Il soggetto sperimentale come partner

Sandro Spinsanti

IL SOGGETTO SPERIMENTALE COME PARTNER

in La ricerca scientifica al vaglio di comitati etici, I quaderni di Janus

Zadig, Roma 2007

pp. 52-64

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Nessun argomento che si voglia portare contro la ricerca nella pratica medica può essere di tanto peso da delegittimarla e da indurci a bandirla dai nostri comportamenti. La ricerca può essere pericolosa sia per la salute del paziente che per i suoi diritti, ma procedere senza alcuna ricerca è ancora più pericoloso. Anzi, propriamente una medicina che non si fondi sulla ricerca è irresponsabile.

Nuove regole per la ricerca

Ciò non equivale, tuttavia, a un semaforo verde per qualsiasi tipo di ricerca. Consideriamo legittima solo quella che rispetta vincoli e procedure stabilite dalla comunità scientifica. A queste condizioni si aggiungono quelle di natura morale. Anche l’etica ha una voce in capitolo nell’ambito della regolazione della ricerca biomedica. Questa dimensione negli ultimi anni è diventata sempre più importante, fino quasi a monopolizzare il controllo della ricerca.

In occasione del dibattito pubblico relativo alla sperimentazione della “multiterapia Di Bella”, anche le persone più estranee a protocolli, procedure, linee guida, norme deontologiche e comitati etici sono state costrette a confrontarsi con alcuni aspetti vincolanti che ha oggi la ricerca in ambito biomedico. Nel decreto che autorizzava la sperimentazione veniva

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esplicitamente richiesto il consenso informato dei pazienti coinvolti e in occasione di un primo bilancio provvisorio (quello relativo alla sperimentazione condotta in Lombardia su 300 pazienti) venivano ufficialmente comunicati i costi sostenuti dal Servizio sanitario nazionale. Sono due dimensioni importanti della ricerca scientifica contemporanea, che meritano una considerazione attenta per le ripercussioni che hanno nei rapporti tra tutti gli attori coinvolti, in quanto innovano l’orizzonte tradizionale dei vincoli posti alla ricerca.

Gli scienziati hanno abitualmente amato sottolineare che la ricerca è un’attività che nasce e prospera nella libertà e ha come suo vincolo intrinseco la ricerca della verità. La prima legittimazione della ricerca non sono le ricadute utili che ne possono derivare, bensì il suo orientamento al vero. Per questo la ricerca è per natura autonoma. Il che non vuol dire arbitraria; seguendo la traccia offerta dall’etimo di autonomia, la libertà da vincoli (“auto”) è appaiata con la volontaria soggezione a leggi e regole (“nomos”) e quindi con la possibilità e la necessità di confrontarsi con l’empiria. Il non dover rispondere a nessuno della propria ricerca va di pari passo con l’esigenza di renderne conto alla comunità scientifica.

Le regole relative alla ricerca biomedica sono state elaborate soprattutto dall’Associazione medica mondiale, che è ritornata più e più volte sul tema con formulazione successive (“Dichiarazione sulle ricerche biomediche”: Helsinki 1962; Helsinki 1964; Tokyo 1975; 2000), regolamentando soprattutto la ricerca con gli esseri umani, più che la ricerca di base. La prima regola fondamentale alla quale è tenuta una sperimentazione è quella di avere il carattere di una vera ricerca scientifica:

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«La ricerca biomedica relativa agli esseri umani deve essere in conformità ai principi scientifici generalmente riconosciuti e deve essere basata sia su esami eseguiti in laboratorio o su animali in modo adeguato, sia su una conoscenza appropriata della letteratura scientifica». Viene così delegittimata una quantità di sperimentazioni semplicemente irrilevanti o inutili, per la buona ragione che sono già state fatte da altri. Purtroppo molte ricerche sono condotte senza obbedire a un progetto di conoscenza, ma semplicemente in ossequio alla legge che vige nel mondo accademico: to publish or to perish (pubblicare o soccombere). Per accumulare pubblicazioni, ai fini di carriera, si fanno ricerche che implicano disagio, sofferenze inutili e rischi per la salute di altri esseri umani.

