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- Il counseling: alla ricerca di una collocazione nell'arte della cura
- La pratica medica al plurale: una sfida per l'etica
- La convivenza tra mondi etici
Sandro Spinsanti,
IL COUNSELING: ALLA RICERCA DI UNA COLLOCAZIONE NELL'ARTE DELLA CURA
in La parola e la cura
autunno 2012, pp. 49-52
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Il presupposto di questo dibattito è la consapevolezza che i nuovi saperi, per la dinamicità del loro divenire, nascono, muoiono e si riconvertono solo ed esclusivamente in funzione della domanda di mercato; e che i cittadini/clienti/consumatori hanno un ruolo attivo nel controllo della qualità dei servizi ricevuti.
Il counseling costituisce una nuova professione, diversa da tutte quelle che hanno progressivamente acquisito uno statuto tra le professioni di cura, oppure è una modalità che caratterizza l’esercizio di qualsiasi professione sanitaria? E ancora: l’interrogativo precedente circoscrive una vera alternativa (nel senso che il counseling sia o l’una o l’altra cosa), oppure siamo di fronte a un falso dilemma, in quanto il counseling può essere sia una professione, sia un modello che caratterizza una relazione di cura? L’attenzione sociale è molto attratta dal dibattito che si sviluppa intorno alla definizione del counselor come professionista. Non manca chi accusa coloro che si propongono come counselor di inventarsi un lavoro che fa già parte delle mansioni di altri professionisti. Sono sorte contese, con appendici giudiziarie, per la difesa di un territorio che si ritiene abusivamente invaso da persone non autorizzate. L’ultima novità in questo ambito è il conflitto che contrappone psicologie filosofi. Motivo del contendere è chi sia legittimato a occuparsi della salute psichica delle persone. A scatenare la disputa è l’offerta di “counseling filosofico”; non gratuito, s’intende, ma come prestazione professionale. È avvenuto che degli psicologi abbiano denunciato i filosofi che hanno messo la loro saggezza in vendita, per esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta. Non si può fare a meno di ricordare eventi analoghi, con altri protagonisti: prima che, poco più che un decennio fa, fosse costituito l’ordine degli psicologi e regolamentata la loro professione, ci sono stati psicologi denunciati per esercizio abusivo dell’arte medica. Il sillogismo sotteso era semplice: se qualcuno pretende di guarire persone malate, entra illegittimamente in un territorio ― quello medico ― per il quale è richiesta un’autorizzazione specifica, dal momento che i medici detengono in regime di monopolio la facoltà di somministrare cure.
Gli psicologi, vittime di ieri, hanno assunto, a loro volta, il ruolo di persecutori? C’è spazio per un’interpretazione meno schematica della vicenda. Vi possiamo leggere anzitutto la complessità dell’atto terapeutico. La religione prima e poi la scienza (o meglio le scienze: quelle naturali e le scienze umane) hanno messo a fuoco, isolatamente, degli aspetti che fanno parte di un tutto inscindibile. L’unità della terapia è stata suddivisa in ambiti specifici e in competenze diverse; le professioni hanno strutturato percorsi che abilitano all’esercizio della cura;
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l’organizzazione sociale ha creato meccanismi di legittimazione e assegnato competenze esclusive. Il denso nucleo di ogni processo terapeutico, che comprende il curare e il prendersi cura, richiede competenze specifiche, affidate a un duplice controllo: da parte della società e a opera dei professionisti stessi. Il modo migliore di organizzare il controllo sociale delle professioni con finalità di cura è oggetto di dibattito.
La questione va collocata in un orizzonte più vasto, in cui prendono forma i nuovi saperi, generati dall’economia della conoscenza (cfr. Angelo Deiana: Il capitalismo intellettuale, Sperling Kupfer 2007). Le nuove conoscenze producono professionisti di nuovo conio e questi tendono a mettersi sul mercato (“si inventano un lavoro”). I counselor non si sentano offesi se il fenomeno che li riguarda li accomuna con commercialisti tributaristi e podologi, avvocati d’affari e pranoterapeuti, per non parlare della galassia di professionisti prodotti dall'informatica e dalla comunicazione virtuale. Da tempo si discute se sia da preferire il controllo di tipo ordinistico (quello, per intenderci, che nell’ambito delle professioni sanitarie, viene esercitato dall’ordine dei medici sui professionisti abilitati a curare), oppure sia giunto il momento di rinunciare a una legittimazione del professionista dall’alto e dal di fuori, affidando invece al mercato il riconoscimento della professionalità delle prestazioni erogate, con l’avallo della soddisfazione del cliente.
Il presupposto di questo dibattito è la consapevolezza che i nuovi saperi, per la dinamicità del loro divenire, nascono, muoiono e si riconvertono solo ed esclusivamente in funzione della domanda di mercato; e che i cittadini/clienti/consumatori hanno un ruolo attivo nel controllo della qualità dei servizi ricevuti. In questo contesto appare anacronistica l’opposizione degli ordini professionali tradizionali al profilarsi di nuove competenze professionali; così come la proposta di ricondurre il controllo delle nuove professioni alla regolamentazione ordinistica tradizionale. Nel frattempo
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si sono profilate modalità nuove, come le libere associazioni professionali, che si riservano la definizione dei livelli di qualificazione professionale degli iscritti e la determinazione degli standard qualitativi da rispettare (utilizzando a tal fine anche appropriati codici deontologici). Non manca anche una proposta che potremmo chiamare di compromesso, che ruota intorno a un sistema duale, con organizzazioni in parallelo: un mondo professionale che si riconosce nella struttura ordinistica e uno che ruota intorno ad associazioni non riconosciute.
