Certezze e incertezze del sapere medico

BIOETICA E ANTROPOLOGIA MEDICA

a cura di Sandro Spinsanti

La Nuova Italia Scientifica, Roma 1991

pp. 71-81

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CERTEZZE E INCERTEZZE DEL SAPERE MEDICO

La vita è breve, l’arte lunga,

l’occasione fuggevole, l’esperienza fallace,

il giudizio difficile.

Ippocrate, Aforismi

Il primo, e il più celebre, degli aforismi attribuiti a Ippocrate è la più appropriata introduzione al tema del rapporto tra certezza e incertezza del sapere che è proprio della medicina. Il soggetto interessa indubbiamente la sociologia della conoscenza, nonché la filosofia nella sua funzione di riflessione epistemologica. Ma neppure l’etica è indifferente alla problematica dell’incertezza. Anzi, si può dire che questo è il contesto in cui vanno abitualmente collocati i maggiori conflitti etici riferiti a quel processo che gli americani chiamano decision making. L’incertezza è l’orizzonte connaturale alla decisione clinica, con gli aspetti etici connessi.

Una considerazione attenta della certezza e dell’incertezza del sapere medico può promuovere in modo del tutto naturale la riflessione etica tra gli operatori sanitari, orientandoli tra i pericoli opposti delle false certezze e delle incertezze paralizzanti.

4.1. Ricette per rendersi ignoranti (e infelici)

Tutti conoscono la storiella dell’ubriaco che, di notte, sta cercando per terra la chiave di casa, sotto la luce di un lampione. Un poliziotto che lo incontra dapprima cerca di aiutarlo; poi, insospettito, gli domanda se è proprio lì che ha perduto la chiave. «No ― risponde l’ubriaco ― l’ho persa là: ma là è buio!».

Qualcuno racconta la storia come una barzelletta, per far ridere, e si stupisce che di solito quasi nessuno ride all’udirla. Tutt’al più si riesce a strappare un sorrisino di superiorità da parte di coloro che l’interpretano come una “storia con moralità” (come se volesse suggerire un giudizio del tipo «Quanto sono sciocchi gli uomini...!»). In realtà, non si tratta di una storia comica ma di un

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apologo filosofico. Considerata in profondità, vale quanto un intero trattato di epistemologia. Illustra efficacemente un assioma che sta al fondo di tutto il problema della conoscenza: gli uomini conoscono solo quello che si mettono in grado di conoscere.

Un uso molto acuto della storiella dell’ubriaco è stato fatto da Paul Watzlawick, che se ne serve come storia didattica in senso psicologico nel libro in cui fornisce insegnamenti sul modo in cui “rendersi infelici” 1. Il cercare nel posto sbagliato, per la “buona” (?!) ragione che ci si vede meglio, gli sembra un’illustrazione lampante di una delle ricette più diffuse ed efficaci per rendersi infelici: la ricetta che si può chiamare “sempre di più la stessa cosa”. Quel che possiamo osservare dal punto di vista psicologico è che l’adattamento ci porta a sviluppare determinati modelli di comportamento, che tendiamo a ritenere come eternamente praticabili. Quando il disagio cresce, non mettiamo in discussione i comportamenti, ma attribuiamo piuttosto la loro inefficacia al non esserci dati sufficientemente da fare. Raddoppiamo allora gli sforzi, sempre nello stesso senso e verso la stessa direzione: ancora lo stesso, sempre di più la stessa cosa...; con l’effetto assicurato di ottenere l’aumento del malessere!

L’ipotesi che Watzlawick adotta per spiegare questo comportamento è che l’uomo di fatto non cerchi, come sostiene, la felicità, bensì l’infelicità. («Parliamoci chiaro: come e dove saremmo senza la nostra infelicità? Essa ci è, nel vero senso della parola, dolorosamente necessaria»). Una boutade provocatoria? Un paradosso? Un paradosso, comunque, che svolge bene il suo compito di portarci a considerare la realtà da un punto di vista non scontato, né convenzionale. Come è inquietante (ma anche illuminante) la prospettiva dell’attaccamento all’infelicità per capire il comportamento umano!

