Vita fisica

Sandro Spinsanti

VITA FISICA

in Diaconia - Etica della persona

a cura di Tullo Goffi - Giannino Piana

Queriniana, Brescia 1983

pp. 127-267

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 I.

LA NORMATIVITÀ ETICA NEL CAMPO BIO-MEDICO

INTRODUZIONE - L’istanza etica nelle professioni sanitarie

Una continua riflessione etica accompagna l’insieme delle professioni rivolte alla cura della salute, in particolare la professione medica. L’aspirazione ad essere non solo un medico, ma un «buon» medico, è una costante che, lungo tutta la storia della medicina, corre parallelamente ai progressi dell’arte sanitaria. I criteri per stabilire che cosa costituisca la «bontà» di chi si dedica alla cura delle malattie variano da cultura a cultura, così come si evolvono nel tempo anche all’interno di una stessa tradizione culturale. Gli ideali personali e i valori morali si intrecciano con le richieste sociali; le norme che si ispirano alla religione con quelle che si fondano sulla ragione. Per misurare la complessa varietà di questo «di più» che si richiede a chi svolge una professione sanitaria, basta pensare alle diverse forme letterarie che ne sono state l’espressione e il veicolo: preghiere (come quella apocrificamente attribuita a Mosè Maimonide, ma autentica espressione dei valori trasmessi dalla tradizione giudaico-cristiana), giuramenti (dal capostipite, che reca il nome di Ippocrate, al giuramento che il Soviet supremo ha imposto ai medici russi), codici deontologici, civili e penali.

Il criterio scelto, volta a volta, per stabilire delle norme può essere religioso o razionale; l’istanza obbligante può essere la coscienza, la società o il corpo professionale. Conseguentemente, variano anche la qualità e la forza delle sanzioni. La «bontà» deontologica è diversa da quella che deriva dalle più alte aspirazioni morali ispirate dalla religione; tuttavia, nella loro diversità, si richiamano e si integrano a vicenda. In questa prospettiva la morale medica cristiana si presenta come un insieme di esigenze che, pur derivando la loro forza obbligante dalla rivelazione

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divina in Gesù Cristo, sono intimamente connesse con le altre istanze etiche.

Neppure la morale medica, tuttavia, esaurisce le esigenze connesse con un esercizio delle professioni sanitarie pienamente connaturato con il suo oggetto, che è l’uomo sofferente. Anche la migliore morale medica ha dei limiti intrinseci. È costruita su casi astratti e lascia fuori il vissuto personale, l’angolatura particolare che le vicende del corpo assumono per il fatto di essere inserite in un’esistenza individuale. Senza che sia infranto formalmente nessun caposaldo della morale, il trattamento del malato, specialmente nella struttura ospedaliera, può diventare una ruota che stritola la dignità della persona, causa sofferenze e umiliazioni, provoca addirittura alterazioni della personalità.

Il fronte su cui i cristiani sono chiamati a schierarsi è quello di una medicina per l’uomo intero. La medicina scientifica, pur con i suoi meriti indiscutibili, è viziata da un presupposto positivista. Per ricondurre la malattia a qualcosa di obiettivo, da spiegare sulla base delle leggi fisico-chimiche che regolano i fatti della natura, ha escluso la considerazione dell’uomo malato. Tutti i caratteri storici e personali della malattia sono messi tra parentesi: il malato interessa solo quando è ridotto a un «caso» clinico. La medicina non è organizzata intorno all’uomo malato, ma intorno alia malattia, o piuttosto all’organo malato. Lo si può vedere dal modo come è disposto l’ospedale tipico: le malattie vengono suddivise per reparto come le merci in un supermercato; e i medici, passando di letto in letto come tecnici a una catena di montaggio, si dedicano a scoprire le cause del guasto per riparare l’organo malato.

Oggi c’è un bisogno diffuso di superare la concezione meccanicista della malattia. L’oggetto proprio della medicina non sono i singoli organi che non funzionano, ma l’uomo malato, inteso come una totalità. La tradizione filosofica cristiana ha espresso questo punto di vista parlando dell’uomo come persona. Il contributo che i cristiani possono portare a un'umanizzazione della medicina va al di là di una specifica morale medica, per diventare una proposta di «medicina della persona», che si ispiri all’antropologia cristiana. Più che una prassi medica accanto alle altre, la medicina della persona è uno spirito con il quale la medicina deve essere praticata. Include la tecnica, pur non limitandosi ad essa; presuppone l’apertura alla conoscenza antropologica moderna, ma non vi si identifica. L’antropologia cristiana ha una propria, irriducibile specificità, che diventa a sua volta una fonte di normatività, o quanto meno di esigenze pratiche, nel campo bio-medico. Essa porta nella prospettiva della «totalità» (od olistica) un punto di vista ancora più ampio, che colloca l’uomo nell’ascolto di una chiamata. Il cristiano lo ha imparato

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da Gesù, il terapeuta. Il quale, nel calore dell’incontro interpersonale, curava uomini malati, non riparava macchine organiche; e al tempo stesso collocava la vita degli individui nell’orizzonte del Regno di Dio.

1. L’ethos professionale

1.1. Il giuramento di Ippocrate nel contesto storico

Il giuramento di Ippocrate appartiene a quei documenti che costituiscono il nucleo essenziale del patrimonio spirituale dell’Occidente. Sono poche righe, estremamente concise, specchio di una prassi medica segnata dal tempo. Tuttavia hanno attraversato i secoli, sempre continuamente citate come portatrici di un ideale che trascende il' proprio tempo e la propria cultura. Il giuramento ha contribuito in modo determinante a far diventare Ippocrate un eroe culturale in tradizioni tutt’altro che inclini all’ecumenismo: cristiani ed ebrei, musulmani e illuministi gli hanno unanimemente tributato un rispetto che confina con la venerazione. Giuramento ippocratico ed etica medica sono diventati due concetti correlati, un binomio inscindibile. Tuttavia, quante ombre dietro questa apparente luminosità!

La realtà storica del giuramento è probabilmente molto diversa da quella immaginaria che ha permesso nei secoli di renderlo simbolo delle più alte idealità che possono ispirare il medico nella sua professione. Presentando una moderna edizione del giuramento, il curatore faceva un, bilancio della situazione dal punto di vista storiografico: «Qual è la data del giuramento? è mutilato o interpolato? chi faceva il giuramento: tutti i medici o solo gli appartenenti a una corporazione? quale forza obbligante c’è dietro la sua sanzione morale? era una realtà o un semplice ‘consiglio di perfezione’? L’onesto ricercatore deve dire di non saperne nulla» 1. In seguito, studi storici di grande valore hanno portato un po’ di luce su alcuni di questi interrogativi. I risultati della ricerca storica mettono in crisi molti luoghi comuni circa l’origine, il significato e l’utilizzazione del giuramento.

Passiamo brevemente in rassegna le principali acquisizioni, dovute principalmente agli studi di Edelstein e Sigerist 2. Sono problemi che

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non interessano solo gli eruditi, ma tutti coloro che si interrogano sul rapporto tra etica e medicina. Rituffandoci nelle origini, nel momento in cui per la prima volta la cultura occidentale ha intuito il legame e ha cercato di formularlo, ritroviamo lo stato germinale di ciò che si configurerà come «ethos» medico.

È opportuno, in primo luogo, considerare il contenuto e la struttura del giuramento. Dopo l’invocazione degli dei — Apollo, Esculapio, Igea e Panacea —, la prima parte è dedicata ai doveri verso la famiglia del maestro. Colui che giura si impegna a condividere i propri beni col maestro e a considerare i figli di lui come propri. La seconda parte è il vero e proprio codice etico, che enumera i doveri che il medico si assume verso i pazienti. È costruito in modo simmetrico. Al centro troviamo la sola affermazione positiva di tutto il giuramento: «conserverò casta e pura da ogni delitto sia la mia vita che la mia arte». È preceduta da tre proibizioni: non recare danno o ingiustizia al malato, non somministrare a nessuno medicine letali, non provocare rimedi abortivi alle donne. La clausola di purità è seguita da tre altre proibizioni: non praticare la chirurgia, non avere rapporti sessuali con nessun membro della famiglia del paziente, non divulgare segreti uditi nell’esercizio della professione. L’ultimo paragrafo, infine, indica che la ricompensa per l’osservanza del giuramento sarà la fama e la buona reputazione, il disonore invece colpirà lo spergiuro.

La nobiltà dei propositi giurati non paralizza il senso critico dello storico. Per il quale le clausole del giuramento presentano dissonanze vistose con quanto egli conosce circa la pratica della medicina nella Grecia classica. L’enigma più evidente è quello dell’esercizio della chirurgia. Sappiamo con certezza che il medico ippocratico era anche chirurgo. Anzi, gli scritti chirurgici sono tra i migliori del Corpus Hippocraticum, e sono spesso attribuiti al maestro stesso. Un problema presenta anche la clausola dell’aborto: come conciliare questa proibizione con il fatto accertato che l’aborto era generalmente praticato in Grecia, non solo dalle levatrici ma anche da medici ippocratici, che era accettato dalla società e perfino raccomandato dai maggiori filosofi, come Platone? Anche per quanto riguarda l’eutanasia la clausola del giuramento è in contrasto con quanto sappiamo della civiltà greco romana. Il suicidio,

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soprattutto per influenza dello stoicismo, era generalmente accettato; conosciamo molti casi in cui il veleno è stato somministrato da medici.

Queste contraddizioni patenti rendono impossibile allo storico sottoscrivere l’immagine del giuramento come strumento, già in uso al tempo di Ippocrate, per inculcare al medico un’etica particolare, impregnata di idealismo o di filantropia, che lo impegna per il fatto stesso di abbracciare la professione medica. I discorsi convenzionali che si fanno sul giuramento ippocratico come simbolo di un ethos perenne, soggiacente a tutte le trasformazioni morali ed etiche, al quale il corpo medico si sarebbe sempre attenuto fino dagli albori della civiltà greca 3, non hanno un riscontro storico. Già in una prima ricognizione di quanto è storicamente appurato Jones escludeva che il testo trasmessoci dalla tradizione possa essere considerato come un giuramento da deporre obbligatoriamente per essere ammessi nella corporazione dei medici asclepiadi 4. La prima parte del giuramento, sotto forma di un accordo contrattuale, lega l’aspirante medico al maestro e alla sua famiglia, non a una corporazione. Se non si tratta, dunque, di un giuramento corporativo, qual è la sua natura? Le ipotesi formulate da Jones, e confermate poi dagli studi successivi, partono dalle informazioni storicamente attendibili che possediamo sull’età classica. Sappiamo da Platone (cfr. Protagora 311 B) che i medici insegnavano la medicina ai loro figli, e che Ippocrate insegnava ad altri discepoli dietro compenso. Siamo inoltre informati che nel periodo migliore della medicina greca c’erano delle scuole esclusive che restringevano il loro insegnamento ai membri di un clan (genos) e ad esterni, che venivano in qualche modo adottati. È probabile che questi membri adottati facessero un giuramento e firmassero un contratto legale. Gli studenti apprendisti venivano in qualche modo assunti nella famiglia e assumevano diritti e doveri dei membri della famiglia. Il giuramento, accordo privato tra il maestro e l’apprendista, definiva le relazioni tra quest’ultimo e la società in cui entrava, nonché le regole di condotta a cui quella società si attendeva che egli si conformasse. Nel corso del tempo può essersi evoluto un formulario, non proprio stereotipato e universale, ma con omissioni, alterazioni o addizioni, per adattarsi

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al periodo, alla scuola o al luogo. Nello schema, oltre alle promesse fatte al maestro, erano incorporate le clausole che avevano come oggetto la probità e l’onore medico. Questa l’ipotetica evoluzione del giuramento, la sua funzione e il suo contenuto originari.

Tuttavia il giuramento che la tradizione ci ha consegnato, attribuendolo a Ippocrate, non può essere identificato con il giuramento ipoteticamente in uso nelle scuole ippocratiche del V e IV sec. a. C. Le clausole etiche che definiscono il rapporto del medico col malato, infatti, sono inconciliabili con ciò che conosciamo della pratica medica nel mondo classico. Sigerist è perentorio: «La spiegazione di tutte queste contraddizioni è semplicemente che il giuramento ebbe origine in un ambiente che era totalmente differente da quello di Cos o di Cnido: cioè in un ambiente filosofico, tra i Pitagorici» 5. Egli fonda la sua opinione sugli studi più conclusivi sull’argomento, che sono quelli condotti da Edelstein. A differenza di chi considera il giuramento come un messaggio di validità universale, unanimamente accettato nell’ambito della grande medicina greca dell’epoca classica, Edelstein lo fa risalire a un gruppo che rappresentava un piccolo segmento dell’opinione greca. Gli scritti medici, dall’epoca di Ippocrate a quella di Gallieno, dimostrano la violazione sistematica e costante di quasi tutte le ingiunzioni del giuramento. Soltanto verso la fine dell’epoca classica avvenne un profondo cambiamento, le cui radici affondano nella filosofia pitagorica, che cominciò a definirsi verso la fine del IV sec. a.C. La filosofia pitagorica includeva ideali di giustizia, fortezza, purezza e santità, e di rispetto della vita. Al greco medio non possiamo attribuire un rispetto della vita come valore. Basti pensare all’esposizione di bambini deboli o deformi, pratica diffusa non solo a Sparta, ma anche ad Atene. C’erano tuttavia gruppi religiosi nella società greca, specialmente orfici e pitagorici, i quali, forse sotto influenza indiana, nutrivano un profondo rispetto per la vita. Nel loro ambito ci si ispirava a una moralità più stretta rispetto all’etica platonica e aristotelica, o alla pratica medica comune. Il giuramento ippocratico è storicamente attendibile solo se lo consideriamo come un prodotto dall’etica pitagorica, applicata alla medicina. Il suicidio e l’aborto erano condannati dai pitagorici; di conseguenza, fu considerato non etico per il medico prestare la propria mano per azioni che conducevano alla distruzione della vita. La chirurgia fu separata dalla medicina generica. Il medico che si ispirava alla nuova filosofia poteva così lasciare al chirurgo lo spargimento del sangue e il rischio che il paziente morisse sotto il bisturi. In tate ambiente il giuramento cominciò a diventare popolare. I medici pitagorici potrebbero averlo redatto come un programma

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di riforme, e forse anche come protesta contro le pratiche correnti. In seguito fu considerato opera del grande Ippocrate, così come gli furono ascritte le opere mediche della biblioteca di Alessandria, ricorrendo a un processo di accreditamento comune nell’antichità. Il suo studio divenne parte del curriculum medico, idealmente la prima opera con cui lo studente di medicina si familiarizzava. I commentatori supposero che il maestro avesse scritto il giuramento come primo dei suoi libri e imposero al principiante di leggere questo trattato per primo 6.

La scuola pitagorica fece il ponte tra il paganesimo e il cristianesimo, il quale doveva cambiare i fondamenti della civiltà antica. Il cristianesimo si trovò in accordo con i princìpi pitagorici relativi alla vita e alla medicina. E proprio alla sua consonanza con il cristianesimo il giuramento ippocratico deve il successo che lo fece diventare il nucleo di tutta l’etica medica. Appena menzionato in epoca precristiana, godette invece di popolarità una volta entrato nell’area culturale cristiana. I padri della chiesa abbondarono nelle lodi di Ippocrate e della sua regolazione pratica della medicina 7; in seguito Ippocrate fu egli stesso considerato come un «padre della chiesa» dai medici, e la sua autorità mai rimessa in discussione. L’ideale etico che traspare dal giuramento fu proiettato sugli altri scritti, e in genere su tutta la medicina dell’antichità. Emergeva così la figura del medico come «filantropo», che si impegnava con un giuramento di dedicarsi al servizio dei malati. Ma la finalità del giuramento medico era realmente la «filantropia»? Ulteriori precisazioni vengono dalle ricerche storiche recenti. Alcune indicazioni possono essere ricavate dall’analisi sia del contenuto che della struttura del documento. Le clausole tengono a stabilire non quello che il medico dovrebbe fare per essere un buon medico, ma le azioni dalle quali astenersi. Il fine è quello messo in rilievo dall’unica clausola positiva, posta architettonicamente al centro della seconda parte: conservare la vita pura per accrescere la propria «reputazione» (doxa). Sigerist ha particolarmente insistito su questa finalità del giuramento e dell’etica medica greca 8. Il medico era costretto ad occuparsi della propria reputazione, e ciò in forza delle condizioni della pratica medica dell’antichità. Il medico era, in pratica, un artigiano; esercitava la sua arte (techne) come gli altri artigiani, passando da un luogo all’altro. La buona reputazione e la fama che lo precedevano erano condizioni indispensabili per l’affermazione professionale 9.

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Non esistendo nessuna licenza per praticare la medicina concessa dallo stato o da altra organizzazione, la reputazione era la sola credenziale che il medico possedesse. L’acquistava con l’apprendimento, l’abilità, la coscienziosità, la corretta prognosi, e in generale conducendo una vita onesta. Il giuramento si colora così di una luce utilitaristica. Comprendiamo quindi perché, ai fini della reputazione, il medico si allineasse mediante il giuramento con le posizioni etiche più rigide, come quelle diffuse dai pitagorici, che richiedevano dal medico più di quanto gli imponevano la morale e la pratica corrente.

Queste precisazioni storiche fanno forse scendere il medico che nell’antichità usava il giuramento ippocratico dal piedistallo del semidio filantropico, ma gli conferiscono anche, a suo vantaggio, uno spessore di umanità che lo rende più credibile. Anche attraverso la porta della ricerca della reputazione — non certo l’ideale più sublime che possiamo concepire dal punto di vista etico — entrava nella cultura il principio che la medicina è un’arte in cui la conoscenza è inseparabile dalla moralità. Cominciava così a delinearsi la figura del medico come vir bonus sanandi peritus.

Le conoscenze storiche acquisite ci mettono in grado di tracciare un quadro meno aprioristico dell’evoluzione dell’ethos medico nel mondo greco-romano, e del ruolo svolto dal giuramento ippocratico 10. Non c’è dubbio che il mondo classico sia arrivato a formulare l’ideale che deve ispirare il medico, e gli obblighi che acquisisce verso il malato, nei termini di misericordia, solidarietà, fratellanza universale: in una parola, come un’«etica della filantropia». Tuttavia questo ideale non è stato l’unico, né si è imposto in tutto l’ambiente medico. Nell’epoca classica della civiltà greca il comportamento del medico non si ispirava agli obblighi verso l’umanità. La «filantropia» negli scritti ippocratici (V sec.) è intesa come gentilezza e buone maniere, contrapposta alla misantropia. I suggerimenti impartiti al medico riguardano i comportamenti più efficaci da tenere nel corso del suo lavoro, al fine di conseguire la fiducia del paziente e distinguersi dai ciarlatani. In altri termini, si tratta più di «etichetta» medica che di etica. L’ethos medico è quello di una corretta prestazione esterna. L’età classica, come risulta dagli scritti platonici, giudicava il lavoro manuale sulla base della competenza e dell’efficienza. Nessuna idealizzazione esaltava la medicina sopra le altre professioni: era considerata un’arte come le altre, estranea a valori come l’intenzione interiore e il cuore.

Il secondo stadio dell’evoluzione dell’ethos medico presuppone la trasformazione spirituale che si è espressa nell’insegnamento pitagorico

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e nella filosofia stoica, che considerava possibile a ogni stato di vita seguire le regole dell’etica. Anche l’ethos dell’artigiano medico fu riformulato in accordo con vari sistemi filosofici. Nell’arco di tempo che si estende dal IV sec. a.C. al II sec. d.C. la medicina è stata elevata al rango di arte filantropica. La moralità della prestazione esterna, caratteristica dell’epoca classica, cede ora alla moralità dell’intenzione: il medico, secondo Gallieno, non può non essere filosofo. Sorge così l’umanesimo medico dell’antichità. La sua espressione letteraria sono gli scritti deontologici del Corpus Hippocraticum: il giuramento in primo luogo, ma anche i Precetti, Sul medico, Sul decoro. Composti in epoca ellenistica o addirittura cristiana, rispecchiano l’ideale completo del medico come amore dell’umanità, filantropia. A un’analisi più accurata si riconoscono nei vari scritti sfumature filosofiche diverse. Così nello scritto Sul medico predominano le virtù della scuola aristotelica: il medico deve essere onesto, prudente, gentile. I Precetti e Sul decoro rivelano valori stoici, come la saggezza e la scelta razionale. Negli scritti di Scribonio Largo — il quale, incidentalmente, è il primo autore a menzionare il giuramento ippocratico nella prefazione al Compositiones: I sec. d.C. — l’etica della prestazione esterna e dell’intenzione interiore sono diventate ormai un’unità inseparabile. L’umanesimo stoico trasmesso da Cicerone diventa per Scribonio Largo il fondamento di specifiche virtù professionali. Il medico come filantropo deve simpatia (misericordia) e umanità (humanitas) a ognuno dei suoi malati, sulla base della fratellanza tra gli uomini. L’amore dell’umanità diventa la virtù professionale del medico.

Anche se l’umanesimo medico è rimasto ristretto a una piccola minoranza di medici, resta tra gli ideali più sublimi concepiti dall’antichità. Il giuramento di Ippocrate assume il suo pieno significato solo se interpretato nel modo in cui fu compreso da Scribonio e dai suoi successori. E proprio perché ci è stato consegnato dall’antichità incastonato nell’ideale dell’etica della filantropia, di cui si è fatto supporto, ha potuto costituire nel corso dei secoli un punto di riferimento costante.

1.2. La tradizione e l’uso moderno del giuramento

La ricerca storica contemporanea ha esteso lo studio dei trattati ippocratici, oltre alla loro origine e alla formazione del Corpus Hippocraticum, anche al ruolo che hanno svolto nella storia del pensiero e della pratica medica 11. Ippocrate è stato, nelle epoche e culture più diverse, lo schermo

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di proiezione di un ideale, la perfetta incarnazione dell’atteggiamento medico volta a volta ritenuto più appropriato, spesso molto lontano dalla pratica effettiva dei medici del tempo. Il giuramento a lui attribuito ha contribuito in modo determinante alla cristallizzazione dell’etica medica attorno al suo nome.

