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Pedro Laín Entralgo
Antropologia medica
Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988
pp. 5-15
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INTRODUZIONE
LA RIFLESSIONE ANTROPOLOGICA PER UNA MEDICINA UMANA
Umanizzare la medicina: oltre gli slogan
La medicina di cui ci serviamo per guarirci è, a sua volta, malata. Come rimedio è oggi diventato corrente prescrivere iniezioni di etica, a dosi massicce. Senza contestare la necessità e l'efficacia dell'etica come terapia, questo libro prospetta un altro cammino per la guarigione della medicina: quello che passa per l'antropologia.
Per identificare questo percorso dobbiamo collocarlo nel contesto di quel movimento che rivendica come propria finalità quella di favorire l'avvento di una medicina più umana. Contrapporre una medicina «a misura d'uomo» a quella denunciata in crisi, perché non sa rispondere ai nostri bisogni, ovvero ― sinteticamente ― «umanizzare» la medicina, è un programma che spesso suscita altrettanta irritazione quanto facili entusiasmi. Dietro gli slogan a effetto, infatti, il più delle volte non si riesce a individuare un vero progetto culturale. Molta parte del successo delle formule riformatrici che si rifanno all'«umanizzazione» va al moralismo, di cui esse sono implicitamente strumento.
Chi vuol «umanizzare» la pratica della medicina punta un dito accusatore contro i sanitari, accusandoli di essere «disumani». I malesseri reali che soffriamo nell'ambito della cura della salute vengono così imputati unilateralmente a coloro che forniscono i servizi terapeutici. I «cattivi» medici-infermieri-ausiliari, da una parte, nel ruolo di persecutori, i «buoni» pazienti dall'altra, in quello di vittime. Questa semplicistica suddivisione di torti e di meriti è la ragione del fascino discreto che esercita il moralismo, ma anche della sua incapacità a cambiare la situazione. Chi si sente accusato reagisce con un atteggiamento di difesa. Il risultato finale più frequente è un sicuro senso di frustrazione e di impotenza, tanto presso gli accusatori, quanto presso gli accusati.
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Se il programma di umanizzazione della medicina vuol essere un richiamo all'atteggiamento filantropico necessario per chi esercita una professione sanitaria, è perfettamente giustificato. Il tratto «umano» con il malato, la partecipazione emotiva dei sanitari al processo terapeutico, il coinvolgimento del cuore, oltre che della mente e della mano, al dolore altrui sono elementi che definiscono essenzialmente la pratica della medicina. È una tradizione che in Occidente è mantenuta viva mediante il richiamo costante allo spirito della medicina ippocratica.
Anche oggi, come in qualsiasi epoca, l'ideale filantropico ha bisogno di essere riproposto a chi esercita l'arte di guarire. Forse ai nostri giorni la professione medica ha bisogno addirittura di un resourcement, di un ritorno alle fonti, come si diceva della Chiesa in epoca di Concilio. Ma, per il buon esito della causa stessa, non sarebbe forse più opportuno, quando ci si riferisce a tale obiettivo, abbandonare il termine di «umanizzazione», considerate le forti connotazioni moralistiche della parola?
Il programma di una medicina umana ha invece una fisionomia non ambigua quando si propone di riportare in medicina quel sapere rappresentato dalle scienze umane, o dell'uomo (Humanunssenschaften, nella terminologia tedesca in uso già fin dal secolo scorso), in quanto specificamente diverse, per metodo e per contenuti, dalle scienze della natura (Naturwissenschaften). Ci riferiamo in concreto alla storia, alla linguistica, alla sociologia, alla psicologia e psicoanalisi, all'antropologia culturale. Per queste scienze l'oggetto di studio è l'essere biologico vivente nella sua inalienabile qualità umana. Ciò che è specifico dell'uomo ― in quanto essere storico, o inserito in una rete di rapporti sociali, o dotato di facoltà psichiche, di emozioni, di dinamismi consci e inconsci, o in quanto prodotto di cultura e produttore di essa ― non viene dalle scienze umane metodologicamente messo tra parentesi, come fanno le scienze della natura, bensì studiato come espressione specifica del «fenomeno umano».
Gli apporti della sociologia e della psicologia per ridare ai fatti patologici e al processo terapeutico il debito spessore umano sono ormai patrimonio acquisito. Anche la storia della salute e della sanità sta acquistando credito e contribuisce a fare della medicina la scienza dell'uomo storicamente malato, piuttosto che di malattie fuori delle coordinate temporali. In questa sede merita una menzione particolare l'antropologia applicata alla medicina.
