i pastori che non volevano entrare nei quadri della Chiesa ufficiale, succube del nazismo. Bonhoeffer teneva in alta considerazione la «vita communis». Scriveva al fratello: «La restaurazione della Chiesa viene certamente da una specie di nuovo monachesimo, che ha di comune con l’antico solo la mancanza di compromessi di una vita secondo il discorso della montagna nella sequela di Cristo. Credo che spetti a questa epoca radunare gli uomini per questo».

Nella pace di Finkenwalde egli poté realizzare una comunità di questo tipo; conduceva con i suoi allievi una vita che richiama lo stile monastico, con preghiera regolare, correzione fraterna, povertà. Insieme scoprivano che la Chiesa è «il Cristo esistente come comunità». La riflessione teologica di Bonhoeffer sull’esperienza vissuta si espresse nelle due opere: Sequela e La vita comune, delle quali parleremo in seguito.

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Contemporaneamente è avvenuta nel mondo protestante la riscoperta della «diakonìa». Il servizio non fu più considerato come un atto di carità necessario e obbligatorio, ma come la dimensione fondamentale di quella vita d’amore per la gloria di Dio che costituisce la Chiesa. Ciò ha portato a un profondo rinnovamento in quelle comunità di «diaconesse», che esistevano già in gran numero nelle Chiese protestanti. Un rinnovamento che potremmo caratterizzare come esigenza di «koinonìa» nella «diakonìa», cioè di vita comune nel servizio.

Il senso della comunità religiosa in seno alla Chiesa fu ritrovato inoltre sotto lo stimolo della passione per l’unità. È il filone propriamente ecumenico del rifiorire della vita religiosa. Cristiani separati, facendo insieme l’esperienza dell’unità in una comunità religiosa, hanno ritrovato la Chiesa che fu «una» alle origini e tende verso l’unità finale.

Questo filone di rinnovamento costituisce il nostro interesse principale. Pensiamo che i valori fondamentali che hanno fatto sorgere alcune comunità ecumeniche dal mondo del protestantesimo siano compatibili con quelli che animano le comunità religiose cattoliche; anzi, che possono diventare un fermento di vita nuova, uno stimolo al rinnovamento secondo lo Spirito. Affinché il nostro discorso acquisti dei punti concreti di riferimento, è opportuna una informazione essenziale sulle iniziative più caratteristiche. Tracciamo perciò l’itinerario e la fisionomia di alcune comunità religiose fiorite sul cammino del movimento ecumenico.

Comunità religiose di indirizzo ecumenico

Tra le numerose comunità religiose del mondo tedesco scegliamo quella che ci sembra più singolare per la sua origine e per l’evoluzione che l’ha condotta a darsi una finalità ecumenica. Ne parliamo soprattutto per la vasta

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risonanza che ha acquistato tra le masse popolari. Si tratta della comunità ecumenica delle Sorelle di Maria, di Darmstadt.

L’origine è legata al grande bombardamento che, nella notte tra l’11 e il 12 settembre 1944, distrusse in pochi minuti la città di Darmstadt, facendo più di 30.000 vittime. Questo fatto traumatizzante fu l’occasione che convinse alcune giovani donne, appartenenti a un gruppo biblico, a iniziare una vita comune di penitenza e di preghiera. La principale ispiratrice fu Basilea Schlink, che all’inizio raccolse le prime consorelle nella sua casa, alla periferia della devastata Darmstadt. L’accento era posto ― e così resta tuttora — sullo spirito di penitenza. Il grido evangelico: «Pentitevi, il Regno di Dio è vicino» segna in maniera caratteristica la spiritualità della comunità. Anche la meditazione dolorosa delle sofferenze di Gesù, di stile pietista, colpisce chi accosta la comunità. Sulla stessa linea si può considerare la tipica invenzione delle Sorelle di Maria: le «rappresentazioni di chiamata» (Rufer-Spiele). Sono sacre rappresentazioni analoghe ai «misteri» medioevali, al fine di annunciare il Vangelo. La «rappresentazione» è, al tempo stesso, una proclamazione della Parola di Dio e un culto di adorazione. I titoli delle rappresentazioni più caratteristiche dànno un’idea dell'orientamento decisamente escatologico: «Il tempo è vicino», «Il grande giorno della mietitura», «Un appello risuona nel cuore della notte»...

La dimensione ecumenica della comunità fu il frutto di un lungo cammino. Non vi era un programma ecumenico all’inizio; ma a poco a poco la coscienza dolorosa delle separazioni della cristianità si impadronì della fervente comunità. La via percorsa fu proprio quella della vocazione particolare a vivere l’appello al pentimento.

Dopo aver aperto il loro cuore penitente ai cristiani separati, le Sorelle di Maria arrivarono per lo stesso cammino ad estendere la loro accoglienza fraterna al popolo d’Israele. La coscienza delle colpe dei cristiani, e in modo particolare del popolo tedesco, nei confronti del popolo ebraico le

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condusse a un servizio di espiazione per Israele, concretizzatosi anche in una presenza in Palestina. La loro preghiera e la loro azione tendono a operare un cambiamento di mentalità nei confronti del popolo che ha ricevuto la promessa di Dio.

Un altro cammino seguito dal risveglio comunitario fu quello del ministero dei ritiri spirituali. Da iniziative finalizzate a questo servizio si svilupparono comunità religiose in seno al protestantesimo. Citiamo due esempi tipici: la comunità di Pomeyrol, in Francia, e quella di Grandchamp, in Svizzera.

La comunità di Pomeyrol ha come sua preistoria una casa di ritiri, animata da Antoinette Butte. Durante l’inverno 1939-40 nacque il primo tentativo di formazione comunitaria, ritmata dalla preghiera liturgica. Ma fu soltanto nel 1950, dopo le peripezie della guerra, che le prime quattro sorelle si impegnarono a vita nella vocazione di preghiera, povertà, celibato, mutua sottomissione. Gli aspetti principali della vocazione e della spiritualità di Pomeyrol sono riassunti dal seguente testo: «È un piccolo seme di Chiesa, nato dal suo tormento e dal suo rinnovamento, a causa dell’angustia del mondo. È questa sofferenza dei tempi attuali, provata intensamente, è questa angustia sofferta fino in fondo all’anima, che ha fatto sgorgare la vocazione di questa piccola comunità. È questa morte di un mondo, vissuta e accettata, che è all’origine della sua totale consacrazione. È questa visione di un mondo nuovo, riafferrato da Dio e ricostruito con lui e in lui, che costituisce il suo dinamismo e la sua gioia».

Anche la comunità di Grandchamp è stata preparata da un ministero particolare, quello dei ritiri spirituali e dell’accoglienza. Questa pratica non esisteva nelle Chiese della Riforma, e Grandchamp contribuì in maniera decisiva a farla adottare. All’inizio non si trattava di una comunità regolare, ma di un luogo di raccoglimento e di preghiera. Fin dal 1936 la casa di Grandchamp fu aperta tutto l’anno

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come permanenza di preghiera e di adorazione. Ma soprattutto dopo la guerra Grandchamp conobbe un grande slancio; i ritiri si moltiplicarono, al punto che fu necessario acquistare altre case dello sperduto villaggio.

Nel frattempo le donne che si dedicavano in maniera permanente a questo servizio cominciavano a sentire l’esigenza di una consacrazione speciale. Lo sviluppo della comunità avveniva parallelamente a quello di Taizé, mentre si delineava sempre più chiaramente la comune ispirazione e la reciproca complementarietà. Possiamo indicare due date significative per la storia della comunità: nel 1952 le prime sette sorelle fecero la professione a vita e nell’anno seguente la comunità di Grandchamp adottò la regola di Taizé, diventandone in qualche modo il ramo femminile. La comunità religiosa ha conosciuto in seguito un grande sviluppo, tanto numerico che di influenza. La sua fisionomia si è sempre più definita, esplicitando i germi contenuti nella vocazione iniziale.

La comunità vuol essere, da una parte, profondamente radicata nella vita della Chiesa. La sua specificità risiede nel servizio offerto a chi ricerca un approfondimento spirituale. A questo scopo, dei ritiri si succedono per tutto l’anno, sia per ospiti individuali che per gruppi organizzati. L’accento è posto sul silenzio che permette di sondare le profondità, sulla preghiera liturgica e sulla lettura biblica che la nutre. D’altra parte, le sorelle di Grandchamp sono attratte anche dal compito di presenza al mondo. Diverse fraternità sono state aperte nei luoghi dove si faceva sentire un richiamo: dalla bidonville di Algeri alla periferia urbana di Parigi, dalla Palestina all’America latina. Condividendo la vita dei più poveri, portano la vita di preghiera nel cuore delle masse e costituiscono piccoli focolai di unità.

Parlando delle sorelle di Grandchamp abbiamo menzionato il nome di Taizé. La comunità di Taizé è indubbiamente la realizzazione più nota e rappresentativa del rinnovamento della vita religiosa uscito dal mondo della Riforma.

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Non è facile tracciare la storia di questa comunità, perché non esiste nessun diario o cronaca, né del tempo delle origini né di oggi. Ciò dipende da una scelta deliberata: volendo conservarsi pienamente disponibile alla novità dello Spirito, la comunità non vuol essere condizionata in maniera obbligante dalla tradizione delle origini. L’avventura di Taizé inizia con la vocazione ecumenica di un uomo, il pastore svizzero Roger Schutz. I primi semi di quest’orientamento fondamentale della sua vita sono sepolti nella sua stessa infanzia. Giovane studente di teologia a Losanna, si interessò del monachesimo della Chiesa antica e si preparò alla laurea con una tesi sulla Regola di S. Benedetto. Già in quel periodo aveva raggruppato alcuni amici per un lavoro comune, animato dalla preghiera comunitaria. Le due intuizioni che illuminarono la sua giovinezza — l’unità dei cristiani e la vita monastica — si erano già fuse in una scelta concreta. Egli stesso racconta: «Ero convinto, anche se ancora giovane, che era necessario piantare in un luogo concreto una piccola speranza ecumenica; ma ero anche sicuro che questa piccola luce non poteva rischiarare se non attraverso una comunità, riunione visibile di uomini appartenenti a diverse confessioni e culture. E il segno della speranza ecumenica sarebbe stato forse questa comunità visibile».

La ricerca del luogo dove iniziare l’esperienza lo condusse a Taizé. Si orientò verso la Francia perché allora, nel 1940, il paese era occupato dai tedeschi e il giovane Roger voleva situare l’azione spirituale in seno all’angustia umana del momento. Scelse Taizé, sperduto paesino della Borgogna a pochi chilometri dalla storica Cluny, perché riconobbe un segno profetico nella voce di una vecchia contadina che lo invitava a restare con loro, poveri e isolati. Si stabilì in una casa disabitata del villaggio, dove per due anni diede inizio da solo a una forma di vita monastica. Pregava da solo, tre volte al giorno, lavorava la terra ed esercitava l’ospitalità verso le persone che fuggivano dal territorio occupato. Quando, nel dicembre 1942, la frontiera fu chiusa, fu costretto a riparare in

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Svizzera. Passò due anni a Ginevra, dove gli fu possibile cominciare a condividere il suo stile di vita con i compagni della prima ora. Tra questi c’era Max Thurian, studente alla facoltà di teologia di Ginevra, che diventerà il teologo e liturgista della comunità.

Subito dopo la liberazione della Francia, nel 1944, la piccola comunità trasferì quel germe di vita comune a Taizé. Un’altra data emergente è la Pasqua del 1949, giorno in cui i primi sette fratelli della comunità si impegnarono «per la vita al servizio di Dio e del prossimo, nel celibato, nella comunione dei beni e nell’accettazione di un’autorità». È il periodo delle origini, in cui la comunità fissa i suoi elementi basilari. Furono armi di silenzio. Le radici dovevano andare tanto più in profondità, quanto più si aveva in animo esperienze audaci. Le difficoltà non mancarono. Lo stesso Frère Roger confessa: «Per quasi vent’anni c’è stato, per noi, come il freddo dell’inverno». La diffidenza circondava questi stranieri, in una regione tra le più povere e più scristianizzate della Francia. Anche le Chiese evangeliche criticavano l’iniziativa, tacciandola di cattolicesimo. Non era facile rispondere a una vocazione alla vita comune e insieme a una vocazione ecumenica. Rappresentava qualcosa di anticonformista, troppo estraneo a quattro secoli di abitudini e tradizioni di separazione.

Solo nel 1958 il lungo e lento dialogo della comunità di Taizé con la Chiesa riformata di Francia giungeva a una certa chiarificazione. La comunità era considerata come una «famiglia», e quindi né parrocchia né Chiesa. Gli uomini che hanno scelto liberamente il triplice impegno «appartengono personalmente a una Chiesa particolare della Riforma. Secondo la tradizione cenobitica (cioè di vita comune) più autentica, la comunità, come famiglia spirituale, pur restando attenta ai consigli delle Chiese, conserva la libertà di organizzare la sua vita interna».