Lasciamo il problema del controllo sociale delle professioni a decisioni di politica legislativa. Suscita maggiormente il nostro interesse l’aspetto psicologico che caratterizza la crescita di nuovi corpi professionali. L’esempio della contesa tra psicologi e filosofi sulla competenza di una cura che non usa farmaci ma parole illustra la conflittualità che nasce dalla complessità. Il fatto non è nuovo. Man mano che le professioni si rendono autonome e rimettono in discussione il paradigma della subordinazione ― quello rappresentato, in modo emblematico, dagli infermieri qualificati come “paramedici” ― le tensioni aumentano. La “dominanza medica” oggi è rimessa in discussione; ma anche i rapporti tra le professioni non mediche diventano difficili. Riaffiora insistentemente l’inclinazione a declinare i rapporti in modo gerarchico, così che chi era “sotto”, man mano che sale nella scala del potere, trova qualcun altro da mettere in posizione subordinata. Più insidiose degli scontri aperti sono le strategie di chiusura reciproca in territori autonomi, che cercano di ignorarsi reciprocamente.
La vera innovazione nell’ambito della cura non consiste nell’accesso di nuove professioni a ruoli di maggiore visibilità, con gli aggiustamenti conseguenti tra coloro che devono cedere un po’ del potere tradizionalmente loro riconosciuto e coloro che al potere accedono. La vera partita è quella che ha luogo tra il corpo professionale e i cittadini che ricorrono ai loro servizi. Con termine molto sintetico ed evocativo, si parla dell’empowerment del paziente, del suo diritto all’informazione e alla partecipazione ai processi decisionali, dell’uscita da una “minorità” dovuta solo a uno stato psicologico di soggezione. Questo nuovo scenario è quello più consono alle malattie del nostro tempo, con prevalenza di patologie croniche e degenerative. Nei percorsi che sempre più spesso attraversano lunghi segmenti temporali della vita dei malati, nonché delle loro famiglie, la medicina per lo più non risolve le patologie, assicurando la restitutio ad integrum. Deve misurarsi con i valori e le preferenze che variano da persona a persona (e possono anche cambiare, per la stessa persona, con l’evoluzione dello stato morboso). È un cammino che va inventato insieme, tra professionisti e persone assistite, perché non esiste un percorso standard, stabilito unilateralmente dal terapeuta, che vada bene per tutti.
Il counseling è una modalità di rapporto che presuppone una modalità di scelte etiche che nasce dal mondo morale del paziente e la rinuncia del professionista a imporre le proprie preferenze.
Confrontandoci con questo scenario troviamo la seconda accezione di counseling che abbiamo evocato all’inizio, inteso come modalità di esercizio di una professione sanitaria. Si colloca sul polo opposto del paternalismo.
Questa è la modalità che caratterizza tutte la professioni forti, sia per il sapere che per il potere. La medicina, così come è stata tradizionalmente praticata, è l’emblema stesso del paternalismo. Perché si presuppone che il medico, a differenza del malato, sappia dare il nome giusto al male di cui questo soffre e prescrivere la cura appropriata (doctor knows best!). A questo scenario si sono aggiunti, più di recente, coloro che pretendono di sapere quale sia “la cosa giusta”, dal punto di vista morale, tra le alternative che si presentano alla persona (la bioetica ideologica veste perfettamente i panni del paternalismo). Un esempio tra i tanti possibili: la scelta di non procreare un figlio con gravi anomalie trasmesse geneticamente viene bollata da alcuni fondamentalisti come “eugenismo nazista”...
Per non parlare delle opzioni possibili di fronte a una malattia che prosegue in modo inarrestabile il suo decorso e pone il problema dei trattamenti da attivare o da omettere. Ebbene, il counseling in questi scenari di pratica clinica è una modalità di rapporto che presuppone una modalità di scelte etiche che nasce dal mondo morale del paziente e la rinuncia del professionista a imporre le proprie preferenze. Consiste nel trasmettere quelle informazioni che aiutino la persona interessata nel percorso di consapevolezza e di autodeterminazione
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(empowerment, appunto) che produrrà la decisione più in armonia con i propri valori: scelte morali tagliate su misura (taylored ethics).
Alcune di queste interazioni possono aver bisogno di un professionista appositamente formato: pensiamo al counseling genetico, per esempio, o a quello che deve accompagnare un percorso di procreazione medicalmente assistita. Ma la modalità di counseling non può essere aliena all’esercizio della professione di un oncologo o di un neurologo, di un geriatra o di un palliativista, se esercitano una “buona medicina” secondo le esigenze della modernità. Per entrare in questo territorio bisogna evitare insidiose trappole linguistiche. Counseling non vuol dire “consulenza”, nella quale si ricorre a una expertise giudicata superiore e in qualche modo obbligante. E counseling non è neppure “dare consigli”, quand’anche fossero graditi e sollecitati.
Il professionista sanitario che struttura la propria relazione con il malato secondo le esigenze della bioetica correttamente intesa quella che presuppone l’autonomia di ogni persona nell’ambito delle scelte che riguardano la salute e soprattutto la qualità della vita ― non ha bisogno di una ulteriore qualifica professionale: può rimanere medico, infermiere, fisioterapista senza diventare counselor. L’ideale sarebbe che, sul modello di Monsieur Jourdain il personaggio del Borghese gentiluomo di Molière che, dopo la prima lezione di grammatica che gli ha insegnato la distinzione tra la prosa e la poesia, riconosce con stupore: “Era quarant'anni che parlavo in prosa e non lo sapevo!” ― i professionisti sanitari più consapevoli del nostro tempo, attenti all’autonomia e ai valori persona dei malati, potessero esclamare: “Era tanto tempo che facevo counseling e non lo sapevo! Cercavo solo di fare buona medicina, e facevo counseling...”.