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Per due ragioni. Questa disciplina è poco nota in Italia, e coltivata solo da pochi studiosi, che non sono ancora riusciti, malgrado l'eccellente qualità del loro lavoro, a imporla all'attenzione della nostra cultura nazionale 1. In secondo luogo, questo tipo di antropologia va differenziata da quella proposta da Laín Entralgo nel presente libro. Malgrado l'affinità terminologica, si tratta di un tipo di conoscenze di ordine completamente diverso.
L'apporto dell'antropologia culturale
Per quanto paradossale possa sembrare all'orecchio, la «medical anthropology» non è l'«antropologia medica». L'antropologia, nel senso anglosassone del termine, è quella scienza dell'uomo che nell'ambito linguistico neolatino è nota come «antropologia culturale».
La «medical anthropology» è nata dal progetto di applicare la conoscenza dell'uomo in quanto essere «culturale» ― ovvero che crea la cultura per rispondere alle sfide dell'ambiente ed è da essa modellato ― alla salute e alla malattia nella vita umana, nonché alle istituzioni sanitarie create da ogni specifica cultura. Dopo un periodo relativamente lungo di legittimazione, questa disciplina ha finito per essere pienamente accettata in ambito accademico, soprattutto negli Stati Uniti. Opere solide forniscono già una valida sintesi delle conoscenze acquisite 2.
La portata degli interessi dell'antropologia applicata alla medicina e la peculiarità del suo approccio alla salute umana emergono già fin dall'opera che rappresenta un tentativo pionieristico e un classico allo stesso tempo: Medicine, Magic and Religion
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di W. Rivers (1927). Anche se già in precedenza etnologi e antropologi avevano raccolto dati sulle concezioni mediche e sulle risorse sanitarie delle popolazioni studiate, Rivers per primo ha concettualizzato la medicina come un sistema culturale. È diventato proprio dell'antropologia considerare i sistemi medici come strategie integrate di adattamento socioculturale.
Un sistema medico abbraccia tutte le credenze, le azioni, le conoscenze scientifiche e le tecniche che promuovono la salute dei membri di un gruppo che sottoscrivono il sistema. La medicina, secondo la definizione dello stesso Rivers, è «un insieme di pratiche sociali con cui l'uomo cerca di dirigere e controllare uno specifico gruppo di fenomeni naturali, quelli cioè che colpiscono specialmente l'uomo stesso e influenzano il suo comportamento in modo da renderlo disadatto per il normale concepimento delle sue funzioni fisiche e sociali; fenomeni che abbassano la sua vitalità e tendono alla morte».
L'antropologo valuta le differenze del comportamento umano nella cura della salute come un'espressione tipica di quella divaricazione tra i diversi gruppi umani che è prodotta dalla cultura. Nel repertorio delle risposte adattive alle sfide dell'esistenza esistono teorie della malattia (scientifiche o religiose), che includono I'eziologia, la diagnosi, la prognosi, il trattamento. Esse differiscono quanto le culture stesse. Le varie teorie della malattia non possono essere capite prescindendo da una comprensione della cultura e della struttura sociale dei gruppi che le veicolano.
La descrizione etnografica delle credenze e dei comportamenti dei popoli «primitivi» era spesso viziata da un pregiudizio etnocentrico, che induceva a svalutare ciò che fosse difforme dalla cultura dell'osservatore. L'antropologia culturale ha operato una svolta copernicana nel modo di considerare le risposte culturali alla situazione «naturale» dell'uomo. L'antropologo è in grado, così, di scoprire un'interna coerenza nelle diverse pratiche della medicina; anche quelle qualificate come magiche appaiono razionali, quando sono viste alla luce delle credenze sulle cause delle malattie. Fin dal primo tentativo di concettualizzazione di Rivers, l'antropologia ha dunque considerato i sistemi medici indigeni come istituzioni sociali; allo stesso modo di queste ultime essi devono, perciò, essere studiati come elementi integrati in una cultura.
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L'etnomedicina è una delle radici della «medical anthropology». Ad essa vanno aggiunte le conoscenze derivate dall'antropologia fisica e quelle maturate nell'ambito delle strategie di politica sanitaria internazionale. Per quanto riguarda le prime, bisogna osservare che ai suoi inizi l'antropologia biologica ha adottato l'atteggiamento rigidamente positivistico proprio della scienza del secolo scorso. Il suo metodo consisteva nelle misurazioni del corpo, specialmente del cranio (antropometria). Con l'affacciarsi dell'evoluzionismo, l'antropologia fisica si è assunta il compito di studiare i resti forniti dalla paleontologia per ricostruire l'evoluzione dell'animale umano. Il suo obiettivo era quello di tracciare una «storia naturale del genere umano», secondo la nota definizione di Broca. Come suo ambito di interesse scelse lo studio dei caratteri morfologici, fisiologici e patologici dei vari popoli della terra, nella loro suddivisione in razze.