La «passione dell’unità del Corpo di Cristo», di cui parla la Regola di Taizé, fu trasmes-sa dal fondatore a tutta la

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comunità. La fisionomia ecumenica di Taizé è così descritta da uno dei fratelli del periodo delle origini: «Si può dire che la comunità di Taizé sia impegnata nel movimento ecumenico, nel lavoro e nella preghiera per l’unità dei cristiani, fin da quando è sorta. Attualmente noi sentiamo tanto l’interrelazione della nostra vocazione monastica e della nostra vocazione ecumenica, che ci è impossibile dissociarle. Per il fatto di essere noi dei monaci e continuamente posti dinanzi al Vangelo e al suo appello radicale a seguire Cristo, impariamo ogni giorno che la gioia, la semplicità, la misericordia (tre forme dell’amore a Cristo e ai fratelli) sono i fondamenti dell’unità di una comunità cristiana e, più in generale, dell’unità di tutti i cristiani. Per il fatto che noi lavoriamo e preghiamo per questa unità, e siamo esposti agli sguardi di quanti ci sentono parlare di ecumenismo, sentiamo ogni giorno la necessità evidente d’una vita monastica sempre più autentica, interiormente vissuta in grande fedeltà all’amore unico di Cristo, esteriormente manifestata nella radiosa unità dell’amore fraterno».

Il ruolo giocato da Taizé nel movimento ecumenico è diverso da quello delle altre comunità religiose sorte nello stesso ambiente. Mentre queste si sono sforzate di reinserire la vita religiosa nella pasta protestante, sviluppando una spiritualità della linea del protestantesimo, Taizé ha fatto piuttosto beneficiare il protestantesimo delle ricchezze delle altre confessioni cristiane. Tanto la sua liturgia, quanto la sua regola, si ispirano liberamente alle fonti cattoliche e ortodosse, in un vasto sforzo di universalità.

Un articolo programmatico di Max Thurian del 1948 così descriveva l’ideale ecumenico della comunità: «La comunità, sia attraverso la sua liturgia, sia con i suoi studi teologici, sia con i frequenti contatti con preti, religiosi, professori e fedeli cattolici, cerca di approfondire lo spirito «cattolico» e di spogliarsi il più possibile di ogni pregiudizio di ignoranza o di sentimento. Crediamo che il primo dovere dei cristiani sia di conoscersi dall’interno e di amarsi

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in profondità. I problemi teologici, storici o di esegesi si pensano allora diversamente; si scoprono i veri problemi che valgono la pena di essere studiati, quelli che si pongono secondo il Vangelo. Fedeli leali della Riforma protestante, noi ci consideriamo anche «cattolici», non abbiamo l’impressione di lavorare al di fuori della Chiesa cattolica, come profeti spaesati, ma abbiamo la convinzione di lavorare nell’interno, e di avere con gli elementi più vivi ed evangelici che essa possiede rapporti di comunione profonda e fraterna, nella certezza di un identico ministero al servizio del Cristo».

E Frère Roger, il priore: «Se la Chiesa della Riforma vuole impegnarsi in un dialogo con le altre Chiese, deve anche prendere coscienza del messaggio profetico che Dio le annuncia, che essa accetti nel suo seno un movimento di cattolicità che la apre al respiro della Chiesa universale. Ripensare il dogma, l’ecclesiologia, la disciplina, la liturgia, non soltanto riportandosi alla Scrittura, ma aprendosi allo spirito di una vera cattolicità. Per accogliere questo soffio d’universalità, che rompa le strettezze di spirito e il settarismo, sono così necessarie alcune piccole comunità, che possano sperimentare sul vivo ciò che tutta la Chiesa può ancora vivere. Le comunità possono così diventare dei luoghi di avanguardia ecumenica».

La forte tensione ecumenica portava la giovane comunità, nata nel cuore del protestantesimo, a diventare comunità di vita cristiana. Ciò si è realizzato pienamente quando nella comunità, oltre a fratelli provenienti da diverse Chiese luterane, calviniste e anglicane, sono stati accolti anche fratelli cattolici.

Taizé ha puntato in alto, fin dall’inizio. Non erano mire di prestigio o di grandezza umana a spingere in questa direzione, ma la comprensione delle esigenze della volontà di Cristo per la sua Chiesa. Il dialogo non è fine a se stesso, ma tende all’effettiva unità dei cristiani. E questa da chi potrebbe essere anticipata, se non da una comunità religiosa che vive la donazione totale al Cristo? Gli sviluppi

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della comunità di Taizé e la risonanza che hanno trovato presso la cristianità intera — in particolare il «Concilio dei giovani» — mostrano quale sia la fecondità della vita religiosa, quando si apre alla dimensione dell’ecumenismo.

In questa sommaria rassegna di comunità religiose toccate dal soffio dello spirito ecumenico non vogliamo dimenticare i semi che hanno messo radici in Italia. Citiamo anzitutto una comunità votata alla contemplazione nel nascondimento, ma che ha esercitato la funzione del lievito sepolto nella pasta. Si tratta delle Eremite francescane di Campello. Alcuni uomini di eccezionale levatura spirituale hanno un grande debito con questa comunità e soprattutto con la sua fondatrice, Sorella Maria. Questa singolare esperienza spirituale ed ecumenica iniziò nel 1919, per opera appunto di Suor Maria Vignetti, delle Francescane Missionarie di Maria. Alla ricerca della realizzazione della sua vocazione personale, abbandonò il suo istituto. Con il consiglio di amici, fra i quali Ernesto Buonaiuti, si stabilì in un eremo abbandonato nelle vicinanze del Subasio, nei pressi di Campello sul Clitunno. L’eremo diventò la culla di una riscoperta dello spirito francescano delle origini. Vi si viveva l’essenzialità evangelica del Poverello: la libertà spirituale, la comunione con la natura, la fraternità con tutti gli uomini. In questa fraternità è compresa la riconciliazione fra i cristiani. Anticipando nel tempo l’analogo cammino ecumenico seguito da altre comunità religiose, anche delle protestanti cominciarono a condividere la consacrazione totale a Dio e ai fratelli al modo di Sorella Maria. Costei personalmente intrattenne relazioni amichevoli con Gandhi, Tagore, Buonaiuti, oltre che con alcuni protagonisti del rinnovamento religioso in Italia. Anche dopo la morte di Sorella Maria, avvenuta il 6 settembre 1961, la piccola comunità (sono 9 Sorelle) continua per il cammino tracciato, come piccolo segno della grande speranza ecumenica.

Concludiamo la presentazione delle più significative comunità religiose a carattere ecumenico parlando di una comunità che riscuote attualmente in Italia l’attenzione di

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numerosi cristiani, in particolare tra i giovani. Si tratta della comunità di Bose. Così essa si presenta con le parole del suo fondatore e principale animatore: «Bose non è una congregazione religiosa, né una parrocchia, né una setta ecumenica, tantomeno una nuova chiesa, ma è una comunità che svolge un ministero monastico e una ricerca sull’unità dei cristiani».

Le sue origini vanno fatte risalire a un gruppo spontaneo ecclesiale che negli anni 1963-65 si radunava a Torino attorno a Enzo Bianchi. Erano studenti universitari che si ritrovavano per approfondire la parola di Dio della Bibbia, per la preghiera comune, l’eucarestia domestica e lo scambio fraterno. La dimensione ecumenica si presentò con naturalezza, essendo il Piemonte la regione italiana in cui la presenza protestante è più avvertita. Terminato il periodo studentesco, Enzo Bianchi si trasferì in un luogo appartato, a Bose, una povera frazione abbandonata da diversi anni dai contadini. Nel 1968 si unì a lui Daniel Attinger, pastore riformato svizzero. Il 6 agosto di quell’anno, nella tradizionale festa monastica della trasfigurazione, aveva inizio la vita comune dei primi membri della comunità.

Viene spontaneo usare l’aggettivo «monastico» per caratterizzare il tipo di vita che si conduce a Bose. La comunità in realtà si preoccupa poco di una definizione: «Ci consideriamo semplici cristiani che cercano Dio e testimoniano Cristo vivendo il Vangelo, che rimane per noi l’assoluta regola di vita. Certo siamo debitori alla tradizione monastica per l’esperienza lasciataci della vita comune e per l’approfondimento dei temi evangelici inerenti al nostro tipo di vita. E non abbiamo timore a riconoscere la nostra ispirazione a Basilio per quanto riguarda le strutture comunitarie, a Benedetto per quanto riguarda il ministero della preghiera e a Francesco per quanto riguarda il comportamento e lo stile di vita. Tuttavia solo l’evangelo verificato e confrontato con il nostro oggi, la nostra vita, resta normante per ciascuno di noi e per la comunità intera».

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La comunità di Bose vive di fatto una forma di vita comune in cui sono riconoscibili gli elementi tradizionali della vita monastica. Essi sono però ripensati in maniera originale, con grande attenzione ai problemi del tempo attuale. La preghiera comune, per esempio, è stata strutturata in modo da essere comprensibile per tutti, per l’intellettuale come per l’operaio. A questo fine è stata necessaria una nuova traduzione dei salmi, in un linguaggio più vicino a quello di tutti i giorni. Il libro della preghiera di Bose (Preghiera dei giorni) si è diffuso anche tra molti cristiani che non partecipano alla vita della comunità.

A Bose si esercita ampiamente l’ospitalità. Anche questa espressione tradizionale del monachesimo è urgente e attuale. Essa intende rispondere all’isolamento dell’uomo moderno nella città spersonalizzata e alla mancanza di dialogo tra le generazioni.

Il lavoro è inteso come impegno nel mondo. Chi partecipa alla vita comune si inserisce anche nella realtà sociale dove il lavoro lo colloca. Esso permette una solidarietà concreta con tutti quelli che lottano per la liberazione dell’uomo. «La fuga mundi non può mai essere un alibi o un momento di abbandono della responsabilità, ma sempre una contestazione dei metodi del mondo, metodi che hanno la legge del potere, del denaro, del successo».

L’originalità della comunità di Bose risalta soprattutto nella chiara impostazione interconfessionale. «La comunità non è né cattolica né protestante, è una comunità di cattolici e protestanti, cercando ognuno dei membri di restare in comunione con la Chiesa che lo ha generato a Cristo».

Difficoltà con la gerarchia ecclesiastica non sono mancate, soprattutto quando la comunità decise di porre ufficialmente il gesto dell’intercomunione. Per evitare la rottura con la gerarchia della Chiesa cattolica si è dovuti poi tornare alla separazione della mensa eucaristica. Tuttavia la interconfessionalità, come provocazione a una fedeltà più radicale al Vangelo e al superamento del confessionalismo, è per la comunità di Bose un dato costitutivo e irrinunciabile.

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LA VITA RELIGIOSA SEGNO DI CONTRADDIZIONE

La panoramica storica ci ha posto di fronte a fatti di apparenza contraria che vogliono essere interpretati. Da una parte, la vita religioso-monastica è apparsa come una pietra d’inciampo, che ha contribuito notevolmente alla divisione tra i cristiani. Dall’altra, questa stessa vita appare come chance privilegiata per la riconciliazione tra cristiani di confessioni differenti, per il riconoscimento dell'una sancta non solo in senso teologico astratto, ma concretamente, nell'esperienza di una stessa vita comune, nello Spirito, di cristiani divisi confessionalmente. Un’ambivalenza di questo tipo indica che a costituire problema non è la vita religiosa in sé, bensì il volto storico concreto che essa assume, i condizionamenti sociali e culturali ai quali è soggetta, le motivazioni psicologiche di coloro che la rappresentano.

Sarebbe sterile imbastire un processo alla vita religioso-monastica in sé; allineare da una parte le accuse che la denunciano come realizzazione di un tipo sacro di esistenza che si trova in quasi tutte le religioni e che non ha niente a che vedere col Vangelo o che addirittura è anti-evangelica; e dall’altra parte le argomentazioni che vedono in essa una realizzazione autentica del Vangelo, addirittura la più coerente, la più elevata. Processi di questo tipo sono stati fatti ed è inutile ripeterli. Non si tratta solo di non rinnovare uno stile polemico che mira a distruggere o a squalificare l’avversario, nullificando ciò che esso è, ciò che crede, ciò che opera; per rinunciare a questo comportamento basterebbe

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assimilare i princìpi della tolleranza e della libertà religiosa. Il principio del dialogo, costitutivo dell’ecumenismo, chiede e offre molto di più. Prendendo cordialmente sul serio l’altro, ci permette di capire meglio noi stessi. Le sue istanze critiche operano così in modo illuminante e stimolante su ciò che noi siamo. Diventiamo in tal modo capaci di discernere l’essenziale dall’accessorio in ciò che viviamo, di accogliere le possibili o talvolta necessarie integrazioni. Applicato alla comprensione della vita religiosa, il principio ecumenico ci permette di scoprirla quale segno di contraddizione in un senso più profondo di quello, banale, di essere oggetto di disaccordo o disputa. Essa diventa segno di contraddizione in senso evangelico, cioè come Cristo stesso lo è stato (Lc 2,34-35: «affinché si rivelino i pensieri intimi di un gran numero di uomini»).

La vita religiosa, sotto il fascio di luce esigente, ma irenico, del dialogo ecumenico, rivela la sua forza e le sue debolezze, il cuore evangelico che batte in essa e gli stracci storici di cui è rivestita.

Pregando il Signore dello Spirito di darci cuore e occhi ecumenici, vogliamo ora confrontarci con alcuni aspetti della vita religiosa sui quali si appuntano le maggiori difficoltà nel dialogo tra le Chiese cristiane.

Discepoli di Cristo o discepoli dei Farisei?