Da Maupertuis a Norimberga

Dopo la regola del controllo scientifico, la seconda restrizione alla libertà di ricerca riguarda il rapporto costi-benefici. Il primo esito da considerare è quello di un possibile danno alla vita, alla salute o al benessere del soggetto su cui avviene la sperimentazione. In linea teorica, i benefici di una ricerca sull’uomo devono essere proporzionali al rischio del danno che può essere inferto. Il codice di Norimberga del 1946, sotto l’impressione traumatica delle sperimentazioni condotte durante il regime nazista, ha esplicitato il livello massimo di danno: nessun esperimento deve essere condotto quando può sopravvenire la morte o un’infermità invalidante. Ma anche il beneficio che ci si aspetta dalla sperimentazione pone dei limiti: non si dovrebbero fare esperimenti sull'uomo,

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il cui risultato prevedibile sia così piccolo da risultare banale. Sullo stesso tema rischi-benefici l’Associazione medica mondiale aggiunge due altre opportune indicazioni: «gli interessi del soggetto devono sempre prevalere su quelli della scienza e della società» e «il medico non deve intraprendere un progetto di ricerca, se non è possibile prevederne i rischi potenziali». Viene così contraddetta quella logica che ha condotto i ricercatori del passato a passare sopra ai diritti individuali, specialmente se si trattava di persone che si erano messe fuori della legge (il celebre scienziato e filosofo illuminista Pierre Louis Moreau de Maupertuis, nella sua Lettre sur le progrès de la science, del 1752, dichiarava: «Un essere umano è niente in confronto alla specie umana; un delinquente è meno di niente»).

Il rapporto costi-benefici va considerato anche sotto l’aspetto dei costi economici. La ricerca biomedica impegna cifre considerevoli. Questa prospettiva comporta una forte esigenza di rigore economico per le sperimentazioni intraprese.

Non si tratta di considerare se una vita ― qualsiasi vita ― valga o no una certa cifra di denaro, ma se la sperimentazione è stata intrapresa valutando che venivano impiegate risorse comuni e che quanto veniva utilizzato per questo uso era automaticamente sottratto ad altri usi. In parole povere, la sperimentazione è stata fatta vincolando risorse a danno di qualcuno (se l’affermazione può sembrare grossolana, si consideri che il personale e le apparecchiature impiegate per seguire un progetto sperimentale non sono disponibili per altri malati, con il risultato di allungare le liste di attesa e di bloccare altri progetti di ricerca). I benefici sperati devono compensare i costi anche economici, se la ricerca vuol essere legittima dal punto vista dell’etica che sottosta alla vita civile.

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Il consenso del soggetto alla sperimentazione

I due criteri finora valorizzati come guida per la ricerca non eccedono il livello dell’autoreferenzialità, cioè di un giudizio portato sulla ricerca dai ricercatori stessi. La responsabilità nei confronti della scienza rimanda a un complesso di conoscenze metodologiche (biostatistica, procedura sperimentale, criteri di randomizzazione, doppio cieco) che soltanto chi condivide l’identico statuto di ricercatore può possedere. È il motivo per cui nei comitati etici istituiti per valutare le ricerche i “laici” (rappresentanti, cioè, di altri saperi, senza essere ricercatori biomedici) si trovano a svolgere un ruolo marginale o solo pleonastico, fino a che non pochi abbandonano volontariamente la frequenza a sedute di comitato in cui collezionano solo frustrazioni. Gli scienziati tollerano malvolentieri che la ricerca sia controllata da non scienziati. Il vincolo di un passaggio attraverso un comitato apposito per la ricerca (in inglese si chiama Institutional Review Board: è un organismo che esprime pareri sulla conformità delle ricerche programmate con le regole che tutelano i cittadini dalla possibilità di abuso e sfruttamento) contrasta con l’autoreferenziaità della scienza.