Facendo un passo ulteriore nella direzione indicata da Watzlawick, consideriamo l’ipotesi che la ricetta del “sempre di più la stessa cosa” valga non solo per rendersi infelici, ma anche per rendersi ignoranti. La modalità di funzionamento della ricetta è identica. Supponiamo che l’adattamento ci abbia portato alla convinzione che per trovare qualcosa ci vuole la luce, e che quindi il posto migliore per cercare sia là dove c’è più luce. Se non si trova, basta attribuire i cattivi risultati al poco impegno e raddoppiare gli sforzi, senza cambiar posto... Con questa strategia, i risultati di ignoranza sono assolutamente garantiti! È una ricetta di ignoranza

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che vale per tutti i campi del sapere, compreso quello relativo alla malattia.

Il punto cruciale è proprio quello di stabilire se l’uomo vuole veramente la conoscenza, o non preferisce piuttosto l’ignoranza. Qui si trova anche, nella sua massima concentrazione, la questione epistemologica: per stabilire qual è il sapere valido, dobbiamo domandare, prima di qualsiasi questione di contenuto e di metodo, se la conoscenza che si raggiunge corrisponde effettivamente a una volontà di sapere.

La storiella a carattere didattico dell’ubriaco ci soccorre quando ci accingiamo a spiegare che cosa sta attualmente succedendo nell’ambito della medicina. La situazione può essere descritta come una combinazione di infelicità e di ignoranza, in reciproco equilibrio. In questi termini la presenta Edward Shorter, introducendo la sua ricostruzione di La tormentata storia del rapporto medico-paziente:

Al termine di qualche anno di studio [afferma in termini autobiografici] pensavo ormai di capire che cosa fosse la medicina: l’apprendimento della realtà scientifica, in modo che, scoperto il danno all’interno del malato, grazie allo sguardo ai raggi X acquisito, la conoscenza della realtà avrebbe consentito di operare la guarigione. E questo è quanto credono della medicina non soltanto quasi tutti i profani, bensì anche molti medici. Con questo libro intendo dimostrare invece la fallacia di questo modo di vedere, essendomene accorto anch’io in un secondo tempo come tanti medici. Ma quelli che non se ne sono accorti, medici e pazienti, sono coloro che oggi si dichiarano insoddisfatti gli uni degli altri. Questo libro è allora destinato a quei pazienti irati e a quei medici disorientati, i quali vorrebbero capire il perché di tanto risentimento quando si viene a parlare del vissuto della pratica clinica 2.

Nasce il sospetto che gli sforzi, pur sinceri, per eliminare il malessere che domina nella sanità naufraghino per il persistere di una strategia che non conduce da nessuna parte. È come se i medici e i pazienti, mentre manifestano il desiderio sincero di poter tornare a casa, si ostinino a cercar la chiave sotto il lampione, per il motivo che qui c’è più luce, invece che là dove l’hanno smarrita.

Ancora una volta, la ricetta è quella del “sempre di più la stessa cosa”: il passato ha portato a elaborare un comportamento sanitario,

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ritenuto l’unico possibile; al malessere di oggi si risponde raddoppiando gli sforzi, sempre nella stessa direzione (per esempio: sempre più ricerca scientifica, nella direzione finora seguita, per colmare i vuoti della scienza...): senza però cambiar posto, senza spostarsi in un luogo forse più buio, ma dove ci possono essere maggiori chances di trovare quello che si cerca...

