La spiritualità cerca casa: dove la alloggiamo?

Toc, toc..

Cure palliative: Chi bussa?

Spiritualità: Sono la spiritualità. Più precisamente, l’accompagnamento spirituale dei malati. Cerco casa; c’è posto da voi, nelle cure palliative?

C.P.: Sì, certo. Dipende però dove vuoi essere alloggiata.

Sp.: Beh, ci sono delle sistemazioni che non sono disposta ad accettare (il poeta direbbe: “Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”…). Non vorrei essere collocata nella stanza “dopo” la cura. Come era abitualmente in passato. “Non c’è più niente da fare; chiamate…”; la medicina si ritirava e si passava il testimone al religioso.

C.P.: Su questo siamo d’accordo. Anche noi della palliazione non vogliamo essere considerati residuali (“Non c’è più niente da fare; chiamate il palliativista”). Siamo parte integrante della cura e vogliamo essere considerati come tali. Niente spiritualità, dunque, come residuo al quadrato, come ultima risorsa per quando i curanti hanno battuto in ritirata.

Sp.: Bene. Così noi accompagnatori aspiriamo a essere accettati: come parte dell’équipe che pratica la cura in modalità palliativa.

C.P.: Un dettaglio: come siete vestiti? Vi presentate in tonaca, abiti religiosi, veli di suore…?

Sp.: Certo, può capitare che l’assistente spirituale sia radicato in una religione. Anzi, che sullo scenario della cura si affaccino molte religioni. Perché il Paese è abitato non solo da cattolici, ma anche da cristiani di diverse confessioni; e anche da fedeli di numerose religioni: indù, sikh, buddisti, islamici… Ma tra di noi accompagnatori ci sono anche laici, che la spiritualità la vivono e la praticano fuori dai contesti religiosi. Gli abiti che indossano – soprattutto i loro abiti mentali! – sono rigorosamente civili. E ci rivolgiamo a persone che l’accompagnamento lo gradiscono così, senza etichettature religiose. La spiritualità sfugge a una definizione. Non si rivolge necessariamente alla trascendenza. Ha a che fare con la realtà umana più inquieta e intensa, come un ostinato stare sulla terra, senza smettere di alzarsi sulla punta dei piedi.

C.P.: Bene. Ma cosa vi qualifica come accompagnatori spirituali? E poi: siete volontari o professionisti? Perché qui subentra un particolare secondario, ma che può essere irritante: il volontario ciò che fa lo dona gratuitamente, mentre se parliamo di professionisti evochiamo il pagamento delle rispettive prestazioni.

Sp.: Siamo consapevoli che non basta la spinta motivazionale per fare l’accompagnamento spirituale. È necessario essere qualificati, e ciò richiede il passaggio attraverso corsi di formazione. È necessario scremare motivazioni spurie e fanatismi. La questione relativa a chi sia autorizzato a organizzare corsi di formazione rimane aperta. Dovremo confrontarci in modo trasparente.

La formazione è tanto più necessaria per i professionisti della spiritualità. Perché professionisti non si nasce: si diventa. È vero per i clinici; lo è anche per i professionisti delle scienze umane (psicologia, etica… fino alla spiritualità). Con il pericolo – ne siamo consapevoli – che una volta “professionalizzato” un ambito umanistico, l’operatore delle cure sanitarie si senta autorizzato a delegare a lui/lei il compito di cura che si apre a quella dimensione, concentrandosi solo sull’aspetto scientifico-clinico (tanto di quelle dimensioni c’è il professionista che se ne occupa…). Mantenere l’equilibrio tra una sensibilità diffusa, attenta a tutte le dimensioni della cura, richiesta a ogni operatore che tenda a fare una cura personalizzata, e lo specifico intervento del professionista, da invocare nei casi più complessi e problematici, è una sfida quotidiana. Anche questo aspetto dovrà entrare nella formazione.

Sulla questione del pagamento dei professionisti, anche nell’ambito della spiritualità, in Italia abbiamo un problema che continuiamo a voler ignorare. I cappellani ospedalieri cattolici sono stipendiati dal SSN, tramite specifici accordi regionali, mentre i professionisti spirituali di altre confessioni e religioni non lo sono. La situazione inclina a ipotizzare una religione di Stato, che formalmente non esiste. Dovremo, prima o poi, mettere il problema all’ordine del giorno nell’agenda politica.

C.P.: Con questi chiarimenti preliminari la possibilità di ospitare la spiritualità nella stanza della palliazione si fa più reale. Ci sono però da esplicitare alcune “regole di condominio”.

La prima suona: no proselitismo. Sulla spiritualità gravano ombre sinistre, soprattutto dovute a certe pratiche del passato, quando capitava di sentire vantarsi che in certe strutture nessuno moriva senza il conforto dei rituali religiosi; o venivano decantate conversioni “in articulo mortis” di personaggi che in vita si erano proclamati irreligiosi. Questo tipo di accompagnamento non è ammesso.

La cura non legittima la violenza psicologica, che trae vantaggio dalla fragilità del malato. L’etica che ai nostri giorni ha diritto di cittadinanza nella cura è l’antitesi del paternalismo, che pretende di imporre alla persona malata ciò che ritiene essere il suo bene. Tanto più quando questo è veicolato da ideologismi, quali vediamo apparire nel dibattito bioetico (vedi le posizioni contrapposte nell’ambito del fine vita o le contrapposizioni “pro vita” o “pro choice”). La spiritualità che siamo disposti ad accogliere nella cura non si propone di convertire nessuno.

Le cure palliative sono felici di ospitare un accompagnamento spirituale solo se questo non è schierato e non è armato di ideologia. L’accompagnamento è il contrario di portare l’altro dove lui non vorrebbe, mentre è troppo debole per resistere alle pressioni. L’accompagnamento significa far strada insieme, senza cercare di attrarre l’altro nella comfort zone delle proprie credenze.

A queste condizioni, possiamo condividere con la spiritualità la stanza della cura (ospitalità gratuita: senza pagare l’affitto!).

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