Impariamo a litigare

IMPARIAMO A LITIGARE

a cura di Sandro Spinsanti

in I quaderni di Janus

Zadig editore, Roma 2008

pp. 129-140

129

QUANDO SI LITIGA SULL'ETICA

130

Correlare le pratiche di cura e assistenza alla conflittualità inerente ai rapporti umani appare sorprendente. Se in un contesto medico siamo soliti evocare la guerra, è per lo più in senso figurato e retorico: si parla di guerra condotta contro la malattia. Una vistosa mutazione sociale sembra aver spostato i termini del conflitto: dal fronte comune, istituito dai professionisti sanitari, dalle persone malate e dai responsabili dell’organizzazione sanitaria contro le patologie attuali o possibili, si è passati a una conflittualità generalizzata. È come se tutti si sentissero in guerra contro tutti: i pazienti contro i sanitari e i sanitari contro i pazienti, in atteggiamento difensivo. «Casa di riposo?», ironizzava di recente un operatore sanitario. Chi lavora in quegli ambienti non li sperimenta come un’oasi di serenità, ma come un nido di vipere. E l’elenco di situazioni in cui parenti alterati minacciano denunce contro i sanitari si fa lungo e dettagliato, come riferisce Lara Bert. Lo stato d’animo diffuso si esprime, secondo Stefano Bartezzaghi, in un curioso lapsus linguistico, colto al volo: «Se il sintomo persiste, insultare il medico». È una delle “frasi matte” attraverso le quali l’inconscio ci telefona(o il non-detto sociale ci fa l’occhiolino...).

Anche volendo tacere i conflitti crescenti tra i vertici amministrativi delle aziende sanitarie e i professionisti, non possiamo ignorare la conflittualità inerente all’organizzazione. Alle tensioni tradizionali tra ospedale e medicina territoriale si sono aggiunte quelle tra professionisti di diverso profilo (basti pensare al rivoluzionamento del ruolo subalterno che tradizionalmente veniva

131

attribuito agli infermieri, ora contestato da professionisti che si formano all’università, come i medici, e possono esibire una laurea). Sullo sfondo, poi, gli ineliminabili conflitti interpersonali che sorgono quando più persone lavorano insieme: le intolleranze individuali, i cortocircuiti caratteriali, le pure e semplici antipatie possono interferire anche con un lavoro di altissimo profilo etico, come è quello della cura della salute. I motivi per “litigare” sono infiniti.

In questo insieme composito di conflitti attuali o potenziali, due tipologie di conflitti meritano una particolare attenzione: i conflitti di interessi e quelli che hanno per oggetto i valori etici.

Il conflitto di interessi

Il recente Codice di deontologia dei medici italiani, approvato nel dicembre 2006, contiene un articolo dedicato al “conflitto d’interesse”, corredato di una linea guida per l’applicazione. È la prima volta che, nelle numerose versioni del Codice che si sono succedute negli anni, si fa menzione del conflitto di interessi nella pratica della medicina.

La descrizione del conflitto è contenuta nell’articolo 30: «Riguarda aspetti economici e non, e si può manifestare nella ricerca scientifica, nella formazione e nell’aggiornamento professionale, nella prescrizione terapeutica e di esami diagnostici e nei rapporti individuali e di gruppo con industrie, enti, organizzazioni e istituzioni, nonché con la pubblica amministrazione». Le linee guida applicative dettano poi norme specifiche riguardanti, rispettivamente, la ricerca scientifica, l’aggiornamento e formazione e la prescrizione di farmaci. L’interesse primario del medico, afferma il Codice, non dev’essere «indebitamente influenzato da un interesse secondario». La definizione coincide

132

ampiamente con quella già proposta da Marco Bobbio, secondo il quale si ha conflitto di interessi quando ci si trova in una condizione nella quale il giudizio professionale riguardante un interesse primario (la salute del paziente, la veridicità dei risultati di una ricerca o l’oggettività della prestazione di un’informazione) tende a essere indebitamente influenzato da un interesse secondario (guadagno economico, vantaggio personale).