L’opera degli storici, che ha portato a profonde revisioni del quadro oleografico che vedeva nella professione medica dell’antichità un gruppo omogeneo di guaritori con nobili intenzioni, dediti ai sublimi ideali del «sacro giuramento», non ha risparmiato neppure le visioni più convenzionali relative al medioevo. Lo standard etico del medico durante l’epoca che si estende dalla disgregazione dell'Occidente fino alle prime regolazioni ufficiali della professione, ad opera di Federico il, risulta notevolmente poco elevato. I medici non erano soggetti né a misure penali e legali, né all’organizzazione di una corporazione universale. Durante il primo medio evo i medici furono esposti a due influenze divergenti, che abbiamo già visto operanti nell’antichità; una idealistica, l’altra pratica: in altri termini, «etica» ed «etichetta». L’etichetta medica quotidiana che troviamo nei trattati dell’epoca 12 consiste in ammonizioni al medico a evitare eccessi di vino e ostentazione nell’abbigliamento, all’esercizio della pazienza con malati difficili, a non dar prova di avarizia nell’esigere il pagamento delle tariffe. Le motivazioni del comportamento medico quotidiano non dimostrano un orizzonte più alto di quello dell’opportunismo. Anche nell’ambito della cristianità, il comportamento concreto del medico si modella secondo criteri che chiameremmo secolari. Per quanto riguarda l’etica, invece, gli scritti a nostra disposizione combinano gli ideali ippocratici (in senso filantropico) con quelli cristiani. Si configura cioè un «ippocratismo cristiano», in cui i precetti ippocratici — in particolare le ingiunzioni circa la somministrazione di veleni, l’aborto e la violazione della fiducia del paziente — non costituivano un codice di condotta imposto da un’istanza professionale dotata di autorità, ma piuttosto un insieme di ideali che il medico di nobili intenzioni era esortato a seguire. La forma più vistosa dell’ippocratismo cristiano è la revisione del giuramento «in modo che un cristiano possa giurarlo» 13. L’invocazione ad Apollo e alle altre divinità viene sostituita

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con quella della Trinità; cadono le clausole relative all’esercizio della chirurgia e alla condivisione dei beni e conoscenze con i membri della famiglia del maestro; permangono invece le proibizioni tradizionali relative a veleni, aborto e divulgazione dei segreti. La modifica della parte del giuramento concernente i rapporti tra maestro e discepolo può essere interpretata come superamento di una concezione elitaria, incompatibile con l’universalismo cristiano. Più radicalmente, le clausole che codificano gli obblighi assunti dal discepolo all’essere cooptato nella famiglia del maestro non avevano più ragione di esistere, essendo cambiate le modalità dell’insegnamento della medicina. Non è escluso che si possa riconoscere un’eco del senso di fratellanza cristiana nell’impegno a «insegnare quest’arte a chiunque Io richieda, senza invidia e senza richiedere un contratto». In epoca medievale le influenze del giuramento ippocratico sono rintracciabili anche al di fuori dell’area cristiana. Le ritroviamo nel «giuramento di Asaf», contenuto in un manoscritto del VII secolo, la più antica opera medica della letteratura ebraica. Il giuramento appare anche in versione musulmana, in cui la sola modifica significativa è la sostituzione del pantheon greco con affermazioni in armonia con la teologia islamica 14.

Nella transizione dal medioevo alla civiltà occidentale moderna il giuramento di Ippocrate continuò ad essere modello per l’ideale etico dei medici. In alcune scuole di medicina si richiese, al termine del curriculum e prima di iniziare ufficialmente l’esercizio della professione, di tenere il giuramento nella sua forma originale: una pratica che non è del tutto scomparsa neppure al giorno d’oggi. La valorizzazione più enfatica del giuramento fu quella che ne fece il regime nazista in Germania. Si tratta, piuttosto, di una cinica strumentalizzazione. Himmler ne fece fare un’edizione di cui egli stesso scrisse la prefazione. Il giuramento, a suo dire, «contiene un’eredità di pensiero ariana, che attraverso duemila anni ci parla un linguaggio vivo» 15. Sotto la pressione nazista il giuramento, che aveva avuto per lo più un’esistenza marginale, fu diffuso ampiamente nell’ambito medico. Esso fu assunto a simbolo di un’etica particolare del corpo medico, che il regime distorceva nel senso di una fedeltà e lealtà dei medici agli indirizzi ideologico-sanitari del nazismo 16.

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Dopo il nazismo il giuramento ippocratico cadde in sospetto. Una delle prime preoccupazioni dell1’Associazione Medica Mondiale, nell’assemblea generale tenutasi a Ginevra nel 1948, fu una dichiarazione che restaurasse l’immagine della medicina dedita ai fini umanitari, dopo i crimini medici che agghiacciarono l’opinione pubblica al processo di Norimberga. Pur abbandonando lo schema ippocratico tradizionale, la dichiarazione di Ginevra non rinuncia al simbolo del giuramento. Un giuramento laico, ormai, in cui l’istanza suprema a cui si fa appello è l’onore del medico che assume gli impegni. Affinché il giuramento potesse essere applicabile alle condizioni moderne della prassi medica, le affermazioni circa le responsabilità del medico di fronte al suicidio, all’eutanasia e all’aborto sono sfumate in generalizzazioni. Il medico si impegna a «mantenere il massimo rispetto per la vita umana fin dal tempo del concepimento, a non usare, anche sotto minaccia, le conoscenze mediche contrariamente alle leggi dell’umanità».

Un’esplicita ostilità al giuramento di Ippocrate, quale simbolo dell’etica capitalistica, è nutrita nei paesi socialisti. Gli studi dedicati all’«ethos ippocratico» dalla sezione marxista-leninista della facoltà di medicina di Halle, nella Rep. popolare tedesca, possono valere come illustrazione didattica dell’ideologia medica socialista 17. L’interpretazione marxista della storia non può accettare l’esistenza di un’etica medica atemporale. L’etica, come tutte le sovrastrutture, è determinata dai rapporti socio-economici esistenti nella società. Di qui si passa conseguentemente ad auspicare una nuova etica medica, espressione della nuova società socialista. L’ethos medico socialista viene praticamente ad equivalere alle esigenze sociali della professione: il medico, prima che professionista, va considerato come un membro dello Stato socialista; più che un tecnico, un operatore attivo del nuovo ordine sociale. Tale concezione esula completamente dall’ottica del giuramento di Ippocrate. Nonché, più in generale, da tutto l’umanesimo medico dell’antichità. Secondo Edelstein 18, il solo tratto che distingue l’umanesimo pagano dall’atteggiamento cristiano e da quello che sarà proprio dei riformatori umanisti del XIX sec., è la mancanza di ogni riconoscimento di responsabilità sociali da parte del medico. Benché alcune malattie fossero ricondotte alle condizioni sociali, l’evangelo dell’amore fraterno considerava solo la relazione

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tra il singolo medico e il singolo paziente. L’etica medica socialista non riesce perciò a fare l’opera di assimilazione del documento ippocratico che invece è felicemente riuscita ad altri orientamenti e culture. Gli ideologi comunisti tedeschi, pur riservando al giuramento il rispetto dovuto a un documento storico del passato, auspicano la creazione di un nuovo giuramento, che renda ragione degli aspetti peculiari dell’etica medica socialista 19.

L’auspicio ha trovato realizzazione nel giuramento che il Presidium del Soviet Supremo ha imposto a tutti i medici russi, nel 1971. Anche se il giuramento ippocratico ha fatto da padrino, non sopravvivono più neppure le rassomiglianze formali. Il giuramento ha un significato esplicitamente politico. Il giovane medico si impegna ad esercitare là dove la società ha bisogno della sua opera e ad aderire internamente ai princìpi marxisti e all’etica comunista che regolano la società («...lasciarmi guidare in tutte le mie azioni dai princìpi della morale comunista, ...ricordarmi sempre dell’alta vocazione del medico sovietico e della responsabilità nei confronti del popolo e del governo sovietici»). All’ideale di dovere umanitario nei confronti del singolo paziente è sovrapposto l’impegno del medico a servire gli interessi della società.

1.3. Pro e contro il giuramento ippocratico

Generazioni di medici hanno considerato il giuramento di Ippocrate come la «magna charta» dell’etica medica. Eppure oggi l’unanime rispetto che la tradizione ha creato attorno a questo documento è infranto da alcune voci critiche. Non è più sufficiente nominarlo, per evocare l’indiscusso riferimento dei medici alle più alte idealità umanitarie. Nei confronti del giuramento ippocratico è subentrato un certo disincanto, indubbiamente facilitato dalla divulgazione degli studi filologici e storici che hanno permesso di comprenderne con più precisione la natura e la finalità. Oggi sappiamo che l’antichità è stata molto meno «ippocratica» di quanto una certa tradizione, nutrita di retorica, ha voluto far credere. Per alcuni critici l’interpretazione del giuramento ippocratico in ambito medico è l’esempio eclatante delle distorsioni che ha subito la storia ad opera dei medici, a servizio della loro concezione elittaria ed esclusiva della professione: gli aspetti corporativi e utilitaristici del giuramento sono stati passati sotto silenzio; il giuramento ha potuto così essere reso simbolo di un ethos astorico, con pretese universalistiche.

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Non è un caso — osservano alcuni con fastidio — che il giuramento venga puntualmente tirato in ballo dall’ala meno progressista dei medici quando si discute di problemi di etica o di politica sanitaria, per brandirlo contro una concezione più sociale della medicina. Presso i rappresentanti della medicina liberale il giuramento, magari riprodotto in formato pergamena, è contornato di una venerazione che non può essere rapportata al suo effettivo contenuto. In alcune facoltà viene anche oggi consegnato in forma solenne ai neo-laureati in medicina. Anche persone non sospette di faziosità partigiana hanno espresso le loro riserve rispetto a questa pratica. I giovani medici — nota ironicamente lo storico della medicina Sigerist — giurano che non eseguiranno operazioni chirurgiche, che sono pronti a condividere lo stipendio con i loro insegnanti e a considerare i loro figli come figli propri. Eppure i medici non esitano a fare operazioni, e molti pochi medici hanno condiviso le loro entrate con il loro professore e adottato i suoi figli; tradiscono segreti professionali, quando si tratta dell’interesse della comunità. I problemi dell’aborto sono regolati dalla legge e una gravidanza viene interrotta quando esiste indicazione medica 20. Il giuramento nel suo tenore tradizionale è chiaramente inadeguato a offrire direttive etiche per il lavoro pratico del medico di oggi. Se una parte dei medici vi resta così tenacemente attaccata, si spiega non con il contenuto del giuramento, bensì con il significato simbolico che ha acquisito. Esso esprime non un’etica comune al corpo medico, ma l’esprit de corps che unisce i medici; fonda miticamente l’ordine di un gruppo. Coloro che avversano l’organizzazione corporativistica della medicina sono ostili al giuramento, in quanto con la sua semi-sacralità rituale consacra un’autocomprensione della classe medica come una casta. Secondo Lüth, la funzione del giuramento ippocratico sarebbe analoga a quella dell’araldica e continuerebbe ad accreditare una concezione della storia della professione medica come di una successione quasi-apostolica...

Le critiche non si rivolgono, dunque, al giuramento nella sua realtà storica, bensì all’uso che viene fatto, e alla comprensione dell’identità professionale del medico che su di esso si fonda. Si rimprovera al giuramento di ostacolare il passaggio a una concezione della medicina meno impregnata di sacralità, più agganciata al gioco dei rapporti democratici, nella rispondenza rispettiva dei diritti e dei doveri. Esso rispecchia inoltre una visione della medicina centrata sulla persona del medico. Nel giuramento manca qualsiasi riferimento ai collaboratori del medico, che ― ieri come oggi — sono parte essenziale di qualsivoglia impresa terapeutica. Anzi, oggi ancor più di ieri, perché la medicina è in misura

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determinante lavoro d’équipe, opera di collaborazione. Tuttavia la figura del medico come eroe che si staglia solitario sulla massa, obbligato da un ethos particolare, è resistente a ogni trasformazione; l’uso di un giuramento per essere introdotti nella professione contribuisce a perpetuarla. È assolutamente aliena al giuramento un’ottica relazionale, in cui emerga anche il paziente come soggetto di' diritti e di doveri, in un rapporto di cooperazione che non esclude il conflitto. Nel giuramento il paziente è sospinto sullo sfondo, come oggetto cui è riservata la nobile abnegazione del medico.

Non c’è, dunque, più posto nella nostra epoca per il giuramento medico, ippocratico o «revisionato» che sia? La conclusione sarebbe affrettata. Lo dimostra l’uso del giuramento nell’Unione Sovietica. La concezione socialista della medicina, della sua articolazione con la realtà sociale e dello statuto professionale del medico, sono «toto coelo» diverse da quelle dell’area culturale che ha prodotto la medicina liberale. Eppure si è preferito rimodellare il giuramento, piuttosto che rinunciarvi del tutto.

Oggi siamo più che in passato acutamente coscienti delle ambiguità che possono deformare il senso del giuramento. Ciò non giustifica però nessun tentativo di ridurre l’«ethos ippocratico» a un puro flatus vocis. Esso è venuto a significare l’obbligo che ha il medico di servire non solo l’uomo in carne ed ossa che si affida alle sue cure, ma l’umanità. Una dottrina utopica che ha, tra l’altro, il merito non trascurabile di evidenziare lo scarto tra l’ideale e la pratica quotidiana. Come tutte le dottrine utopiche, anche l’ethos ippocratico — e il giuramento che ne è diventato simbolo — apre al reale l’orizzonte del possibile.

2. La deontologia medica

2.1. Dall’«etichetta» medica alla deontologia

Nella storia della professione medica è emersa precocemente la convinzione che fosse opportuno codificare non solo le conoscenze di patologia e di terapia, ma anche le regole relative al comportamento che il medico deve tenere con il paziente. In Occidente svolgono il ruolo di antenati gli scritti ippocratici di natura deontologica (Sul decoro, Sul medico, Precetti...).

Indicazioni sul comportamento corretto sono frequenti nei trattati medioevali di medicina. Non mancano neppure abbozzi di una regolamentazione dei rapporti con gli altri medici, all’interno della professione. Lentamente si è formato un corpo di regole pratiche che costituiscono

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ciò che potremmo chiamare l’«etichetta» medica. Mentre l’ethos ippocratico, simboleggiato dal giuramento e ripensato in termini cristiani, continuava a costituire il punto di riferimento ideale della medicina occidentale, sulla base dell’«etichetta» medica si veniva a costruire, fin dall’inizio del XIX sec., un corpo precettistico che sarà a più riprese codificato nei codici deontologici.

Prima di discutere la nozione tecnica di deontologia, ne vogliamo fornire un’immagine diretta riferendoci all’opera che svolge indiscutibilmente la funzione di prototipo: la Medical Ethics di Thomas Percival (1740-1804). Il trattato, scritto nel 1794 e pubblicato nel 1803 21, si inseriva in un dibattito molto vivo nell’ambiente medico del tempo. Ben presto gli fu riconosciuto un’autorità indiscussa, consacrata successivamente dall’essere stato assunto a modello per il codice dell'American Medical Association del 1847. Il motivo del nostro particolare interesse per l’etica di Percival risiede nel fatto che questi, nel proporre ai medici il primo disegno organico di condotta professionale, faceva trapelare l’ideologia che diventerà tipica della professione medica moderna e che continua a sottendere la nozione stessa di deontologia.

Il materiale era distribuito in quattro sezioni, che trattavano rispettivamente della condotta del medico negli ospedali, del comportamento da tenersi nell’esercizio privato della professione, del rapporto dei medici con i farmacisti e dei doveri professionali in determinati casi che richiedono la conoscenza della legge. La sezione di maggiore interesse per la deontologia è la seconda: su di essa si fonderà appunto, mezzo secolo più tardi, il codice deontologico americano, il primo della storia della medicina. Gli obblighi di un medico vengono fatti risalire alle diverse istanze obbliganti: il medico stesso in quanto persona, il rispetto dei colleghi, farmacisti e altro personale impegnato nella cura dei malati, e infine la legge. Quanto al primo aspetto, ad esempio, Percival considera il medico come un «gentleman». Molte regole di comportamento vengono dedotte da questo carattere fondamentale. In quanto gentleman, il medico «deve unire la delicatezza con la fermezza, la condiscendenza con l’autorità»; in camera operatoria deve regnare un «silenzio decoroso»; il medico deve cambiare il grembiule tra un’operazione e l’altra; deve essere puntuale, temperante e ricevere «una regolare educazione accademica». Gli aggettivi ricorrenti per qualificare il medico-gentleman sono: prudente, ragionevole, autoritativo ma umile, autocritico,

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colto. La condotta ideale che il medico doveva a se stesso in quanto gentleman si rifletteva ovviamente nel rapporto con i pazienti e con i colleghi.

La preoccupazione principale che traspare in questo primo corpo di norme deontologiche è quella di costruire un rapporto di fiducia con il paziente. A tal fine il medico deve dar prova delle virtù che fanno parte del patrimonio etico di qualsiasi persona — umanità, costanza, segretezza, delicatezza —; in più gli sono richiesti, nel rapporto con il paziente, alcuni comportamenti particolari: un ragionevole numero di visite; non abbandonare il paziente condannato; ammonire il paziente che sta soffrendo il fio del suo peccato (!); astenersi da previsioni fosche, eccetto quando il paziente debba predisporre la propria morte. Vengono anche prese in considerazione le norme per il trattamento economico: le tariffe devono essere commisurate alla condizione economica del paziente.

Un secondo polo attorno a cui si distribuiscono le regole è quello del rapporto con gli altri medici. Vengono dettagliatamente prese in considerazione le procedure da seguire nelle varie situazioni: il consulto con colleghi che hanno ricevuto una formazione accademica e con medici «selvaggi»; come subentrare a un altro medico nella cura del paziente; la salvaguardia della reputazione del corpo medico, astenendosi dalle critiche ai colleghi. Su questo ultimo punto Percival afferma testualmente: «L’Esprit de corps è un principio di azione fondato sulla natura umana e, quando è debitamente regolato, è razionale e lodevole. Chiunque entri in una fraternità si impegna, mediante un tacito contratto, non solo a sottomettersi alle leggi, ma a promuovere l’onore e l’interesse dell’associazione nella misura in cui coincidono con la moralità e con il bene generale dell’umanità. Il medico, perciò, dovrebbe con ogni attenzione guardarsi da ciò che potrà recare ingiustizia alla rispettabilità in genere della sua professione; e dovrebbe evitare quelle immagini che sono offensive per la facoltà nel suo insieme; tutte le accuse generiche contro la probità; e di indulgere allo scetticismo, simulato o per gioco, circa l’efficacia e l’utilità dell’arte terapeutica».

Per Percival la buona condotta andava a vantaggio sia del medico e della professione, che del paziente. Studi recenti 22 hanno messo in evidenza che questo primo abbozzo di deontologia professionale si inserisce nel dibattito allora vivo tra i medici in Inghilterra e rispecchia la concezione conservatrice dell'Illuminismo medico (che Percival fosse permeato di ideali illuministici lo dimostra la sua corrispondenza con Voltaire, Diderot, D’Alembert). L’etica che Percival produce a nome del

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corpo medico va vista come una risposta al liberalismo di Adam Smith. A differenza di Smith, Percival si oppone alle tendenze individualistiche nell’organizzazione sociale e al vantaggio economico come spinta sociale motivante. Alla concezione economica liberale contrappone una professione che trascende l’interesse personale e si ispira a un ideale che solo un uomo di indirizzo morale superiore può seguire. In tal modo evita che all’interno del corpo medico si introduca il tarlo della competizione; ma allo stesso tempo rafforza la struttura corporativa della medicina. L’ideale etico e le norme che lo incarnano mostrano la loro funzionalità: dare alla medicina uno statuto professionale differente, sottratto alla logica del liberalismo economico. Il comportamento uniforme dei medici, secondo le regole che si sono liberamente imposti, diventa così un insuperabile strumento di integrazione professionale.

Dalla presentazione, benché sommaria, del progetto di Percival e dello spirito che lo anima, emerge l’orizzonte ideologico in cui si colloca la deontologia fin dai suoi primi inizi. La sua funzione è quella di sviluppare standards di condotta che permettano al medico di curare correttamente i malati, e allo stesso tempo di incrementare la dignità della professione. Tanto il tradizionale ethos ippocratico quanto l’etichetta che regola il comportamento dei medici tra di loro sono fusi in un progetto organico.

Le norme non sono dedotte da un’etica, religiosa o laica che sia, ma derivate da un corpo sociale intermedio tra lo Stato e l’individuo, e con cui il medico si identifica: il gruppo professionale. La codificazione del comportamento serve agli interessi del gruppo; e indirettamente a quelli degli utenti dei servizi medici. Il mantenimento del codice è riservato al gruppo professionale stesso. Addirittura Percival esclude l’idea di un ricorso a sanzioni per coloro che si discostano dal comportamento normativo. Il potere inerente alla deontologia è quello della ragione: i medici hanno un solo modo razionale di comportarsi e, una volta mostrato in quella specie di rivelazione della ragione che opera il codice deontologico, lo seguiranno. Il compito del codice è dunque quello di essere la voce della ragione. Percival lascia trasparire in ciò la sua dipendenza dal pensiero illuministico.