4.2. Piccola apologia dell’incertezza

Se l’apologo dell’ubriaco ci ha permesso di scoprire i limiti della certezza ― vale a dire di quel sapere apparentemente solido e certo, ma solo perché si tiene lontano dalle zone d’ombra ― non abbiamo però ancora affrontato le dimensioni peculiari dell’incertezza del sapere medico. Ci possiamo attendere, a priori, che essa abbia anche un valore positivo, simmetricamente al fatto che la certezza, considerata un valore altamente auspicabile, può invece essere un ostacolo alla realizzazione di un’esistenza umana sotto il segno del pathos.

Il discorso relativo al posto che ha l’incertezza nel sapere medico passa necessariamente per un confronto con le ricerche della sociologa americana Renée C. Fox. Da più di un trentennio la studiosa si dedica a esplorare il ruolo che ha l’incertezza nella formazione dello studente di medicina, nella socializzazione del medico e nella condizione umana dei professionisti della salute; l’incertezza è il filo rosso che lega le sue ricerche, il suo insegnamento, i suoi scritti 3. L’insieme della sua opera ci permette di registrare i profondi cambiamenti che il problema della certezza in medicina ha subito nel giro di una generazione.

Discepola del sociologo Talcott Parsons, R. Fox ha cominciato a occuparsi, fin dagli anni Cinquanta, della socializzazione degli studenti in medicina. Il saggio che raccoglieva la sua ricerca recava il titolo emblematico di Training for Uncertainty (1957). La

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formazione del medico comprendeva, a suo avviso, un itinerario finalizzato a fornire la capacità di gestire l’incertezza. Questo lungo allenamento era centrato attorno a tre tipi fondamentali di incertezza. Il primo è quello che deriva da un dominio incompleto o imperfetto del sapere disponibile: nessuno può possedere tutte le qualificazioni e tutte le conoscenze del sapere medico. Il secondo tipo di incertezza dipende dai limiti propri della conoscenza medica attuale (esistono immensi problemi ai quali nessun medico, per quanto esperto, può dare ancora risposta, anche se è legittimo sperare che lo si possa fare in futuro). Una terza causa di incertezza è quella che consiste nella difficoltà di distinguere l’ignoranza o incapacità personale dai limiti specifici della conoscenza medica attuale; ovvero, in parole semplici, se l’eventuale fallimento vada imputato al medico o alla scienza.

All’occhio dello studioso dei comportamenti sociali risulta agevole stabilire un rapporto tra l’incertezza del sapere medico e quella intrinseca dalla condizione umana, nella quale i fatti relativi alla salute, malattia, benessere, morte, sofferenza sono sempre problemi critici di significato. Ma il sociologo è in grado di descrivere anche i meccanismi attraverso i quali gli studenti di medicina in formazione riescono ad adattarsi all’incertezza 4. Al termine dell’“allenamento all’incertezza”, gli studenti diventavano capaci

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di accettare l’incertezza come inerente alla medicina, di distinguere i propri limiti da quelli della scienza, di affrontare l’incertezza con un certo candore e una positiva filosofia scettica. Una singolare condensazione di questo atteggiamento si poteva trovare nello humour medico, miscuglio unico di ironia, empietà e autoderisione.

Renée Fox, studiando l’evoluzione dell’incertezza medica, nota una marcata differenza tra quella degli studenti di medicina degli anni Cinquanta e quella tipica dei nostri giorni. La nuova e più forte sensibilizzazione all’incertezza medica, i cui inizi si possono far risalire alla metà degli anni Settanta, presuppone raffermarsi della nuova biomedicina e di quella riflessione critica che ha preso il nome di “bioetica”. Il contesto sociale è cambiato, e quindi anche il profilo dell’incertezza. Questa non si situa più solo all’interno della scienza medica, ma piuttosto alla frontiera tra la medicina, la politica e l’etica.