In Europa l'antropologia fisica è stata tenuta distinta dall'antropologia culturale, che si occupa della cultura in quanto sistema integrato con cui i gruppi sociali interagiscono con l'ambiente. La classificazione risale a Kant. Egli distingueva nell'antropologia, in quanto problema dell'uomo, a cui si riduce tutta la metafisica, due aspetti: quello «fisiologico», che considera ciò che la natura fa dell'uomo, e quello «pragmatico», che riguarda ciò che l'uomo come essere libero fa, oppure può e deve fare di se stesso. La duplice accezione è rimasta. L'«antropologia fisica» studia i caratteri biologici dell'uomo (l'uomo nella sua struttura somatica, nei suoi rapporti con l'ambiente, nelle sue classificazioni razziali, nel suo passato paleontologico). In quanto «culturale», invece, l'antropologia considera l'uomo nelle caratteristiche che gli derivano dai suoi rapporti sociali. Oggi tende sempre più a prevalere l'uso anglosassone del termine «antropologia», che congloba l'antropologia fisica, quella culturale, la paleoantropologia e la preistoria.
L'altra spinta alla creazione della «medical anthropology» può essere individuata nei programmi internazionali di salute pubblica, che hanno assunto grande diffusione dopo la seconda guerra mondiale, con la creazione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Le persone impegnate nel lavoro sanitario in un contesto transculturale si resero conto, molto prima di coloro che operano esclusivamente entro l'ambito della medicina clinica della propria cultura, che la salute e la malattia sono fenomeni socio-culturali,
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oltre che biologici. Gli antropologi culturali furono in grado di spiegare agli operatori provenienti dai Paesi sviluppati che non potevano limitarsi a trapiantare i servizi sanitari del mondo industrializzato; che le credenze e le pratiche tradizionali, in conflitto con le convinzioni mediche occidentali, avevano un senso e una funzione; che la salute e la malattia, in quanto aspetti parziali di modelli totali di cultura, si modificano solo insieme a cambiamenti socio culturali più ampi. L'antropologia contribuì a chiarire perché molti programmi sanitari avevano avuto minore successo del previsto, e portò al miglioramento dei programmi stessi.
Un esempio particolarmente istruttivo è l'evoluzione del concetto di salute che sottende le strategie globali dell'Oms. Quarant'anni fa, nel 1948, l'Oms aveva lanciato la famosa definizione della salute quale «non solo assenza di malattia, ma stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale». Sulla base della fiducia nell'innovazione tecnologica e nella modernizzazione, si pensava di poter diffondere il concetto occidentale di medicina scientifica, esportando nel resto del mondo non industrializzato la «medicina moderna». Il concetto di salute veicolato dai concreti programmi sanitari, costruiti sulla base della medicina occidentale e della sua visione meccanicista della malattia, era in contraddizione con quello teorico, che aveva invece una esplicita dimensione olistica. Ben presto quel tipo di azione sanitaria doveva mostrare l'inconciliabilità tra le buone intenzioni e la realtà sanitaria presente nelle altre culture.
Nel 1978 l'Oms riformulò i suoi programmi con una diversa calibratura. La dichiarazione di Alma Ata proponeva di unire gli sforzi per realizzare una «salute per tutti per l'anno Duemila». La salute diventava il problema della collettività e delle sue guide 'politiche, e non solo compito di un settore specializzato, come la professione medica e l'organizzazione ospedaliera. La salute, in altre parole, non si faceva dipendere dai medici, dai farmaci o dagli ospedali, ma dal modo di vivere della gente; essa ha a che fare principalmente con la pace, l'alloggio, la nutrizione, l'istruzione, il reddito. L'Oms spostava il suo interesse da un modello medico di salute e malattia a un modello sociale.