Distaccandoci dal primo modello fornito dall’etica medica di Percival, possiamo a questo punto descrivere la deontologia in un modo più formale, che si avvicina quasi a una definizione. Essa comprende un insieme specifico di doveri (letteralmente significa appunto «scienza dei doveri»), ai quali sono legati i membri di una professione, diversi da quelli imposti dalla legge o derivanti dall’etica alla quale ognuno individualmente si riferisce. Sono i doveri che derivano dal fatto di esercitare una

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determinata professione 23. Quando la professione si organizza, tende a darsi uno statuto codificato, o almeno delle usanze che precisano i doveri dei membri. Le formulazioni deontologiche codificate, emanate dagli organi ufficiali della professione, godono di autorevolezza. È generalmente considerato legittimo il ricorso alle sanzioni (che possono andare dalle censure puramente morali fino alla sospensione o esclusione del professionista dall’album professionale), affinché i membri del gruppo rispettino i doveri che hanno accettato con la loro adesione. Tali formulazioni deontologiche sono regole che i professionisti considerano essenziali per il buon esercizio della professione comune. Sono, dunque, più che un semplice regolamento. Le si potrebbe chiamare uno «spirito», che deriva da una percezione collettiva dell’attività svolta, del senso di questa attività e del suo articolarsi con l’organizzazione sociale. La deontologia non si definisce però riferendosi a concetti astratti. Essa tende a concretizzarsi, ha di mira i casi incontrati dal professionista nella pratica quotidiana. Con riferimento a simili casi, le prescrizioni deontologiche danno imperativamente soluzioni pratiche e precise, che definiscono i doveri del professionista. Nella forma di codici deontologici la deontologia assomiglia così un po’ a una casistica.

Ricorrendo a un’immagine, potremmo dire che la deontologia è analoga ai consigli che i fabbricanti pongono alla fine del depliant illustrativo allegato alle macchine che vendono. Quando questi foglietti sono ben fatti, vi si trova, dopo l’inventario dei pezzi della macchina e l’enunciato dei princìpi del suo funzionamento, un insieme di regole per l’uso, seguite dagli accorgimenti per la migliore utilizzazione possibile della macchina. Con ciò il produttore non fa altro che indicare come rispettare la natura della macchina, sulla base di esperienze e osservazioni del passato fornite dagli utenti stessi.

L’analogia ha certo bisogno di correzioni. Sarebbe improprio far derivare la deontologia unicamente dalla preoccupazione di efficienza utilitaristica. Essa si è sviluppata nel campo delle professioni liberali, che hanno per oggetto l’uomo e i suoi valori. Nel campo della medicina la deontologia si innesta sulla lunga tradizione umanistica ed è strettamente intrecciata con l’ethos ippocratico. Nel complesso, tuttavia, l’analogia con le «istruzioni per l’uso» è convincente. Essa evidenzia il carattere empirico delle norme deontologiche. Queste non equivalgono a una morale professionale, vale a dire a un insieme di precetti elaborati per deduzione da un’etica generale, considerando l’incidenza in un’attività professionale dei valori etici ai quali ci si riferisce. Sono piuttosto il frutto di

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una riflessione collettiva, stimolata dai problemi suscitati dalla professione, e che superano l’ambito dei regolamenti e della routine. Protagonisti della riflessione deontologica sono professionisti coscienti e critici, che intendono promuovere una prassi professionale efficiente e socialmente ineccepibile.

Quest’ultimo punto merita uno sviluppo: esso ci aiuta a identificare la funzione propria delle norme deontologiche. Queste mirano alla salvaguardia di alcuni valori, necessari in modo particolare nelle attività che fanno appello alla fiducia del cliente verso la persona del professionista. Per questo le professioni liberali sono così sensibili all’onore e alla dignità professionali. L’osservanza delle norme deontologiche è destinata a mantenere la fiducia nel corpo professionale, salvaguardandone le reputazione; si tratta, in ultima analisi, di una forma di autodifesa della professione stessa.

La deontologia, quindi, non è una morale. Le regole della morale possono, in modo contingente, essere incorporate alla deontologia professionale, dal momento che atti valutati come immorali dall’ethos dominante possono essere pregiudizievoli al professionista, e vanno perciò evitati. Tuttavia la deontologia non è, in sé, una specie di morale laica, quel minimo comun denominatore etico che fornirebbe un luogo di incontro comune a tutti i membri della professione. È un equivoco che si verifica spesso a proposito della deontologia medica, quando si vuol vedere in essa una sintesi di quei princìpi etici che tutti i medici riconoscerebbero come obbliganti, qualunque siano le ulteriori specificazioni confessionali e personali. La deontologia medica è invece una realtà contingente, che varia anche con il tempo. Ne offrono una prova i codici deontologici. Non sono una realtà astorica, immutabile; devono essere, invece, costantemente revisionati, al fine di riflettere le variazioni della sensibilità etica generale e dell’organizzazione della sanità. Una breve scorsa all’origine e all’evoluzione di alcuni codici deontologici medici lo conferma.

2.2. I codici di deontologia medica

Il primo codice medico ufficiale è, in ordine cronologico, quello emanato dall'American Medical Association nel 1847. Ne abbiamo già parlato accennando al legame con l’opera di Percival. La portata innovativa di questa regolamentazione professionale del comportamento medico emerge solo se la ricollochiamo nel suo contesto storico. Gli anni ’30 e ’40 del XIX sec. hanno visto, in America, un vivace confronto fra la medicina accademica e le tendenze contestative che confluivano nel «Popular

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Health Movement» 24. Questo non era che il fronte medico di un’agitazione sociale generale, fomentata dai movimenti femminista e operaio. Il movimento era un attacco radicale all’élite medica e una vigorosa affermazione della tradizionale medicina del popolo. «Every man his own doctor»: era il motto di un’ala estremista del «Popular Health Movement». Per certe sue iniziative il Movimento per la salute confluiva negli obiettivi del movimento femminista: come per esempio le «Ladies Physiological Societies», che impartivano semplici istruzioni di anatomia e igiene personale, sotto la spinta a «riappropriarsi del corpo». Il movimento non rivendicava una maggiore quantità di cure mediche, ma prospettava piuttosto una cura della salute di tipo radicalmente differente. Era una sfida alla medicina ufficiale, sia al modo in cui veniva praticata, sia al suo edificio concettuale: un vero e proprio progetto di «medicina alternativa» ante litteram.

All’azione destabilizzante del Movimento Popolare della Salute va aggiunta la concorrenza della medicina omeopatica e dei guaritori. Il centinaio di medici riuniti a New York nel 1846 per fondare l'American Medical Association si sentivano in stato di assedio. Si posero come scopo quello di riformare l’educazione medica negli Stati Uniti, di sviluppare standards di comportamento che avrebbero migliorato la professione medica «regolare». Ritenevano infatti essenziale distanziarsi dagli «irregolari», e accreditarsi come unica istanza professionale cui competeva la cura della salute. Il codice etico che emerse l’anno seguente si inseriva dunque in un progetto esplicito di validazione della professione contro ogni concorrenza da parte dei corpi paralleli. La fiducia del pubblico doveva essere indirizzata esclusivamente verso i medici che avevano ricevuto la formazione accademica e si attenevano alle norme stabilite dal codice deontologico. La professione si univa in una crociata contro i guaritori di appartenenza settaria e contro i ciarlatani. Il codice stabiliva, a tal fine, che i medici regolari non dovessero accettare consulti con chiunque non avesse una licenza ufficiale per esercitare, approvata dall’organizzazione medica locale. Per rendersi conto di quanto fosse esclusivo il gruppo che così veniva a formarsi, basti pensare che prima del 1870 le società mediche regolari non accettavano come membri e proibivano consulti con medici donne e medici negri, e per la seconda metà del secolo con medici che accettassero una qualsiasi designazione settaria. L’osservanza delle norme del codice deontologico autoimpostosi

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dalle società mediche sortiva così anche un effetto secondario, ma non imprevisto: quello di organizzare i medici in un gruppo sociale e professionale compatto, omogeneo all’interno e chiuso all’esterno.

Dal punto di vista del contenuto, il codice deontologico del 1847 è suddiviso in tre parti, che riguardano rispettivamente: doveri dei medici verso i loro pazienti e obblighi dei pazienti verso i loro medici; doveri dei medici verso gli altri e verso la professione; doveri della professione verso il pubblico e del pubblico verso la professione. Nelle linee fondamentali il codice americano riprende le norme etiche di Percival. Se ne distacca solo in alcuni punti. Nelle regole per la condotta economica, per esempio. Mentre Percival raccomanda di discriminare tra pazienti di diversa disponibilità economica, il codice propone la tariffa a prezzo fisso. Così rispetto al consulto con i medici senza preparazione accademica: mentre Percival lo considera possibile, il codice dell’AMA lo proibisce. Inoltre il codice pone restrizioni maggiori al segreto medico: non poteva essere altrimenti, volendo rafforzare la fiducia del pubblico verso la professione.

Il codice deontologico americano resta un prototipo, anche se fu riformulato in parecchie riprese (nel 1903, 1912, 1949, 1957). Numerosi altri codici, in altri paesi, son sorti sulla sua scia. I governi nazionali se ne servirono per regolamentare la professione medica 25. Nei codici deontologici dei nostri giorni sono stati inclusi problemi di origine recente. L’accento cade in genere sui problemi dell’aborto, della retribuzione e del segreto professionale. I progressi e i cambiamenti sociali hanno richiesto la determinazione di linee di condotta su problemi particolari: i trapianti di organi (norme dell'AMA del 1968 e dichiarazione di Sidney della Associazione Medica Mondiale sulle precauzioni tecniche nel determinare la morte di un donatore d’organo); rianimazione e trattamento delle malattie terminali («Il medico e il morente», AMA 1973); sperimentazione con soggetti umani e ricerche biomediche (Ass. Med. Mond., Helsinki 1964-Tokyo 1975); l’aborto terapeutico (Ass. Med. Mond., Oslo 1970); «la tortura e le altre pene e trattamenti crudeli, disumani o avvilenti in relazione alla detenzione e alla carcerazione» (Ass. Med. Mond., Tokyo 1975).

L’Associazione Medica Mondiale, stabilitasi nel 1948, incoraggiò i medici a sviluppare degli standards internazionali di etica medica. Il codice internazionale fu adottato nel 1949. Superate ormai le precedenti regolamentazioni dettagliate di etichetta per i consulti e nei rapporti con gli altri medici, la cadenza dominante è quella del riferimento ai valori.

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Il comportamento del medico dovrebbe essere sostanzialmente ispirato alla «regola d’oro» («fai agli altri ciò che vorresti che fosse fatto a te»), così come viene specificata dalla pratica. I problemi dell’aborto e dell’eutanasia vengono solo accennati, con riferimento alla responsabilità del medico di preservare la vita. L’afflato idealistico è trapassato anche nella revisione del codice deontologico americano del 1957: invece della casistica tipica dei codici deontologici, comprende «dieci princìpi» di valore generale.

Per quanto riguarda direttamente l’Italia, l’organo competente per stabilire un codice deontologico è la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici. Di recente ha provveduto a rivedere il codice precedente, che datava dal 1956. Il nuovo codice, pubblicato nel 1978, consta di cento articoli, che suddividono la materia in: doveri generali del medico, rapporti con il paziente, rapporti con i colleghi, rapporti con i terzi, enti pubblici e privati. Rispetto al codice precedente, sono state introdotte innovazioni, anche di notevole rilievo. Le innovazioni sono ovvie, qualora si tenga presente la natura particolare della deontologia e la sua differenza dall’etica. Inserendosi come cerniera tra il corpo professionale e la società, la deontologia deve cambiare con il cambiare di questo rapporto. Compito dei responsabili della professione è di favorire quei cambiamenti che mantengono inalterato il rapporto di fiducia degli utenti nei confronti del corpo professionale.

La novità più eclatante introdotta dalla nuova stesura del codice di deontologia medica italiano è la caduta del tradizionale rifiuto dei medici a partecipare a interventi abortivi: «L’interruzione della gravidanza è regolamentata con legge dello Stato» (a. 46). Dal momento che la normativa introdotta con la legge 194 prevede, a certe condizioni, la possibilità di praticare l’aborto, il corpo professionale medico rinuncia a porre obblighi deontologici ai suoi membri in quei casi. Infrazione deontologica («gravissima»), in particolare se fatta a scopo di lucro, è solo la partecipazione ad aborti all’infuori dei casi previsti dalla legge (a. 47). Da notare, in merito all’interruzione della gravidanza, la volontà di limitare le funzioni del medico all’ambito strettamente sanitario, rifiutando la figura del medico-giudice: «Il medico non è tenuto ad esprimere giudizi su circostanze che esulano dalla necessità primaria della salute psicofisica della donna». Ricco di spunti innovativi è anche il capitolo che riguarda i rapporti con il paziente. Nella pratica comune questo rapporto è fortemente asimmetrico: al medico tutto il sapere e il potere, al malato la docile soggezione. Il nuovo codice presuppone un malato che prenda parte attiva al processo terapeutico. La verità gli è dovuta; se non direttamente a lui, la prognosi grave o infausta deve essere almeno comunicata alla famiglia. «In ogni caso la volontà del paziente, liberamente

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espressa, deve rappresentare per il medico un elemento al quale egli ispirerà il suo comportamento» (a. 30). Dal momento che i nuovi mezzi tecnici permettono di prolungare la vita biologica al di là dei limiti richiesti dall’umanità, i medici si impegnano a rinunciare all’accanimento terapeutico e a limitare la propria opera alla «terapia atta a risparmiare al malato inutili sofferenze» (a. 40).

2.3. Oltre la deontologia professionale

La deontologia professionale costituisce per i medici un motivo di fierezza. Amano vedervi una specie di blasone nobiliare, una garanzia dell’impegno etico che contraddistingue la loro professione. Non tutti condividono però tale entusiasmo; o, quanto meno, non rinunciano a considerare criticamente i limiti e le possibili distorsioni della deontologia medica. Essa si presenta come l’espressione della benevola dedizione del medico al bene del suo paziente e dell’umanità; ma può essere assunta a servizio di cause meno nobili, come potrebbe essere un progetto monopolistico. Nel saggio di Berlant già citato, il carattere monopolistico è fatto risalire all’etica medica di Percival, che ha preparato la strada ai codici deontologici. Il conservatore Percival scrisse infatti la sua etica in un’epoca in cui le corporazioni mediche inglesi, a struttura elitaria, erano sottoposte a un attacco democratico, particolarmente ad opera della concezione economica liberale. Come apologia delle corporazioni, l’opera di Percival era superba; come strumento per integrare la professione, insuperabile. Mentre creava solidarietà tra i medici, estendeva i controlli monopolistici del Royal College of Physicians alle nuove professioni di chirurghi e farmacisti. Era uno strumento per sopprimere la competizione tra differenti tipi di professionisti che avrebbe potuto essere esacerbata dall’apparire di un numero crescente di corporazioni professionali. L’etica medica americana, formalizzata nelle diverse stesure dei codici deontologici, favorì la monopolizzazione ancor più di quella di Percival. Abbiamo già visto come sia servita a distinguere il gruppo dei medici accademici dagli «irregolari», e ad accreditarlo presso il pubblico come l’unico corpo cui spettava di diritto la cura professionale della salute. Nelle varie edizioni del codice si rileva una fluttuazione circa il grado di controllo dell’associazione sulla condotta del singolo medico. Mentre il codice del 1847 non poneva come condizione l’affiliazione dell'AMA, ma si limitava a suggerire un certo numero di criteri etici per determinare i confini che legittimavano la professione, quello del 1903 richiedeva invece obbligatoriamente di diventare membri dell’associazione. Per evitare di cadere nei rigori della legge anti-trust, i controlli vennero successivamente allentati, per riemergere con il codice del 1949.

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Neppure i critici più severi arrivano a sostenere che tutto sia monopolistico nell’ambito della deontologia medica. Tuttavia è difficilmente contestabile che le norme deontologiche, da mezzo per ordinare la condotta dei medici, possono facilmente diventare un mezzo per legittimare i privilegi monopolistici della professione nei confronti dello Stato e del pubblico. In definitiva, tutte le misure volte a indurre nel pubblico la fiducia verso la professione possono risolversi nel senso della monopolizzazione. Esse creano infatti un rapporto paternalistico con il paziente, prevenendo l’organizzarsi dei consumatori per una mutua auto-protezione. Mediante l’atomizzazione del pubblico in pazienti vulnerabili, il paternalismo si risolve nel trattare, da parte dei professionisti, con individui frammentati, invece che con gruppi con una propria forza contrattuale. Il potere del medico trova un alleato nelle fantasie di salvezza del paziente. Questi è incline a considerare ogni ostacolo tra sé e il medico come una minaccia personale; di conseguenza, accetta di buon grado il desiderio dei professionisti medici di non trattare con altre controparti che non siano il singolo paziente.

Un attacco più a fondo alla deontologia medica viene sferrato da quanti vi individuano uno dei capisaldi ideologici della «medicina liberale». Nell’uso comune si intende per medicina liberale quella il cui esercizio obbedisce ai princìpi della libera scelta del medico da parte del malato, libertà di prescrizione medica, pagamento diretto degli onorari, segreto professionale. Nell’opinione pubblica la medicina liberale è più che un insieme di istituzioni in cui si organizza la cura della salute: è anche un concetto simbolico, con una determinata colorazione etica. La discussione in merito scivola facilmente dal livello dei fatti al confronto di Weltanschauungen: un appuntamento obbligatorio per ogni dibattito sul rapporto tra medicina e politica. I più ardenti difensori della medicina liberale si limitano a opporre un mito ornato di qualità (colloquio singolare, indipendenza, medicina umana) a un mito coperto di difetti che servono da deterrente (medicina statizzata, burocratizzata, servizio sanitario nazionale). Per gli oppositori, la medicina liberale non è che una mistificazione. Spogliata dei suoi paludamenti etici, essa non è che liberalismo economico applicato alla medicina, il modo di produzione capitalista trasportato in ambito sanitario. L’ideologia mistificatrice della medicina liberale è accusata di proteggere e mantenere un sistema che assicura alla maggioranza dei medici una situazione di classe privilegiata. Secondo Guy Caro, autore di una delle disanime più impietose della medicina liberale, essa si baserebbe su un’impostura: «Associando, sotto il concetto di medicina liberale, da una parte dei princìpi che condizionano in parte la qualità della medicina e suscitano con ciò la fiducia del malato nel suo medico, e dei princìpi, d’altra parte, che permettono al medico

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di controllare il livello dei suoi redditi, i medici potevano far credere che gli interessi dei malati e quelli dei medici colludessero. Facendosi, come i proprietari di cui parla Emmanuel Mounier, «professori di virtù per difendere i loro interessi», guadagnano su due campi: quello del loro livello di vita e quello della stima in cui erano tenuti» 26. Per gli oppositori della medicina liberale, il suo riferirsi ai princìpi deontologici servirebbe a mantenere la confusione tra la difesa del livello di reddito dei medici e quella della qualità della medicina; questa confusione farebbe parte delle armi dei conservatori dell’ordine sociale esistente per impedire i cambiamenti storicamente necessari.

Anche coloro che non si spingono così lontano nel valutare la deontologia medica tradizionale non possono mancate di rilevare le sue carenze circa i doveri sociali del medico. Essa infatti considera esclusivamente i doveri del medico nei confronti del malato che lo consulta, ma resta muta quando si tratta di prevenire la malattia o di occuparsi dei malati che, a causa di barriere economiche, psicologiche o sociali, non accedono al medico. Di fatto i doveri tradizionali del medico non concernono che il malato individuale, mai la comunità. Se si introduce il punto di vista della responsabilità sociale del medico, i punti qualificanti della medicina liberale subiscono forti limitazioni 27. La libertà terapeutica assoluta non può più giustificarsi: a parità di efficacia, il medico ha il dovere di prescrivere la medicazione meno costosa per il malato e per la società. Il segreto medico è in conflitto con una efficace politica sanitaria. Questa, infatti, ha bisogno di basarsi su dati certi riguardanti la morbidità, su inchieste epidemiologiche, sociologiche ed economiche. Salvo restando il diritto del malato alla sua privacy, il segreto medico non può essere considerato oggi un assoluto. L’organizzazione sociale della medicina richiede un difficile equilibrio tra un’indispensabile discrezione, la cui assenza porrebbe una barriera all’accesso del paziente presso il medico, e il bisogno di raccogliere i dati necessari all’elaborazione di una vera politica della salute. Anche l’altro pilastro della medicina tradizionale, il pagamento all’atto, non è più sostenibile. Il sistema di retribuzione tra il medico e il paziente era funzionale alla società liberale. Gli onorari erano, per principio, proporzionali al servizio reso, alla notorietà del medico e alla situazione finanziaria del malato. Questo sistema, perfettamente coerente, è stato reso caduco dall’evoluzione sociale. Il corpo medico ha accettato di rinunciare al principio del pagamento all’atto e di entrare nel sistema assicurativo, con il rimborso forfettario degli atti

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medici. Un passo ulteriore è stato fatto con la creazione di un servizio sanitario nazionale. La nuova politica della salute, fondata su una concezione sociale della medicina, sconvolge l’ideologia liberale e mette in questione la deontologia professionale che su di essa si fonda. Le codificazioni tradizionali del comportamento medico — preghiere, giuramenti, codici deontologici — riposano, infatti, sul presupposto che i doveri del medico si strutturano sul rapporto diadico medico-paziente. La medicina sociale ha radicalmente rimesso in discussione proprio tale concezione. È diventato chiaro che gli aspetti sociali della prevenzione e cura delle malattie non possono essere adeguatamente trattati all’interno del rapporto medico-paziente. Il «modello cinese» del medico al servizio del popolo 28 costituisce certamente un’utopia per l’Occidente. La sua divulgazione ha contribuito, cionondimeno, a coagulare le richieste di un’alternativa alla medicina derivante dall’organizzazione capitalistica della società. La medicina sociale provoca uno spostamento di ottica che ha conseguenze decisive per l’etica: dalla cura alla prevenzione, dalla patologia localizzata alle cause strutturali che risiedono nelle condizioni di vita, dal servizio al singolo paziente all’obbligo verso tutti i cittadini. Non solo al singolo medico, ma alla professione in quanto tale si domanda di cambiare l’atteggiamento verso la società. Solo abbandonando la mentalità corporativistica i medici riescono a vedere il proprio ruolo all’interno di una più vasta organizzazione, che abbraccia tutti i professionisti della salute. Il servizio alla società ad essi richiesto si apre allora su un impegno etico molto più ampio di quello contemplato dai codici deontologici.