La vita religioso-monastica è accusata di rischiare di trapiantare in seno al cristianesimo il germe del fariseismo. Le parole misteriose con cui Gesù ha messo in guardia i suoi discepoli dal «lievito dei Farisei» (cf Mr 8,14-21) rivelerebbero allora una sorprendente attualità.

Bisogna intendersi subito sul termine «fariseismo». Esso è invalso nell’uso comune come sinonimo di ipocrisia, di religiosità apparente. Hanno influito in questo senso soprattutto le dure parole contro i Farisei che i Vangeli, specialmente quello di Matteo, mettono in bocca a Gesù. Non ci

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interessa in questo contesto andare a fondo della questione, fino a che punto tali parole polemiche sovraccarichino quelle di Gesù, per il fatto che riflettono una situazione della comunità cristiana di alcuni decenni successiva. È certo tuttavia che questa non è l’ottica giusta per capire il senso e la vera natura del fenomeno fariseo in seno al popolo di Dio.

Il nome — «Farisei», cioè «separati» — ci dà un’indicazione per capire che cosa volevano essere: il gruppo di coloro che si distanziavano da tutto ciò che suonava come compromesso. Erano fautori di un’osservanza scrupolosa della Legge, che comprendeva non solo i comandamenti di Dio, ma anche tutte le innumerevoli norme pratiche stabilite dai rabbini per le varie circostanze della vita quotidiana. Rifuggivano dallo sporcarsi le mani con la politica e odiavano cordialmente i Sadducei, più aperti agli influssi esterni in campo culturale, e collaborazionisti con i romani conquistatori in campo politico. Rifuggivano dal contatto con tutti i non giudei all’esterno e con il popolo comune all’interno (cf Gv 7,49: «questa gentaglia che non conosce la Legge sono dei maledetti!»).

Questi tratti sono sufficienti a farci cogliere l’elemento specificante del fariseismo: la volontà di distinguersi dalla massa religiosa per un’esecuzione della Legge di Dio perfetta nella fedeltà. È un ideale che non manca certamente di nobiltà. Tuttavia è anche gravido di pericoli. Può portare a introdurre un principio di discriminazione all'interno dell’unico popolo di Dio, a costituire caste, gruppi di aristocrazia spirituale.

La professione religiosa può mutarsi in fonte di privilegi; ancor più e peggio: può diventare fonte di diritti di fronte a Dio. Allora l’uomo religioso non riceve più la salvezza dalla misericordia di Dio, ma se l’acquista con i propri meriti; le opere diventano il principio della giustificazione.

Visto così, il fariseismo appare come un fenomeno che trascende la situazione storica concreta da cui ha preso il nome. In quanto atteggiamento spirituale permanente, esso

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può costituire il verme che minaccia di rodere dall’interno ogni forma di vita religiosa. Se poi consideriamo dettagliatamente i contesti storici nei quali la vita religioso-monastica cristiana ha preso forma, il pericolo del fariseismo non è più un’astratta ipotesi.

La prima fioritura monastica, nei secoli III-IV, presentava il carattere di protesta contro l’adattamento «mondano» della vita cristiana. Il monachesimo cristiano non intendeva contestare la Chiesa come «società di fedeli», bensì proporre — non senza una più o meno esplicita punta polemica — l’ideale della perfetta vita cristiana, di fronte ai modelli di esistenza cristiana conniventi con i valori della cultura pagana.

La cristianità, che poi sarà chiamata «costantiniana», trovò una possibilità di dialogo con il paganesimo sulla base della comune natura, l’humanitas. Le conseguenze sulla Chiesa furono rilevanti. Le strutture ecclesiali si «politicizzavano», assumendo la supplenza delle istituzioni imperiali; la fede si identificava con l’accettazione del sistema di verità religiose riconosciute come «ortodosse» dai Concili; la sequela di Cristo era ridotta a «buone opere» eccezionali.

Il monachesimo voleva contrapporsi a una cristianità di questo tipo. Rifiutando i valori politici e culturali, separandosi dal «mondo» nella solitudine dei deserti o nel silenzio dei cenobi, dedicandosi alle sole attività spirituali direttamente finalizzate alla gloria di Dio, i monaci intendevano presentare in seno alla «società cristiana» la risposta autentica alla chiamata evangelica originaria.

Un’analoga intenzione polemica contro la cristianità soggetta al «mondo» è insita anche nei movimenti di riforma medievali e negli ordini mendicanti. Si richiamavano direttamente al Vangelo, distanziandosi, sia dalle gerarchie ecclesiastiche, sia dalla massa popolare. Le nuove famiglie religiose assumevano uno stile di vita particolare, che comportava privazioni ascetiche, povertà, castità, digiuni, penitenze,

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sottomissione e la pratica di tutte le virtù cristiane. L’impegno religioso-monastico portava a creare un genere di vita che si distaccava dall’esperienza religiosa comune a tutti i cristiani.

Con un lavoro di riflessione teologica, compiuto soprattutto nei secoli XI e XII, si giungeva a isolare, all’interno di questa consacrazione alla vita religiosa, i pilastri portanti costituiti dalla povertà, castità e obbedienza. Questi tre impegni venivano assunti dal monaco-frate-religioso con i tre voti corrispondenti. Contemporaneamente la teologia, coltivata unicamente dai monaci e dai frati, elaborava le categorie per attribuire alla vita religiosa la dignità di uno «stato» particolare all’interno della Chiesa e della società cristiana. Secondo questa prospettiva teologica, che sarà poi fatta propria dal diritto canonico, i religiosi, abbracciando la via facoltativa dei «consigli» evangelici, vengono a trovarsi in una situazione, detta «stato di perfezione», superiore a quella dei semplici laici.

L’intenzione fondamentale dei movimenti religioso-monastici era quella di scuotere la cristianità dall’acquiescenza al mondo e di richiamare le esigenze della vocazione cristiana. Tuttavia essi creavano le premesse per quella deviazione, di stampo «farisaico», che nel XVI secolo susciterà il rifiuto globale del monachesimo da parte della Riforma. Lutero fece della «sola fede» la bandiera di un ritorno al Vangelo, ascoltato col cuore di Paolo. La giustificazione mediante la sola fede si contrapponeva a tutte le tendenze che legavano la salvezza a pratiche religioso-morali sul modello di regole e consigli; l’unità del popolo di Dio, dotato per la grazia del battesimo del sacerdozio comune, si contrapponeva a ogni gerarchizzazione sulla base di poteri sacri o di meriti spirituali. Lutero rifiutò la dottrina dei vari stati di perfezione; egli stesso lasciò il convento per il mondo, convinto non che il mondo fosse migliore del convento, ma che il convento non era migliore del mondo.

È difficile negare che la posizione che la vita religiosa aveva assunto nella Chiesa e nella teologia esigesse un’energica

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rettifica. Tuttavia il rifiuto in blocco del monachesimo, compresa la sua istanza di sequela radicale di Cristo, ebbe conseguenze deleterie per le Chiese uscite dalla Riforma. Dalla necessaria accentuazione della fede e della dottrina di fronte alla «giustificazione per mezzo delle opere» è derivato per il protestantesimo ortodosso una specie di quietismo, che lasciava le questioni dell’etica e della politica in balìa del «mondo», o spirito del tempo che dir si voglia. La vita del cristiano non si distingueva in niente da quella di chi segue solamente la natura e la ragione. La violenta contrapposizione evangelica tra i figli delle tenebre e i figli della luce si risolveva in un asettico color grigio. In seno alle Chiese della Riforma non si sentiva più l’esigenza di far entrare il Vangelo con tutta la sua forza nella vita di ogni cristiano.

Una vibrata denuncia della condizione spirituale del protestantesimo venne da D. Bonhoeffer con l’opera Sequela, pubblicata nel 1937. Qualche anno più tardi egli avrebbe spinto la propria sequela di Cristo fino al patibolo. Per Bonhoeffer si trattava di ristabilire il giusto equilibrio tra la dottrina protestante della grazia e la vita morale, vista come «sequela» di Cristo. La grazia senza la sequela è da considerarsi come «grazia a buon mercato»: «La grazia a buon mercato è il nemico mortale della nostra Chiesa. Noi oggi lottiamo per la grazia a caro prezzo... Grazia a buon mercato è giustificazione non del peccatore, ma del peccato. Visto che la grazia fa tutto da sé, tutto può andare avanti come prima. "È inutile che ci diamo da fare". Il mondo resta mondo e noi restiamo peccatori "anche nella migliore delle vite". Perciò anche il cristiano viva come il mondo, si adegui in ogni cosa al mondo e non si periti in nessun modo — a scanso di essere accusato dell’eresia di fanati- tismo — di condurre, sotto la grazia, una vita diversa da quella che conduceva sotto il peccato. Si guardi bene dal- l’infierire contro la grazia, dall’offendere la grande grazia data a buon mercato, dall’erigere una nuova schiavitù dell’interpretazione letterale, tentando di condurre una vita

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in obbedienza ai comandamenti di Gesù Cristo!... Il cristiano, dunque, non segua Cristo, ma si consoli della grazia!... Grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo, per amore del quale l’uomo va e vende tutto ciò che ha, con gioia; la perla preziosa, per il cui acquisto il commerciante dà tutti i suoi beni; la signorìa di Cristo, per la quale l’uomo si cava l’occhio che lo scandalizza, la chiamata di Gesù Cristo che spinge il discepolo a lasciare le sue reti e a seguirlo...

Non è la grazia come era stata conosciuta da Lutero, a trionfare nella storia della Riforma, ma il vigile istinto religioso dell’uomo, sempre pronto a trovare il luogo dove si può ottenere la grazia a minor prezzo... Quando Lutero parlava della grazia, intendeva sempre riferirsi anche alla vita che solo tramite la grazia era stata sottoposta pienamente all’obbedienza. È la grazia sola ad agire, aveva detto Lutero; e i suoi discepoli lo ripetevano alla lettera, con la sola differenza che ben presto lasciarono da parte, sia nel pensiero che nelle parole, ciò che era sempre stato pensiero ovvio per Lutero, cioè la necessità di seguire Gesù; Lutero non aveva bisogno di esprimere questo pensiero, perché parlava sempre come uno che dalla grazia era stato condotto per la via più difficile del discepolato. L’insegnamento dei suoi seguaci, quindi, proveniva senz’altro dall’insegnamento di Lutero, eppure questo insegnamento segnò la fine e la rovina della Riforma in quanto manifestazione della grazia di Dio a caro prezzo in terra. La grazia a caro prezzo fu mutata in grazia a buon mercato senza la necessità di seguire Cristo... Ci siamo raccolti come corvi attorno al cadavere della grazia a buon mercato, da essa abbiamo ricevuto il veleno che fece morire tra noi l’obbedienza a Gesù... Si considerava atteggiamento luterano lasciare che seguissero Gesù i legalisti, i riformati, i fanatici — tutto per amore della grazia, — giustificare il mondo e dichiarare eretici i cristiani che seguivano Gesù. Un popolo era divenuto cristiano, luterano, ma sacrificando il desiderio di seguire Gesù; lo era divenuto a poco prezzo; la grazia a buon mercato aveva vinto».

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La lunga citazione non sia accolta con fastidio. Lo stesso K. Barth, vent’anni dopo la pubblicazione di Sequela, annotava nella sua Dogmatica ecclesiale che Bonhoeffer aveva talmente approfondito il tema, che egli poteva quasi accogliere il tutto, come una grande citazione, nella propria opera. Ciò che provocava Bonhoeffer a simili parole, più affilate di una spada a doppio taglio, non era la volontà di restaurare la vita monastica in seno al protestantesimo. Egli si ribellava piuttosto a un cristianesimo di stampo popolare — una Chiesa «di tutti», — nella quale ci si potesse sentir dispensati dal diventar «discepoli»; una Chiesa in cui si battezzi, si cresimi, si assolva un popolo intero, senza che questo l’abbia chiesto e senza porre condizioni. Voleva affrontare quello che riteneva essere l’unico problema della Chiesa: «come vivere, oggi, da veri cristiani».

Qui è colta l’intenzione profonda del monachesimo, il quale non vuole essere altro che la vita cristiana assunta nella sua genuinità e purezza. Nella vita religioso-monastica, come si è sviluppata all’interno del cristianesimo, ci sono certamente molti aspetti, e non di carattere marginale, dipendenti dal fenomeno monastico generale che riscontriamo anche fuori del cristianesimo; tuttavia la sostanza del monachesimo cristiano è irrisolvibile nel fenomeno monastico universale e risale al fondamento evangelico. Essa consiste essenzialmente nel considerare l’apertura alla salvezza come metànoia, cioè come conversione che esige una trasformazione radicale di vita, una separazione dal «mondo», un «nuovo» che si contrapponga visibilmente al «vecchio»; il chiamato, invertendo la rotta del suo cammino, deve mettersi a camminare dietro a Cristo. Da questa trasformazione dell’esistenza il singolo e la comunità che portano il nome cristiano non possono in alcun modo essere dispensati.

La vita religioso-monastica, nei vari periodi storici e nelle sue varie forme, ha svolto la funzione profetica di protestare contro la secolarizzazione della Chiesa. Essa ha ricordato che non si può fare cristiano il mondo rinunciando a

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domandargli di seguire Gesù per la via della croce. La critica protestante ha però messo a nudo un insidioso processo mediante cui la Chiesa, dopo essersi arresa al mondo, ha cercato di sfuggire alle esigenze del discepolato.