Un passo ulteriore nella direzione indicata da Alma Ata è stato fatto nel novembre 1986, a Ottawa, con la prima conferenza internazionale sulla promozione della salute. In questa occasione
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è stata promulgata una Carta, nella quale confluiscono gli sforzi di un nuovo movimento di salute pubblica nel mondo. Secondo la Carta di Ottawa, la promozione della salute è il processo che conferisce alle popolazioni i mezzi per assicurare un maggiore controllo sulla propria salute e per migliorarla. Questo approccio dipende da un concetto che definisce la salute come la misura in cui un gruppo o un individuo può da una parte realizzare le sue ambizioni e soddisfare i suoi bisogni, e dall'altra può evolve re con il suo ambiente e adattarsi a esso. La salute è dunque percepita come una risorsa della vita quotidiana, e non come il fine della vita. Si tratta di un concetto positivo che valorizza le risorse sociali e individuali, così come le capacità fisiche. Perciò la promozione della salute non dipende solamente dal settore sanitario: «essa supera i modi di vita sani per mirare al benessere».
Questo concetto di salute, in cui è evidenziato l'aspetto socio-ecologico, è indubbiamente un prodotto dei paesi industrializzati. Tuttavia esso riflette un'esperienza di confronto diretto con le culture dei paesi in via di sviluppo e con il concetto di salute sotteso dalle loro pratiche sanitarie. Ciò ha permesso l'evoluzione di quella nozione di salute medicalizzata, che i programmi dell'Oms di quarant'anni fa pretendevano di realizzare, imponendo, in pratica, una forma di imperialismo culturale.
Queste, dunque, le radici storiche e i diversi apporti che sono confluiti nella «medical anthropology» in quanto disciplina. Al momento attuale essa sembra aver trovato un'identità definita, occupandosi degli aspetti tanto biologico che socio-culturale del comportamento umano, in particolare del modo in cui essi interagiscono, influenzando la malattia e la salute 3. Il suo campo di lavoro comprende, come argomenti tematici: i sistemi medici e le teorie relative alla malattia e alla guarigione; stati emotivi e costrizioni culturali (etnopsichiatria); sciamanesimo, stregoneria, pratiche dei guaritori; ecologia ed epidemiologia
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delle malattie; status e ruolo del paziente e del terapeuta; trasformazione dei sistemi medici nel cambiamento sociale e culturale, specialmente nel processo di modernizzazione.
Il contributo che l'antropologia può dare alla realizzazione di una medicina a dimensione umana si differenzia e si integra con le altre scienze dell'uomo. Comune a tutte è il compito di scuotere il modello naturalistico su cui è costruita la medicina come scienza, rifondando un sapere che comprenda anche lo specifico che fa dell'uomo un vivente diverso rispetto agli altri viventi.
L'antropologia come filosofia dell'uomo
Descritto in dettaglio il contributo dell'antropologia in quanto scienza della cultura, siamo ora in grado di cogliere la specificità dell'antropologia medica proposta da Laín Entralgo. Questa presuppone un'accezione diversa del termine «antropologia», quale si è consolidata, fin dall'epoca dell'Umanesimo, nella tradizione culturale europea (il concetto di antropologia in senso stretto è apparso per la prima volta nell'opera di Magnus Hundt, Anthropologium de hominis dignitate, pubblicata a Lipsia nel 1501). Per antropologia si intende la riflessione filosofica sulla peculiarità della natura umana. Il tema dell'antropologia in questo senso specifico è costituito dalla posizione particolare dell'essere umano nel mondo dei viventi. Questa riflessione filosofico-deduttiva è metodologicamente e contenutisticamente diversa dalla conoscenza propria dell'antropologia concreta che si è formata nei tempi moderni (e i cui presupposti risiedono, come abbiamo visto, nella filosofia kantiana).
Nella linea dell'antropologia filosofica post-idealistica, il problema dell'uomo come vivente ha ritenuto l'attenzione soprattutto di filosofi di indirizzo fenomenologico-esistenziale. Citiamo: F.J.J. Buytendjk, L. Binswanger, M. Boss, H. Plessner, A. Gehlen, M. Merleau-Ponty, J.P. Sartre 4. La loro antropologia si propone di comprendere l'uomo come l'essere che, nell'unità
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della sua corporeità animata, esiste nel mondo storicamente. La riflessione avvenuta nell'ambito della medicina ha applicato in particolare questo tema all'uomo malato e ai problemi esistenziali connessi con le vicende della salute, costituendo nell'insieme dell'antropologia un capitolo di «antropologia medica».