La rifondazione della deontologia su base sociale non è ancora avvertita in ambito medico. Le formulazioni fatte dai medici stessi, anche le più recenti, sono impregnate di paternalismo: è il medico che determina quale azione sia più conforme agli interessi sia del medico che del paziente. Al polo opposto, le «carte dei diritti del malato» sorgono su base rivendicativa: i consumatori dei servizi medici richiedono di essere presi in considerazione come soggetti nelle questioni che riguardano il loro benessere. In una situazione che si configura come di transizione, la deontologia medica ha ancora una sua utilità; ma in futuro dovranno essere raggiunte nuove frontiere etiche, in cui le prospettive unilaterali della deontologia saranno incluse in una prospettiva più ampia dell’interazione sociale.

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3. La morale medica cristiana

3.1. Il richiamo attuale a un’etica in campo bio-medico

Fra le istanze normatrici del comportamento relativo alla salute e alla malattia l’etica si distingue per una propria specificità, che la differenzia tanto dai parametri che si riferiscono all'ethos tradizionale, quanto da quelli deontologici. L’etica, in quanto sistema inteso a regolare il comportamento umano al fine di salvaguardare e realizzare valori, ha il suo Sitz im Leben nell’azione; e l’azione sanitaria è quanto mai intessuta di riferimenti ai valori. Si rivolge, infatti, all’uomo nei suoi vissuti esistenziali più pregnanti, come sono la nascita, la morte, la decisione riproduttiva, la crisi della malattia e la ricerca della salute; investe il campo della vita sociale, in cui va necessariamente collocata la malattia; tocca i confini in cui l’uomo si pone di fronte alla natura in quanto «homo faber», con crescenti poteri tecnologici di intervento su quello che è il dato naturale. L’etica ha come suo compito quello di situare l’azione sanitaria nell’orizzonte delle scelte di fondo.

La linea di incontro tra la prassi medica e l’etica si è andata sempre più ampliando. Fino a un’epoca recente la morale medica era associata ad alcuni casi-limite: l’aborto, l’eutanasia, i trapianti di organo, la sterilizzazione, la fecondazione artificiale. Oggi è praticamente tutta la medicina che richiede un quadro etico di riferimento. Aumentano, infatti, vertiginosamente le conoscenze di ordine bio-medico (si calcola che, al ritmo attuale, tale patrimonio ogni venti anni praticamente si raddoppia), ma si fa sempre più lontano il consenso su un modello antropologico che permetta di discriminare tra ciò che è proprio dell’uomo e ciò che non lo è più. Parallelamente, la tecnologia applicata alla medicina accresce le capacità di intervento. La vita può essere interrotta non solo all’inizio (aborto) o alla fine (eutanasia), ma manipolata in mille maniere: manipolazione del patrimonio genetico («ingegneria genetica»), sperimentazione sugli embrioni, embrio transfert, trapianti di organi di ogni genere, naturali e artificiali, interferenza sul processo naturale del morire (accanimento terapeutico e distanasia). Gli stessi confini tra ciò che è proprio della ricerca e sperimentazione biologica, e ciò che appartiene al campo della terapia medica, tendono a sfumare. La questione della liceità, tradizionalmente posta nei confronti di alcune pratiche mediche, viene straordinariamente ampliata: oggi ci troviamo a domandarci non solo che cosa si può fare e che cosa no, ma se è lecito fare tutto ciò che la tecnologia bio-medica è in grado di fare 29.

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L’ampliamento dell’etica medica è avvenuto anche su altri fronti. La sua portata si è estesa al di là del rapporto interpersonale (one-to-one) quale si stabilisce tra il medico e il paziente. Le azioni attuali dell’uomo, per gli effetti cumulativi delle rotture di equilibrio, hanno gravi conseguenze per le generazioni future. La nuova coscienza ecologica ci ha reso consapevoli che anche verso le forme di vita non umana l’uomo ha una grave responsabilità. Siamo in grado di vedere diritti dove l’etica tradizionale non li aveva considerati: diritti dell’ambiente, degli animali, delle piante. L’agire responsabile deve essere allargato anche a questo ambito di fenomeni vitali. Anche altre professioni, oltre a quella medica, sono coinvolte dagli interrogativi etici: il personale infermieristico e paramedico, i professionisti della medicina preventiva e dell’igiene mentale, gli assistenti sociali ed altri «social workers». Lo spostamento, infine, della prospettiva dai doveri del medico ai diritti del malato, ad opera del movimento che ha portato anche nell’ambito della sanità il dibattito sui diritti civili, ha ulteriormente modificato il quadro di riferimento dell’etica medica tradizionale 30.

In conseguenza delle numerose trasformazioni, si preferisce oggi sottolineare la novità dell’approccio dando a tale riferimento ai valori il nome di «bioetica». Secondo la definizione che ne dà l’autorevole Encyclopedia of Bioethics, la bioetica è «lo studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto questa condotta è esaminata alla luce dei valori e dei princìpi morali» 31. Ha una portata più ampia, rispetto all’etica medica, in quanto include i problemi in rapporto ai valori che insorgono in tutte le professioni sanitarie (oggi, in primo piano, quelle relative al trattamento dei disturbati mentali e «sociopatici» in genere); si estende alla ricerca biomedica e comportamentale; abbraccia un vasto raggio di problemi sociali, come il controllo demografico; si estende al di là della vita e della salute umana, includendo i problemi dell'ambiente. Gli interessi della bio-etica si estendono ulteriormente se consideriamo la cura della salute in senso ampio, come ricerca del pieno sviluppo umano bio-psico-socio-spirituale, secondo la definizione di salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: «lo stato di completo benessere corporeo, mentale e sociale, e non solo l’assenza di malattia e infermità» 32.

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Emerge la tendenza a vedere nella bioetica una risposta alla crisi attuale della medicina e alla richiesta di un esplicito riferimento della prassi bio-medica a valori e fini propri dell’uomo. Soprattutto nei paesi anglosassoni nell’ultimo decennio si è verificata un’espansione considerevole dell’etica medica o bio-etica, che è stata introdotta come disciplina nel curriculum della formazione dei medici. Alla bioetica arride negli USA una larga popolarità, anche al di fuori delle scuole di medicina. Occupa il posto centrale dell’interesse che negli anni ’60 spettava all’etica della guerra e dei diritti civili 33.

Tra i problemi teoretici che la bioetica come disciplina è chiamata a risolvere, il più delicato è quello del proprio statuto epistemologico, chiarendo il rapporto che intercorre tra legalità e moralità, nonché tra religione ed etica; deve inoltre affrontare l’articolazione tra i due aspetti, valutativo e normativo, dell’etica. Se i problemi relativi al significato, ai metodi e ai modelli dell’etica — vale a dire, tutto l’ambito della «meta-etica» — sono di pertinenza specifica della filosofia morale, la questione del rapporto tra l’etica empirica e l’etica normativa fa parte integrante dell’etica medica. Dal punto di vista normativo interessa stabilire come i medici «dovrebbero» agire nelle circostanze concrete, in armonia con i princìpi dell’etica, laica o religiosa. Quando sorgono conflitti tra differenti prospettive, diventa imprescindibile una chiarificazione metaetica e un buon ancoraggio empirico. Ma soprattutto si rivela spesso risolutivo un approfondimento valutativo. Salute e malattia, infatti, sono variabili antropologiche suscettibili di indefinite variazioni culturali. Il medico non può elaborare in modo autonomo definizioni di vita e di morte, di salute e di qualità della vita, al di fuori dei luoghi dove si elaborano socialmente i significati. Ciò implica che oggi la medicina non può svolgere adeguatamente il suo compito senza un interscambio con le scienze dell’uomo. L’etica medica è il luogo appropriato di tale comunicazione. In essa confluiscono le acquisizioni della sociologia, della psicologia medica, dell’antropologia culturale; senza dimenticare l’apporto della linguistica e della letteratura.

Tra i problemi didattici emerge quello degli scopi che deve proporsi l’insegnamento dell’etica medica. Una commissione americana, creata per analizzare i problemi dell’insegnamento della bioetica, ha pubblicato un rapporto in cui vengono indicate le principali finalità 34. In primo luogo

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si tratta di mettere gli studenti in grado di saper riconoscere i problemi etici, distinguendoli dalle questioni puramente tecniche. La distinzione si rivela opportuna anche quando il medico o sanitario non sia coinvolto in prima persona nel processo della decisione. Se è consapevole delle diverse possibilità di risolvere i conflitti etici, potrà presentare i problemi al paziente in modo da permettere un’appropriata soluzione da parte del paziente stesso. Tuttavia il medico dovrà avere anche personalmente una certa preparazione che lo abiliti a sviluppare strategie per analizzare i problemi morali che si pongono in medicina e a mettere in riferimento i princìpi morali con i casi contingenti. Non ci si può aspettare che un medico risolva ogni problema etico in modo infallibile e all’istante; ma non può esimersi dall’essere preparato per il tipo di casi che incontrerà più frequentemente. Per quanto, infatti, la maggior parte delle decisioni vengano prese dal paziente o dal gruppo degli utenti delle cure mediche, alcune scelte etiche devono essere fatte da coloro che forniscono le cure (si pensi alla quantità di informazioni da trasmettere al paziente circa una particolare diagnosi; oppure all’infermiera che deve decidere se obiettare, per motivi etici, a un determinato trattamento). Per risolvere i conflitti intrapersonali e interpersonali che emergono, bisogna ricorrere a una decisione etica. Pur essendo le decisioni atti pragmatici di volontà, non sono necessariamente capricciose. L’intento dell’etica medica è appunto quello di elaborare teorie razionali per ottimalizzare le decisioni 35.

Quanto abbiamo detto della richiesta attuale di un’etica medica o bioetica per rispondere all’esigenza rinnovata di riferirsi ai valori in campo bio-medico, della natura, dei compiti e dei problemi metodologici di questa disciplina, ci dispone a considerare ora la morale medica che si fonda non sulla ragione, bensì sulla rivelazione biblica e sull’insegnamento autorevole della chiesa.

3.2. Profilo storico della morale medica cristiana

Con notevole anticipo rispetto al costituirsi nelle facoltà di medicina di una disciplina specificamente dedita allo studio dei risvolti etici della

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prassi sanitaria, la dottrina morale cattolica ha elaborato una trattazione organica di questi stessi temi. Già negli anni ’50 la morale medica è riconosciuta come disciplina teologica, le è riservato un insegnamento accademico, dispone di una serie di manuali e produce pubblicazioni e riviste specializzate.

Il principale fattore di sviluppo di questa disciplina va ravvisato nella preoccupazione pastorale. Attualizzando il ministero di insegnamento e di salvezza di Gesù Cristo stesso, il magistero ecclesiastico impartisce direttive religiose ed etiche dettagliate; offre così una guida autorevole alla coscienza dei fedeli, affinché si uniformino alla volontà salvifica di Dio in ciò che concerne la difesa e l’incremento della vita. Anche la disciplina del diritto canonico ha contribuito nell’ambito della Chiesa cattolica allo sviluppo di una morale medica molto analitica. Essa ha prodotto, infatti, delle normative dettagliate relative all’amministrazione di alcuni sacramenti in momenti critici dell’esistenza umana, per i quali si è resa necessaria un’esatta conoscenza medica: la definizione della morte per l’amministrazione dell’«estrema unzione»; conoscenze embriologiche per l’amministrazione del battesimo, anche intrauterino (con trattazioni specifiche di Sacra embryologia...); casistica di patologia sessuale per le cause di nullità matrimoniale.

Le principali fasi dello sviluppo storico della morale medica cattolica possono essere individuate in una sequenza che vede, in un primo tempo, la costituzione della teologia morale come disciplina autonoma, all’inizio dell’epoca moderna. Nella Summa moralis di S. Antonino, vescovo di Firenze (1383-1459), che esercitò un grande influsso fino al XVII secolo (si contano venti edizioni complete, dal 1477 al 1740!) troviamo una prima sintesi dottrinale di morale medica. Nel tomo terzo tutto il titolo settimo — «De statu medicorum» — tratta «de officio, vitiis, ac salariis medici». Troviamo elencati i problemi relativi alla competenza del medico, all’assistenza dei morenti, alla moralità dei rimedi prescritti, all’aborto. Parallelamente al costituirsi della medicina legale, ad opera di Paolo Zacchia (le Quaestiones medico-legales sono del 1621), vengono pubblicate opere di medicina pastorale ed etica medica, benché non si possa parlare ancora di una disciplina autonoma. A esemplificazione: il Ventilabrum medico-theologicum di M. Boudewyns (1666) sui casi che più frequentemente si presentano al medico; il De ortu infantium di Th. Raynaudus (1637), sulla moralità del parto cesareo e altre circostanze relative alla nascita, ecc. Nell’insieme, le Institutiones theologiae moralis di S. Alfonso de’ Liguori forniscono le seduzioni morali più seguite nei problemi dibattuti, fino al rinnovamento della morale verso la metà del nostro secolo.

La medicina pastorale propriamente detta si forma nel corso del XIX

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secolo e fiorisce fino alla metà del XX. Il suo scopo è di fornire ai sacerdoti le conoscenze mediche necessarie allo svolgimento del loro compito pastorale, e ai medici cattolici i princìpi morali e le direttive precise a cui attenersi nella casistica concreta relativa a sterilizzazione, aborto, contraccezione, rianimazione, trapianti di organo. La medicina pastorale si occupava di questioni relative alla difesa della vita (aborto, operazioni chirurgiche, uso dei medicinali) e all’area del sesto comandamento (uso della sessualità e matrimonio), nonché dei comandamenti della chiesa, relativamente alle regole del digiuno e dell’astinenza. La «summa» più autorevole di medicina pastorale è costituita dall’opera, in sei volumi, di A. Niedermeyer, Handbuch der speziellen Pastoral Medizin, 1948-1952, completa e innovativa nel suo impianto, tanto da affrontare anche questioni relative al trattamento psichiatrico e psicoterapeutico.

Lo sviluppo rapido della medicina dopo la seconda guerra mondiale ha fatto sorgere problemi inediti di etica medica. Ad essi ha offerto una tempestiva risposta il pontefice Pio XII, in una nutrita serie di discorsi e allocuzioni a medici e scienziati 36. Le soluzioni morali da lui proposte, rivolte di per sé solamente ai fedeli della chiesa cattolica, hanno spesso trovato udienza anche al di là dei confini ecclesiali, in quanto riflettevano il più sovente l’ethos umanitario proprio della medicina ippocratica. Il dialogo con l’etica laica era favorito dal fatto che la sapienza cristiana relativa agli obblighi circa la vita veniva fondata più sulla «legge naturale» che sulle sacre Scritture.

La struttura dottrinale propria della chiesa cattolica si riflette anche nella morale medica. Il peso del magistero papale — e in particolare del Sant’Uffizio — si è fatto sentire in tutte le questioni più cruciali. Tra il 1884 e il 1902, per esempio, il Sant’Uffizio rispose a numerose domande circa l’aborto, ed eliminò alcune eccezioni che non erano state espressamente condannate. Così pure le encicliche Casti Connubii (1930) e Humanae vitae (1968) presero posizione dettagliatamente sulla contraccezione e condannarono tutti i metodi contraccettivi, salvo quelli naturali. Benché fosse generalmente riconosciuto che l’insegnamento nell’area dell’etica medica non rientra nella categoria dell’insegnamento infallibile, l’autorevolezza magisteriale concludeva, in pratica, i dibattiti ed escludeva le opinioni divergenti dei moralisti. Lo spirito della Humani Generis

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(1950) — secondo cui, dopo un pronunciamento pontificio su un argomento controverso, i teologi non possono più dibatterlo liberamente — ha gravato anche sulla morale medica. Anche le direttive religiose ed etiche promulgate più di recente dalla gerarchia di alcuni episcopati — citiamo, a titolo di esempio, le Ethical and Religious Directives for Catholic Health Care Facilities dei vescovi americani del 1971, relativamente alla contraccezione, alla sterilizzazione, alla masturbazione per analisi dello sperma, all’inseminazione artificiale e alla gravidanza ectopica — tendono a presentarsi alla coscienza del fedele come legge apodittica, che impone decisioni uniformi nei casi concreti e domanda solo di essere messa in atto senza eccezione 37. Simili direttive mirano a modellare la convinzione personale dei cattolici sui problemi dibattuti e a influenzare la posizione delle istituzioni sanitarie cattoliche, affinché rifiutino pratiche quali l’aborto o la sterilizzazione.

Un’altra caratteristica specifica della morale medica cattolica è il suo riferimento alla «legge naturale». Da un punto di vista teologico, si riconosce che la natura umana, insieme alla ragione, costituisce per il cristiano una fonte di conoscenza etica. Metodologicamente la teologia cattolica dell’epoca preconciliare vuol coniugare armonicamente fede e ragione, sacra Scrittura e legge naturale. Secondo la teoria tomista, a cui si riferiscono i manuali di morale medica, la legge naturale è la partecipazione della creatura razionale alla legge eterna, vale a dire al piano della sapienza divina che dirige ogni azione verso la meta finale, secondo la natura propria di ogni creatura. Essendo l’uomo una creatura razionale, la legge naturale per l’uomo comporta il regolarsi secondo ragione. In armonia con questa impostazione, la ragione è capace di giungere a formulare i princìpi e le prescrizioni universalmente validi della legge naturale. Di qui il carattere statico dei princìpi e delle loro applicazioni. Dal momento che la qualità etica di azioni che attentano alla vita e all’integrità dell’uomo — quali l’aborto, la contraccezione, la sterilizzazione, l’eutanasia, ecc. — deriva, per una deduzione logica, dai princìpi generali, non ci si può aspettare modifiche rilevanti delle valutazioni morali.

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Condanne e prese di posizione su nuovi problemi si riducono, per lo più, alla riproposizione dei princìpi generali, che vengono semplicemente applicati ai casi particolari.

Nei manuali degli anni ’50 la trattazione casistica è spesso preceduta da un breve sommario dei princìpi che regolano la morale medica cattolica. I più importanti sono: il diritto alla vita, come diritto naturale e inalienabile (di conseguenza, l’uccisione diretta di un innocente, di propria autorità, è sempre male); il principio di totalità (il bene del tutto è il fattore determinante nei confronti delle parti, per cui si può disporre delle parti a vantaggio del tutto; nell’antropologia cristiana bisogna inoltre tener presente la finalità spirituale della persona, per cui il singolo organo è subordinato non solo al bene del corpo, ma al bene della persona); il principio del duplice effetto, nelle azioni che hanno due o più effetti, compreso uno cattivo (è il principio chiamato in causa per giustificare la possibilità dell’uccisione indiretta, dell’aborto indiretto, o della cooperazione materiale indiretta. Le condizioni requisite sono: che l’atto sia in sé buono o moralmente indifferente; l’intenzione dell’individuo deve essere buona; ci deve essere un motivo proporzionatamente grave per porre l’azione). Per quanto riguarda la sessualità e la procreazione, le facoltà sessuali devono essere usate secondo la finalità intesa da Dio creatore e rispecchiata dalla natura. Il fine degli organi e delle funzioni sessuali è duplice: la procreazione e l’unione nell’amore. Ogni loro uso, in cui positivamente si interferisca per impedire o frustrare la finalità intrinseca dell’atto, è immorale. Di qui la condanna della contraccezione e della sterilizzazione contraccettiva.

3.3. Nuovi orientamenti

L’interesse teologico-pastorale per i problemi dell’etica medica, già in pieno sviluppo negli anni ’50 e ’60, ha prodotto una ricca messe di saggi e manuali, che si consultano ancor oggi con qualche profitto. La stagione post-conciliare ha portato però un profondo rinnovamento anche in questo settore, come già in altri ambiti del pensiero e della prassi della Chiesa. L’«aggiornamento» della morale medica cattolica è dovuto, in maniera eminente, all’opera di Bernhard Häring 38. Nel suo Etica medica (Roma 1972) raccoglieva la ricca eredità della riflessione precedente. La

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situava però nel nuovo contesto, costituito dai progressi della medicina e della biologia, da una parte, e dai nuovi sviluppi della teologia cattolica durante e dopo il Vaticano II, dall’altra. «Non diamo risposte una volta per tutte, né risposte già pronte per tutti i nuovi problemi. Dobbiamo oggi impegnarci lealmente per restare fedeli alla nostra eredità con le esigenze dei tempi nuovi, soprattutto nel dialogo interdisciplinare», proclamava P. Häring nell’introduzione. Come criterio fondamentale per valutare i problemi attuali della professione medica e del paziente assumeva la libertà e l’integrità della persona umana.

Uno sviluppo ulteriore venne con Medicina e manipolazione (Roma, 1976). La manipolazione medica, comportamentale e genetica veniva inserita nell’insieme delle manipolazioni insidiose che minacciano quasi ogni settore della vita moderna; senza però ignorare le possibilità offerte di liberarci da condizionamenti sfavorevoli allo sviluppo del genere umano. «Che cosa significa la manipolazione nella e per la storia della libertà e della liberazione?», si domandava il teologo moralista. I criteri per il discernimento dei limiti etici della manipolazione venivano cercati nello spirito della teologia della liberazione.

L’ultimo sviluppo della riflessione di Häring sulla morale medica cristiana si trova nel terzo volume della sua nuova sintesi di morale: Liberi e fedeli in Cristo (Roma 1981), che si apre appunto con un’articolata trattazione della «bioetica». In questo contesto Häring adotta un’angolatura che conferisce alla morale della vita fisica un maggiore spessore teologico. La sua preoccupazione non è quella di fornire soluzioni morali «allargate» ai problemi tradizionali, e tantomeno compromessi, bensì di acquisire la giusta prospettiva, operando scelte evangeliche di valore e di senso. Colloca la promozione e protezione della vita, la salute e la terapia, la morte e il morire nel contesto del più ampio dovere, che incombe ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà, di unire le forze per la costruzione di un mondo più sano. «Tutta la redenzione è un’opera di risanamento, di guarigione. Di conseguenza tutta la teologia, e segnatamente la teologia morale, ha un’essenziale dimensione terapeutica. Cristo, il Salvatore, è anche Medico, Colui che guarisce. Egli è venuto a guarire la persona singola nelle sue relazioni, ma ha pure proclamato il Regno, un regno che abbraccia tutto, e quindi anche un mondo sano in cui vivere. I cristiani sono, in Cristo, dei terapeuti, della gente che fa opera di guarigione. Essi hanno la missione di guarire se stessi, di guarirsi gli uni gli altri e di lavorare uniti per la creazione di un mondo più sano» 39. L’etica medica si configura così come una parte dell’etica sociale, cioè della nostra corresponsabilità nel mondo e per il mondo.