La vita religioso-monastica è servita alle Chiese per farsi buona coscienza. Quelle che hanno accolto e favorito il monachesimo si sono servite di questa istituzione per incanalarvi i cristiani più esigenti, prospettando loro un tipo di santità diversa da quella dell’insieme del popolo di Dio. Le Chiese che hanno rifiutato il monachesimo si sono sentite invece liberate dall’impegno di portare la croce dietro Cristo, per poter essere suoi discepoli. Ora si tratta di liberare la vita religioso-monastica dallo splendido isolamento o dal bando in cui l’istinto di conservazione dei cristiani l’ha relegata. Deve ridiventare scomoda per tutti quelli che si attribuiscono il nome di cristiani a buon mercato; ma deve poter anche saper diffondere in modo contagioso la gioia di essere discepoli dell’Uomo delle beatitudini.

La critica vigile del pensiero cristiano che si ispira a Lutero impedirà che si torni a considerare la vita religioso-monastica come un’opera particolare di prodezza richiesta ad alcuni pochi e come fonte di meriti speciali.

La comprensione e la realizzazione della vita monastica dovranno partire dal fatto che ciò che è chiesto ai religiosi è ciò che è chiesto a tutti i cristiani, e inversamente: ciò che è chiesto a tutti i cristiani è essenzialmente ciò che è chiesto ai religiosi. Perché Gesù, chiamando ad andare dietro a lui, non ha voluto fondare una nuova setta di Farisei, separati dal gregge dei più, ma radunare il Popolo di Dio per gli ultimi tempi.

Critica dei modelli culturali soggiacenti alla vita religiosa

Raramente la riflessione teologica ha centrato con la chiarezza di Bonhoeffer la grandezza e la miseria della vita religiosa. Per lo più i motivi di dissenso tra cristiani vertono su aspetti

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reali, ma marginali di essa. Si contesta, ad esempio, la centralità data alla regola o alle costituzioni emanate dal fondatore, a scapito del riferimento assoluto al Vangelo. Oppure il pullulare di pratiche di pietà e di devozioni particolari, che confondono la linearità del culto essenziale, che consiste nella vita stessa del cristiano vissuta secondo lo Spirito. Oppure si mette in discussione l’isolamento dal mondo, che per lo più taglia fuori i religiosi e le religiose, sicuri nella protezione del loro convento, dai problemi angosciosi posti dal vivere sociale. Questi sono aspetti certamente secondari della vita religiosa e come tali notificabili. Di fatto su questi verte per lo più l’aggiornamento in atto dopo il Vaticano II.

Non è male tuttavia che il dinamismo interno di trasformazione sia rafforzato dagli stimoli provenienti dal dialogo ecumenico. Piuttosto che barricarsi subito in un atteggiamento di autodifesa, conviene ascoltare la contestazione di certe caratteristiche assunte dalla vita religiosa nel corso dei secoli.

Il dialogo ci porterà a riconoscere serenamente la parte avuta dai condizionamenti sociali, culturali e psicologici nel sorgere di tali caratteristiche nel monachesimo della tradizione cattolica a noi familiare.

Possiamo notare in primo luogo che i fenomeni che sorprendono di più i nostri fratelli cristiani che osservano la vita religiosa dall’esterno — il culto della regola, il devozionismo, la segregazione dalla vita sociale — sono più marcati nelle comunità religiose femminili. Ciò dipende dal significato particolare che il monachesimo ha avuto per la donna. Il problema è stato studiato in prospettiva antropologico-culturale da Ida Magli nell’articolo «monachesimo» dell’Enciclopedia delle Religioni. Mentre per l’uomo il monachesimo ha significato il rifiuto della società e della cultura, per la donna esso ha comportato una maniera autentica — per lungo tempo l’unica offerta — di realizzare se stessa dal punto di vista umano. Più che un rifiuto dei beni del mondo, più che una battaglia contro se stessa e i suoi istinti, la donna trovò nella professione monastica la possibilità di ribellarsi alla sua condizione sociale di totale soggezione all’uomo. Facendosi

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monaca, la donna si sottraeva al suo destino di essere «funzionale» all’uomo. Il convento, istituzione riconosciuta come valida dalla società, le offriva l’opportunità di istruirsi; talvolta anche la possibilità d’intervenire a livello pubblico. Non è un caso che i pochi nomi di donne che troviamo nella storia della cultura occidentale, in campo letterario, politico e sociale, siano quasi tutti nomi di religiose; così S. Caterina da Siena, S. Teresa d’Avila, o la monaca Rosvita per la cultura tedesca.

Nella vita religiosa la donna ha potuto dunque affermare se stessa come donna. Nello stesso tempo, però, ha dovuto limitare il modello valido di femminilità alla dimensione verginale. La condizione monastica l’ha liberata dalla soggezione al maschio, ma ha ristretto l’immagine positiva della donna a quella della vergine. L’aspetto matrimoniale è stato sublimato nel rapporto con Dio.

Il simbolismo nuziale e l’unione mistica hanno avuto una importanza decisiva nel monachesimo femminile anche per un altro motivo. Infatti la tradizione cattolica preclude il sacerdozio alle donne; per la donna è impossibile quindi identificarsi con il ruolo di sacerdote. Ebbene, l’esperienza mistica è venuta a liberare la donna dalla necessità di riferirsi alla mediazione del sacerdote. Il mistico infatti, per definizione, non ha bisogno di mediazione; si colloca al di sopra del rapporto comunitario, in contatto diretto con Dio. Il sacerdote interviene in un secondo momento, nel ruolo di direttore spirituale. Questa funzione di verifica intellettuale esigita dal sacerdote si presenta come una forma di recupero dello spazio di libertà che il mistico si crea.

Sullo sfondo di questi concreti condizionamenti sociologici e psicologici sono più comprensibili le caratteristiche assunte dalla vita religioso-monastica in seno alla Chiesa cattolica. Anzitutto l'importanza della mistica, considerata come frutto e coronamento dell’attività ascetica. Sono note le riserve dei nostri fratelli protestanti nei confronti della mistica per il pericolo che essa nullifichi il riferimento alla Parola di Dio consegnata per iscritto nella Bibbia. Dopo che la Chiesa

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cattolica ha riconosciuto nella costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum la centralità normativa della Parola di Dio, sarà più facile sfuggire all’insidia tipica della mistica, che consiste nel far perdere al cristianesimo il suo carattere di religione storica. Dalla mistica tuttavia dipende il particolare timbro che ha assunto il rapporto con Dio nell’esperienza religiosa. L’immagine nuziale, usata da S. Paolo per spiegare il legame tra Cristo e la Chiesa (cf Ef 5), è stata monopolizzata dalle anime consacrate. Anche certe devozioni particolari, come quella del S. Cuore, scaturiscono dall’esigenza mistica ed estremamente umanizzante delle religiose. In tutto questo campo il richiamo alla sobrietà che ci viene dal protestantesimo non potrà che giovare, come opportuno correttivo delle intemperanze del sentimento.

L'osservanza scrupolosa della regola, caratteristica soprattutto delle comunità femminili, risulta anch’essa più comprensibile quando si tenga presente che cosa ha significato storicamente l’esperienza monastica per la donna. Essa ha abbracciato la vita religiosa con un’adesione profonda, proprio perché le offriva la possibilità di un’affermazione di se stessa, di un’integrazione superiore nella cultura. La religiosa perciò ha per lo più vissuto la regola identificandosi con essa, senza permettersi interpretazioni. L’osservare la regola alla lettera, sine glossa, è stato promosso a mezzo di santificazione. Anche da questo punto di vista, la centralità riacquistata dalla Parola di Dio in tutta la Chiesa, grazie al fraterno stimolo delle Chiese della Riforma, porterà indubbiamente frutti benefici. Le comunità religiose non perderanno niente di essenziale rinunciando all’idolatria della regola. E la regola stessa acquisterà in forza e in autenticità accettando il ruolo di semplice strumento che rimanda all’unica regola cristiana costituita dal Vangelo, anzi dal Cristo stesso che sta nel e dietro il Vangelo. Perciò la regola sarà tanto più efficace quanto più sarà sobria; accentuazione, per lo più, di alcuni valori o di particolari prospettive. Un modello in questo senso è la regola di Taizé. Ed è sintomatico che essa costituisca

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un punto di riferimento anche per molti cristiani che pur non vivono una vita religioso-monastica.

Anche la separazione dal mondo trova nel monachesimo femminile un’esasperazione che contribuisce a cogliere il problema con più chiarezza. Il convento non ha avuto solo la funzione di costituire lo spazio sacro, che protegge dall’assalto di ciò che è profano; esso è stato anche luogo di elaborazione di una cultura propria, centrata su valori spirituali, antitetica a quella del mondo. La si può sintetizzare nella parola «contemplazione». L’intervento nella cultura secolare, cioè l’azione, ha trovato sempre difficoltà ad essere armonizzato con la contemplazione. In misura crescente ciò è avvenuto a mano a mano che l’azione nel mondo è stata sentita dalla coscienza cristiana non solo come lecita, ma come necessaria e urgente. Per molte persone consacrate ciò ha significato dura lotta interiore; talvolta anche una sorta di martirio, per l’insanabile contrasto tra la fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo, sentite come inconciliabili.

Per illustrare il problema posto dalla contrapposizione di contemplazione e azione, riportiamo una pagina di Ida Magli riferita al dramma, ritenuto esemplare, di Teresa di Lisieux.

«La consapevolezza che attraverso le trasformazioni storiche e attraverso l’esperienza monastica la donna ha raggiunto della necessità di un’azione sociale, rende sempre più precaria, e di fatto alienante, la vita claustrale, costringendo chi ancora l’esperisce a ricercare motivi simbolici, proiezioni analogiche alla propria esistenza (significativa e commovente in questo senso è l’affermazione della claustrale che "pregare per la salvezza del mondo è il suo lavoro"). La forza struggente ed eroica che circola in ogni immagine, in ogni parola di quel famosissimo libro che è la Storia di un’anima, risiede appunto in questo. Teresa di Lisieux è in questo senso l’ultima monaca: nella sua vita s'intravvedono chiaramente i motivi di logoramento di una contemplazione che si dibatte nell’ansia dell’azione,

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e di un monachesimo che, per realizzarsi come realtà evangelica, costringe chi vi crede a uno sforzo eroico di simbolizzazione della propria vita, di trasformazione e sublimazione continua ed ossessiva della propria esistenza. La piccola Teresa, chiusa in un mondo in cui i valori di contemplazione, di offerta, di liturgia, di preghiera sono ormai spenti, affidati al singolo che solo vorrà ancora dar loro sostanza, si applica momento per momento, giorno per giorno, a scoprire significati nascosti, analogie simboliche per la sua vita interiore, ricca di desideri d’amare, pur nell’arido, povero deserto del suo convento. La Storia di un’anima appare così come un macerante, gigantesco sforzo di servirsi della povertà del quotidiano capovolgendone continuamente il significato oggettivo, per trasformarlo in una realtà interiore, privata, che non può assumere valore evangelico se non dal di dentro. L’intelligenza e la ricchezza creatrice di Teresa di Lisieux si esercitano così in un tragico, immane sforzo di realizzarsi come donna, come libertà, come amore, malgrado e attraverso quello che la vita monastica le offre. Nella ricerca disperata di attuare ciò che essa intuisce di vero nel Vangelo, di ritrovarsi come presenza efficace, come azione nel mondo, essa grida: "Io sarò il cuore", ma la finzione esistenziale, il grido tremendo di una vita che è vera in quanto si riconosce come simbolica, non può non condurla presto alla morte, una morte che, malgrado la sua forza d’amore, è disperata. Teresa di Lisieux segna il limite di simbolizzazione della realtà oltre il quale la donna non può andare; il futuro della vita religiosa della donna è legato ormai alla sua capacità di esprimersi nella cultura e non contro di essa, partecipando in maniera creatrice con i suoi propri valori alla sua formazione e al suo sviluppo».

Il brano riportato non domanda di essere accettato acriticamente. Esso contribuisce tuttavia a dar espressione al male oscuro che travaglia tante comunità religiose. Si ha l’impressione di uno scollamento dalla vita reale, di una specie di esilio in un luogo asettico che non ha più le caratteristiche

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del «paradiso in terra», ma piuttosto quelle del limbo. Questo malessere potrebbe dipendere non dalla vita religiosa in sé, quanto dal contesto culturale in cui essa si svolge. Tale contesto si è talmente trasformato, che l’isolamento dal mondo ha mutato la sua valenza: da affermazione di una cultura propria, alternativa a quella maschile dominante nella società, è diventato vuoto alienante.

Il problema è troppo vasto perché possa trovare qui un’adeguata trattazione. La vita religiosa in quanto tale, e non solo nella sua versione femminile, ha bisogno di trovare una sintesi organica tra contemplazione e azione. Anche qui il confronto con la tradizione teologica protestante può rivelarsi di notevole utilità. Ci mostra che tale contrapposizione non è congenita al cristianesimo, ma piuttosto è una conseguenza del particolare rapporto che si è instaurato storicamente tra monachesimo e cultura. Anche chi si dedica alla vita religiosa, come qualsiasi discepolo di Cristo, è chiamato a operare nella cultura, cioè a esercitare la sua fedeltà al Vangelo là dove si lotta per una terra di uomini. Non perde per questo la sua caratteristica essenziale di essere «messo a parte per il Vangelo».