All'antropologia medica, intesa in questa accezione, interessa la questione dell'uomo nella sua condizione di malato. Si distanzia così dalla medicina scientifica, la quale conosce la struttura e le funzioni del corpo, le loro modificazioni ad opera delle malattie, la catena di causa ed effetti, l'azione dei farmaci, ma non conosce propriamente l'«uomo malato ». In questo tipo di antropologia medica si incontrano e si fecondano reciprocamente due generi di esperienza scientifica: da una parte l'esperienza discorsiva e induttiva, nel senso del suddividere, descrivere, spiegare e dominare, tipica delle scienze naturali; dall'altra l'esperienza fenomenologica, nel senso del vivere-sperimentare-agire insieme, proprio degli atti umani.
Una realizzazione particolarmente felice di questo tipo di medicina, che si assume anche il compito di pensare filosoficamente l'uomo al quale è diretta la sua azione terapeutica, è rappresentato dalla «Anthropologische Medizin» tedesca. Sorta nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, è rappresentata da pensatori di diversa estrazione, con una base comune: rivendicare all'azione medica una prospettiva antropologica, per reagire ai riduzionismi propri della medicina concepita come scienza della natura, attenta solo al lato biologico dell'esistenza umana. Senza costituire una scuola nel senso proprio del termine, la «Medicina antropologica» ha svolto un ruolo caratteristico nel riportare gli interessi umanistici nell'ambito della medicina.
Comune a tutti gli autori di questa corrente ― menzioniamo, tra i più significativi: L. von Krehl, R. Siebeck, Th. von Uexkull, A. Mitscherlich ― è l'importanza attribuita alla biografia del paziente e alla storia della malattia per capire la patogenesi. Non si presta attenzione solo alla biologia, ma anche ad altri fattori, come l'ambiente, la storia e la psiche, compresa l'azione dinamica dell'inconscio. L'influenza di Freud e della psicoanalisi è rintracciabile in tutti gli autori della «Medicina antropologica», in modo diretto o indiretto. La malattia appare così come un processo complesso: non solo qualcosa che si subisce,
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sopravvenendo dall'esterno come un evento estraneo al soggetto, ma anche qualcosa in cui il malato è impegnato attivamente. «Non si ha solo una malattia, ma si è malati», afferma Viktor von Weizsäcker.
Il richiamo a von Weizsäcker non è casuale. Egli è indubbiamente l'autore più rappresentativo della «medicina antropologica». A lui risale la formula: «introdurre il soggetto in medicina», quale programma per una rifondazione della scienza medica 5, Senza potersi dire discepolo di von Weizsäcker, Laín Entralgo deve molto alla sua influenza. Quale segno di un riconoscimento accademico di tale profondo legame possiamo considerare il fatto che a Laín Entralgo sia stata affidata una delle relazioni principali in occasione del simposio che ha commemorato ad Heidelberg, nel maggio 1986, il centenario della nascita di Viktor von Weizsäcker 6.
L'antropologia medica di Pedro Laín Entralgo si colloca, dunque, nell'alveo di quella riflessione sull'uomo provocata dalla pratica della medicina e finalizzata a una «umanizzazione» della medicina stessa, nel senso di ricondurla a considerare l'uomo secondo la sua vera natura. Non è un filosofo di professione che traccia i contorni di questo sapere concreto, elaborato a partire dalla condizione dell'uomo malato che chiede aiuto alle istituzioni mediche, bensì uno storico 7. L'intento è identico a quello che ha animato il movimento della «medicina antropologica»: reintrodurre il soggetto-uomo nella sua interezza, come essere bio-psichico-spirituale-storico; e non solo nella clinica, dove è inevitabilmente presente (almeno presso i medici che non abbiano rinunciato ad ispirarsi all'ideale della filantropia ippocratica, per non parlare di altre motivazioni, come l'amore del prossimo promosso dal cristianesimo), bensì anche nella patologia.
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È il sapere stesso sull'uomo malato che viene rifondato, quando si assume come punto di partenza la mutevole condizione dell'uomo nella sua vicenda esistenziale.
È quasi superfluo sottolineare l'importanza della traduzione io italiano dell'opera di Laín Entralgo 8. Nel nostro paese la riflessione antropologica di questo genere non ha alcuna tradizione. Né esistono iniziative in ambito accademico che favoriscano il dialogo tra la filosofia e la medicina. Tra quelle sorte nel privato ci piace citare la «Scuola internazionale di filosofia della medicina ed etica medica», promossa dalla Fondazione internazionale Fatebenefratelli (Roma) e la «Scuola di medicina e scienze umane» dell'Ospedale San Raffaele (Milano). Iniziative in qualche modo pionieristiche, che denunciano una carenza e avviano la risposta a un bisogno sentito.