Negli Stati Uniti è stata creata una commissione per analizzare il tristemente celebre Tuskegee Syphilis Study: dal 1932 al 1973, 600 braccianti di colore dell’Alabama sono stati sottoposti a una ricerca per determinare gli effetti del corso naturale della sifilide, quando non venga curata. La commissione ha formulato in modo tagliente questa regola: «La società non può permettere che l’equilibrio fra i diritti individuali e il progresso scientifico venga determinato unicamente dalla

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comunità scientifica». Anche l’Italia si è adeguata all’esigenza che la scienza non sia sottratta a forme di controllo della ricerca biomedica: in questo senso si muovono le “Linee guida di riferimento per l’istituzione e il funzionamento dei comitati etici”, emanate dal ministero della Sanità (pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale 122 del 28/5/1998), e più recentemente i “Requisiti minimi per l’istituzione, l’organizzazione e il funzionamento dei comitati etici per le sperimentazioni cliniche dei medicinali” (sulla Gazzetta Ufficiale 194 del 22/8/2006).

Anche il secondo criterio, cioè il rapporto costi benefici, non arriva a costituire un limite estrinseco alla valutazione del ricercatore. È vero che oggi la ricerca biomedica è sempre meno rivestita di un’aura sacrale ed è soggetta a critiche animose. Ma continua a essere circondata da attese messianiche: gli stessi che esprimono timori per le nuove conquiste non esitano a invocare più ricerca per favorire il progresso della medicina e avere più "armi per combattere vecchie e nuove malattie. Non è, dunque, da questo orizzonte che poteva spuntare una vera limitazione alle attività di ricerca.

Nell’impianto regolativo della sperimentazione con gli esseri umani, elaborato nell’ultimo mezzo secolo, esiste in verità un terzo principio capace di limitare il potere del ricercatore: è quello che richiede il consenso di chi si sottopone alla sperimentazione. Il codice di Norimberga, essendo nato da una reazione a sperimentazioni effettuate su prigionieri, metteva fortemente l’accento sulla condizione del consenso libero. Si apre infatti con la dichiarazione: «Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale»; specifica poi la

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volontarietà come capacità legale di dare il consenso e assenza di «elementi coercitivi, inganno, costrizione, falsità o altre forme di imposizione e violenza». In seguito la riflessione etica mise maggiormente in evidenza la necessità di comunicare tutti i fatti importanti al soggetto sperimentale, perché possa prendere una decisione libera. Si venne così a parlare correntemente di consenso informato, considerato come una barriera invalicabile contro coloro che vorrebbero giustificare qualsiasi ricerca condotta sull’uomo su una base puramente utilitaristica, considerando i benefici che la ricerca può arrecare.

Il consenso informato si è andato sempre più accreditando come la principale legittimazione etica della ricerca biomedica. Le normative succedutesi nel tempo non hanno fatto che concedergli sempre maggiore rilievo. In questo senso vanno i due documenti più autorevoli a livello europeo. Il primo sono le norme note come “Good clinical practice” (“Norme di buona pratica clinica nei trial su prodotti farmaceutici condotti nella Comunità europea", del 1990), recepite dall’Italia con un decreto del ministero della Sanità del 1992; le norme sono state aggiornate nel 1997 e l’Italia le ha recepite con decreto del ministero della Sanità del 15/7/1997: “Recepimento delle linee guida dell’Unione Europea di buona pratica clinica per l’esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali”). Il secondo documento è la “Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina”, nota come Convenzione europea sulla bioetica o Convenzione di Oviedo. Quest’ultima è stata approvata dal Consiglio dei ministri dell’Unione Europea il 19 novembre 1997

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e successivamente sottoposta alla firma degli stati membri del Consiglio d’Europa. La regola generale, relativa al consenso, formulata dell’articolo 5, suona: «Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto un’informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso».

Si deve tuttavia riconoscere che la rilevanza del consenso informato nella ricerca biomedica è più formale che sostanziale, almeno nei Paesi e nelle aree culturali nelle quali non è avvenuta una parallela rivoluzione che ha introdotto il consenso informato anche nella clinica. La clinica, infatti, è stata regolata per secoli da rapporti modellati in senso paternalistico: era il medico che decideva “per il bene del paziente”, senza che esistesse un obbligo, né morale, né deontologico, di informare il paziente e di elaborare le scelte insieme a lui. Quando anche in medicina viene introdotta quella che è stata chiamata la “rivoluzione liberale”, con il pieno riconoscimento dei diritti del soggetto, compreso il diritto di fare scelte in medicina in conformità con i propri valori personali, l’informazione che passa tra gli attori sociali di un rapporto terapeutico diventa il pilastro centrale di una buona medicina. È illusorio pensare che si possa avere una ricerca ispirata al principio moderno e liberale del consenso informato, parallelamente a una clinica condotta in base a criteri premoderni di gestione paternalistica del rapporto. Un esempio può illustrare l’assunto.