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VIVERE L’ECUMENISMO

L’ecumenismo come prassi di tutta la Chiesa

È lecito sperare che quanto precede abbia condotto, tra l’altro, alla convinzione che l’ecumenismo non è un discorso «edificante». Almeno non come abitualmente s’intende l’edificazione, nel senso cioè di un’emozione religiosa intima e individuale, destinata a compensare la freddezza dei sistemi teologici e delle forme di vita offerte dalle istituzioni ecclesiali. L’ecumenismo può essere detto invece, a buon diritto, «edificante» se si recupera il senso biblico originario di questa parola, se la si usa così come la usava san Paolo.

L’opera di Dio è giunta a compimento quando egli ha posto Gesù come chiave di volta. E l’apostolo ha il compito di rendere nota l’azione di Dio mediante la sua predicazione: «Noi siamo i cooperatori di Dio; voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come buon architetto io ho posto un fondamento... Non si può porre altro fondamento se non quello che vi si trova già, cioè Gesù Cristo» (1Cor 3,9-11).

L’edificazione può domandare magari di essere preceduta dalla demolizione, quando il piano originario è stato travisato o deformato.

L’ecumenismo ha proprio a che fare con l’azione di Dio nel mondo per costruire la sua abitazione con gli uomini. Esso non è un cornicione o un fronzolo che si aggiungono alla costruzione già bell’e fatta. È piuttosto un richiamo esigente al confronto con il progetto di Dio diventato palese nella morte e risurrezione di Cristo; è un invito a «edificare» secondo

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lo stile di Dio. Tutto ciò che dipende dalla durezza del cuore dell’uomo e dalla sua tendenza all’autogiustificazione; tutto ciò che sulla vita cristiana, e sulla vita religiosa in particolare, si è depositato come condizionamento di cultura del passato; tutto ciò che è frutto delle divisioni che hanno opposto i cristiani gli uni agli altri: ecco quanto il confronto ecumenico denuncia come contrario alla volontà del Signore. Queste deformazioni devono essere abbattute, se la casa di Dio tra gli uomini vuol essere, secondo la sua intenzione, casa per tutti gli uomini.

Al confronto ecumenico nessun cristiano deve sottrarsi; neppure i religiosi e le religiose. La consacrazione nella vita religiosa non li mette al sicuro, al di fuori dell’occhio del ciclone; non li dispensa dall’interrogarsi, dal rimettersi in discussione, dal ricercare un’identità più conforme al Vangelo. Il chiuso ambiente protettivo del convento, che fa conoscere solo una tradizione cristiana e l’assolutizza, può dare apparente sicurezza, ma crea anche un ambiente asfissiante. Senza dire, poi, che non pochi membri di istituti religiosi sono mandati in terre di missione o in regioni dove esiste il pluralismo interconfessionale. L’incontro, qualora avvenga senza una preparazione ecumenica, può diventare uno scontro; le possibilità di collaborazione vengono disattese: lo scandalo dei cristiani che non sanno accettarsi reciprocamente continua a ferire il mondo.

Dalla formazione ecumenica e dalla pratica dell’ecumenismo non sono dispensati neppure coloro che vivono in una situazione di massiccia uniformità confessionale. Tale è la situazione dell'Italia. Nel nostro paese la presenza ortodossa è quasi del tutto irrilevante e i protestanti formano solo piccole isole nel vasto tessuto cattolico; sono per lo più emarginati, per scelta propria o per necessità. Questa situazione particolare non rende l’ecumenismo superfluo, come se esso fosse compito esclusivo dei cattolici che vivono in paesi ove vige il pluralismo confessionale. Anzi, se la Chiesa cattolica praticasse l’ecumenismo solo là dove si trova in situazione di minoranza, potrebbe essere a buon

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diritto accusata di non credere all’ecumenismo, di usarlo solo come tattica. Solo se il dialogo è adottato anche là dove i cattolici sono in maggioranza, si può credere alla serietà della scelta ecumenica fatta dal Vaticano II.

La necessità di adeguare la prassi alle dichiarazioni di principio è particolarmente urgente in Italia. La singolare importanza della Chiesa di Roma e la presenza in essa della sede papale attribuiscono all’ecumenismo praticato dai cattolici italiani un valore emblematico. L’adozione del metodo ecumenico in Italia, dove la cattolicità non è sottoposta alla pressione di altre confessioni cristiane è più che una questione di coerenza: è la verifica concreta dell’intenzione della Chiesa conciliare circa l’ecumenismo.

Anche a noi cattolici italiani è dunque permesso e comandato di vivere ecumenicamente. E coloro che hanno scelto la vita religiosa sono tenuti più di chiunque altro a pagare il loro debito alla conversione ecumenica.

L’ecumenismo come dialogo

Prima del Vaticano II nell’ambito della Chiesa cattolica si pensava alla riconciliazione tra le varie Chiese in una prospettiva che potremmo dire del «ritorno». La Chiesa cattolica, considerandosi come l’unica vera Chiesa fondata da Cristo e conservante tutte le istituzioni e le dottrine necessarie alla salvezza, stava chiusa in se stessa come in un castello assediato. Se qualche ponte levatoio veniva calato, era per invitare coloro che si erano allontanati a tornare, mai per mettersi essa stessa in cammino. La via per rifare l’unità della Chiesa era la conversione a Roma, il ritorno di tutti i «separati».

La concezione che ha prevalso nel Concilio, e che è riflessa nel decreto Unitatis Redintegratio, rispecchia un’altra idea di ecumenismo, che chiameremo «ecumenismo di dialogo». Mai nel decreto si fa ricorso al termine e al concetto di ritorno.

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Per spiegare il salto qualitativo che è avvenuto, qualcuno ha parlato di «rivoluzione copernicana». L’immagine è delle più appropriate. Nell’ecumenismo del «ritorno» ogni confessione cristiana si considera al centro, come la terra nel sistema tolemaico; gli altri raggruppamenti cristiani girano attorno ad essa, a distanza più o meno ravvicinata. Dopo la «rivoluzione copernicana», invece, il centro dell’universo cristiano non è più occupato dalla propria Chiesa ma dal Cristo. E tutti sono ugualmente pianeti che ricevono luce da colui che è la «luce delle Genti».

Di questo ecumenismo il decreto offre un’abbondante descrizione, che è opportuno tener presente:

«Per "movimento ecumenico" s’intendono le attività e le iniziative che, a seconda delle varie necessità della Chiesa e delle opportunità dei tempi, sono suscitate e ordinate per promuovere l’unità dei cristiani, quali: in primo luogo tutti gli sforzi volti a eliminare parole, giudizi e azioni che non riflettono secondo verità ed equità la condizione dei fratelli separati, e perciò rendono più difficili le reciproche relazioni con loro; poi, in incontri che si tengono con intento e spirito religioso tra cristiani di diverse Chiese e comunità, il "dialogo" avviato tra esponenti debitamente preparati, nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria Comunione, e ne presenta con chiarezza le caratteristiche. Infatti con questo dialogo tutti acquistano una cognizione più vera e più equa della dottrina e della vita di entrambe le Comunioni, e inoltre quelle Comunioni conseguono una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune, e se talora si può, convengono a pregare insieme. Infine, tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com’è dovere, intraprendono con vigore l’opera di rinnovamento e di riforma» (UR, 4).

Da questo denso testo ricaviamo che l’ecumenismo è costituito essenzialmente da tre elementi inseparabili: un atteggiamento

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benevolo di reciproco rispetto, il dialogo dottrinale e pratico, e la conversione di tutti al Cristo. Questi elementi non sono semplicemente accostati, ma si esigono e si fondono reciprocamente. Non ci può essere dialogo, infatti, senza un’accettazione benevola dell’altro; e non si può vedere l’altro nella sua vera luce se non si mette Cristo al centro e ci si volge verso di lui.

Una conseguenza chiara che deriva da questa impostazione è la distinzione tra ecumenismo e conversioni individuali. In verità, «conversione» è un termine inadeguato quando è usato per definire il passaggio di cristiani da una confessione all’altra. Nella Scrittura, infatti, «conversione» designa l’accettazione dell’annuncio del Cristo e il passaggio alla fede; è più opportuno limitare il suo uso a indicare tale evento spirituale. Ad ogni modo, quando avviene il passaggio di cristiani da una confessione all’altra, si ha qualcosa di specificamente diverso dall’attività ecumenica.

Questa distinzione ci orienta a non considerare l’ecumenismo come un’impresa di conversione: una nuova tattica per conseguire delle «conversioni» nel modo più facile. L’ecumenismo respinge ogni forma di proselitismo, cioè una propaganda che operi con mezzi sleali a favore della propria confessione. A tale proposito la dichiarazione sulla libertà religiosa prende posizione con energia:

«Nel diffondere la fede religiosa e nell’introdurre costumanze religiose si deve evitare ogni modo di procedere in cui ci siano spinte coercitive o sollecitazioni disoneste o stimoli meno retti, specialmente nei confronti di persone immature o bisognose: un tale modo di agire va considerato come abuso del proprio diritto e come lesione del diritto altrui» (DH, 4).

Questi inequivocabili principi possono fornire lo spunto per seri esami di coscienza. Anche se si facesse professione esplicita di ecumenismo e si pregasse per l’unità dei cristiani, si tradirebbe l’ecumenismo qualora si avvicinasse il non cattolico con l’intenzione di guadagnarselo a sé. Per arrivare alla comunione mediante il dialogo bisogna passare

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attraverso un’autentica conversione individuale e comunitaria. Rinunciando a rendere l’altro uguale a sé, si accetta il cammino più difficile di rendere se stesso più conforme all’intenzione di Cristo.

L’ecumenismo come riforma e conversione

Nel corso di mezzo secolo di ecumenismo è emerso che la ricerca dell’unità della Chiesa comporta praticamente diverse attività. Essa domanda un dialogo dottrinale, condotto in particolare dai teologi, per confrontare le diverse interpretazioni del patrimonio rivelato; richiede un servizio comune dei cristiani verso il mondo, specialmente una solidarietà attiva con i poveri; esige la preghiera di tutti perché il Cristo stesso ristabilisca l’unità visibile per le vie che egli vorrà. Il dialogo dottrinale, la diaconia e la preghiera rimangono le dimensioni permanenti del movimento ecumenico. Ma sempre più si sente la necessità di trovare un centro di gravitazione di tutte le attività ecumeniche. Bisogna concentrarsi sull’essenziale, per evitare che l’ecumenismo si degradi in attivismo ecumenico.

Il Concilio, nel decreto sull’ecumenismo, viene incontro a questa preoccupazione. Dopo aver esposto nel primo capitolo i principi dottrinali, nel secondo presenta un programma di azione ecumenica. L’elencazione di ciò che i cristiani di diverse confessioni possono fare insieme è preceduta da considerazioni sull’ecumenismo come riforma della Chiesa e come rinnovamento dei singoli cristiani. Il Concilio ci ricorda così che l’ecumenismo prima d’essere un insieme di «cose da fare», è un atteggiamento interiore, uno spirito, una disposizione d’animo. Questo è il nucleo dell’ecumenismo, il suo centro di gravitazione. Senza questo sale, ogni attività ecumenica prima o poi si corrompe. Siamo, pertanto, messi in guardia contro una forma di «trionfalismo ecumenico» che potrebbe insinuarsi quando ci si accontenta di alcune manifestazioni solenni ed esteriori di unità,

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ma che non si traducono nell’acquisto di una nuova mentalità.

«Siccome ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente nell’accresciuta fedeltà alla sua vocazione, esso è senza dubbio la ragione del movimento verso l’unità. La Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (UR, 6).

La crescita nella fedeltà alla propria vocazione è chiamata dal Concilio «rinnovamento» e «continua riforma». L’equivalenza pratica delle due formule ci fa riflettere. Ciò che il Concilio propone alla Chiesa cattolica per il suo rinnovamento è quello sforzo per un più fedele adempimento delle esigenze del Vangelo che le Chiese della Riforma hanno espresso con la formula «Ecclesia semper reformanda» (anche se — a differenza di ciò che avvenne nel XVI secolo — si prospetta una «riforma nella tradizione»).

L’adozione di una formula che per tanti secoli fu combattuta pressuppone una lunga maturazione sotterranea. La Chiesa ha cessato di capire se stessa dall’angolo prospettico di «società perfetta»; essa si considera piuttosto come il popolo di Dio che prosegue il suo pellegrinaggio fra le «sue interne ed esterne afflizioni e difficoltà» (LG, 8).

A livello pubblicistico si è parlato molto del Concilio come superamento dell’«era costantiniana», o del «Medio Evo» o della «Controriforma».

Sono evidentemente degli slogans, efficaci tuttavia per far prendere coscienza del condizionamento storico in cui sono immersi tutti gli aspetti della Chiesa.

Il discorso ha una particolare urgenza per la vita religiosa. Per lungo tempo questa ha espresso la tendenza a comprendersi come «stato di perfezione», all’interno di una Chiesa «società perfetta». Questa prospettiva ha costituito una forza immobilista che ha circonfuso di un’aureola di santità e di intangibilità ogni elemento del passato. Per questa via le comunità religiose, più che alla Chiesa voluta da Gesù,

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si sono spesso avvicinate alla Sinagoga. Come questa hanno rifiutato lo sviluppo e, per fedeltà a forme storiche, si sono sottratte alla fedeltà al presente. Il passato ha fatto da diga alla corrente della vita. E così i religiosi, aggrappandosi a forme acquisite e omologate, non hanno percepito l’appello di bisogni nuovi e di forme nuove. L’impulso alla riforma è stato frenato dalla tendenza a vivere più sul piano delle abitudini che su quello dei principi del cristianesimo.