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L’opera di P. Häring rappresenta in modo emblematico il rinnovamento avvenuto all’interno della monolitica morale medica dell’epoca preconciliare. Le principali caratteristiche della nuova riflessione possono essere ricondotte al superamento del concetto teorico di «legge naturale» e al diverso tenore dell’insegnamento autoritativo del magistero. Quanto al primo aspetto, la teoria della legge naturale è stata sottoposta alla critica di favorire un certo fisicalismo morale, che identifica l’aspetto morale dell’atto umano con l’aspetto fisico dell’atto. Teologicamente, mentre cadeva nel dibattito conciliare la teoria delle «due fonti» della rivelazione e prevaleva la concezione storico-salvifica (cfr. D.V., 2-6), diventava difficile giustificare una terminologia che potesse indurre a intendere la «natura», con le sue leggi, quale sorgente autonoma di moralità. La teologia veniva provocata a un «ressourcement» storico-salvifico da un tratto caratteristico della cultura contemporanea: la maggiore coscienza storica, che accentua la crescita, lo sviluppo, l’elemento individuale e contingente.

Un fermento di novità ha toccato anche l’aspetto formale della morale medica cattolica, vale a dire il fatto che fosse autoritativamente insegnata dal magistero gerarchico. Il consenso unanime si è infranto con le reazioni discordi alla Humanae Vitae: ci sono stati teologi che hanno rivendicato il diritto al dissenso rispetto a insegnamenti morali specifici, non garantiti dall’infallibilità magisteriale. Su questioni particolari — la contraccezione, la sterilizzazione, la masturbazione per analisi seminali, l’inseminazione artificiale — emerge un pluralismo impensabile per la manualistica preconciliare. Anche nei documenti magisteriali va registrata qualche novità. Accanto a quelli che, come in passato, sono emanati con l’intenzione di chiarire, con l’autorità del magistero autentico, punti controversi e di guidare la coscienza dei fedeli (come, ad es., la Dichiarazione sull’aborto procurato, emanata il 18.11.1974 dalla Congregazione per la dottrina della fede, o la dichiarazione della stessa Congregazione sull’Eutanasia, del 5.5.1980), compaiono anche documenti pastorali, finalizzati a sensibilizzare i fedeli su nuovi problemi relativi alla vita e alla salute.

Di tal genere sono due documenti, dovuti rispettivamente alla conferenza episcopale tedesca e a quella francese, relativi alla morte e al morire nelle condizioni culturali attuali e ai problemi etico-pastorali che ne derivano 40. La comunità cristiana, attraverso la voce dei suoi pastori, si mobilita per rispondere all’interpellazione che deriva dalla disumanizzazione strutturale del morire. Anche la morale medica cristiana identifica

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in tal modo il suo compito nel contribuire a servire l’uomo migliorando la qualità della vita.

4. L’obiezione di coscienza nelle professioni sanitarie

Quando qualcuno nell’esercizio della sua professione si appella alla coscienza suscita istintivamente rispetto. La coscienza individuale nella gerarchia di valori del nostro universo culturale occupa il posto più alto. Ad essa si attribuisce la decisione ultima. Dalla coscienza dipende la qualità etica del comportamento: ciò che è in accordo con essa ha un valore morale positivo; l’infrazione del dettato della coscienza inquina la moralità anche di un atto in sé buono. Il ricorso alla coscienza è circonfuso da un’aura ancor più sacrale quando si tratta delle professioni sanitarie, dal momento che in esse si esercita un potere sulla vita di altri esseri umani.

La coscienza è, per sua natura, un’istanza insindacabile. Ciò non la sottrae però a qualsiasi forma di critica. In particolare, non può essere elusa la questione fondamentale: c’è veramente la coscienza dietro gli appelli alla coscienza? I «maestri del sospetto» ci hanno fatto aprire gli occhi sull’abisso esistente tra il linguaggio e la realtà. Non sempre siamo soggettivamente consapevoli delle mistificazioni. Talvolta ci limitiamo a considerare le relazioni sociali apparenti, senza avvertire la realtà di sopraffazione che nascondono. Oppure ci accontentiamo di ciò che le difese del pensiero cosciente lasciano filtrare, ignorando la realtà psichica repressa. Non soltanto chi è andato a scuola dal marxismo e dalla psicoanalisi è stato educato al sospetto sistematico. Anche l’uomo della strada ha imparato a diffidare delle parole altisonanti, a distinguere tra ciò che il linguaggio rivela e ciò che nasconde.

Le mistificazioni possono essere involontarie; per questo sono così pericolose. Specialmente quando coinvolgono la coscienza, il frutto più sublime e più fragile che l’educazione etica dell’umanità ha prodotto.

Corruptio optimi pessima, insegnava la sapienza degli antichi. Poiché dunque l’appello alla coscienza può dar adito a mistificazioni, grossolane o raffinate che siano, è opportuno sottoporre l’obiezione di coscienza in campo sanitario a una riflessione critica. Non al fine di screditare l’obiezione, o per scoraggiare il ricorso ad essa, ma piuttosto per mettere in evidenza le condizioni che la rendono autentica e credibile; dunque, in sostanza, per promuovere un’obiezione di coscienza di qualità etica ineccepibile. A tale scopo è necessario sottoporre l’appello alla coscienza a una progressiva chiarificazione semantica, a un triplice livello: deontologico, etico e religioso.

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4.1. La coscienza come istanza medica

Per situarci d’emblée nell’ordine della coscienza etica pensiamo alla situazione che evoca l’accorata domanda: «Dottore, che decisione prenderebbe se si trattasse di sua figlia o di sua moglie?». La domanda presuppone che, oltre alla coscienza professionale, esista un’altra istanza. La cosiddetta «coscienza professionale» non è altro che l’ethos che caratterizza una determinata professione. A un’analisi ulteriore l’ethos professionale risulta dotato di una duplice rilevanza: giuridica ed etica. Il primo punto di vista costituisce il diritto professionale, strutturato come un insieme di prescrizioni di legge legate a una determinata professione. Esso specifica le obbligazioni di chi la esercita. Le infrazioni di tale normativa sono perseguibili penalmente. Ma l’ethos professionale non è ristretto a quanto può portare di fronte al giudice. C’è anche un insieme di doveri che dipende da un’altra fonte. Sono i doveri che, come abbiamo visto nel secondo capitolo, costituiscono la deontologia di una professione. Oltre a questa coscienza professionale, esiste un’istanza superiore, a cui si può far appello in situazioni eccezionali. Se il medico è interpellato in quanto medico, può lasciarsi guidare dall’ethos deontologico; ma, interpellato in quanto uomo, e dovendo prendere una decisione «in coscienza», dovrà ispirarsi a un altro ordine di valori.

La domanda da cui siamo partiti evidenzia alcuni tratti che connotano la coscienza morale. Questa è una relazione intrinseca dell’uomo con se stesso, grazie alla quale l’individuo può conoscersi in modo immediato e privilegiato, e perciò giudicare con sicurezza. L’accesso alla coscienza di un altro non può essere forzato; la coscienza non si apre dall’esterno ma solo dall’interno, per libera automanifestazione del singolo all’altro essere. La sfera d’interiorità costituita dalla coscienza è avvertita come realtà superiore e privilegiata. In quanto organo per la veracità e l’onestà, conferisce alle azioni caratteristiche peculiari: le rende libere, responsabili; in una parola: morali.

In questa sommaria descrizione della coscienza si sarà riconosciuta la concezione che, dall’illuminismo in poi, rappresenta l’ideale più alto di civiltà nell’ambito della cultura occidentale. L’uomo emancipato è quello che ha superato l’«eteronomia» — sia quella parentale del bambino che quella sociale del primitivo — per accedere all’«autonomia», vale a dire una condotta guidata dalla coscienza. Un’azione compiuta secondo coscienza suscita un rispetto che confina con la venerazione. Si può addirittura parlare di una «religione della coscienza» come caratteristica della cultura illuministica di cui siamo figli.

Nessuno si sognerebbe oggi di contestare il ruolo preminente attribuito alla coscienza nella gerarchia di valori. Prima però che la coscienza

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possa rivendicare i suoi privilegi di istanza inappellabile e suprema, deve rispondere ad alcune questioni della massima importanza. Quali sono le decisioni che vengono veramente prese in coscienza? Esistono validazioni in grado di accreditare o inficiare gli appelli della coscienza? Come si forma e come si evolve la coscienza?

Iniziamo dall'ultima questione. Parlare di formazione della coscienza implica una prospettiva dinamica ed evolutiva, secondo la quale la coscienza non esiste come un elemento immutabile, simile ai tratti trasmessi tramite il meccanismo dell’eredità genetica. La coscienza esiste, piuttosto, in potenza; spetta all’educazione creare le condizioni per il suo sviluppo. La coscienza del bambino non si lascia comparare con quella dell’adulto. Gli adulti sono così lontani dal continente perduto dell’infanzia che stentano a rendersi conto che persino la nozione di «intenzionalità» è acquisita. Per l’adulto la presenza di un’intenzione, pur non essendo sempre un fatto percettibile, è però un dato di cui occorre sempre tener conto per valutare la qualità di un’azione. Non così, invece, per il bambino. Gli studi di J. Piaget 41 hanno dimostrato che il pensiero infantile è per lungo tempo permeato di realismo, che comporta il primato dei dati percettivi su quelli rappresentativi. Il bambino deve percorrere un lungo cammino prima di giungere a scindere la presenza di un’intenzione dal risultato concreto dell’azione che essa suscita o guida, e a rendersi così conto che a una stessa intenzione possono corrispondere risultati diversi o, viceversa, che può verificarsi uno stesso risultato benché le intenzioni siano diverse. A Piaget dobbiamo l’ipotesi dell’esistenza di due moralità: una eteronoma o di costrizione, l’altra autonoma e fondata sulla cooperazione. Secondo la prima, che si ritrova nei bambini più piccoli, ciò che la regola o l’adulto comandano deve essere fatto e la disobbedienza è comunque un atto riprovevole; secondo la morale autonoma, che si impone più tardi sostituendosi — talvolta non interamente — alla prima, una regola ha quel valore che concordemente si decide di darle.

Affermando che la persona adulta e matura è solo quella che si lascia guidare nel suo agire da motivazioni di coscienza, si ottiene senza difficoltà il consenso generale. Non esiste invece un modello di sviluppo della coscienza che si imponga in modo indiscutibile. A titolo orientativo ci riferiamo a quello proposto da Charles Hampden-Turner, che si ispira alle teorie della personalità proposte dalla corrente nota come «psicologia umanistica» 42. Secondo questo modello, prima di giungere all’azione

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orientata alla coscienza si passa per numerose fasi, che possono essere così schematizzate:

― Orientamento di obbedienza (analogo alla moralità eteronoma di Piaget). L’azione è motivata dalla volontà di evitare punizioni o fastidi. Deferenza somma verso il potere; concezione oggettiva e non ancor soggettiva della responsabilità (Piaget lo chiama «realismo morale»: convinzione che commettere certi atti è cosa in sé cattiva e costituisce una colpa, indipendentemente da ogni considerazione del contesto psicologico che precede o accompagna il loro svolgersi).

― Orientamento egoistico strumentale. L’azione è orientata al soggetto stesso e ai propri bisogni: è giusta quella che li soddisfa. Questo atteggiamento non esclude eventualmente l’orientamento a bisogni degli altri. Determinante in questa fase è la concezione che non esistano valori assoluti: ogni valore è relativo ai bisogni e alle prospettive del singolo agente.

― Orientamento al ruolo. La formazione della personalità individuale passa attraverso l’accettazione di un ruolo. Questa accettazione permette di prevedere le azioni degli altri e di adattarvi la propria condotta. Una condotta orientata al ruolo implica la conformazione alle immagini stereotipate della maggioranza e l’intenzione di adattarsi al giudizio sociale su ciò che è naturale per un certo ruolo. Prototipo di questo atteggiamento è il bambino adattato che, pur di piacere, compiace. In ognuno che sia passato attraverso il processo di socializzazione è presente il «bravo ragazzo», teso a riscuotere l’approvazione altrui.

― Orientamento alla legge. È l’orientamento a mantenere l’autorità e l’ordine sociale come fine a se stesso. Ispira il comportamento di coloro che «fanno il proprio dovere», ne sono fieri e appagati. La concordanza personale con quanto si presenta con le caratteristiche di «ordine» esaurisce le esigenze morali presenti a questo livello.

― Orientamento al contratto sociale. Il dovere è qui definito in termini di contratto. È presupposto che ci si sia resi conto che nelle orme e nei ruoli c’è un elemento arbitrario, che dipende da un accordo sociale. L’azione ispirata ad esso intende evitare di violare il volere o i diritti degli altri e vuol favorire la volontà e il benessere della maggioranza.

― Orientamento ai princìpi o alla coscienza. È il comportamento di chi, al di là dell’orientamento alle regole sociali effettivamente ordinate, si ispira a princìpi di libera scelta personale. A questo livello il principio direttivo delle azioni è la coscienza. Il giudizio che si basa sui princìpi e sulla coscienza è la forma più elevata di giudizio morale. È proprio

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della persona matura, che ha completato la formazione della propria coscienza.

L’obiezione di coscienza è un caso particolare, di origine conflittuale, del comportamento morale adulto, ispirato ai princìpi etici. Prima però di considerare questo caso particolare, completiamo il quadro della personalità dell’uomo eticamente maturo. La persona matura, che si ispira ai princìpi, non equivale al «dogmatico». Utilizzando la distinzione messa in uso da Rokeach 43, diremo che, a differenza del dogmatico, è dotata di un quadro mentale «aperto», non «chiuso». Ciò vuol dire che la sua percezione abbraccia tutta la realtà, compresa l’intera gamma dei dilemmi. La sua è una percezione decentrata, capace di cogliere i bisogni degli altri, anche quelli che contraddicono i propri.

Grazie a una personalità tanto forte da non conformarsi alle aspettative di ruolo imposte dall’ambiente culturale, la coscienza adulta può affrontare la drammatica eventualità della situazione di conflitto. Può avvenire infatti che il soggetto etico si trovi nella situazione in cui l’orientamento ai princìpi e alla coscienza si oppone alle altre istanze. Non è un’eventualità da presumere con troppa facilità. Normalmente le varie istanze si integrano abbastanza armonicamente, o quanto meno convivono; e solo una minima parte dei nostri atti morali fa appello diretto alla coscienza. Ma il caso eccezionale in cui l’orientamento alla coscienza si opponga agli altri orientamenti può crearsi. Allora la struttura etica è messa alla prova e il soggetto si trova di fronte a un dilemma: o sacrifica il riferimento alla coscienza, appoggiandosi a una delle altre motivazioni (secondo lo schema gerarchico che abbiamo proposto: esegue il comando che gli evita la punizione, si orienta secondo i propri bisogni, fa ciò che ci si spetta da lui, ciò che prescrive la legge, agisce secondo gli impegni che si è assunto verso la società); oppure investe tutto il suo potenziale morale sui princìpi, affrontando le conseguenze del conflitto. Le quali possono essere, in una tragica escalation: la soppressione del contratto sociale, lo scontro con il rigore delle leggi vigenti, la disapprovazione sociale per il non adempimento delle aspettative di ruolo, il disagio personale e, infine, la punizione. Due esempi luminosi di opposizione per motivo di coscienza, con la morte inflitta come epilogo, sono le vicende di Socrate e di Tommaso Moro.

La semplice menzione dei due simboli più noti, nella nostra cultura, della trascendenza della coscienza ci fa intravvedere quale straordinaria

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efficacia possa avere l’obiezione di coscienza. Il principio per amore del quale si è disposti a mettere in gioco ogni cosa sollecita negli altri una reazione di conferma, che travolge i contratti sociali, le leggi e le aspettative di ruolo; tale principio può diventare una nuova base per la convivenza civile, una nuova legge, un nuovo modello di ruolo. Non è retorica affermare che i progressi etici dell’umanità non sono avvenuti per accumulazione progressiva, come quelli scientifici, ma per salti qualitativi dovuti a coscienze singolari, come appunto quelle di Socrate e di Tommaso Moro (se i due esempi sembrano eccessivamente patetici per la tragica fine degli obiettori, si pensi come situazione emblematica a Francesco d’Assisi, nudo di fronte al padre: è anche questa un’immagine fortemente espressiva della radicalità a cui può portare la motivazione di coscienza).

La descrizione fenomenologica della motivazione di coscienza che abbiamo sviluppato come risposta alla domanda iniziale sulla formazione della coscienza ci offre gli elementi per discernere un’obiezione di coscienza da ciò che non lo è. Non è sufficiente che ci sia un atto di ribellione alle leggi e al contratto sociale perché si abbia obiezione di coscienza. La ribellione può manifestarsi tanto nella fase più formalmente etica quanto nelle fasi precedenti, nelle quali il comportamento si orienta ad altro che ai princìpi etici. Se la persona non si è maturata normalmente fino a raggiungere la capacità di un’azione orientata ai princìpi, non si può parlare di obiezione di coscienza. Quante persone raggiungono questo stadio? Il nostro narcisismo culturale, avvezzo a mettere il comportamento dell'homo sapiens su un piedistallo tanto più elevato di quello dell’animale, vorrebbe lasciarsi illudere che la motivazione di coscienza è l’atmosfera etica in cui si muove abitualmente l’umanità. Probabilmente la realtà è ben diversa. Pensiamo all’anestesia delle coscienze, al conformismo e all’adattamento generalizzato che costituiscono la triste base su cui poggiano tutti i regimi totalitari. Motivo di riflessioni non meno deprimenti ci offrono i risultati dell’esperimento di Stanley Milgram sull’acquiescenza all’autorità. I soggetti sperimentali ai quali fu ordinato di somministrare scariche elettriche a cavie umane (benché in realtà, all’insaputa dei protagonisti dell’esperimento, si trattasse di attori abili nel mimare il dolore), elevarono il voltaggio, su comando, fino a livelli mortali per la cavia. Soltanto pochissimi soggetti rifiutarono le direttive degli sperimentatori. Evitiamo di sollecitare conclusioni troppo ampie dall’esperimento, anche se è stato confermato da esperimenti analoghi condotti in Italia; una cosa, tuttavia, appare certa: non tutti, forse addirittura poche persone, sono capaci di ribellarsi. Se la capacità di opporre resistenza per motivo di coscienza fosse così diffusa come la fede nel valore della vita umana, i risultati degli esperimenti sull’acquiescenza agli

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ordini immorali sarebbero ben diversi (e non ci sarebbero stati né Auschwitz né l’arcipelago Gulag).

È facile passare da queste considerazioni al campo specificamente sanitario. I suoi operatori professano il principio dell’intangibilità della vita e svolgono un’attività volta a fini terapeutici; eppure si trovano spesso, di fatto, al centro di un campo di forze contrarie alla vita. Contrariamente alle attese, le obiezioni di coscienza non sono frequenti. Se consideriamo con realismo quanto raramente il comportamento umano si orienti ai princìpi e alla coscienza, non troveremo nel fatto un motivo per stracciarci le vesti. Del resto, in base alle osservazioni precedenti sappiamo di non essere in grado di inferire con certezza dal fatto in sé della ribellione ad attese di ruolo o a prescrizioni legali un’obiezione di coscienza. Per definizione la coscienza è autoevidente ed autoriferentesi: essa esclude perciò qualsiasi forma di diretta verifica dall’esterno. Un comportamento di ribellione potrebbe essere orientato a tutt’altro che alla coscienza. A livello sociale le questioni di coscienza sono circondate da un velo di agnosticismo: «ignoramus et ignorabimus». La società infatti, pur considerando la motivazione di coscienza come il vertice supremo della moralità umana, si regge non sulla coscienza, bensì sugli altri ordini di moralità. Non sarebbe possibile una convivenza civile se l’unico ordine di riferimento fosse il dettato della coscienza individuale. Ciò ci permette di capire il carattere irritante che ha, a livello sociale, l’obiezione di coscienza. L’appello alla coscienza è un fatto anomalo che sembra sospendere altre forme di moralità che garantiscono la convivenza civile, in particolare l’ordinamento giuridico e il contratto sociale. Tanto più che la coscienza individuale è un’istanza che sfugge a qualsiasi controllo sociale (di qui le riserve nei confronti della disposizione che accompagna la legge del 1973 circa il diritto di obiezione di coscienza al servizio militare, secondo cui una commissione deve giudicare le motivazioni di coscienza; la disposizione contraddice il concetto stesso di obiezione di coscienza).

Quali risorse restano alla società per difendere se stessa dalle obiezioni di coscienza spurie? Rimane la possibilità delle verifiche indirette. Il gruppo sociale, il quale non può rinunciare alla collaborazione dei suoi membri, per evitare che l’obiezione di coscienza sia solo la copertura di un disimpegno di comodo, può avanzare richieste di un impegno compensatorio. Così nel caso dell’obiezione di coscienza al servizio militare la comunità dovrà richiedere una equivalente e impegnativa prestazione civile (purché non diventi in pratica una forma di penalità). Quando poi l’obiezione cada su alcuni punti che il gruppo ritiene di valore sostanziale per la convivenza civile, la società, pur non potendo richiedere un’esecuzione contro coscienza, potrà esigere che si subisca la pena o si

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esca dal gruppo 44. È un’eventualità che, come abbiamo illustrato sopra, è insita nella nozione stessa di obiezione di coscienza.