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Ce lo fornisce un articolo apparso nella Rivista italiana di psicologia oncologica nel 1991. Si tratta di una ricerca, condotta in un ospedale di Roma, su 50 pazienti affetti da carcinoma polmonare inoperabile, sottoposti a chemioterapia antiblastica. La ricerca intendeva stabilire se i tre diversi regimi chemioterapici seguiti avessero un’incidenza sulla qualità della vita dei pazienti. Attira l’attenzione l’annotazione relativa alla procedura seguita dallo studio: «La raccolta dei dati anagrafici e l’indagine psicodiagnostica sono state effettuate per tutti i pazienti prima dell’inizio della chemioterapia nei locali del Day hospital oncologico. Nessun paziente era a conoscenza della diagnosi né al momento della prima somministrazione, né al momento del follow up. I pazienti erano stati informati di avere una malattia grave di tipo infiammatorio che necessitava di cure intensive ed efficaci».

Si può dire, semplificando un po’, ma senza allontanarsi dal quadro realistico dell’informazione intercorsa tra sanitari e pazienti, che a persone affette da una malattia a prognosi infausta, con scarse possibilità terapeutiche, era stata data la stessa informazione che giustificherebbe la somministrazione di un antibiotico a un malato di polmonite.

La ricerca è lodevolmente attenta ai problemi non solo della quantità della vita che l’uno o l’altro protocollo terapeutico può assicurare, ma della qualità della vita guadagnata: il suo impianto però si scontra con il fatto macroscopico dell’esclusione dei pazienti da quell’informazione sul loro stato che può renderli soggetti responsabili delle scelte. I tre lustri trascorsi da quella ricerca sono sufficienti per renderci consapevoli che, a livello teorico, quel modo di fare medicina è diventato indifendibile. In pratica, però, le regole che sovrintendono alla medicina clinica e quelle che valgono nella medicina

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di ricerca continuano a divergere rispetto all’autonomia riconosciuta al paziente e al suo diritto all’informazione.

Il controllo sociale

Nel giro di pochi anni è avvenuta una rapida crescita di consapevolezza che ha portato la società a chiedere trasparenza nell’ambito della sperimentazione di farmaci e procedure. La delega implicita che affidava ai terapeuti stessi il controllo della ricerca è stata revocata. Il dibattito sul carattere etico della ricerca, sottratto al monopolio della professione medica, ha coinvolto altri professionisti (in primo luogo giuristi ed esperti di etica) e progressivamente settori sempre più ampi della società. È iniziata così l’epoca, per dirla con lo storico della medicina David Rothman, che vede sempre più «estranei al letto del malato». Gli estranei diventano una piccola folla quando al letto del malato si fa della ricerca biomedica.

La fondamentale modifica della situazione è costituita dall’entrata in scena della società. Negli Stati Uniti l’aspetto più vistoso della svolta è stata la creazione della Commissione nazionale (National Commission for the protection of human subject of biomedical and behavioral sciences), che ha lavorato dal 1974 al 1978. L’attività della Commissione è culminata nel Rapporto Belmont, che ha definito le linee fondamentali dell’etica della ricerca relativamente ai quattro nodi principali: i confini tra la ricerca biomedica e la pratica della medicina generalmente accettata; la valutazione del criterio rischi-benefici nel determinare quanto sia corretta la ricerca che utilizza soggetti umani; le linee guida appropriate per la

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selezione dei soggetti sperimentali che partecipano a queste ricerche; la natura e la definizione del consenso informato nei vari ambiti della medicina.