Alla dimensione sodale-comunitaria della continua riforma della Chiesa peregrinante corrisponde, a livello individuale, il rinnovamento personale dei singoli credenti:

«L’ecumenismo vero non c’è senza interiore conversione; poiché il desiderio di unità nasce e matura dal rinnovamento della mente, dall’abnegazione di se stesso e dal pieno esercizio della carità» (UR, 1).

La conversione di cui qui si tratta non è ristretta alla trasformazione morale dei costumi. Ci si riferisce infatti a quell’evento spirituale che il greco del Nuovo Testamento chiama metànoia. Esso comporta l’abbandono dell’umana autosufficienza e della ricerca di sé, il radicale rivolgersi a Dio nella pronta disposizione a compiere la sua volontà, il cambiamento del modo di pensare e il rovesciamento della gerarchia dei valori a partire dalla fede. Il testo conciliare stesso ci indirizza verso questa interpretazione di «conversione», rimandando al testo paolino di Ef 4,23, dove i cristiani sono invitati a «rinnovare spiritualmente l’intelletto», ossia a una trasformazione spirituale del giudizio.

L’ecumenismo ci appare qui come un movimento che è spirituale nella sua intima essenza; «spirituale», cioè operato dallo Spirito. Per questo motivo la metànoia non è frutto esclusivo della buona volontà dell’uomo e dev’essere chiesta nella preghiera. Continua infatti il testo conciliare:

«Dobbiamo implorare dallo Spirito divino la grazia di un sincera abnegazione, dell’umiltà e mansuetudine nel servire e della fraterna generosità d’animo verso gli altri» (UR, 7).

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Il primo frutto di un tale rinnovamento spirituale è la rinuncia all’apologetica prepotente, che tace delle colpe e degli errori della propria Chiesa, ma sottolinea con forza le debolezze delle altre Chiese.

Della conversione fa parte invece il riconoscimento delle proprie colpe.

Nell’esercizio concreto del dialogo s’impara che cos’è la conversione. Essa richiede che ci si accosti all’altro rinunciando a porre se stesso — la propria Chiesa, la propria teologia, la propria spiritualità, la propria famiglia religiosa — come parametro di confronto. La conversione avviene quando si vince la tentazione di farsi centro, di tutto riferire a sé, e si prende Gesù Cristo come punto di riferimento, principio, guida e fine.

Questo è l’esercizio dell’ecumenismo che precede tutti gli altri e che coinvolge tutti, indistintamente, i credenti in Cristo. Con linguaggio tradizionale può essere detto crescita nella santità della vita. Così ne parla il Concilio:

«Si ricordino tutti i fedeli che tanto meglio promuoveranno, anzi vivranno in pratica l’unione dei cristiani, quanto più si studieranno di condurre una vita più conforme al Vangelo.

Questa conversione del cuore e questa santità di vita, insieme con le preghiere private e pubbliche per l’unità dei cristiani, si devono ritenere come l’anima di tutto il movimento ecumenico e si possono giustamente chiamare ecumenismo spirituale» (UR, 7-8).

La via del rinnovamento e della conversione è così tratteggiata da R. Bertalot, ecumenista evangelico: «La vocazione della Chiesa è di essere il sale della terra. Ciò che fa sì che il sale non sia insipido è il dono di Dio... L’ecumenismo è la ricerca di una risposta all’interrogativo sul dono di Dio, sul sale della terra. Non è la somma delle nostre teologie, dei nostri valori, non è mosaico o un amalgama, non è una costruzione ben dosata della nostra sapienza. Esso è invece la ricerca della volontà di Dio, della sua guida e della sua unità. È la ricerca di ciò che ci costituisce sale

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della terra, luce del mondo. L’ecumenismo è un crogiuolo nel quale Dio ci afferra, ci giudica e ci rinnova. L’atto costitutivo del sale è il ravvedimento, la conversione, il pentimento delle Chiese. È lì che la vera facies della Chiesa diventa visibile sulla terra» (Ecumenismo protestante).

Conoscersi per amarsi

Quando si accetta la prospettiva fatta propria dal Vaticano II dell’ecumenismo come dialogo e come esigenza di conversione e riforma per tutti, si trasforma di conseguenza il modo di pregare per l’unità dei cristiani. La preghiera per l’unità non potrà più poggiare sull’ideologia del «ritorno». Così si pregò per lungo tempo, adottando l’«Ottavario per l’Unità della Chiesa» iniziato dalla comunità dell’Atonement di Paul Wattson. Giorno dopo giorno i cattolici chiedevano la «conversione» e il «ritorno» di tutti i cristiani dissidenti, come pure la «conversione» dei musulmani, dei pagani e degli ebrei.

L’Abbé Couturier ha rivoluzionato la settimana di preghiere, liberandola dalla sua nota proselitistica. Egli ha insegnato a desiderare non più il ritorno degli «altri», bensì la santificazione di tutti: si prega perché tutti si avvicinino di più al Cristo, mediante la conversione del cuore, fedeli alla conoscenza del Cristo che si ha nella propria Chiesa. A ciascuno è chiesto, dunque, di andare fino in fondo alla propria fedeltà, quale ora la vive; non di prescindere dalle proprie convinzioni particolari, né di rinunciare alla propria confessione. Quando ci accostiamo alla preghiera che Gesù stesso fa per la sua Chiesa, ci rendiamo conto che la sua intenzione supera tutto ciò che noi, individualmente ed ecclesialmente, possiamo pensare. Allora la preghiera ecumenica non può domandare di ridurre gli altri alla nostra unità, bensì che «venga l’unità visibile del regno di Dio, come Cristo la vuole e attraverso i mezzi che egli vuole», secondo la formula dell’Abbé Couturier.

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Il cambiamento di prospettiva si riflette, oltre che nella preghiera, anche sul piano intellettuale, nell’atteggiamento che i cristiani hanno verso la tradizione teologica ed ecclesiale delle altre confessioni. Il dialogo rende possibile la conoscenza reciproca. «Per unirsi bisogna amarsi; per amarsi bisogna conoscersi», diceva il card. Mercier. L’amore del Cristo dà la limpidità di sguardo necessaria per conoscere l’altro nel suo mistero; ma l’amore spesso si nutre di conoscenza se non vuol scadere in vago sentimentalismo.

Il dialogo che tende alla conoscenza dell’altro dev’essere da pari a pari. «Il dialogo — secondo il documento sul dialogo del segretariato per l’unità — esiste quando ogni partecipante ascolta e risponde al tempo stesso, cerca di comprendere e di farsi comprendere, interroga e si lascia interrogare, si mette a disposizione e accoglie gli altri, allo scopo di avanzare insieme verso una più grande comunione di vita, di vedute, di realizzazioni». Parità dal punto di vista del dialogo vuol dire che a tutti i partecipanti spetta la stessa posizione: nessuno è privilegiato. Non ci sono alcuni che hanno il diritto di insegnare solamente, né altri che hanno il dovere di imparare solamente. Se si ammette che l’altro ha anche lui qualcosa da dirci, tutti hanno lo stesso diritto di parlare e lo stesso dovere di ascoltare. Tra cristiani ciò presuppone che gli interlocutori si riconoscano a vicenda come incorporati al Cristo e in una certa comunione reciproca.

Lo studio dei fratelli separati dev’essere condotto, secondo le indicazioni del Concilio, non solo «secondo verità» ma anche «con animo ben disposto». L’atteggiamento di simpatia e di disponibilità è condizione previa a ogni conoscenza profonda. Anche lo studio, se non vuole essere un’attività accademica, ha bisogno dell’ambiente vitale creato dall’essere cristiani nella carità. L’animo ben disposto è quello che, rinunciando a un atteggiamento di potenza e di autoaffermazione, è aperto a comprendere l’altro; anche per conoscersi reciprocamente è necessaria perciò la conversione evangelica, la metànoia.

«Bisogna conoscere l’animo dei fratelli separati... I cattolici debitamente preparati devono acquistare una

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migliore conoscenza della dottrina e della storia, della vita spirituale e liturgica, della psicologia religiosa e della cultura propria dei fratelli» (UR, 9).

Una particolare formazione ecumenica è richiesta a quei cristiani ai quali è affidata una missione o un compito speciale nel mondo. Il Concilio raccomanda che la formazione dei futuri sacerdoti sia fatta nello spirito ecumenico.

Come non includere i religiosi e le religiose nel numero dei cristiani dai quali si desidera una maggiore competenza e preparazione per il dialogo ecumenico? Sono proprio i religiosi, infatti, che svolgono compiti tra i più delicati nella Chiesa: l’insegnamento, l’attività missionaria, l’assistenza caritativa. A tutti costoro è chiesto di conoscere e di tener presente il mistero di grazia di Dio che si esprime nella vita concreta delle altre Chiese.

L’unità piena, quella voluta dal Cristo per la sua Chiesa, i cristiani si preparano ad accoglierla come il grande dono che Dio solo concederà, nel modo e nell’ora che vorrà; tuttavia la conoscenza reciproca maturata nel dialogo fa progredire le Chiese nella partecipazione a questo mistero di unità.

L’unità nel servizio all’uomo

Se i cristiani s’impegnano, mediante la conversione e la riforma, la preghiera comune e il dialogo dottrinale, a rendere più vera e più visibile l’unità della Chiesa, non è per il proprio confort spirituale, né per star meglio insieme. L’unità della Chiesa è finalizzata al mondo, come testimonianza e come servizio all’uomo. Il movimento ecumenico, riflettendo sulla preghiera di Gesù («che essi siano uno, affinché il mondo creda che tu mi hai inviato», Gv 17,21), ha portato in primo piano i concetti di martyría (testimonianza) e diakonía (servizio), quale finalità intrinseca degli sforzi verso l’unità. L’ecumenismo tende perciò per natura sua a tradursi in azione e in segni visibili.

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Molti cristiani oggi si domandano se nell’ecumenismo non si parli troppo e si agisca troppo poco. C’è una quantità di obiettivi nel campo della comune confessione di fede e della cooperazione nel campo sociale che potrebbero essere conseguiti insieme anche nello stato attuale di divisione tra le Chiese.

La confessione di fede è una testimonianza data attraverso la parola. I contenuti di fede comuni a tutti i cristiani — mistero trinitario, incarnazione salvatrice, speranza escatologica del regno — sono i più fondamentali, quelli il cui «nesso col fondamento della fede cristiana» è più stretto.

Nella comune testimonianza della fede un posto privilegiato spetta alla sacra Scrittura. La traduzione e la diffusione comune della Bibbia è l’impegno pratico primordiale comune a tutti i cristiani. Purtroppo è ancora vivo il ricordo del tempo in cui le librerie cattoliche erano ermeticamente chiuse per le Bibbie protestanti; anzi, la diffusione della Bibbia appariva come l’attività tipica degli evangelici, quasi il loro monopolio. Molti pregiudizi restano da abbattere e molto tempo perduto da recuperare.

La cooperazione nel campo sociale è l’altro modo di testimoniare al mondo l’unica fede che unisce i cristiani, al di là delle loro divisioni confessionali. Se per tutti gli uomini, e per i credenti in Dio in modo particolare, la condizione del fratello oppresso o bisognoso è un appello a un impegno, per il cristiano questo servizio è richiesto dalla fede stessa in Cristo:

«La cooperazione di tutti i cristiani esprime vivamente quella unione che già vige tra di loro e pone in più piena luce il volto di Cristo-servo» (UR, 12).

I cristiani adempiono meglio questo mandato quando compiono il solo servizio all’uomo non confessionalmente divisi, ma in un lavoro comune. La Chiesa appare così come una comunità di servizio nella sequela di Cristo. Per questa via dell’emulazione fraterna nel lavare i piedi agli ultimi, sull’esempio di Cristo, i credenti si riavvicinano reciprocamente

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e scoprono un’unità che le divergenze dottrinali non lascerebbero supporre.

Le possibilità di questa collaborazione sono illimitate, senza numero come i bisogni sempre nuovi degli uomini, e senza limiti come la fantasia creatrice, guidata dall’amore. Riesce difficile tuttavia dare dei suggerimenti concreti validi universalmente. È piuttosto a livello locale che devono essere individuate le necessità e proposti gli obiettivi da seguire in cooperazione, proporzionatamente alla maturazione ecumenica raggiunta localmente. Ai religiosi si domanderà allora di avere a cuore un’integrazione nella pastorale della Chiesa locale, vista come luogo in cui l’orientamento ecumenico generale della Chiesa universale si particolarizza e si concretizza. Là, nella Chiesa locale, sarà dato loro di «ascoltare ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (cf Ap 3,22).

Le domande che l’ecumenismo rivolge alla vita religiosa non sono della pura provocazione. Se le si approfondisce in clima di dialogo, risultano altrettanti cammini per tornare all’essenziale. La vita religiosa così ripensata, così «reinventata», diventa il sale di cui ha bisogno l’intero corpo della cristianità.