Le problematiche bioetiche danno all’incertezza connotazioni molto più ampie. Un significato emblematico assume in questo senso la perplessità relativa alla ricerca con manipolazione del Dna. Il presentimento che la capacità di manipolare i geni potrebbe alla fine provocare una catastrofe si abbina a dubbi circa i limiti delle regolamentazione relative alla ricerca scientifica. («Chi decide a chi competono le decisioni?».) Un discorso analogo si può fare circa gli effetti nocivi di prodotti chimici e di farmaci sull’ambiente e sulla salute umana (prodotti cancerogeni e/o mutageni). La stessa metodologia della ricerca (per esempio, la validità dei testi di sostanze cancerogene fatti sull’animale) crea problemi notevoli di incertezza. La pratica di prescrivere delle norme e di tormentarsi su questa prescrizione (cfr. il ricorso alle “moratorie” in vari ambiti: ingegneria genetica, trapianti sperimentali di organi, ricerca sull’embrione) lascia emergere una figura inedita di incertezza che potremmo chiamare “incertezza di secondo livello”, ovvero “incertezza dell’incertezza”.

La maggior parte dei problemi posti attualmente dall’incertezza e dal rischio non si può ridurre entro il quadro analitico di una sola disciplina o di una singola professione. Le incertezze associate ai progressi scientifici e tecnici più recenti (come il trapianto di organi, il depistaggio e la consulenza genetica, la chemioterapia per il cancro) sono legate a metaquestioni che eccedono l’ambito

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dell’incertezza medica. Sia che si parli dei rischi potenziali paragonati ai vantaggi eventuali, delle conseguenze aleatorie che determinati interventi terapeutici possono comportare per la salute e la sopravvivenza, di predittività, oppure della qualità della vita, inevitabilmente incontriamo problemi fondamentali della società e della stessa condizione umana.

Dall’analisi dell’evoluzione dell’incertezza medica nel corso di un trentennio, Renée Fox giunge alla conclusione che «esiste almeno una coscienza collettiva latente del fatto che le nostre istanze politiche, legislative e professionali attuali non possono inglobare completamente, né risolvere convenientemente il senso profondo delle nostre questioni morali e metafisiche riguardanti l’incertezza relativa alla salute e alla medicina».

Questa lettura dello sviluppo del sapere medico e delle nuove dimensioni che ha assunto in esso l’incertezza ci permette di delineare un profilo non ambiguo della bioetica. Essa ci appare non come il luogo dove vengono respinti dubbi e perplessità che gli operatori delle professioni sanitarie non vogliono o non sono in grado di trattare, ma piuttosto come un metodo per riappropriarsi della riflessione come una dimensione che accompagna necessariamente l’azione. La bioetica ci aiuta a confrontarci con l’incertezza, dopo averla liberata dalla rimozione istituzionale che ha subito nell’ambito della scienza positivistica. Colloca di nuovo i problemi della decisione medica entro il contesto appropriato, che è quello di un orizzonte che si apre sulle questioni metafisiche, accessibili non al sapere scientifico ma a quello filosofico e teologico.

Il sapere umano ci appare così costituito di diversi gradi, organicamente collegati con il non sapere. All’aforisma iniziale di Ippocrate possiamo così aggiungere, al termine di questo percorso nel sapere medico, un aforisma di Niels Stensen (il celebre Stenone, medico, scienziato e teologo del XVII secolo): «Pulchra sunt quae videntur, pulchriora quae sciuntur, longe pulcherrima quae ignorantur». («Belle sono le cose che vediamo, più belle quelle che conosciamo, di gran lunga più belle quelle che ignoriamo».)

4.3. Le esigenze di una medicina antropologica

Il delicato equilibrio del sapere medico, perpetuamente oscillante tra la certezza e l’incertezza (ivi comprese le certezze autentiche e quelle ideologiche, che presuppongono una semplificazione deformante della realtà, le incertezze paralizzanti e quelle invece che si aprono su orizzonti di senso più ampi), è dovuto al fatto

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che oggetto della medicina non sono propriamente le malattie, ma uomini malati. È il soggetto il centro di gravitazione del sapere medico. Ogni sapere relativo alla patologia che, per diventare certo, escluda il soggetto, si condanna con ciò stesso a fallire il suo obiettivo.