Questi princìpi etici possono essere applicati ai casi di obiezione di coscienza che riguardano i sanitari nell’esercizio della loro professione; in particolare alla prestazione della loro opera per procurare l’aborto. Tutte le legislazioni dei paesi democratici che hanno varato normative in proposito hanno previsto la figura giuridica del medico obiettore di coscienza; alcune l’hanno estesa anche ad istituzioni sanitarie in quanto tali. Più che le concrete determinazioni di tali norme, ci interessa valorizzare il fatto in sé dell’obiezione prevista dal legislatore e la tensione tra la società legiferante. e il medico obiettore che ciò presuppone. Si crea così uno spazio per l’inquietudine e l’interrogazione. Il gruppo sociale, ammettendo nella propria normativa, in maniera del tutto anomala, la possibilità dell’obiezione, confessa la propria insicurezza. Il patto sociale non è perfetto, se la coscienza di alcuni può essere prevedibilmente offesa da qualche norma e la legge stessa, che pur dovrebbe garantire l’armoniosa convivenza, si vede costretta a prevedere vistose deroghe. Ammettendo l’obiezione di coscienza, la società proclama implicitamente che si tratta di una situazione transitoria e di emergenza, che reclama di essere superata mediante una crescita qualitativa della moralità comune.

La tensione dialettica tra coscienza individuale obiettante e normative sociali apre inoltre uno spazio di interrogazione per colui che obietta. È la sua una vera obiezione di coscienza? Per essere tale non basta infatti che l’azione obbedisca a una qualsiasi convinzione, ma deve derivare da un principio fondamentale. Questo, a sua volta, non esiste isolato, ma fa corpo con tutto l’organismo etico dell’individuo. Non si può, se non a prezzo di una contraddizione insanabile, difendere un principio in una circostanza e poi rinnegarlo allegramente in tutto il resto della propria attività professionale. Oltre i casi di più smaccata ipocrisia, c’è tutta una gamma di incoerenze personali e istituzionali che attendono la seria verifica dell’obiezione di coscienza per essere messe in luce. Di fronte al tribunale della coscienza, si sa, ognuno è solo; ma l’essere il testimone della propria immoralità può essere una ben dura condanna, di quelle che si scontano a vita.

4.2. L'obiezione per motivi religiosi

L’obiezione di coscienza per motivi religiosi è uno dei casi in cui l’autorealizzazione

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etica dell’individuo tocca i vertici. È noto come storicamente sia stato il protestantesimo a rivalutare l’obiezione di coscienza come espressione dello spirito cristiano; con la protesta in nome del Vangelo stesso, il libero esame, mediato dalla coscienza individuale, ha spezzato la monolitica unità garantita dall’istituzione ecclesiastica. In ambito cattolico si è fatto a lungo resistenza al principio della libertà di coscienza. Tanto la concezione protestante quanto quella illuministica erano giudicate come un’indebita semplificazione dell’organismo etico, di cui fa parte essenziale il riferimento all’autorità. Il concilio Vaticano II ha ratificato un processo di rivalutazione della coscienza individuale avvenuto anche tra cattolici. Con la dichiarazione Dignitatis humanae l’istanza dottrinale di vertice, il magistero, ha preso ufficialmente posizione a favore della libertà religiosa; la dichiarazione, pur non richiamandosi all’obiezione di coscienza, afferma i princìpi dai quali deriva il diritto all’obiezione.

I problemi suscitati dalla coscienza religiosa sono numerosi e delicati. Ciò che interessa il nostro assunto è la possibilità di un’obiezione di coscienza nella professione medica in nome di un’incompatibilità con i propri princìpi religiosi. Procederemo come abbiamo già fatto per le altre due istanze, quella deontologica e quella etica. Ciò che ne risulterà non sarà una casistica spicciola, ma piuttosto una specie di radiografia dell’obiezione stessa. Il nostro scopo è di mostrare quali sono le condizioni che garantiscono la consistenza interna e l’accettabilità sociale dell’obiezione religiosa.

Specifichiamo in primo luogo che l’appello alla propria coscienza religiosa può avere valenze diverse. In sé, esso dice riferimento alle istanze dottrinali e morali della comunità di fede religiosa a cui si appartiene (dal momento che una religione non è mai un fatto puramente individuale). Tuttavia il legame con la comunità e il suo apparato dottrinale-autoritario può essere di qualità molto diversa. L’autenticità e la profondità del legame ammettono una vasta gamma di possibilità. Per prendere gli estremi, si può andare dall’adesione nominale — a cui magari possono non essere estranei interessi materiali o vantaggi sociali —, all’identificazione sofferta (si pensi al caso di Galileo, preso nella morsa del contrasto tra la propria visione scientifica e la fedeltà all’autorità dottrinale della Chiesa). Anche qui, come già nel caso dell’appello ai princìpi etici, la possibilità di una verifica obiettiva del grado di autenticità è esclusa a priori. La possibilità del «tartufismo» è purtroppo da mettere in conto, anche se non può essere una ragione sufficiente per accogliere con sospettoso pregiudizio qualsiasi riferimento a princìpi religiosi.

Solo il credente stesso può sapere se si riferisce unicamente alla struttura

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esterna del gruppo confessionale, oppure ne partecipa l’intima sostanza in modo personale; in altri termini: se la sua religiosità è pura appartenenza sociologica, oppure si fonda su un’esperienza religiosa.

Quando l’appello alla coscienza attinge le profondità esistenziali dell’esperienza religiosa personale, viene a qualificarsi come un momento che ha la stessa tessitura etica del comportamento motivato da princìpi individuali. L’esperienza religiosa in quanto tale è difficile da definire. Fa parte di una di quelle esperienze psicologiche che Abraham Maslow ha definito peak experiences; vale a dire esperienze di ordine superiore, che permettono all’individuo di compiere sintesi di coscienza improvvise, panoramiche e fuori dall’esperienza comune 45. Esperienze di questo tipo vengono sentite come auto-validanti, auto-giustificanti, recanti in sé il proprio intrinseco valore.

Secondo I.T. Ramsey, per intendere a quale tipo di situazioni fa riferimento l’esperienza religiosa bisogna unire insieme due fattori: «discernimento» e «impegno». Il primo può essere illustrato con quelle situazioni, familiari alla psicologia della Gestalt, in cui «qualcosa scatta», «il ghiaccio si spezza», una persona «prende vita»; l’impegno è una risposta incondizionata a qualcosa «che è al di fuori di noi» 46. Si tratta, in ogni caso, di approssimazioni. Non può esistere una descrizione che metta in grado di capire un’esperienza senza farne l’esperienza!

L’esperienza è la sostanza della fede. Questa ha come unico parametro interno di autenticità l’esperienza religiosa, in quanto nasce da essa o tende verso di essa. Ciò non esclude il momento comunitario e la conseguente tensione tra spontaneità e normatività delle istituzioni. Ma i due termini devono essere lasciati coesistere dialetticamente; un modo costruttivo di risolvere la tensione non potrebbe essere quello di sopprimere uno dei due.

In che senso l’esperienza religiosa ha un’incidenza nella questione dell’obiezione di coscienza? Ci pare di poterlo indicare nel fatto che l’esperienza religiosa costituisce una fonte di motivazione etica. In quanto espressione di somma autorealizzazione umana (una realizzazione che in alcune religioni storiche è esplicitata come dono connesso all’incontro con il «Tu» divino), l’esperienza religiosa è percepita dal credente come un’esistenza nuova, da cui deriva un’esigenza morale nuova. Cambia il suo essere, cambia il suo agire. Lo sboccio della novità, elemento comune ai vissuti esistenziali culminanti, è esigente. Nell’esperienza si esprime

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un’autorità superiore alla quale il credente non può — non vuole sottrarsi, perché con essa si identifica. Il comportamento etico dell’uomo religioso si fonda sull’autorità di Dio, come istanza irriducibile alle altre. È difficile definire in termini antropologici come sia determinata la coscienza dell’uomo che l’esperienza religiosa ha aperto a una dimensione nuova dell’essere. Non si tratta di «autonomia», vale a dire la conquista che l’individuo post-illuministico ha strappato alle determinazioni sociali e che difende come «libertà di coscienza»; neppure si tratta dell’«eteronomia» della coscienza non emancipata. Bisogna ricorrere a un termine proposto da alcuni teologi: «teonomia» della coscienza. Si tratta di un rapporto esperibile ma non descrivibile.

La descrizione delle coscienze normate dal loro rapporto con Dio ha un carattere astratto. Di fatto però noi abbiamo conosciuto l’esistenza di tali coscienze non per opera di speculazione; queste coscienze si sono storicamente mostrate. Pensiamo a Cristo di fronte a Pilato. Due universi etici polarmente opposti. Non è soltanto la qualità delle azioni che li fa divergere, ma, in radice, l’autorità etica a cui la loro coscienza fa riferimento. Cristo fa osservare a Pilato che non avrebbe autorità su di lui se non gli fosse stata data da chi gli sta sopra; il suo potere è mutuato da un organismo politico-sociale (nel caso, di oppressione imperialista!) che lo sostiene e lo giustifica. Di fronte a lui Gesù di Nazaret è un uomo di «un altro mondo» non solo metafisico, ma etico. Il suo potere non dipende da un’istanza gerarchica esterna: lo ha dentro di sé, in quel centro di esperienza esistenziale in cui è uno con Dio. Pilato, il detentore del potere, è eteronomamente determinato come uno schiavo; Gesù, il suddito, è teonomamente libero.

Considerazioni analoghe si potrebbero sviluppare in margine alla disputa tra Gesù e i sommi sacerdoti a proposito della sua autorità (cfr. Mc 11,27-33). I rappresentanti dell’istituzione religiosa, che avevano con l’autorità divina un rapporto basato sulla tradizione e sulla formalità legale e gerarchica, non potevano capire di dove venisse l’autorità di chi portava in sé la salvezza di Dio.

Gli ebrei, tuttavia, non escludevano a priori l’esistenza di esperienze di Dio che fondassero una nuova esigenza spirituale ed etica. Tutta la loro storia sacra, in particolare la vicenda dei profeti, stava a dimostrarlo. Per questo l’«obiezione di coscienza» dei primi discepoli di Gesù («Se sia giusto davanti agli occhi di Dio obbedire a voi piuttosto che a Dio, giudicatelo voi stessi. Quanto a noi, non possiamo non rendere pubblico quanto abbiamo visto e ascoltato»: At 4,19-20) fece particolare impressione sul sinedrio; e in seguito, dietro l’intervento di Gamaliele, espressione della saggezza spirituale del popolo di Dio (At 5,34-39), fu deciso di rinunciare a perseguirli con la forza.

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La coscienza religiosa, dunque, si modella essenzialmente sull’evento dell’esperienza religiosa, più che sul precetto. Ha bisogno anche del precetto come pedagogo; ma il precetto da solo è uno scheletro senza vita, un’armatura opprimente. La legge è solo pallida memoria dell’evento. La coscienza che si riferisce esclusivamente alla legge non conosce la creatività. Un ultimo elemento: l’autorità morale radicata nell’esperienza religiosa costituisce l’individuo nella sua unicità, ma non lo isola dalla comunità. Non crea degli «illuminati», sganciati da qualsiasi riferimento al gruppo con cui condividono l’esperienza religiosa. La convinzione intima che si ha davanti a Dio è un diritto inviolabile, che assegna alla coscienza convinta un primato assoluto. Essa non è tuttavia l’ultima istanza. La carità fraterna è l’orizzonte più universale, che supera anche i diritti della coscienza. Paolo ha formalizzato questi princìpi intervenendo nella questione del diritto dei cristiani di mangiare la carne sacrificata agli idoli (1 Cor 8). Il cristiano che ha incontrato il Dio vivente sa che gli idoli sono un nulla; in coscienza è perciò libero di mangiare la carne loro sacrificata. «Badate però — continua l’Apostolo — che questa vostra libertà non diventi pietra d’inciampo per i deboli... Peccando in tal modo contro i fratelli e offendendo la loro debole coscienza, voi peccate contro Cristo. Perciò se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò carne in vita mia per non scandalizzare il mio fratello».

È facile intuire quale incidenza possa avere il riferimento alla coscienza religiosa nella prassi professionale. Può, ad esempio, un medico trovare nel proprio vissuto religioso — nella sua esperienza religiosa privata o in quella della comunità di fede di cui è parte — un motivo per obiettare in coscienza contro prestazioni richiestegli? Certamente sì. Tuttavia l’articolazione delle considerazioni precedenti ci autorizza a dire che l’obiezione di coscienza per motivi religiosi deve essere trattata con estrema delicatezza. Essa mette in moto un insieme di gravi interrogativi circa la qualità e la profondità del vissuto religioso dell’individuo, il suo rapporto con l’istituzione religiosa, i diritti della verità e quelli della carità, le interferenze tra la coscienza del singolo e la legislazione sociale. La qualità etica e religiosa di un tale atto esige che sia trattato con il massimo rispetto, senza sollecitazioni subdole, senza pressioni indebite. Una delle acquisizioni etiche più indiscutibili su cui si basa la cultura umanistica è che l’uomo è fine, non mezzo. Questo principio acquista la sua massima forza quando è riferito a quell’atto che riconosciamo come più specificamente umano, vale a dire il comportamento motivato in coscienza, religiosa o laica che sia. L’obiezione di coscienza non deve essere strumentalizzata a servizio di qualsivoglia ideologia. Sarebbe una violenza fatta alla coscienza, un peccato contro lo Spirito.

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II.

FONDAMENTI ANTROPOLOGICO-TEOLOGICI

DELLA MORALE MEDICA CRISTIANA

INTRODUZIONE - Salute e cultura, oggi

La salute è diventata uno dei nodi cruciali della cultura contemporanea. Le polemiche scatenate dal varo della riforma sanitaria e della sua difficile attuazione (scioperi dei medici, disagi degli utenti dei servizi sanitari, degrado e burocratizzazione dell’assistenza) hanno contribuito a portare in primo piano nell’opinione pubblica i problemi organizzativi della sanità. Ma soprattutto matura lentamente la convinzione che al di sopra delle questioni di politica sanitaria campeggi il problema della salute dell’uomo, e che questo sia essenzialmente un problema di civiltà. Come suggerivano di recente i vescovi francesi in un documento dedicato al mondo della sanità, si sta operando insensibilmente uno slittamento tra due tipi di civiltà: mentre il XIX sec. metteva in risalto soprattutto il diritto al lavoro, il nostro tempo insiste sul diritto alla felicità. È uno spostamento di prospettiva che incide non solo sui problemi della salute, ma sulla concezione stessa dell’uomo.

Il problema della salute, al centro dell’opinione pubblica e delle preoccupazioni personali, sta diventando una discriminante culturale e politica. Su di esso si manifestano in tutta la loro diversità le concezioni antropologiche che sottendono la convivenza civile. Ciò crea tensioni, che fanno del mondo sanitario un luogo di vivaci conflitti. Ne osserviamo anzitutto in sede di programmazione economica. Le spese per la salute pongono all’economia politica di tutti i paesi ad alto sviluppo industriale problemi ardui. Aumentano ovunque in modo esponenziale, secondo una progressione geometrica, qualunque sia il sistema dei servizi adottato 47. I responsabili della politica economica si trovano di fronte

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al dilemma di conciliare la qualità del servizio con la sua efficacia ed economicità. La difficoltà del problema è costituita dal fatto che l’economia politica applicata alla salute deve tener conto di numerose variabili che trascendono l’ambito tecnico di questa disciplina. La salute e la malattia sono infatti realtà sociali che riflettono ogni minima variazione culturale, ivi compresi i cambiamenti che avvengono nella scala dei valori. Una politica della salute conduce inevitabilmente a delle scelte, determinate dagli orientamenti prioritari verso certe classi di età, verso determinate patologie o finalità sociali.

Mai, in ogni caso, una tale politica potrà lasciarsi guidare esclusivamente da considerazioni del tipo costi/benefici, perché la vita umana non è un bene omogeneo agli altri beni. Anche l’economia politica, quando deve decidere degli investimenti da fare, non può sottrarsi ad interrogativi di tipo etico. Questo è il motivo per cui in campo sanitario si scontrano così violentemente le ideologie. Il dibattito diventa più acceso quando si toccano temi come l’aborto o la pianificazione delle nascite o la cura dei tossicodipendenti, ma praticamente sottende qualsiasi decisione nel campo della salute. Qui vengono infatti a collisione i diversi progetti che si hanno sull’uomo, sul suo divenire e la sua felicità, nonché le diverse concezioni della società. I partiti politici sono aggressivamente presenti in questo settore: non possono infatti dimenticare che nella sanità pubblica l’aspetto organizzativo ha un’importanza capitale. Spesso coesistono interessi contrari: il liberalismo, sostenuto dal corpo medico, si scontra col centralismo tecnocratico, rappresentato dall’amministrazione, e con i progetti decentrati e partecipativi, promossi dai movimenti ad ispirazione socialista. Da quest’ultima area vengono anche le spinte più decisive verso il rifiuto della condizione di «assistito», tradizionalmente riservato al malato.

Coadiuvata dal processo psicologico di regressione che accompagna spesso l’installarsi della malattia, la condizione del malato è quella di colui che riceve. La dipendenza totale da chi gli presta le cure lo espone a molti arbitrii. Per difendere il malato e conferirgli un ruolo attivo, si parla ora dei suoi «diritti»; si cerca di diffondere informazione, affinché il malato non si rassegni, delegando in tutto il medico 48. La convinzione

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che la salute sia un prodotto industriale come un altro, il cui aumento dipende dal volume degli stanziamenti che si fanno nel settore, porta con sé anche l’attesa che il gruppo professionale che si occupa della salute gestisca in toto il settore. Un’educazione sanitaria accurata dovrebbe contrastare tale tendenza, permettendo all’individuo di affrontare da protagonista tutto quello che gli capita nel campo della salute. Questa è non solo un diritto da rivendicare alla società, ma anche un «dovere» che domanda un impegno positivo; una «virtù», come la chiama I. Illich. La salute non si può ricevere, bisogna «farla».

I conflitti a cui abbiamo accennato sono i più macroscopici. Al di sotto, uno sguardo accurato scopre che le questioni della salute confrontano l’uomo non solo con scelte sociali, politiche e ideologiche diverse, ma con il problema maggiore dell’umanesimo nella sua totalità: il rapporto che l’uomo ha con il suo corpo. I vescovi francesi nel documento «Il mondo della sanità e la chiesa» esprimono il problema di fondo in questi termini: «Se gli ‘utenti’ e i ‘professionisti’ vogliono veramente fare opera durevole, devono porsi contemporaneamente di fronte ai poli importanti dell’esistenza umana: le profondità psicologiche della sessualità e la precarietà di cui la morte è il momento essenziale. Nonostante siano sempre vissuti in una dimensione politica ed economica, questi due poli non si lasciano rinchiudere in queste dimensioni. In questo caso non si può barare, si è obbligati a prendere posizione di fronte a se stessi, si è portati ad accettare la propria condizione umana o fuggire in mille modi. Il processo interiore è identico, anche se ognuno lo vive secondo il proprio livello intellettuale. Ciò si spiega perché nel medesimo slancio curanti e utenti sono portati a porsi di fronte a un aspetto fondamentale del mistero dell’uomo: la precarietà dell’uomo e della società. Il mondo della salute nasce forse da questa tensione tra un’organizzazione che tende a soddisfare i bisogni dell’uomo, così come altre funzioni collettive, e un’aspirazione fondamentale a vivere, sopravvivere o vivere meglio. È forse questo il luogo dell’esperienza umana fondamentale, e tutto ciò che in esso si vive ne è immediatamente impregnato o la rimette direttamente in causa. E ciò, ben lungi dal chiudersi su un piccolo mondo, apre su un universo e crea una nuova mentalità».

Lo stadio attuale di civiltà industriale avanzata in cui ci troviamo ci pone di fronte al corpo, come luogo dell’esperienza esistenziale più pregnante, in modo diverso rispetto al passato. Abbiamo superato, forse definitivamente,

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il dualismo tradizionale che contrapponeva l’anima al corpo. In polemica con lo spiritualismo dualista — il corpo come pura materialità e l’anima come principio spirituale — il pensiero moderno ha ritrovato l’unità dell’uomo reale. La corporeità, vista come momento essenziale del soggetto, è la mediazione che rende il soggetto spirituale presente al mondo oggettivo e alla soggettività delle altre persone umane. Tuttavia oggi la nostra presenza nel mondo tramite il corpo è legata a varie forme di disagio. Si diffonde la convinzione che a un rapporto sbagliato con la natura, oggetto del vivace dibattito ecologico, si accompagni la perversione del rapporto con la concreta struttura biologica del nostro corpo.

La perdita dell’armonia corporea è una delle malattie più gravi della civiltà. Abbiamo disimparato il linguaggio delle funzioni vegetative. Il corpo sembra aver perso la sua trasparenza: ci è diventato estraneo, quasi nemico. L’alienazione ha assunto un aspetto biologico ben definito, che passa attraverso il rapporto che abbiamo col nostro corpo. «Riappropriazione del corpo» è diventato lo slogan di diversi movimenti culturali, che propugnano un salto nella qualità della vita. Riappropriarsi del corpo è il presupposto per vivere da protagonisti l’avventura della salute.

Come si situano i cristiani in questa questione cruciale per la nostra civiltà? Alla concezione materialistica dell’uomo che si diffonde nel mondo della sanità i cristiani non hanno da opporre uno spiritualismo esasperato, bensì la visione dell’uomo «totale» che deriva dalla storia della salvezza. L’attività terapeutica di Gesù resta il luogo privilegiato di questa riflessione. Il contributo antropologico che può offrire la teologia cristiana si articola essenzialmente sul concetto stesso di salute, alla luce dell’esperienza creaturale e di quella salvifica, e sull’apporto della fede e della comunità fraterna al processo della guarigione.