Non sarebbe prudente azzardare un quadro preciso dei tratti che la vita religiosa è destinata ad assumere con l’apporto polifonico delle varie tradizioni cristiane. La delicatezza nevralgica dell’argomento impone discrezione. Tuttavia una cosa è certa: la vita religiosa del futuro sarà sempre più di beatitudini. Si ispirerà più chiaramente al discorso della montagna, punto di partenza di tutta l’avventura cristiana. In questa certezza osiamo proporre una riflessione sulla felicità cristiana delle beatitudini; la presentiamo come struttura portante dell’esistenza di chiunque prende il cammino della sequela di Cristo.

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LA VITA RELIGIOSA SECONDO LO SPIRITO DELLE BEATITUDINI

L’umanità sta attraversando una vasta crisi di civiltà, che unifica le culture più diverse sotto interrogativi comuni. Si assiste a un cambiamento di sensibilità collettiva, alla ricerca di un nuovo modo di vivere. La laboriosa gestazione in corso può riassumersi nella domanda: che cammino seguire per costruire una vita umana felice, e secondo quale tipo di felicità?

Anche tra i discepoli di Cristo ci si interroga in modo nuovo sulla felicità. I cristiani del nostro tempo stanno liberandosi da una concezione alienante della fede, tendente a inculcare la rassegnazione. La felicità promessa da Gesù non è monopolio di coloro che, dopo aver attraversato questa valle di lacrime nella rinuncia e nella virtù, sono accolti nel numero dei beati. Il Vangelo è una «buona notizia»: annuncio sorprendente di un intervento di grazia, che fa esplodere la festa nell’intimo di coloro che raggiunge. E i cristiani, oggi, non si sottraggono più alla festa. Ma allora, da che cosa riconoscere la felicità che viene da Dio? E come vivere la felicità delle beatitudini nella nostra società?

La felicità come progetto e come dono

Un progetto di felicità sottende la vita. Il progetto individuale può scoprirsi in opposizione irrimediabile con il progetto che regge la vita sociale attuale. E la felicità promessa

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da Cristo, a sua volta, pur colmando la speranza più intima, può situarsi a un livello che sconvolge il progetto personale. Ecco perché il primo passo da fare è una riflessione sul rapporto che esiste tra la felicità promessa dalla società, la felicità che ognuno spera e quella annunciata dal Cristo.

Il dovere fondamentale dell’uomo contemporaneo è di riuscire a ritrovare le sue esigenze più profonde, per giungere a considerare con sguardo critico la società di cui fa parte.

Questa si fonda su una promessa di felicità. È un vangelo «secolare» che conosce una sola beatitudine: beato colui che possiede! Un messaggio tacito è alla base di tutti gli annunci pubblicitari: «Ti manca una sola cosa per essere felice; va, comprala, e sarai appagato».

La promessa della felicità, legata ai beni della società dei consumi, attira l’uomo in un abisso senza fondo. Infatti è impossibile soddisfare i bisogni propriamente umani (bisogni spirituali, bisogno di vivere la festa, esigenze di gratuità e d’amore) se i bisogni primari, a fondamento biologico, non sono stati prima soddisfatti. Ora, nella nostra società del benessere i bisogni primari sono ipertrofizzati. Il miglioramento delle condizioni di vita soddisfa solo temporaneamente. Sentendosi squilibrato, l’uomo torna ai bisogni primari e domanda sempre di più: più beni, salari più alti, e perciò più lavoro... L’uomo piange come un bambino che non arriva a capire le proprie necessità: ha fame di qualcosa e non sa di che cosa; si cura un dolore al piede, mentre soffre per un tumore cerebrale.

La reazione dei giovani si rivolge direttamente contro il meccanismo frustrante della società dei consumi. Si rompe il circolo vizioso, perché si rifiuta di cercare la felicità nella direzione delle promesse sempre rinnovate e mai mantenute. Sfuggendo alla prigione del benessere e del conformismo, i più audaci pionieri del nostro tempo progettano di costruire una felicità a misura d’uomo. Siccome la felicità risiede nella pienezza, battono sentieri nuovi per soddisfare i bisogni più propri all’uomo: il bisogno di amare, senza ipocrisia; il bisogno di essere libero, abbattendo i muri invisibili

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delle prigioni che sono i beni; il bisogno di creare, per piacere e non per obbedire al mito dell’efficacia; il bisogno di contemplare e adorare.

Ma anche la ricerca della felicità nella densità umana resta un progetto mai completamente realizzato. Così il signore burbero della Cittadella di Saint-Exupéry rinuncia nella sua saggezza a costruire la felicità del suo popolo. Ecco i suoi pensieri sulla felicità: «Se vuoi capire questa parola, devi capirla come ricompensa e non come scopo, perché allora non ha significato. Allo stesso modo so che una cosa è bella, ma rifiuto la bellezza come scopo... Nel silenzio del mio amore mi sono molto attardato a osservare quelli del mio popolo che sembravano felici. E ho sempre concepito che la felicità veniva loro come la bellezza alla statua, per non essere stata cercata. E mi è sempre apparso segno della loro perfezione e della qualità del loro amore. Non domandare dunque a me, capo di un impero, di conquistare la felicità per il mio popolo. Non domandare a me, scultore, di correre dietro alla bellezza: mi siederei, non sapendo dove correre. La bellezza diventa così la felicità. Domandami solamente di costruir loro un’anima in cui un tale fuoco possa bruciare».

La felicità fondata sulla pienezza dell’essere, e non sull’avere, non è a nostra disposizione. La si riceve come dono.

Questa è la via umana per avvicinarsi sempre di più a capire la felicità di Dio come grazia.

Tuttavia la tendenza a considerare la felicità come termine finale di un progetto può insinuarsi anche nell’ambito del divino. Ciò avviene quando il Vangelo è rinchiuso nella prigione del moralismo. È moralismo presentare la vita cristiana come un’enorme montagna da scalare, a forza di rinuncia, di sacrificio e di fatica. È moralismo interpretare le beatitudini come un cammino offerto alla nostra volontà per poter raggiungere, al termine di esso, il Cristo. Gesù è già salito sulla montagna e i suoi discepoli sono già attorno a lui, quando egli annuncia loro le beatitudini (cf Mt 5,1).

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Se le beatitudini fossero una perfezione da conquistare mediante lo sforzo personale, si rivelerebbero un’oppressione per l’uomo. Si vorrebbe gridare a quel dio, che costringe l’uomo a meritare il suo regno, che domanda un prezzo troppo alto per le forze umane. Nessuno è tanto intelligente da poter comprendere la felicità che risponde alle sue esigenze più inespresse, né è capace di un tale amore da poter vivere secondo lo spirito delle beatitudini. Gesù si rivolge a persone che sembrano escluse dalla felicità, perché prigioniere di situazioni, le più lontane possibili da un progetto di felicità. È a loro favore, invece, che si esprime la benevolenza di Dio, in modo del tutto inatteso. Sono invitati a rallegrarsi, perché il dono di Dio ha raggiunto proprio loro.

E Dio è libero e imprevedibile nei suoi doni. Se si vede spuntare la felicità delle beatitudini, vi si deve riconoscere l’azione di Dio che ha seminato e fatto crescere. Certo, si può preparare la festa; ma alla fine è sempre necessario un fuoco dall’alto per accendere le candele.

Il Cristo, l’uomo della felicità del Regno

La felicità data da Dio ha il suo perno nel Cristo. Gesù è anzitutto l’araldo della buona notizia della salvezza accordata da Dio. L’intervento di Dio annunciato dai profeti antichi e atteso da sempre è ormai prossimo; coloro che stanno per essere raggiunti dalla potente mano di Dio sono invitati ad aprire i cuori a un annuncio che li riguarda. Ecco la «buona notizia»: Dio viene a prendere le difese degli oppressi; la loro beatitudine è legata a ciò che sta per accadere in loro favore: «Beati voi, i poveri, perché il regno di Dio è per voi. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete perché riderete» (Lc 6,20-29). Ai diseredati, ai poveri, agli afflitti, agli affamati è promessa la felicità del Regno. Il Regno deve ancora venire, ma gli infelici possono già fin d’ora stimarsi felici. Non possiedono ancora il Regno, tuttavia esso è, già fin

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d’ora, per essi, appartiene loro a pieno diritto. La felicità che è promessa loro non è una consolazione ipotetica riservata al futuro. Dio sta per inaugurare il Regno. Il giorno della salvezza è così vicino, che quelli che soffrono possono già accogliere la felicità del Regno nel loro cuore. Il Messaggero, al cui sguardo l’ultima ora è già svelata, guarda la situazione presente con occhi diversi da quelli degli uomini.

La sua parola e il suo comportamento rivelano che ci sono dei privilegiati rispetto alla felicità del Regno: sono quelli che, umanamente, hanno meno titoli per pretendere la felicità. Il privilegio tocca ai poveri, agli infelici, ai bambini e ai peccatori. Rispetto alle previsioni umane l’annuncio è una sorpresa sconcertante. La proclamazione della loro beatitudine è la rivelazione del cuore di Dio.

Il segno più grande dell'imminenza del Regno è la presenza di Gesù. Il Regno è presente nella sua persona, anche se ancora in forma umile e nascosta. Per questo Gesù è al centro della beatitudine. La felicità di Dio non è un ideale astratto; è ciò che la vita di Gesù fa trasparire. Ecco perché l’incontro con Gesù lascia dietro di sé una scìa di felicità per coloro che hanno occhi per vedere (cf Lc 10,23).

Una felicità che crea una festa intima

La felicità cristiana dipende dalla parola di Dio in Gesù Cristo; essa ne è l’origine e la condizione permanente. Ma in che misura questa felicità trasforma la persona che vi consente? Quali nuovi rapporti crea tra gli uomini? Siamo condotti così ad esplorare due dimensioni della felicità cristiana: la felicità che trasforma la persona e quella che cambia la società.

Quando incontra la «buona notizia» l’uomo esulta di gioia, anche se si trova ancora in seno alla madre come Giovanni Battista (cf Lc 1,34). Si apre per lui un tempo di festa: «L’amico dello sposo che è là e lo sente, è rapito di gioia alla voce dello sposo» (Gv 3,29). Non c’è mezzo

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più adatto ad esprimere la festa intima che la gioia di un banchetto. È attorno a una tavola che Gesù ha celebrato le grandi realtà del regno di Dio: l’annuncio della salvezza agli sviati (cf Lc 19,1-10), il perdono ai peccatori (cf Lc 7,36-50), la fraternità nuova tra gli uomini (cf Mt 9,14-17). Proprio con un pasto ha voluto che i suoi ricordassero il tempo della sua intimità con gli uomini e partecipassero per anticipazione alla gioia del banchetto eterno (Lc 22,14-20).

E i suoi discepoli hanno continuato dopo la sua pasqua a «spezzare il pane nelle loro case, prendendo il cibo con gioia e semplicità di cuore» (At 2,46).

L’anima della festa è l’amore: proposta d’amore da parte di Dio per creare una reciprocità d’amore da parte dell’uomo. Nella pienezza dei tempi il rapporto personale tra l’uomo e Dio si concretizza nell’incontro con l’uomo Gesù. L’offerta e la domanda d’amore passa attraverso di lui. «Gesù fissò su di lui il suo sguardo e l’amò. E gli disse: "Una sola cosa ti manca: va, vendi quello che hai, dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; poi vieni, seguimi"» (Mr 10,21).

La domanda non è sempre esplicita come quella rivolta a Pietro: «Simone, mi ami tu più di costoro?» (Gv 21,15ss). Ma le esigenze dell’amore totale sono sempre sottintese e giustificano il carattere assoluto delle richieste di Gesù: «Chi ama suo fratello o sua madre più di me non è degno di me... Chi avrà trovato la sua vita la perderà, e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà» (Mt 10,37-39).

Il Cristo domanda d’essere disposti a perdere i beni, la famiglia e perfino la propria vita. Questo potrebbe essere in certe circostanze il prezzo domandato per difendere l’amore.

Il rovesciamento di valori provocato dall’incontro con Gesù è una conseguenza della festa intima. Lo si vede chiaramente nell’ambito della povertà. Colui che ha capito che è chiamato ad amare il Signore e i fratelli con tutto il suo essere non può più attaccarsi a niente in modo assoluto. La felicità non consiste nella povertà in sé, ma nell’amore che rende povero. «Il regno dei cieli è simile a un tesoro che

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era nascosto in un campo e che a un uomo capita di trovare: lo nasconde di nuovo, se ne va pieno di gioia a vendere tutto ciò che possiede e compra il campo» (Mt 13,14).

Uno dei segni più visibili della festa intima resta il celibato. Accanto a coloro ai quali il matrimonio è rifiutato dalla natura o dalle circostanze, se ne trovano altri che vi rinunciano spontaneamente in vista del regno dei cieli: «Non tutti possono comprendere questo linguaggio, ma solo quelli ai quali è concesso» (Mt 19,11-12). Gesù assicura che ci può essere un celibato che non deriva da un vuoto, ma da una pienezza; questo celibato può sbocciare solo in un cuore che è già abitato da un primo amore.

Il fatto di concentrarsi sull’essenziale dà alla vita dell’uomo, nonostante i cambiamenti, una stabilità profonda. Quale sarebbe, infatti, la cosa a cui attribuire tanto valore da eclissare la festa? Ma non bisogna confondere questa felicità della festa vissuta nell’intimo con il benessere psicologico.