Non è una caratteristica esclusiva dei nostri giorni mettere sul banco degli accusati quella medicina che, aderendo al positivismo scientifico, pretende di portare una luce oggettiva e incontrovertibile sui fatti biologici che riguardano l’uomo, mettendo sistematicamente tra parentesi quelle caratteristiche che lo rendono unico tra i viventi. Tra le tante proposte correttive mi limito a citare la Medicina antropologica delineata da Viktor von Weizsäcker 5. Anche se a questo indirizzo, che si è proposto di combinare la scienza biologica di laboratorio con il sapere sull’uomo sviluppatosi nell’ambito della pratica psicanalitica e della riflessione filosofica fenomenologica, non è arriso un successo clamoroso neppure nella nativa Germania, non ha affatto perduto la sua freschezza e la capacità di stimolare a una pratica terapeutica più aderente all’umano nella sua interezza. Più di recente, del resto, una ripresa di interesse editoriale nei confronti di von Weizsäcker, anche nel nostro Paese, lascia sperare che i semi del suo pensiero possano ancor germogliare 6.

«Introdurre il soggetto in biologia» è una delle formule concise con cui von Weizsäcker amava presentare il progetto globale che lo animava. Nell’espressione è implicita una protesta contro l’approccio tipico delle scienze della natura che, applicando il metodo analitico-sperimentale, hanno prodotto una concezione meccanicistica anche dell’essere vivente. Rivendicare l’introduzione del soggetto nell’ambito delle scienze biologiche vuol dire sciogliere l’incantesimo dell’oggettività, ritrovare quelle componenti della malattia come fatto dell’essere vivente che sfuggono al microscopio.

Abbandonando il dualismo cartesiano, per lavorare con l’ipotesi dell’unità corpo-psiche, von Weizsäcker apriva, con la sua medicina antropologica, un ambito per la comprensione della malattia

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che la medicina come scienza della natura si era precluso. Per dirlo in modo sintetico, con le sue stesse parole: «La malattia dell’uomo non è il guasto di una macchina, bensì la sua malattia non è altro che lui stesso; o meglio, la sua possibilità di diventare se stesso».

Senza il soggetto, noi non capiamo la malattia; senza il soggetto noi non realizziamo la guarigione. Forse si può avere la guarigione in senso riduttivo, intesa come restaurazione di uno status quo ante. Ma in senso antropologico pieno la guarigione, che differisce dal recupero della salute come stato precedente e comprende variabili quali l’aumento di consapevolezza, il cambiamento dello stile di vita, l’acquisizione di una conoscenza di sé che include quella parte di ombra che probabilmente gioca un certo ruolo nella creazione della malattia, non può darsi senza la partecipazione attiva del soggetto.

Quello che osserviamo nella prassi medica quotidiana è, invece, proprio la sistematica esclusione del soggetto, inteso come momento fondamentale unificatore, in cui il biologico, lo psichico e il sociale si riuniscono sotto la categoria del biografico. Quando si pretende di dar ragione della malattia evacuando il soggetto, si registra una dipendenza, che è allo stesso tempo psicologica e istituzionale, dall’apparato sanitario, cui corrisponde un’implicita delega agli “esperti” di attuare la guarigione.

Questo abbandonarsi passivo trova spesso riscontro nella volontà esplicita di coloro che rappresentano la medicina scientifica di escludere le complicazioni che derivano da un coinvolgimento del soggetto. Il messaggio: «Tu non c’entri per niente con la tua malattia», trasmesso almeno implicitamente attraverso una gestione del tutto impersonale del fatto morboso, produce un irreparabile impoverimento antropologico della malattia.