Nel modello ideale di buona medicina che ci è stato lasciato in eredità dalla tradizione gli interessi del medico e quelli del paziente erano allineati e confluenti. Il medico era idealmente rappresentato come un professionista “disinteressato”. La coscienza del medico, chiamato secondo la formula standardizzata a prendere le decisioni “in scienza e coscienza”, era la migliore garante che il corso delle cose fosse rivolto a promuovere il bene del paziente, al quale era richiesto di affidarsi al medico con fiducia. Soprattutto la tradizione della medicina liberale si è fatta paladina di questa strutturazione dei rapporti, coprendo con il manto della deontologia professionale ogni scenario di conflitto e tendendo a escludere, come un’ingerenza indebita, ogni intervento di terze parti nel rapporto fra medico e paziente. Ai nostri giorni il conflitto di interessi non è più un’ipotesi impronunciabile per descrivere ciò che avviene nell’ambito della medicina. Anche il Comitato nazionale per la bioetica ha prodotto un documento, Conflitto d’interessi nella ricerca biomedica e nella pratica clinica, che prende in considerazione un ampio ventaglio di conflitti ai quali sono esposti sia il medico ricercatore sia il clinico. L’inventario delle situazioni nelle quali si possono identificare possibili conflitti è molto ampio: il conflitto può riguardare il rapporto tra ricerca e pratica clinica (gli obblighi dei ricercatori nei confronti del progetto di ricerca possono configgere con i loro obblighi nei confronti dei singoli pazienti), tra didattica e terapia (l’uso dei pazienti per l’apprendimento degli studenti di medicina

133

contrasta con il diritto del paziente di essere informato sull’abilità di chi interviene su di lui), tra sanità pubblica e medicina privata, tra gli interessi delle aziende farmaceutiche e quelli di una medicina che si propone di evitare pericolosi abusi consumistici dei farmaci. Infine, quasi sinonimo di conflitto di interessi in quanto tale, c’è l’incidenza del sistema di compensazione dell’attività del medico o di finanziamento degli ospedali.

Sotto accusa è il sistema dei Diagnosis Related Groups (Drg, ossia raggruppamenti omogenei di diagnosi) o modelli analoghi che compensano le prestazioni sanitarie secondo una modalità prospettica. Soprattutto suscita perplessità il sistema della managed care diffuso negli Stati Uniti, che prevede accordi tra le organizzazioni e gli erogatori dei servizi (ospedali, specialisti, singoli medici) sulla base di un compenso globale e forfettario a quota capitaria, ovvero di una quantità di denaro determinata per ogni paziente, indipendentemente dall’effettiva erogazione delle prestazioni. La preoccupazione che emerge è che venga erosa alla base la fiducia stessa nei confronti del medico, se il suo vantaggio economico è inversamente proporzionale a quanto fa per il paziente. Tutti i sistemi di pagamento prospettico invertono la direzione dell’ago della bilancia: quando il medico è pagato all’atto, ha interesse a erogare il maggior numero di prestazioni al paziente, mentre con questa formula meno fa, più guadagna.

È sicuramente apprezzabile lo sforzo del Codice deontologico di portare chiarezza in un ambito della professionalità medica tra i più discussi della nostra società. Sembra, tuttavia, che questa prima formulazione dei conflitti di interessi presenti nella professione del medico sia ancora tentennante. L’incertezza emerge se si confronta l’articolo 30 del Codice, dedicato tematicamente al “conflitto di interesse”, con l’articolo 6, che delinea la qualità professionale del medico. L’articolo 30 lascia intendere che l’interesse del medico sia uno solo: la salute, appunto, dei cittadini.

134

Ciò che può entrare in conflitto con quell’interesse, così come viene esplicitato nelle linee guida applicative, ha un carattere contingente. L’articolo 6, invece, presenta una realtà ben più complessa. Per essere un “buon medico”, il professionista non può limitarsi a fornire le migliori cure al malato che ne ha bisogno, così come le identifica la scienza medica oggi, ma deve contestualmente promuovere la capacità della persona di partecipare alle scelte che lo riguardano e tutelare l’accesso ai servizi sanitari dei più svantaggiati: «Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse. Il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità delle cure».

La formulazione del Codice è ricalcata sulla “Carta della professionalità medica”, promossa dalla European Federation of Internai Medicine e dall'American Board of Internai Medicine. Nel descrivere le responsabilità dei medici, la Carta faceva riferimento ai tre principi fondamentali del movimento della bioetica: il principio della centralità del benessere dei pazienti, il principio dell’autonomia dei pazienti e il principio della giustizia sociale. In questa ottica il nuovo profilo della responsabilità professionale richiede di misurarsi non con un solo parametro ― il bene del paziente ― bensì con tre; né si può definire un buon esercizio della professione medica quello in cui il sanitario non abbia a cuore la promozione di tutti e tre questi obiettivi.

Gli interessi del medico, dai quali non può prescindere la buona medicina, si estendono dalla somministrazione delle cure efficaci alla preoccupazione per un’equa allocazione delle risorse, passando per l'empowerment del cittadino. Gli interessi, perciò, sono plurali; l'idea che uno ― la salute del malato ― sia prioritario e

135

gli altri vengano dopo non trova giustificazione in questa visione. Il medico deve fare il bene del malato, ma deve farlo nel modo giusto: rispettando la sua autonomia, senza dimenticare i suoi doveri di assistenza nei confronti di tutti quelli che hanno diritto e bisogno, promuovendo sistemi sanitari giusti. Questi interessi potrebbero essere idealmente allineati, ma realisticamente si possono immaginare in conflitto. Il conflitto di interessi, così formulato, ha un carattere non contingente ma necessario.