La festa si situa a un altro livello: nelle profondità in cui siamo conosciuti e amati da Dio. Siamo liberati così dalla paura di fare della festa il risultato di un’autosuggestione o di una proiezione psicologica; non identifichiamo più la prossimità di Dio con i nostri stati euforici o con le congiunture felici della stessa esistenza. Se la felicità promessa dal Cristo dipendesse dal benessere psicologico, sarebbe soggetta alle fluttuazioni degli umori, delle situazioni, dell’ambiente. Gesù, al contrario, ha assicurato i suoi discepoli: «La vostra gioia nessuno ve la potrà togliere» (Gv 16,22). La felicità che egli dona non è il lampo di un momento.

Questa felicità è per tutti, tanto per coloro che hanno avuto in sorte un temperamento felice, quanto per quelli che sono destinati a soffrire complicazioni senza fine; per gli uccelli che amano la luce, come per quelli che sono chiamati a vivere la notte. Psicologicamente forse questa felicità non sarà sempre percepibile. Gesù stesso ha conosciuto momenti di oscurità assoluta («Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?»). È il Padre che ha consacrato il Cristo uomo della beatitudine mediante la risurrezione. Non

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sta a noi dirci felici. È il Cristo che fa sentire al nostro orecchio la sua voce: «Beato!...», anche quando ci sentiamo agli antipodi della beatitudine.

Non bisogna dimenticare infine che la felicità data da Dio porta ciascuno a conoscere la croce. È vero che nel Cristo Dio dice un sì all’uomo, ma all’uomo nella sua pienezza quale Dio la vede nel proprio disegno di grazia. Nessun progetto umano, neanche il più puro e il più elevato, può colmare la misura prevista dalla sapienza piena d’amore di Dio; di conseguenza è destinato a infrangersi, per rifondersi a un livello più alto. È avvenuto così anche per il Cristo. Il fallimento del suo progetto umano fu la croce; ma il disegno del Padre l’ha condotto fino alla risurrezione.

Non stupisce che una delle parole rivolte da Gesù ai suoi discepoli riguardi la croce: «Chi non prende la croce e non viene dietro di me, non è degno di me» (Mt 10,38). La croce non è la morte della felicità. È solo la condizione posta per l’accesso a una pienezza che nessuna misura umana può contenere.

Nuovi rapporti umani nello spirito delle beatitudini

La festa non è fatta per essere conservata per se stessi; essa esiste per essere condivisa. La felicità cristiana diventa così una forza di trasformazione dei rapporti umani. Il contagio della felicità è spontaneo, prima ancora di essere voluto deliberatamente. Un’anima che canta dà il tono in sordina e invita a far coro.

La condizione perché si creino nuovi rapporti è la trasformazione dello sguardo di colui che si sente, a sua volta, guardato in maniera diversa da Dio. L’uomo può guardare il suo simile come un oggetto utilitario, fissarlo nell’immobilità di una cosa. Ma colui che incontra il Cristo scopre una nuova possibilità di guardare. Dio non ci fruga con uno sguardo indiscreto; attraverso il Cristo ci interpella, sollecita

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un’apertura del cuore che risponde al dono che egli fa di se stesso. Non conosce l’uomo con la fredda imparzialità del contabile che misura peccati e virtù, con il rigore dello scienziato che osserva e verifica, ma con l’amore appassionato di colui che si lega a una persona. Egli dice a Israele: «Non ho conosciuto che voi di tutte le famiglie della terra» (Am 3,2); tramite il profeta Osea spiega questa relazione come l’impegno che il fidanzato prende nei confronti della fidanzata (cf Os 2,4-25). Dio guarda l’uomo con gli occhi dell’amore che è parziale.

Colui che è guardato in questo modo scopre l’impurità del proprio sguardo. Consentendo alla felicità del Regno, può gustare fin d’ora la beatitudine dei «puri di cuore», anche se la possibilità di «conoscere così come è conosciuto» (cf 1Cor 13,12) non gli è offerta che nell’incontro finale con Dio. I puri di cuore vedono gli uomini come li vede Dio. È dato loro di scorgere il rovesciamento delle gerarchie cantato dal Magnificat. I rapporti umani, quando non sono più rosi dal tarlo dell’interesse, si trasformano in un dialogo che permette di scoprire nell’altro delle virtualità nascoste.

I puri di cuore si incamminano verso una comunicazione tra le persone per trasparenza, riflesso di un dialogo di amore della Trinità divina.

È possibile costatare la trasformazione operata dalla felicità cristiana nel più fondamentale dei rapporti umani: il rapporto uomo-donna nella comunità familiare. Ora che in Cristo Dio ha rivelato un’altra maniera di amare, la trasformazione del rapporto uomo-donna può arrivare fino a rendere possibile la fedeltà reciproca, che umanamente sembra assurda perché va contro l’interesse individuale.

La fedeltà, prima di essere un obbligo morale, è una possibilità nuova creata dalla felicità cristiana all’interno dell’istituzione familiare.

Tutte le altre strutture sociali prendono ugualmente un aspetto nuovo quando sono vissute a partire dalla buona notizia del Regno. È la stessa felicità creatrice della festa intima che spinge a inventare strutture sociali che siano

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espressione e supporto della felicità. Colui che ha scelto i poveri, gli afflitti, gli emarginati per introdurli come privilegiati nella sua felicità, continua a operare sconvolgimenti: «Voi sapete che si considerano come capi delle nazioni coloro che le comandano da padroni e che i grandi fanno sentir loro il proprio potere. Tra di voi non deve essere così: al contrario, colui che vorrà diventare grande tra di voi si farà vostro servitore, e colui che vorrà essere il primo tra di voi si farà schiavo di tutti» (Mr 10,42-44). Il precetto di Gesù: «Amatevi come io vi ho amato», implica che l’amore del cristiano si volge di preferenza verso quelli che sono i più lontani dalla felicità. È un amore che rivoluziona i valori stabiliti. Domanda uno sguardo che sappia scoprire un tesoro nascosto là dove di solito non si vede che un campo da sfruttare.

«Se Dio ci ha tanto amato, dobbiamo anche noi amarci gli uni gli altri» (1Gv 4,11). La comunione di coloro che, obbedendo alla festa interiore, assumono la responsabilità gli uni degli altri, è la Chiesa. Là dove la Chiesa celebra la propria giovinezza, sorgono comunità religiose. E chi ha imparato dalla parabola del fico (cf Mt 24,32) a riconoscere il senso degli avvenimenti, vedendo che i rami diventano flessibili e spuntano le foglie, sa che l’estate è prossima.

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SPUNTI DI REVISIONE DI VITA

Ad utilità di coloro che, individualmente o in gruppo, volessero sottoporsi a un confronto o revisione di vita sulle istanze dell’ecumenismo, suggeriamo alcuni spunti di riflessione:

― Il «dialogo» è una delle forme più esigenti della vita sociale. Non domanda semplicemente la buona volontà o un po’ di tolleranza verso l’«altro», ma richiede una vera e propria «conversione». Siamo in grado di distinguere tra proselitismo, polemica, tolleranza e dialogo?

― La nostra conoscenza dei cristiani di altre confessioni deriva in parte da studio e informazione diretta, in parte da cliché e idee preconcette che abbiamo assunto inconsciamente. Applichiamoci a riconoscere le fonti delle nostre conoscenze. Potremmo avere delle sorprese, costatando quanto sono invadenti e tenaci i pregiudizi...

― Forse siamo già convinti che l’ecumenismo non sia un’etichetta da attaccare ad alcune attività; forse abbiamo già assimilato la lezione del Concilio, che ci indica nell’ecumenismo una dimensione essenziale del cristianesimo. Crediamo che l’ecumenismo possa anche rinnovare la vita comune, indicandole un cammino per diventare più pienamente evangelica?

― Abbiamo mai partecipato a giornate di studio per una informazione seria sull’ecumenismo o a sessioni di formazione ecumenica? È possibile una conoscenza più diretta

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delle forme di vita comunitaria degli altri fratelli cristiani, mediante scambi, visite, soggiorni più prolungati?

― Quali sono i contatti con l’ecumenismo a livello locale (gruppi ecumenici già esistenti, commissioni diocesane, istituti di ricerca)?

― Riflettiamo sulle situazioni pastorali concrete in cui si presentano problemi di ordine ecumenico:

catechesi (nelle scuole cattoliche i bambini protestanti soffrono discriminazioni? La catechesi ai cattolici ha un orizzonte ecumenico, o contribuisce a perpetuare i pregiudizi?);

cura degli infermi (si cerca ancora di ottenere «conversioni», facendo pressione sui malati di altre confessioni? Si favorisce loro il contatto con i propri pastori?);

matrimoni misti.

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BIBLIOGRAFIA

Per coloro che dovessero ancora acquisire le nozioni fonda- mentali circa il movimento ecumenico e la posizione che la Chiesa cattolica ha assunto in esso prima e dopo il Concilio, suggeriamo come bibliografia essenziale:

Villain M., Introduzione all’ecumenismo, ed. EMI, Parma 1964.

Bea A., Il cammino all’unione dopo il Concilio, ed. Morcelliana, Brescia 1966.

Jaeger L., Il decreto conciliare sull’ecumenismo. Storia contenuto e significato, ed. Morcelliana, Brescia 1965.

Vinay V., Il Concilio Vaticano II in una visuale protestante italiana, ed. Claudiana, Torino 1964.

Bertalot R., Necessità del dialogo ecumenico, ed. Morcelliana, Brescia 1964.

Bonadio J., Dialogo ecumenico, ed. Dehoniane, Bologna 1968.

Schutz R., L’unità, speranza di vita, ed. Morcelliana, Brescia 1962.

Spinsanti S., Ecumenismo, dispense del centro «Ut unum sint», Roma 1973.

Martineau S., Pedagogia dell’ecumenismo, ed. La Scuola, Brescia 1969.

Circa il problema specifico che abbiamo trattato nel quaderno, cioè la dimensione ecumenica nel rinnovamento della vita religiosa, si può consultare in particolare:

P. Couturier, Ecumenismo spirituale, ed. Paoline, Alba 1965.

Desseaux J., Consacrate ed ecumenismo, ed. Paoline, Alba 1970.

Studi francescani 1 (1971): il fascicolo è dedicato alla «vita religiosa ecumenica».

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Perchenet A., Renouveau communautaire et Unité chretienne. Regards sur les communautés anglicanes et protestantes, ed. Marne 1967.

PP. Trappisti, Per l’unità dei cristiani: l’offerta di Suor Gabriella, ed. Marietti, Torino 1963.

Suor Giovanna D’Arco, Consacrate e testimoni, ed. Paoline, Alba 1968.

Schutz R., L’oggi di Dio, ed. Morcelliana, 1962.

Bonadio J., Dialogo ecumenico, ed. Dehoniane, Bologna 1969.

Le comunità che volessero restare al corrente di ciò che avviene in ambito ecumenico non trascurino l’abbonamento almeno a una rivista specializzata. Tra quelle che si pubblicano in Italia ricordiamo:

Oikoumenikon (bimestrale), rassegna dell’ecumenismo cattolico, Roma.

Unitas (bimestrale), organo dell’Associazione «Unitas», Roma.

Comunione (trimestrale), rivista della comunità di Taizé.

Ut unum sint (bimestrale), del Centro «Ut unum sint» in collaborazione con il «Centro Uno» del Movimento dei Focolari, Roma.

Da non dimenticare inoltre The Ecumenical Review (trimestrale) rivista ufficiale del Consiglio ecumenico delle Chiese.

Segnaliamo infine la preziosa attività di formazione ecumenica svolta in Italia dal Segretariato Attività Ecumeniche (SAE). Attraverso le sue sessioni estive, di cui pubblica poi gli Atti, è da un decennio una scuola di ecumenismo per sacerdoti, pastori, religiosi e laici. A livello locale favorisce la formazione di gruppi ecumenici per l’ascolto comune della Parola e lo scambio fraterno. Per informazioni rivolgersi alla sede del Segretariato, via della Cava Aurelia, 8 - 00165 ROMA.

[quarta di copertina]

VITA E DIVENIRE DELLA COMUNITÀ'

«Al confronto ecumenico nessun cristiano deve sottrarsi. Neppure i religiosi e le religiose. La consacrazione alla vita religiosa non li mette al sicuro e al di fuori dell’occhio del ciclone; non li dispensa dall’interrogarsi, dal mettersi in discussione, dal ricercare un'identità più conforme al Vangelo. Essi sono tenuti più che ogni altro a pagare il loro debito alla conversione ecumenica».

La vita religiosa, alla luce delle vicende storiche, risulta pietra d’inciampo per l'unità dei cristiani. L’ecumenismo chiede pertanto alle Chiese che hanno accolto la vita religioso-monastica, di liberarla dallo splendido isolamento in cui si dibatte, perché possa diffondere in modo contagioso la gioia di essere discepoli di Cristo. Alle Chiese che l’hanno rifiutata chiede di toglierla dal bando perché ridiventi scomoda per tutti quelli che si attribuiscono il nome di cristiani a buon mercato.

Ma l’ecumenismo pone soprattutto questioni serie ai religiosi, obbligandoli a cercare una propria identità, che sia comprensibile a tutti i cristiani e li qualifichi discepoli dell’Uomo delle beatitudini.

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