1. La salute nella storia della salvezza

1.1. Malattia e salute nella prospettiva dell’alleanza

Uno dei punti qualificanti dell’insegnamento e della prassi messianica di Gesù è il superamento della concezione biblica del legame tra malattia e peccato personale. Accenniamo solamente ad alcuni passi biblici, che dovrebbero essere esaminati dettagliatamente nel loro contesto: la malattia di Saul (1 Sam 16,14); punizione del servo cupido di Eliseo, colpito da lebbra (2 Re 5,27); malattia e guarigione del re Ezechia (2 Re 20,1-11);

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a proposito del re Joram (2 Cor 21,11-19); malattia e morte di Alcimo, che aveva preteso di abbattere il muro di separazione tra l’atrio degli israeliti e quello dei pagani (1 Mac 9,54-56); malattia e morte dell’empio Antioco IV Epifane (2 Mac 9,11-12); malattia mortale del re Nabucodonosor (Dn 4,28-30). Oltre che nelle precedenti narrazioni, il rapporto tra malattia e peccato personale è stato affermato anche da testi poetici (tra gli altri Sal 31(32),3-5; 37(38),4; Sir 38,15; Gb 22,5-14 che esprime la tesi degli amici di Giobbe, difensori della dottrina ufficiale del giudaismo). Le affermazioni sulla malattia come punizione del peccato, già ufficialmente categoriche nella Bibbia, sono state successivamente raccolte ed elaborate fino all’esasperazione negli ambienti religiosi giudaici. Se già gli amici di Giobbe interpretavano un caso di malattia secondo le regole: «Nessuna punizione senza colpa» e: «Dove c’è il patire c’è stato prima il peccato», in seguito il giudaismo portò agli estremi questa concezione. I giudei devoti affermavano che Dio vigila affinché peccato e punizione corrispondano alla regola: «misura per misura». Così la gravità della punizione cresce con la gravità del peccato: le più grosse catastrofi che possono capitare ai singoli o alla comunità, hanno per presupposto i più gravi peccati. Così non solo si presumeva di sapere quale disgrazia facesse seguito a determinati peccati ma si poteva anche risalire dalla sventura di un uomo al suo peccato! La malattia diventava un segno per riconoscere la colpa.

Gli ebrei al tempo di Gesù erano impregnati di queste concezioni. Nella guarigione del cieco nato ritroviamo in modo evidentissimo le tracce delle teorie dei rabbini. «Maestro — domandano i discepoli di Gesù ― chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché nascesse cieco?» (Gv 9 2). Gesù recide alla radice questa problematica, tipicamente di scuola: «Non ha peccato né lui, né i suoi genitori». Ugualmente rifiuta di credere che le vittime di Pilato e gli uomini schiacciati dal crollo della torre di Siloe siano stati puniti dalla disgrazia per loro particolari peccati (Lc 13-1-9). L’insegnamento di Gesù è categorico: se la malattia è un segno, non lo è necessariamente di una colpa personale, e perciò non è lecito inferire dalla malattia o disgrazia a un peccato antecedente 49. Il quale del resto, non offre un’opportunità per la vita religiosa. Ogni incontro di Gesù rifiuta con decisione la teoria della malattia come conseguenza di un peccato personale; ma non rifiuta con la stessa radicalità la prospettiva religiosa che vede nella malattia un segno della situazione dell’uomo davanti a Dio. È tipico, a questo proposito, il racconto della guarigione del paralitico (cfr. Mt 9,1-8). Perdono dei peccati e guarigione del corpo sono associati, senza per questo avallare le idee relative alla

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malattia come punizione. Resta dunque una certa relazione tra la sofferenza fisica e il peccato, anche quando si rinuncia a legarli come causa ed effetto. La teologia ha cercato di far luce su questo punto oscuro introducendo la nozione di peccato originale. Il dolore sarebbe la conseguenza non del peccato personale, bensì del peccato che tutta l’umanità ha compiuto mediante i progenitori. Nel linguaggio religioso popolare ricorre abitualmente questo tipo di «spiegazione». Non è opportuno affrontare qui la questione del rapporto tra malattia e peccato originale, che appartiene alle nozioni più radicalmente rimesse in questione dai teologi e dagli esegeti. Un approccio del problema più consono alla terminologia biblica e più accessibile alla mentalità moderna consiste nel considerare la malattia nella prospettiva dell’alleanza tra Dio e il suo popolo 50.

La prima osservazione che siamo portati a fare è che Israele ha, sì, accettato le categorie culturali che vedevano nei mali un intervento della divinità, ma le ha integrate nella sua idea della vita di fede come un rapporto di vassallaggio, che obbliga reciprocamente un signore — in questo caso Dio, Jahvé — e un suddito — il popolo d’Israele —. Alleanze di questo tipo venivano stipulate mediante formulari fissi, dei quali faceva parte una minuta elaborazione di benedizioni e maledizioni condizionali. Vale a dire, di benedizioni o maledizioni che seguiranno se il partner si atterrà o, al contrario, non si atterrà alle clausole stipulate. Valga come esempio particolarmente eloquente il c. 28 del Deuteronomio. Nei testi biblici in cui si parla di malattia come punizione, la malattia non è isolata, ma ricorre insieme ad altre calamità, quali la carestia, le cavallette, i nemici, ecc. E anche là dove la malattia ricorre da sola, è sempre la prospettiva di fondo dell’alleanza che bisogna presupporre.

Per entrare nella prospettiva biblica è importante rendersi conto che benedizioni e maledizioni non vanno considerate come premi e castighi estrinseci, usati pedagogicamente per tenere il partner umano nell’alleanza, ma sono parte integrante dell’alleanza stessa. L’alleanza infatti è finalizzata alla «salvezza» dell’uomo, e questa, in quanto salvezza per l’«uomo», non è disincarnata, ma lo investe nella sua dimensione terrena, corporea, concreta. Per questo la terra, la sicurezza dai nemici, la salute del corpo, il cibo e il vestito fanno parte della salvezza, sono la salvezza accordata da Jahvé al suo popolo. Finché Israele resta fedele al suo Dio non può che partecipare della salvezza, e quindi della terra promessa, della salute, della longevità, del benessere.

Evidentemente questa prospettiva non risolve tutti i problemi, anzi ne pone di particolarmente acuti. La sofferenza del giusto resta un enigma

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che non trova spiegazione adeguata in uno schema di natura giuridica, fosse pure quello dell’alleanza. Se le benedizioni sono intrinseche all’alleanza, lo scriba e il rabbino non vedevano come potessero venir meno, qualora non si fosse peccato contro Dio infrangendo così l’alleanza. Apparterrà agli scrittori sapienziali e ai salmisti di inquadrare il problema posto dalla sofferenza del giusto e di risolverlo, non rinunciando ai princìpi generali dell’alleanza, bensì approfondendoli. Il vertice di questa riflessione sarà raggiunto dal libro di Giobbe. L’importante è che il problema della sofferenza del giusto, che emotivamente tende ad accaparrare tutta l’attenzione, non offuschi il disegno di fondo dell’alleanza. Salute e malattia acquistano un senso religioso in quanto Israele è in relazione di alleanza con Dio. Esse entrano a far parte integrante del disegno di salvezza, come ne fanno parte la vita e la morte. Malattia, morte e peccato appaiono come realtà comunicanti e congiuranti contro l’uomo, dalle quali Dio lo libererà mediante la storia della salvezza che ha messo in atto. È appunto la prospettiva della storia della salvezza che permette alla malattia di svolgere la funzione di segno della condizione dell’uomo in alleanza con Dio.

La malattia dice relazione non solo all’uomo e al suo bisogno di salvezza, ma anche al piano di Dio che offre la salvezza. Come l’esilio e la schiavitù, essa appare come la realtà provvisoria, la cui sparizione sarà il segno dei tempi nuovi. Il significato religioso della malattia è legato non solo a un passato di peccato, ma anche a un avvenire di salvezza. Numerosi testi biblici ci parlano della malattia precisamente come della realtà che dovrà essere abolita all’apparizione dei tempi escatologici, che saranno anche tempi di guarigione. Nel mondo nuovo, inaugurato dalla nuova alleanza (cfr. Ger 31,31-34), la malattia sarà soppressa: non ci saranno più né ciechi, né sordi, né muti, né zoppi («lo zoppo salterà come un cervo»: Is 25,8; 65,19). In questi passi profetici la guarigione è messa in rapporto con la liberazione, l’abbondanza, la pace; anzi, la guarigione è adoperata come metafora per indicare la salvezza completa e perfetta. Se la parola di Dio è una parola per la vita, nella prospettiva della storia della salvezza bisogna considerare in modo privilegiato il momento in cui l’alleanza tra Dio e l’uomo ha stretto il suo nodo definitivo. Nell’esistenza umana e nella parola di Gesù si è reso manifesto quale è la vita che Dio intende per l’uomo. Solo una riflessione sul mistero della salvezza nella sua maggiore densità, vale a dire nella pasqua del Cristo, ci mostrerà come la sofferenza fisica possa cambiare di segno ed esprimere anch’essa, paradossalmente, la grande benedizione con cui Dio ha benedetto l’umanità.

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1.2. L’attività terapeutica di Gesù

Che la morale cristiana si costruisca a partire dalla vita e dall’insegnamento di Gesù sembra ovvio. Ogni insegnamento morale che si voglia cristiano cerca di agganciarsi a quella dottrina e a quella prassi. Il problema sorge quando confrontiamo le diverse accentuazioni, o addirittura le differenti interpretazioni di ciò che è essenziale nel cristianesimo. Troviamo così che nel mistero di Cristo alcuni accentuano prevalentemente la passione e la morte, vista come l’agire definitivo in ordine alla salvezza: con le sue sofferenze, col sangue e con la croce, Gesù ha redento gli uomini dal peccato. Altri invece sottolineano la prassi liberatrice di Gesù, che ha condotto una lotta contro il male in tutte le sue espressioni, nelle sue conseguenze come nelle sue cause.

La differenza di prospettiva è particolarmente evidente quando si parla del malato in riferimento a Cristo. Alcuni privilegiano la prospettiva che converge sulla croce, ritenendo che la sofferenza fisica collochi il malato in una situazione di particolare partecipazione alla passione di Cristo. Di qui l’identificazione abituale della malattia con la croce. D qui, anche, le esortazioni ad accettare la malattia come modo di continuare a soffrire con Cristo e di cooperare alla salvezza del mondo.

Ma dopo le prospettive aperte per la liturgia e la teologia dalla riconsiderazione del valore di salvezza proprio della risurrezione, anche la teologia morale non può più esimersi dal considerare il mistero del Cristo nella sua integralità. Il Cristo ci ha salvato compiendo la sua pasqua. Se consideriamo la salvezza come un evento connesso con l'intera vicenda personale del Cristo che compie la sua pasqua nella condizione umana, il raggio degli avvenimenti che portano e significano la salvezza si estende prima e dopo la croce. Gesù ha operato la salvezza dell’uomo non solo perdonandolo, ma dandogli vita in modo sovrabbondante; egli doveva non solo riparare una colpa, ma dare una nuova vitalità all’uomo. E la trasformazione dell’uomo non avviene senza l’azione dello Spirito nel cuore, quello Spirito che è dato da Gesù risorto. È tutta la vita di Gesù, culminante nella risurrezione, che è salvezza, comunicazione di vita nuova.

In particolare, l’attività terapeutica di Gesù non appare più marginale, o destinata soltanto a fornire carte di credito per l’annuncio della parola: essa fa parte integrante dell’opera della salvezza. Questa è, ds resto, la conclusione cui ci conduce la considerazione dei dati biblici 51.

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Essi documentano a sufficienza ché le guarigioni hanno costituito una parte importante del ministero di Gesù. L’evangelista Matteo così riassume l’attività di Gesù in Galilea: «Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e sanando ogni malattia e infermità del popolo. E giunse la sua fama in tutta la Siria, e gli portarono tutti i malati oppressi da varie malattie e tormentati, indemoniati, lunatici e paralitici, ed egli li guarì» (Mt 4,23-24). Anche se qui si tratta di un sunto del redattore, non viene infirmato il carattere storico della testimonianza secondo la quale Gesù svolse un’attività terapeutica a favore di tutti, guarendo da ogni specie di infermità.

Non solo l’universalità, ma anche l’abbondanza delle guarigioni è l’ambiente indispensabile per capire il Gesù dei vangeli. Ci colpisce la sproporzione numerica tra le pochissime guarigioni riferite dall’AT. e le tante riportate dal NT. Perché questa profusione improvvisa di miracoli? Il motivo è il momento particolare della storia della salvezza (il kairós) rappresentato dalla venuta di Gesù Cristo. Per capire il senso delle guarigioni miracolose di Gesù è illuminante il quadro costruito da Luca per dare solennità all’inaugurazione del ministero di Gesù. Il giovane rabbi prende la parola nella sinagoga di Nazaret. Legge dal profeta Isaia (61,1-2) quanto si riferisce all’attività del messia nell’anno della salvezza universale: «Lo Spirito è sopra di me; per questo mi ha consacrato, mi ha mandato a predicare ai poveri la buona novella, ad annunziare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi il recupero della vista, a mettere in libertà gli oppressi, a promulgare un anno di grazia del Signore». Gesù commenta la citazione profetica dicendo semplicemente: «Oggi si avvera per voi che mi ascoltate questa profezia» (Lc 4,21). L’anno giubilare ebraico (Lv. 25,8-18.23-55), con cui è raffigurata la salvezza escatologica, è iniziato; il grande sabato della fine dei tempi è arrivato. Le guarigioni di Gesù in giorno di sabato, così scandalose per i legalisti, volevano appunto alludere a questo grande anno sabbatico.

Le guarigioni, con il loro numero e la loro prodigiosità, hanno precisamente il compito di essere segno dei nuovi tempi che sono arrivati. In quanto segno sono un avvenimento indicativo di qualche cosa; l’elemento straordinario attira l’attenzione e la dirige sulla realtà nascosta, il regno di Dio, appunto, che sta venendo. Le guarigioni taumaturgiche di Gesù sono l’annuncio e l’inserzione nel tempo d’un ordine nuovo, quello escatologico e definitivo, inaugurato dai tempi messianici.

Quando i profeti annunciavano il regno futuro, ne descrivevano la venuta attraverso una serie di segni: la consolazione, l’abbondanza, la pace, la guarigione (Is 61,1-3; Mic 4,1-4; Ger 33,6; Is 35,5-6). Come l’esilio e la schiavitù, la malattia appare come la realtà provvisoria, la

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cui sparizione indicherà la venuta dei tempi nuovi. Con la guarigione sarà benedetto il popolo che entra nell’area dell’alleanza definitiva. Le malattie hanno, in generale, quella funzione di segno che Gesù attribuisce in particolare alla cecità del cieco nato: «Né lui, né i suoi genitori hanno peccato, ma è così affinché si manifestino in lui le opere di Dio» (Gv 9,3). La cecità ci appare qui come l’occasione nella quale Dio manifesta la realtà e la potenza della grazia nel quadro della missione di Gesù. La malattia non è spiegata: essa è là per essere vinta dall’intervento travolgente del Dio fedele all’uomo. Questa è l’interpretazione che Gesù dà esplicitamente della fioritura di guarigioni attorno alla sua persona. Rispondendo alla domanda perentoria della delegazione del Battista: «Sei tu quello che deve venire?», Gesù rimanda ai segni messianici ben conosciuti dai lettori della Bibbia: «Andate e riferite a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, ai poveri è annunciata la buona novella» (Mt 11,2-6). Per amore di chiarezza Luca, riportando lo stesso episodio, aggiunge: «In quel momento egli guarì molte persone da malattie, da infermità e da spiriti maligni e restituì la vista a molti ciechi» (Lc 7,21). L’elemento più caratteristico in queste guarigioni è che esse non vogliono essere un semplice ristabilimento della salute come equilibrio organico, ma espressione della venuta d’un ordine nuovo, in cui il male non ci sarà più. Per questo le guarigioni sono così spesso collegate con il perdono dei peccati. È un segno che Dio, attraverso il suo Spirito, riprende possesso di tutta la creazione che gli si è alienata.

Il perdono dei peccati ha dunque lo stesso significato della guarigione. Questa concretizza il perdono (cfr. soprattutto Mc 2,1-12); ma l’uno e l’altro insieme attestano la venuta dei tempi nuovi in cui gli uomini sono guariti e perdonati, liberati e saziati. Le guarigioni di Gesù sono un vero atto di salvezza, la conseguenza necessaria della nuova alleanza: dopo aver dato all’uomo un cuore nuovo, ecco che Dio «fa nuove tutte le cose» (Ap 21,5). Anche questi segni della salvezza partecipano della tensione tra «già» e «non ancora» che è propria del momento attuale della storia sacra. Se, da un lato, Cristo ha vinto la morte (e la malattia) nella propria risurrezione, dall’altro è chiaro che non l’annienterà definitivamente che alla sua parusia (cfr. 1 Cor 15,26). I vangeli stessi ci aiutano a non interpretare in modo trionfalistico i segni del regno. Sottolineano che tali segni si realizzano in un contesto così sprovvisto di potenza, che possono diventare tanto occasione di scandalo, quanto occasione di fede (Mt 11,6). Le guarigioni operate da Gesù non sono destinate a inaugurare in modo glorioso un’èra di felicità sulla terra, sul tipo

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dei miti millenaristici, ma solo a porre dei segni della presenza del Figlio dell’uomo e della prossimità del regno. Il Figlio dell’uomo non realizza la sua missione terrena trionfalmente. Si comporta precisamente in quel modo umile e inglorioso con cui Isaia aveva tracciato il destino del «servo sofferente di Jahvé» (Is 42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13; 53,12). La missione di Gesù è stata una missione salvatrice condotta nella debolezza umana pienamente abbracciata. Gesù guarisce, ma lo fa caricandosi della miseria umana. A tal punto, che il «segno» decisivo non saranno le guarigioni delle malattie, ma il «segno di Giona» (cfr. Mt 12,38-40), cioè la croce e la risurrezione.

1.3. Gesù e il male fisico

Nella vita di Gesù possiamo individuare due risposte alla provocazione del male fisico: quella del profeta-terapeuta che guarisce per annunciare e instaurare l’ordine nuovo, e quella del servo di Jahvé che trasforma il dolore facendone un momento della salvezza. Tra i due atteggiamenti è possibile una sintesi superiore, dialettica, alla luce del mistero pasquale nella sua interezza. Se consideriamo l’opera di Gesù dal punto di vista del mistero pasquale, dobbiamo tener presenti gli elementi che costituiscono la categoria biblica della pasqua. Li possiamo sintetizzare in questa espressione: da una situazione di morte (schiavitù, peccato, alienazione), per opera di Dio, scaturisce una vita nuova. Questo è il significato della prima pasqua: un passaggio dalla schiavitù in Egitto e dalla condizione di «non-popolo» alla condizione di «popolo di Dio», grazie all’intervento travolgente e gratuito di Jahvé (cfr. Dt 7,7-8). Gli stessi elementi ritroviamo nella pasqua di Gesù, quella che darà origine all’alleanza nuova e definitiva. Solidarizzatosi con gli uomini, egli ha voluto operare, per sé e per tutti, un passaggio dallo stato di lontananza da Dio — che il linguaggio biblico descrive come «secolo presente», sotto il potere di satana — alla condizione di perfetta alleanza con Dio, cioè di «figli di Dio», sempre secondo il linguaggio della Bibbia. Ma la pasqua di Gesù non è stata opera di potenza folgorante: egli ha accettato la condizione umana di impotenza di fronte al male e l’ha vissuta senza deflettere minimamente dal dono di sé al Padre e ai fratelli. Il valore di salvezza insito nella vicenda umana di Gesù — che raggiunge l’apice nella passione e nella morte — consiste nel fatto che diventa espressione dell’amore fedele al Padre e agli altri uomini: un amore tanto più radicale, quanto è più totale la debolezza in cui si esprime, fino a quel vertice unico di fedeltà e di debolezza proclamato dal grido di Gesù morente: «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito» (Lc 23,46). In risposta

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a questa fedeltà «Dio ha costituito signore (Kyrios) e messia» questo Gesù crocifisso dai suoi (cfr. At 2,36) e lo ha reso sorgente di spirito e di vita nuova per tutti (cfr. 1 Cor. 15,45). In questo senso preciso le sofferenze di Gesù e la croce sono state redentrici.

Il dinamismo pasquale della vita del Cristo rende ragione di ambedue gli atteggiamenti di fronte al male fisico: la lotta a oltranza di Gesù terapeuta e l’accettazione di Gesù quale servo di Jahvé. Gesù ha voluto lottare contro il male, perché la salute è una delle «benedizioni» della nuova alleanza e il suo recupero è uno dei segni della vicinanza del regno, anzi del fatto che il regno è già presente nel mondo come lievito nella pasta (Mt 13,33). Ma ha lottato senza adottare un atteggiamento di titanismo, bensì nella debolezza umana. Ha impedito però che il male lo allontanasse dal Padre; ne ha fatto anzi il mezzo per dimostrare un amore fedele a oltranza, assumendo il dolore nella sua vicenda pasquale. Con ciò Gesù ha vinto realmente il male fisico nel suo aspetto più pericoloso, cioè quello di bloccare il progetto esistenziale umano nella sua maturazione in senso personale e sociale. Per questo il credente può lanciare, con s. Paolo, la sfida: «Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» (1 Cor 15,55). Il male fisico non deve esistere e un giorno, nel regno — anticipato ora nel corpo glorioso di Gesù — non esisterà più. Se esiste ancora — in quanto la «consumazione» non è ancora venuta — esso è vinto, perché può diventare espressione di amore fedele in colui che non si lascia sviare dal suo atteggiamento di dedizione di se stesso sul modello di quello di Gesù. Non è facile sintetizzare l’atteggiamento di Gesù di fronte al male fisico in una sola espressione. Dopo la considerazione della dialettica pasquale, non possiamo parlare semplicemente di lotta contro il male o semplicemente di accettazione: rischieremmo di deformare il messaggio biblico, mutilandolo. Quel che è certo è che nella vita di Gesù trova espressione concreta e visibile quella «costanza» (hypomoné) nella quale i primi cristiani hanno individuato, a livello morale, la novità cristiana nel mondo 52. Questa novità sono chiamati a vivere, anche quando sono colpiti dalla malattia, coloro che si sono messi alla sua sequela.