La guarigione, intesa come un evento sostanziale più pregnante, più globale del semplice recupero della salute, cioè come una possibilità di riappropriarsi di se stesso, non può avvenire soltanto adattandosi alle regole di comportamento che i rituali sanitari stabiliscono per il “buon” paziente. Nessuno può sapere al posto nostro qual è il cammino verso la guarigione, nel suo equilibrio assolutamente singolare di resistenza e resa, di male da combattere e male da accettare.

La resistenza dei sanitari ad accettare il soggetto — e quindi il significato personale della malattia e della guarigione nell’insieme del processo terapeutico ― è solo una parte della verità. L’altra metà del fallimento del programma di antropologizzare la malattia va attribuita ai malati stessi. Sono essi che vogliono semplicemente

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liberarsi di un sintomo e non scendere fino alle radici della malattia, là dove si incontra la propria partecipazione al fatto di essere malato e dove si è chiamati ad assumere la propria responsabilità per la guarigione.

Per quale ragione non vogliamo integrare salute e malattia in un progetto esistenziale? La domanda suona retorica. Anche la risposta rischia di esserlo, in quanto non può che rimandare all’idea più generale che ci facciamo dell’umanità. Ovvero, per utilizzare un’espressione metaforica: quella forma diffusa di stoltezza che chiamiamo “sapere scientifico” non è altro che un’espressione particolare della stoltezza più generale dell’umanità. Se siamo un’umanità stolta, come potremmo avere una medicina saggia? Se non vogliamo vedere la verità in altri campi della nostra vita spirituale, perché dovremmo vedere la verità e cercare il bene proprio là dove si manifesta sotto forma di malattia e di morte? Un’umanità ostinata che, posta di fronte all’alternativa tra capire o morire, sceglie il “martirio dell’ignoranza”, quale altro atteggiamento potrebbe conoscere di fronte alla malattia?

Con interrogativi di questo genere la bioetica assolve il suo compito più alto: quello di essere coscienza critica dell’umanità. Non possiamo avere un orientamento giusto verso il bios, verso la vita in tutte le sue manifestazioni ― vita sana, vita malata, vita carente, vita morente ― se non aderiamo a un’etica che favorisce un movimento di integrazione di tutta la nostra esistenza.

Un approccio etico positivo, che rispetti il senso soggettivo della malattia e della guarigione e non deresponsabilizzi il malato, ma lo guidi, piuttosto, a riprendersi la responsabilità della sua vita proprio attraverso la vicenda patologica che sta attraversando, ha un difficile compito davanti a sé. Il principale ostacolo è costituito dalla contrapposizione corrente tra due atteggiamenti di fondo nei confronti del sintomo morboso: comprendere ed eliminare. L’approccio psicoterapeutico ha fatto proprio il primo. Nella sua pratica, il sintomo va interrogato, affinché lasci trapelare il suo senso; la guarigione viene fatta coincidere non con la semplice eliminazione del sintomo, ma con l’appropriazione del suo significato da parte del soggetto. Questa concezione si è estesa tutt’al più alle somatizzazioni nevrotiche, ma non al resto delle malattie somatiche di competenza della medicina. La pratica terapeutica di quest’ultima si è sempre più identificata con l’approccio che si propone di eliminare il sintomo.

La clinica si può rinnovare solo se, senza ratificare questa contrapposizione tra il comprendere e l’eliminare, instaura una pace tra queste due dimensioni o concezioni dell’atto terapeutico. È necessario

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abolire la distinzione artificiale, o soltanto di comodo, tra clinica delle malattie somatiche e clinica della patologia di tipo psicologico, che si basa su un dualismo che la medicina cosiddetta psicosomatica ha solo sfumato, senza abolirlo.

Il mettere pace inizia con il dissipare gli equivoci. Coloro che sono tutti tesi verso l’eliminare sospettano coloro che inclinano verso il comprendere, quasi fossero alleati della malattia, conniventi con il male; per contro, coloro che si collocano sul versante del comprendere accusano pesantemente i sanitari che sono sul versante dell’eliminare di esercitare una specie di veterinaria applicata all’uomo, di ridursi a un ruolo di meccanici dell’organismo. Queste due modalità non vanno contrapposte, ma integrate.