In questa prospettiva bisogna ripensare anche alla conflittualità tra gli interessi. La parola “conflitto” ha una connotazione per lo più negativa; nel linguaggio comune sta a significare una situazione indesiderabile, che si dovrebbe prevenire o almeno risolvere, eliminando i conflitti. Ma se gli interessi sono plurali, è ipotizzabile che possano scontrarsi tra di loro. Anzi, il conflitto dovrà essere previsto come la regola, piuttosto che come l’eccezione. La saggezza non consisterà nel neutralizzare qualcuno dei legittimi interessi, ma nel comporli tra loro, con soluzioni creative. Le linee guida allegate al codice deontologico del 2006 mirano a impedire conflitti di interessi contingenti nell’ambito della sperimentazione, della formazione dei medici e della prescrizione di farmaci. Auspichiamo che siano efficaci. Ci sentiamo invece ancora al capolinea per quanto riguarda i sussidi per affrontare i conflitti necessari, che sono quelli che oppongono i medici non all’industria, ma ai cittadini e ai manager. Potrebbero forse essere di aiuto i comitati per l’etica clinica, ma ci sarebbe bisogno di conoscere più esperienze positive in questo ambito.

Etica, etiche: conflitti e composizioni

Un ambito in cui, inaspettatamente, la medicina si è trovata a confrontarsi con la pluralità e con i conflitti che ne derivano è

136

quello delle regole morali alle quali per convenzione ci si attiene nell’esercizio dell’arte medica. La pluralità ha investito nel modo più eclatante proprio ciò che della medicina aveva resistito di più al cambiamento: l’etica medica. Nella storia dell’Occidente la medicina si è modificata più volte, da quando con i Greci è passata dal regime magico sacrale a quello del sapere scientifico. In venticinque secoli ha cambiato sia le spiegazioni dei processi patologici, sia le risposte terapeutiche. Quello che era rimasto immodificato era il sistema di valori identificato come etica medica (il riferimento tradizionale a Ippocrate serviva anche a sottolineare la pretesa atemporalità delle norme etiche in medicina). Proprio l’etica medica ci costringe oggi a parlare della medicina al plurale. Che cosa fare di fronte alla pluralità dei mondi etici? Di fronte a un mondo morale diverso, un comportamento che ci viene spontaneo è combatterlo. Quando qualcuno presenta un atteggiamento teorico o pratico diverso dal nostro nei confronti della vita, tendiamo a rispondere con la polemica. La polemica è un modo incruento di fare guerra (pólemos in greco è appunto la guerra) a chi la pensa diversamente da noi. Nella vita quotidiana la polemica fa uso di uno strumento semplicissimo ed estremamente efficace: il dissenso viene squalificato come disonestà morale, o come incapacità cognitiva. In inglese questa strategia si serve di due parole brevi e incisive: chi la pensa diversamente da me dal punto di vista morale è o bad (cattivo) o mad (pazzo); o è in mala fede, o non ragiona bene.

Una seconda scelta è tollerare chi la pensa diversamente. La tolleranza nella storia della civiltà occidentale praticamente comincia con l’illuminismo. Invece di fare la guerra (anche nella forma attenuata che è l’apologetica, che si esprime nel mettere la propria posizione in buona luce e nel dipingere con i colori più neri la posizione altrui) tolleriamo le differenze. La tolleranza è parte costitutiva di ciò che noi oggi qualifichiamo come civiltà.

137

Una terza possibilità di fronte alle diverse scelte morali è quella che si potrebbe chiamare di regolamentazione. Possiamo regolamentare i conflitti che nascono dal pluralismo dei mondi morali con le leggi o con norme deontologiche. I codici deontologici, e soprattutto le leggi, sono dei tentativi di definire dei confini, delimitando i comportamenti accettabili da quelli non accettabili. La quarta proposta è quella che vede nell’etica un possibilità di gestione delle differenze morali. Questo è lo scenario che si affaccia quando rinunciamo a eliminare con la repressione o la polemica i mondi etici diversi dal nostro, li tolleriamo per quanto siano compatibili con la convivenza sociale, li regolamentiamo con le leggi dello Stato e con gli ordinamenti deontologici: a questo punto dobbiamo gestire le differenze etiche, per poter convivere. Ebbene, nell’ambito dei comportamenti che hanno a che fare con le decisioni di procreazione, di cure sanitarie e di morte, la bioetica è nata proprio con la finalità di mettere un certo ordine e soprattutto di creare una specie di lingua franca, per poter parlare tra “stranieri morali”.