Ai coraggiosi che si accingono ad affrontare una riflessione sistematica sull'essere umano a partire dalle vicende dell'esistenza corporea ― con il suo percorso accidentato tra salute e malattia e con la morte come compimento finale ― affidiamo come compagno di viaggio un aforisma di Viktor von Weizsäcker: «Per il medico il concetto è un amore infelice, ma non un'infelicità».
Note
1 Una menzione particolare merita l'attività di ricerca svolta dall'Istituto di Etnologia e Antropologia culturale dell'Università di Perugia, diretto dal prof. Tullio Seppilli. Tra i temi privilegiati dall'istituto: lo studio delle forme folcloristiche di medicina, l'analisi dei programmi di formazione sanitaria di massa, la comparazione transculturale e l'efficacia delle varie forme di medicina, !'indagine sulle immagini sociali della malattia mentale. Si veda, in particolare, il numero dedicato a «La medicina popolare in Italia» della rivista La ricerca folklorica (n. 8, 1983), curato da T. Seppilli. Dal 1986 è edita la rivista Antropologia medica (per un confronto di culture sui temi della salute). Di recente si è costituita anche la Società Italiana di Antropologia Medica.
2 Tra i manuali che permettono una delimitazione precisa del campo di lavoro dell'antropologia applicata alla medicina si veda: G.M. Foster e B. Gallatin Anderson, Medical Anthropology, New York 1978; D. Landy (a cura), Culture, disease and healing: studies in medical anthropology, New York - London 1977.
3 Secondo la definizione che G.M. Foster dà della disciplina (cfr. nota precedente), l'antropologia medica ha una dimensione teoretica e una applicativa. Comprende le ricerche degli antropologi per descrivere e interpretare le interrelazioni bio culturali tra il comportamento umano, passato e presente, e i livelli di malattia e salute. Include anche la partecipazione degli antropologi in programmi il cui fine sia il miglioramento dei livelli di salute mediante una migliore comprensione delle relazioni tra i fenomeni biosocioculturali e la salute.
4 Non è compito di questa nota introduttiva fornire una bibliografica delle numerose opere prodotte da questa riflessione filosofica. Per una visione d'insieme e una descrizione delle diverse articolazioni dell'antropologia filosofica riferita alla medicina, cfr. P. Christian, «Medizinische und philosophische Anthropologie», in Handbuch der allgemeinen Pathologie, Berlin-Heidelberg-New York 1969, vol. I, pp. 232-274.
5 Al di fuori dell'ambito linguistico tedesco von Weizsäcker è quasi del tutto ignorato. Per un primo tentativo di presentare in Italia la rilevanza del suo pensiero, cfr. S. Spinsanti, Guarire tutto l'uomo. La medicina antropologica di V. von Weizsäcker, Edizioni Paoline 1988.
6 La lezione magistrale di P. Laín Entralgo si può leggere, con il titolo «Viktor von Weizsäcker und die ärztliche Praxis», nel volume che raccoglie gli atti del Simposio: P. Hahn e W. Jacob (a cura), Viktor von Weizsäcker zum 100. Geburtstag, Springer Verlag 1987, pp. 23-44.
7 Sulla persona di Pedro Laín Entralgo e sul significato della sua opera è stata aggiunta, in appendice al volume, una nota informativa redatta dal prof. José Mainetti, docente di «Humanidades médicas» presso l'università di La Plata, in Argentina.
8 Dobbiamo al lettore un'informazione: abbiamo operato una riduzione del volume di Laín Entralgo, per la consistenza di circa un quarto dell'opera nel suo insieme. Per l'esattezza nella prima parte (La realtà dell'uomo) è stata omessa una lunga trattazione della realtà umana dal punto di vista strutturale, a vantaggio della trattazione dinamica della stessa, e nel capitolo relativo al corpo umano gli sviluppi storici della conoscenza del corpo. Nella seconda parte (Salute e malattia) della malattia come problema antropologico sono state omesse le considerazioni relative alla malattia in generale e alla malattia vegetale e animale. Nella terza parte (L'atto medico e i suoi orizzonti) si è dovuto rinunciare ai capitoli relativi al momento affettivo e al momento sociale dell'atto medico. Il fatto che, ciò nonostante, il volume sia così ponderoso, ci otterrà ― vogliamo sperare ― la benevola indulgenza del lettore. Lo snellimento, realizzato da Pietro Quattrocchi, è stato infatti predisposto per rendere più accessibile l'opera stessa.