Quando alla malattia si dà il permesso di parlare fino in fondo e si esercita verso di essa un ascolto totale, si può realizzare la chiusura del circolo ermeneutico, mediante un comprendere che non è antitetico ma complementare all’eliminare. Solo questo è un processo terapeutico completo, che presuppone l’esigenza di dare alla malattia dell’uomo tutto lo spessore soggettivo che le compete.

Note

1 P. Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici, Feltrinelli, Milano 1984.

2 E. Shorter, La tormentata storia del rapporto medico-paziente, Feltrinelli, Milano 1986, p. 9.

3 Tra le pubblicazioni più importanti di R.C. Fox segnaliamo: Training for Uncertainty, in R.K. Merton, G. Reader (eds.), The Student-Physician, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1957, pp. 207-41; Experiment Perilous: Physicians and Patiens facing the Unknown, Free Press, Glencoe (Ill.) 1959; The Process of Professional Socialization: Is There a “New" Medical Student? A Comparative View of Medical Socialization in the 1950s and in the 1970s, in L.R. TancrediEthics of Medical Care, National Academy of Science, Washington 1974. Una raccolta antologica dei principali scritti di Renée Fox è tradotta in francese col titolo L’incertitude médicale, Ciaco, Louvain-la-Neuve 1988.

4 «Sezionare un cadavere e partecipare a un’autopsia iniziavano gli studenti alla natura profonda del lavoro medico, che si fonda principalmente sulla dualità della vita e della morte [...]. Praticamente tutti i medici procedono a esami e all’anamnesi, emettono una diagnosi e applicano una terapia. Questi aspetti quotidiani del loro lavoro li obbligano e li autorizzano ad auscultare, scrutare, toccare, manipolare, esplorare e penetrare il corpo dei loro pazienti, ad analizzare le loro urine, le loro feci, il loro sangue, il loro muco, così come ogni altra sostanza o secrezione corporea, introducendosi così nella loro vita personale e nei loro sentimenti più intimi. Osservando regole rigorose di asepsi, vestiti di bianco inamidato o di verde astringente, penetrano gli orifici del corpo umano che sono fisiologicamente o simbolicamente associati alle sue più nobili e alle sue più basse funzioni, per estrarne certe sostanze quale il sangue umano, per esempio, considerato nella nostra cultura come allo stesso tempo impuro e sacrosanto. In patologia clinica, nel corso di diagnosi fisiche e nelle loro diverse funzioni cliniche, ho osservato come gli studenti di medicina imparano non solo a padroneggiare le tecniche che questi esami implicano, ma anche a controllare le loro reazioni emotive. Ciò che gli studenti ritenevano particolarmente “sconcertante” (per usare le loro parole) si ritrova nelle situazioni mediche in cui i problemi di incertezza e di significato sono legati: per esempio, quando assistevano a un’autopsia da cui non derivava nessuna spiegazione definitiva sulla causa della morte del paziente, o quando erano a contatto con un paziente che soffriva di un cancro doloroso e incurabile e che subiva i gravi effetti secondari della terapia». R. FoxThe Evolution of Medical Uncertainty, Milbank Memorial Fund, New York 1980

5 Per una presentazione sistematica del pensiero di V. von Weizsäcker, cfr. S. Spinsanti, Guarire tutto l’uomo. La medicina antropologica di Viktor von Weizsäcker, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988.

6 Mentre in Germania è in corso l’edizione completa delle opere di V. von Weizsäcker, in dieci volumi, due scelte antologiche dei suoi scritti sono apparse in italiano: P.A. Masullo (a cura di), Biologia e metafisica. Istruzioni per la condotta umana, Edizioni 10/17, Salerno 1987; Th. Henkelmann (a cura di), Filosofia della medicina, Guarini, Milano 1990.