La ricerca di linee guida è stata proseguita ulteriormente dalla Commissione presidenziale, che è rimasta in carica dal 1980 al 1983. Il punto di arrivo è costituito da due importanti documenti: Protecting human subjects e Implementing human research regulations. La sfida che entrambe le commissioni hanno assunto, sintetizzata dallo storico della medicina Albert Jonsen nell’innovativo programma di «fare etica in pubblico», è stata vinta. È stato definito il terreno comune che meglio esprime la visione morale e i valori comuni delle società americana di oggi e sono state individuate le regole minime che vanno rispettate nella ricerca perché sia in armonia con la tutela dei soggetti, in particolare i soggetti deboli, e con la promozione dei diritti umani.

Nasce così ufficialmente la bioetica, quale lingua franca che permette di articolare un’etica razionale in una società laica e pluralista. La nuova disciplina non sostituisce l’etica medica, bensì la affianca. Il suo punto di vista non si identifica con quello della professione medica e non si limita ai soli problemi che la pratica clinica può presentare alla coscienza del medico. Soprattutto la regolamentazione della ricerca è stato l’ambito in cui la bioetica ha dato le migliori prove di sé.

Un’altra acquisizione di questo periodo di riflessione etica è la distinzione tra la sperimentazione e la terapia. Viene messa in discussione l’equiparazione, fatta per lo più implicitamente, tra il medico e il ricercatore. Conseguenza pericolosa di

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quest’equiparazione è che la fiducia che il paziente ha nei confronti del medico tende a essere estesa anche al ricercatore, per il fatto che si tratta della stessa persona. Terapia e ricerca sono invece da considerare come due attività differenti nei loro procedimenti, nei loro scopi e nei loro fini immediati. Per il medico in quanto terapeuta l’interesse immediato è costituito dal bene del paziente e gli obblighi etici ruotano attorno al bene del paziente, da favorire in ogni modo. Il ricercatore ha invece come fine quello di far avanzare la scienza, a beneficio della società. I suoi obblighi lo vincolano al protocollo, piuttosto che verso i singoli soggetti del protocollo.

Si è così evidenziata la tendenza ad accettare un “doppio standard” etico: uno per l’intervento curativo (che include, eventualmente, la ricerca terapeutica) e uno per la ricerca non terapeutica.

Nel primo caso prevalgono i valori promossi dalla tradizione ippocratica, che è sostanzialmente autoritaria e paternalistica e riserva al medico la tutela del bene del paziente («il medico agisce per il bene del paziente», secondo la formulazione classica che ne hanno dato Pellegrino e Thomasma). Grazie all’“alleanza terapeutica” che si stabilisce tra il medico e il paziente, per lo più implicita, il medico è autorizzato dal paziente a intraprendere qualsiasi cosa ritenga possa risolversi nel suo bene.

Relativamente alla ricerca non terapeutica (non intesa, cioè, a portare beneficio al singolo individuo che è oggetto della sperimentazione), la riflessione etica dell’ultimo ventennio ha portato a un consenso sulla necessità che venga soggetta a restrizioni. Tra queste la principale è la clausola del rispetto

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dell’autonomia del paziente. Il soggetto sperimentale deve essere messo in grado, tramite un’informazione appropriataci di decidere se partecipare o no alla ricerca.

Questa prospettiva rende evidente che la ricerca non debba essere considerata come “implicita” nella domanda iniziale con cui il malato cerca l’aiuto del medico. Secondo la ricostruzione storica che Michel Foucault fa della nascita della clinica, avvenuta a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, la ricerca era invece tacitamente contenuta nell’istituzione stessa dell’ospedale: questo permetteva alle classi meno abbienti di beneficiare dei progressi della medicina, ma domandava loro in cambio di contribuire al progresso della scienza offrendosi come oggetti di ricerca nelle istituzioni cliniche. La bioetica contemporanea, invece, promuovendo la pratica del consenso informato, richiede una nuova formulazione del contratto terapeutico, mediante cui il “consenso sociale” sull’utilità della ricerca non terapeutica si traduca in un esplicito “consenso individuale”.

Per esprimerci con le parole di Giulio Maccacaro: «La scienza e la medicina non hanno diritto di scegliere i martiri della società. Ma nemmeno la società ha diritto di scegliere i martiri della scienza».

BIBLIOGRAFIA

M. Foucault, La nascita della clinica, Einaudi, Torino 1969.

E.D. Pellegrino - D.C. Thomasma, Per il bene del paziente, Paoline, Cinisello Balsamo 1992.