Non sempre la bioetica, così come la conosciamo nell’esperienza culturale italiana, si è sviluppata in questo orizzonte. Invece del pluralismo, si è andata sempre più profilando una polarizzazione su due atteggiamenti speculari e contrapposti, che hanno preso, di volta in volta, il nome di bioetica laica e bioetica cattolica, valorizzazione a priori della sacralità della vita versus qualità della vita, ecc.

Dal dibattito sulla bioetica si rischia di scivolare verso la “biorissa”, che si serve di parole come corpi contundenti contro l’avversario: così le donne che abortiscono vengono chiamate “assassine”, la decisione di abbreviare le sofferenze intollerabili di persone consenzienti “assassinio”, per non parlare dell’uso strumentale di concetti a definizione variabile, come accanimento terapeutico o eutanasia. Anche quando il dibattito bioetico non è

138

diventato luogo privilegiato della polemica, nutrita da ideologie che si giudicano inconciliabili, e non ha dato origine a espressioni di intolleranza, non ha mostrato grandi capacità di gestione delle differenze etiche.

Che cosa possiamo fare di fronte a un mondo morale che non condividiamo? La gestione delle differenze si può sviluppare: quando i mondi morali sono diversi, possiamo parlare con l’altro, facendo delle divergenze l’argomento di una conversazione. Un’eccellente presentazione delle possibilità che possiamo attribuire alla conversazione è offerta dal libro di Theodore Zeldin La conversazione. Di come i discorsi possono cambiarci la vita. Secondo Zeldin, la conversazione fa bene, cioè migliora la vita anche a livello emotivo, forse anche a livello fisico.

Mondi morali diversi sono molto importanti, perché ci possono arricchire. Nel capitolo intitolato “Di come la conversazione incoraggi lo scambio da mente a mente”, Zeldin afferma che «si tratta di invitare altre persone alle proprie conversazioni interiori per scoprire che ti vedono molto diversamente da come ti vedi tu». Ma proprio chi la pensa diversamente può portarci un arricchimento morale: «Considero particolarmente importanti le conversazioni che si collocano al confine tra ciò che capisco e ciò che mi sfugge, incontri con le persone diverse da me». Con un mondo morale diverso dal mio, io ci posso parlare. E la prima cosa che posso guadagnare da questa conversazione è un beneficio per me stesso, perché allargo il mio mondo morale: «Conversando con altri e mescolando voci diverse alla nostra, possiamo trasformare la nostra esistenza in un’opera d’arte originale. È vero che alla gente piace odiare. Zola diceva: “L’odio è sacro”. Grazie all’odio la gente sente di avere dei principi e delle opinioni. Eppure io ritengo che individuare un che di ammirevole o di commovente in una persona incomprensibile e odiosa sia fonte di soddisfazione altrettanto profonda. La sensazione di

139

appartenere entrambi all’umanità, le lacrime che ci vengono agli occhi quando cogliamo la sofferenza in persone a noi del tutto estranee, sono tra le più profonde delle emozioni. Ogni volta che ne facciamo esperienza, riscopriamo di appartenere a quella enorme famiglia che è l’umanità. L’umanità non significa soltanto chiunque, significa anche gentilezza. Non sono molte le persone completamente prive di qualche traccia di gentilezza. Trovare questo filone d’oro, quando è nascosto in terreni apparentemente sassosi, è una delle sfide più entusiasmanti».

Anche Benedetta Craveri, con La civiltà della conversazione, dà corpo alla nostalgia di una maniera di vivere che trova nella conversazione il suo punto di forza. Ripercorrendo le vicende culturali della Francia prerivoluzionaria, fa emergere «un’ideale di socievolezza sotto il segno dell’eleganza e della cortesia, che contrapponeva alla logica della forza e della brutalità degli istinti un’arte di stare insieme basata sulla seduzione e sul piacere reciproco». Malgrado la distanza infinita che ci separa da quel mondo, non possiamo impedirci di sognare la cortesia che freni l’irruenza e impedisca lo scontro, anche verbale. E di immaginare che proprio la medicina, vissuta al plurale, possa essere il luogo della rigenerazione dell’esprit de société.

BIBLIOGRAFIA

S. Bartezzaghi, Non ne ho la più squallida idea. Mondadori, Milano, 2006.

L. Bert, “Casa di riposo: oasi di serenità o nido di vipere?”. In: La parola e la cura, autunno 2007.

140

M. Bobbio, Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza. Einaudi, Torino, 2004.

Comitato nazionale per la bioetica, Conflitti d’interesse nella ricerca biomedica e nella pratica clinica, 2006.

B. Craveri, La civiltà della conversazione. Adelphi, Milano, 2001.

 European Federation of Internal Medicine, American Board of Internal Medicine, “Carta della professionalità medica”, in Janus 6 (estate 2002).

T. Zeldin, La conversazione. Di come i discorsi possono cambiarci la vita, Sellerio, Palermo, 2002.