2. La fede che guarisce

In tutte le società arcaiche il potere sul corpo è di pertinenza del sacro

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e l’uomo di religione amministra poteri terapeutici che riguardano tanto il corpo che l’anima. Alla religione è riconosciuta un’efficacia terapeutica ovvia, dal momento che mette in contatto con l’onnipotenza divina. La guarigione nell’ambito dell’esperienza religiosa è assunta tipicamente nella categoria del miracolo. Nel quadro di riferimento proprio dell’esperienza religiosa, il miracolo — inteso non solo nel senso tecnico dell’apologetica, ma in generale quale segno dell’irruzione del divino nell’ambito dell’umano — non è un evento straordinario, bensì assolutamente ordinario. Nella cultura occidentale, parallelamente allo sviluppo dell’idea di «natura» e di un «ordine naturale» in cui si sviluppano i fenomeni, ha prevalso l’accezione del miracolo come avvenimento eccezionale, che esula dalla normalità prevista dalle leggi note all’uomo. L’apologetica cristiana si è inserita in questa prospettiva e ha utilizzato il miracolo come argomento contro il razionalismo, per dimostrare in maniera inconfutabile, proprio perché basata sulla ragione stessa, che il miracolo configura una infrazione delle leggi della natura ad opera della causa soprannaturale.

L’approccio apologetico delle guarigioni che avvengono nell’ambito dell’esperienza religiosa manifesta palesi carenze. Deve prendere in considerazione, anzitutto, un numero molto ristretto di guarigioni straordinarie, quelle cioè che, secondo i criteri scientifici, non possono essere attribuite a cause «naturali». L’interesse si concentra su alcune poche guarigioni straordinarie incontestabili (per l’argomentazione apologetica è sufficiente, al limite, dimostrare l’esistenza di un solo miracolo indubitabile!). Si evita accuratamente tutto ciò che cade sotto il sospetto di isteria o di suggestione, eliminando in tal modo tutto il settore, così importante dal punto di vista del vissuto esistenziale, delle affezioni funzionali o psicosomatiche. Fra le guarigioni miracolose si ritengono solo quelle che si riferiscono a malattie organiche certe, evidenti, giudicate inguaribili da numerosi medici; la guarigione stessa deve essere caratterizzata da istantaneità o da stupefacente rapidità. L’ufficio medico di Lourdes e noto per la rigidità con cui seleziona le guarigioni che aspirano a farsi riconoscere come miracoli. Solo poche pretese guarigioni miracolose resistono al vaglio degli eminenti medici preposti a quel comitato; e tra queste molte vengono poi scartate successivamente dai vescovi responsabili del giudizio canonico. Questa concezione è soggetta a una critica teologica. È responsabile, infatti, di un impoverimento della categoria antropologico-religiosa del miracolo, se la confrontiamo con il senso che esso ha nella Bibbia 53.

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Già nell’A.T. l’elemento distintivo del miracolo non sta nel carattere prodigioso e stupefacente, bensì nel potere di rivelazione — vale a dire, Dio che si manifesta nelle sue opere — che esso contiene. Il vero miracolo è Dio stesso, che si rivela in ciò che fa per l’uomo. In alcuni momenti, tuttavia, l’esperienza del rapporto tra Dio e l’uomo, nell’alleanza, si intensifica; e la religiosità popolare riconosce nei segni teofanici, o miracolosi, questa presenza più intensa. Anche il N.T., specialmente il vangelo di Giovanni, presenta il miracolo ricorrendo alla categoria di «segno», riferito alla presenza salvifica di Gesù come messia, che si propone alla fede del credente.

Un risultato positivo della difesa da parte della chiesa delle caratteristiche apologetiche delle guarigioni miracolose è stato quello di acuire lo spirito critico e di tenersi a distanza dai pericolosi estremismi delle sètte. Nell’ambito delle sètte, anche a denominazione cristiana, l’uso della fede per ottenere guarigioni miracolose è degenerato spesso in macchinazioni di fanatici ed estatici, grossolano disprezzo di fattori corporali, uso di violente suggestioni primitive, attraverso le quali si suscita un legame di schiavitù col guaritore, fanatici tentativi di esorcismi, confinanti con la superstizione 54. Un valore quasi tipico ha assunto la «Christian Science». La fondatrice, Mary Baker, personalmente debole di salute e sofferente, s’interessò di magnetismo e di omeopatia, insieme alla meditazione della Bibbia. Andò sempre più convincendosi che non sono le medicine a guarire, ma la fede dell’infermo, perché tutte le malattie hanno la loro causa in un turbamento dello spirito. Nel 1875 pubblicò un libro, Science and Health, che divenne normativo'per i suoi seguaci; l’anno seguente fondò la «Christian Science Association», da cui si sviluppò in seguito una chiesa. Gli «scientisti» non hanno sacerdoti o pastori, ma soltanto dei lettori, che durante le riunioni leggono la Bibbia e il libro della fondatrice, e infermieri, detti practitioners, che guariscono gli infermi col loro «metodo mentale». La dottrina scientista, di tendenza panteista, insegna che l’unica realtà è lo spirito di Dio. Il peccato, la materia e la morte non sono reali, bensì illusioni che diventano potenze solo per l’uomo che dimentica Dio e sprofonda nei godimenti materiali dei sensi. Le malattie si devono curare togliendo queste illusioni dalla mente dell’uomo.

Una concezione così radicale non corrisponde al «sensus fidei» sottostante alla pratica della preghiera per la guarigione, costantemente tenuta

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viva specialmente nel cristianesimo popolare. La fede nella guarigione in risposta alla preghiera come fatto normale nella vita del credente (secondo le promesse di Cristo in Mc 16,17-18 e Gv 14,12) si è sempre coniugata con un rispetto delle cause seconde. Ciò ha premunito dal diffondersi di atteggiamenti miracolistici e pratiche aberranti, in cui il superamento del razionalismo medico diventa sfida alla ragione, disprezzo dei fattori corporei, e i carismatici difficilmente si distinguono dai ciarlatani.

Di recente un forte impulso a riscoprire la componente terapeutica della fede è venuto dal movimento carismatico 55. Esso ha le sue radici nel pentecostalismo: non tanto quello originario, sorto in America agli inizi del secolo, colorato di settarismo e incline alle manifestazioni spettacolari, bensì quello più moderato sviluppatosi negli ultimi decenni, disposto a restare nelle chiese storiche e ad animarle dall’interno. A partire dagli anni ’70, il movimento pentecostale, o rinnovamento dello Spirito, è diventato un fatto ecclesiale considerevole anche all’interno della chiesa cattolica, coinvolgendo tanto la base quanto la gerarchia.

Una delle pratiche più singolari riproposta dal movimento è appunto quella della guarigione mediante l’imposizione delle mani e la preghiera. Punto di riferimento è la comunità cristiana primitiva, delle cui pratiche terapeutiche carismatiche siamo abbondantemente informati dagli Atti degli Apostoli. I primi cristiani, a loro volta, si rifacevano alla prassi di Gesù stesso, nel cui ministero profetico le guarigioni sono state uno dei principali «segni dei tempi» messianici (cfr. Lc 4,16-22). Il ministero della guarigione fa parte del mandato missionario di cui è investita la chiesa (Lc 9,1-2; 10,8-9).

L’ambito terapeutico della fede si estende ad esperienze umane che trascendono la guarigione medica o il miracolo apologetico. Il fatto antropologico che è toccato dalla forza guaritrice della fede è, più che la malattia in senso clinico, quel «mal-essere» come fenomeno globale che investe il corpo, la psiche e lo spirito dell’uomo 56. La guarigione è un

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processo che comincia dall’interno per riflettersi sul corpo malato. Ha inizio con l’intimo risanamento spirituale, vale a dire con l’esperienza di essere stati afferrati da Gesù e posti nella vita stessa della famiglia di Dio. Questa conversione è come una nuova nascita, ed equivale al battesimo nello Spirito Santo. Dalla certezza della presenza della salvezza nella propria esistenza scaturisce una forza nuova per affrontare i mali della vita, presente e passata. Qualsiasi esperienza di rifiuto, oppressione, non-amore può essere guarita, comprese le ferite provocate dalle esperienze passate (la «guarigione delle memorie»). I carismatici amano parlare della potenza terapeutica della pace di Gesù. Quando la coscienza è piena d’amore, di gioia, di pace, di pazienza, di bontà, di benevolenza, di fede, di dolcezza, di padronanza di sé (cioè di quelli che Paolo in Gal. 5,22 chiama i «frutti dello Spirito»), possiede una forza di guarigione contro ogni male, compresi quelli fisici.

In questo tipo di guarigioni un ruolo decisivo gioca la comunità. Essa assicura un ambiente di amore e di sollecitudine, in vista del sostegno fraterno del singolo. Allora la guarigione arriva al suo pieno sviluppo, fino ad essere cioè guarigione delle relazioni. Credendo in sé e negli altri, accettandosi e sentendosi accettato, il credente è motivato a sperare non solo in un semplice ristabilimento della salute, ma in una vita qualitativamente diversa. L’imposizione delle mani, che ha luogo durante la preghiera, esprime simbolicamente la comunione cristiana intorno a chi soffre e aiuta a visualizzare l’energia terapeutica che circola nella comunità. La pratica della guarigione attraverso la preghiera apparirà meno singolare qualora si consideri l’uomo nella reale unità psico-fisica-sociale della sua esistenza. Se già, come qualcuno ha osservato, il cinquanta per cento di ogni psicoterapia consiste in un rapporto diretto e caloroso col paziente, come si può sottovalutare l’effetto psico-somatico di un’esperienza come quella che assicura il gruppo di preghiera? L’attenzione si sposta così all’altro elemento antropologico fondamentale della morale medica cristiana: la comunità e il ruolo che essa svolge nella guarigione.

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Prima, tuttavia, di parlare della funzione terapeutica della comunità, un ultimo accenno ad alcuni problemi etici connessi con il ricorso alla fede e alla preghiera per la guarigione 57. È necessario, in primo luogo, che la pretesa di guarire con la fede non si risolva in un danno della salute. Il principio classico del primum non nocere, come imperativo etico di chiunque svolge un compito terapeutico, è del tutto pertinente anche in questo campo. La salute, o addirittura la vita, possono essere minacciate quando si dilaziona o si tralascia l’intervento medico. Le cure religiose possono essere complementari o addizionali alle cure mediche, ma non sostitutive, se non si vuole perpetrare gravi danni fisici. Ciò è avvenuto quando, per esempio, casi di anoressia mentale o di isteria sono stati trattati come possessioni diaboliche e sottratti alla competenza medica, con pregiudizio della salute. E anche con pregiudizio della fede, che viene accusata di incrementare atteggiamenti oscurantisti.

Un secondo problema etico che si pone al medico è quello dell’interferenza tra le proprie convinzioni circa le guarigioni per fede e quelle del paziente. I pregiudizi possono essere tanto in un senso, come nell’altro. Chi non crede nel potere terapeutico della fede può vedere i guaritori religiosi o come sinceri e disinformati, o come coscientemente ingannatori e interessati; nell’uno come nell’altro caso, tenderà a dissuadere dal farvi ricorso. Chi crede nelle guarigioni religiose e le pratica, invece, tenderà a comunicare agli altri questa sua personale convinzione, e magari a far del proselitismo. In ogni caso l’onestà richiede che si sappia distinguere tra ciò che si conosce come rispondente a verità, e ciò che si spera o si crede che sia vero.

3. La comunità integrante

Tra i poteri che ha la malattia, uno dei più temibili è quello di separare l’individuo colpito dalla comunità di appartenenza. Nei contesti culturali religioso-sociali l’esclusione è collegata con la rappresentazione della malattia come punizione di una colpa. Il mondo greco ha espresso questa convinzione con un mito legato alla figura di Filottete, protagonista di uno dei drammi più umani di Sofocle. Il grande arciere era stato morso durante la guerra dal serpente che stava a guardia del sacrario della dea, nell’isola di Crise. La ferita si rivelò inguaribile. Il poveretto, in preda ad atroci dolori, gridava in maniera tanto angosciosa che i suoi lamenti demoralizzavano l’esercito greco. Ma il ferito Filottete era più che un

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elemento di disgregazione dell’efficienza bellica: era un segnato dagli dei. Con la sua presenza di malato contaminava la spedizione. Se era respinto dall’Olimpo, bisognava respingerlo anche dalla comunità degli uomini. Mettersi dalla parte di colui che gli dei avevano colpito avrebbe significato sfidare la divinità. Perciò, su consiglio di Ulisse, Filottete fu abbandonato nell’isola di Lemno 58. Non solo nella cultura greca la malattia e la disgrazia erano punizioni per l’offesa recata a forze sacre e terribili; anche nel mondo biblico la malattia viene interpretata come segno di una rottura nei rapporti tra Dio e l’uomo. Il Vecchio Testamento considera la malattia quasi esclusivamente come giudizio punitivo di Dio per i peccati. Solo con Gesù, come abbiamo visto, viene contestata l’equiparazione della malattia a segno di una colpa personale.

La malattia e la disgrazia pongono colui che è colpito al di fuori della comunità dell’alleanza. Giobbe, seduto sul letamaio, ne esprime simbolicamente la condizione all’interno del popolo di Dio. Finché non sarà guarito, non potrà essere reintegrato. I lebbrosi non erano cacciati via dal consorzio civile per motivi igienici. Quel che premeva era esprimere in modo netto che la comunità dei santi prendeva le distanze da chi portava nella carne il segno del giudizio di Dio.

La tendenza alla segregazione si acutizza in alcuni movimenti religiosi al tempo di Gesù. Già i farisei tendevano a escludere dalla comunità escatologica tutti coloro che non osservassero alla perfezione la Torah. Gli esseni portavano alle estreme conseguenze i princìpi della loro matrice farisaica. Escludevano dalla loro comunità indegni e imperfetti; e non tolleravano nelle assemblee liturgiche coloro che fossero affetti da imperfezioni fisiche. Diceva testualmente la regola della comunità: «Tutti coloro che sono colpiti nella carne, storpiati ai piedi o alle mani, zoppi o ciechi o sordi o muti o visibilmente imperfetti nel fisico; ovvero un vecchio decrepito che non sa reggersi in piedi nella comunità riunita, costoro non possono venire a porsi in mezzo all’assemblea degli uomini del Nome, perché i santi angeli sono nella comunità» 59.

In contrasto marcato con queste concezioni risalta l’opera di Gesù. Egli ha rifiutato di realizzare la comunità messianica del «resto di Israele» basandosi sul principio della emarginazione. Fu scandaloso, provocatorio e perturbatore lo spettacolo di Gesù che rifiutava le tipiche pretese farisaiche ed esseniche di realizzare il «santo resto» per esclusione e si rivolgeva di preferenza proprio a coloro che venivano messi ai margini

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delle comunità dei perfetti. Il suo annuncio era di una grazia senza limiti e senza condizioni; predicava Dio come padre dei deboli e dei perduti, benevolo verso i peccatori (cfr. Lc 15,7.10). E guariva tutti (cfr. Mt 4, 23-24; Mt 14,34-35). Quel «tutti», più che in senso quantitativo e statistico, va preso nel senso che Gesù guariva malati di ogni sorta, di tutti gli ambienti, senza discriminazioni preliminari. Proprio questo era scandaloso per i suoi avversari, e doveva essere recepito come un’audace infrazione delle regole di purità religiosa 60. Lasciarsi toccare da quelle folle innumerevoli ed eterogenee era un’abominazione dal punto di vista dei farisei e degli esseni. La prassi messianica di Gesù era basata sull’integrazione, e non sulla segregazione. Nei sistemi sacrali in cui vige la distinzione puro/impuro, la comunità si difende dalle tendenze disgregatrici escludendo chi non corrisponde alle esigenze legali di purezza. Ha bisogno, in un certo senso, di impuri ai suoi margini, per mantenere compatto l’organismo comunitario. È un principio che sopravvive alla caduta della mentalità sacrale: anche nelle società basate sull’efficienza avviene un’emarginazione o eliminazione di coloro che sono al di sotto dello standard competitivo.

L’opera messianica di Gesù avviene nella comunità ed è diretta alla comunità. È la base su cui si costruisce il popolo di Dio dei tempi escatologici. «Nella missione e nel messaggio di Gesù Cristo la sua opera di guarigione non era una conseguenza secondaria, ma il vero e proprio mezzo per proclamare, istituire e ampliare la nuova èra, sotto la signoria di Dio. L’attività terapeutica del Cristo non era in primo luogo un’azione privata tra l’uomo e Dio, una prova spirituale individuale e una ricompensa per il malato, bensì un «segno efficace». Le guarigioni non erano unicamente segni efficaci in cui Cristo e il guarito fossero i soli attori, bensì segni a cui tutti i presenti prendevano parte, non ultimi quelli che deridevano. Erano segni efficaci pubblici» 61.

I miracoli di guarigioni non avvengono solo «di fronte» al pubblico. «Tra di voi» ha un carattere più pregnante: essi, il pubblico, sono il malato che è curato. Il malato rappresenta la loro malattia, l’esclusione è il sintomo. Le guarigioni operate da Gesù sono giudizio e risanamento

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della comunità in cui avvengono. La malattia di un individuo è una forma di crisi, espressa dall’emarginazione, che offre a tutto il gruppo una possibilità di bene o di male. È un’opportunità di grazia che termina in un nuovo equilibrio, vale a dire un legame comunitario rinsaldato. Gesù che guarisce è quello stesso che, risorto, ai discepoli di Emmaus e agli apostoli in riva al lago dopo la pesca si rivelerà come Maestro nella condivisione (cfr. Lc 24,13-35 e Gv 21,1-14).

Facendo memoria dell’attività terapeutica di Gesù, la comunità cristiana si interroga sulla propria funzione nel campo della sanità. Il punto di partenza della sua azione è la constatazione che anche oggi, sotto nuove forme, la malattia opera come elemento disgregante dei legami sociali.

Gli sviluppi del servizio sanitario hanno portato a privilegiare le strutture pubbliche, in primo luogo l’ospedale. Quando pensiamo al malato, l’immagine che ci viene spontaneo evocare è quella del degente all’ospedale, separato dalla famiglia e dalla società, inserito in una struttura di assistenza che si occupa di lui finché non può essere restituito alla sua vita normale. Parallelamente al progresso dell’intervento pubblico, si son venute atrofizzando le strutture terapeutiche tradizionali, vale a dire la famiglia e i vicini. Anche se ricoverato in un ospedale attrezzato ed efficiente, e perfettamente accudito, il malato si sente un isolato, penosamente rigettato ai margini della collettività. Ciò soprattutto quando la malattia si stabilizza e non ci sono più speranze di remissione. Oggi ci si rende conto che la soluzione ai problemi più gravi della sanità esige una risposta comunitaria e il potenziamento dell’interdipendenza. Così per il problema degli anziani, della malattia mentale (per la prevenzione e la guarigione di queste malattie le relazioni personali sono indubbiamente il fattore più importante), degli handicappati.

Il principio che segretamente ispira il rinnovamento della presenza ecclesiale nel settore della sanità è proprio il recupero di quell’aspetto delle guarigioni di Gesù che faceva di esse una parabola della famiglia di Dio dei tempi messianici, in cui gli emarginati sono integrati. Il rinnovamento del rito dell’unzione degli infermi, voluto dal Concilio (L.G. 11; S.C. 73) e realizzato dalla congregazione per il culto divino (1972), va in questo senso 62. Le norme teologico-pastorali che precedono il rito lo inseriscono in un ampio contesto di gesti e iniziative pastorali che tendono al pieno reinserimento del malato nella comunità, in netto contrasto col processo di emarginazione. La comunità si stringe solidarmente attorno al malato che difende la vita per poter continuare a donarla. Questo è il significato antropologico ed ecclesiale del sacramento degli infermi.

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Non «estrema unzione», rito del passaggio cruciale attraverso la morte, come era diventato in pratica; bensì evento che attualizza la dimensione comunitaria del piano di Dio per la vita. La comunità cristiana abbraccia il fratello per trasmettergli la forza di Colui che ha vinto le potenze distruttive che disgregano la persona umana e la spingono ai margini della società. Tale gesto fraterno è destinato a servire alla vita. Forse alla vita del corpo; certamente serve alla vita nello Spirito d’amore. Questo sacramento chiede pertanto d’essere celebrato quando il malato si trova nel pieno della lotta per la vita — non è quindi, di per sé, il sacramento dell’agonia, che di questa lotta è l’ineluttabile conclusione —; esso rivela inoltre tutto il suo senso quando è celebrato in forma comunitaria, così come in più parti si va sperimentando.

Il servizio che la comunità dei credenti in Gesù può rendere a coloro che la malattia emargina, al fine di integrarli con gesti religiosi, non si esaurisce nella celebrazione del sacramento dei malati. Anche la visita e la comunione frequente contribuiscono a rinsaldare i legami umani con la comunità. Le istruzioni contenute nel rituale per il sacramento dell’unzione e per la cura pastorale degli infermi raccomandano: «Tutti i cristiani devono far propria la sollecitudine di Cristo e della chiesa verso gli infermi. Cerchino quindi, ognuno secondo le possibilità del proprio stato, di prendersi cura premurosa dei malati, visitandoli e confortandoli nel Signore e aiutandoli fraternamente nelle loro necessità». Nella comunità cristiana la preghiera comune resta il modo fondamentale per esprimere la solidarietà e per stringere i legami. Nella preghiera dei fedeli durante la liturgia domenicale una vera comunità, oltre al ricordo dei malati in generale, saprà indicare alla sollecitudine dei fratelli quelli in particolare che la malattia ha messo in grave stato di necessità.

Un modo di tradurre in pratica il nuovo senso di solidarietà con i malati che s’instaura all’interno della comunità cristiana può essere l’attività di volontariato. Il volontariato è di casa nella chiesa. Basti pensare al servizio ai poveri e ai malati svolto dalle conferenze di S. Vincenzo. Negli ultimi anni, tuttavia, il volontariato è diventato di particolare attualità. Una vivace polemica sulla dialettica «pubblico»-«privato» ha portato a proposte estreme e unilaterali: o tutta l’attività assistenziale allo Stato, o tutta alla libera iniziativa. Il volontariato è diventato in tal modo il pomo della discordia per coloro che pensavano in termini di alternativa. Negli anni ’70 si è avuta una vera e propria campagna di opinione contro ogni espressione che non fosse rigidamente statuale e un’azione di emarginazione nei confronti degli interventi di volontariato. Attualmente tende ad affermarsi un’immagine più articolata del «sociale», che supera la diatriba e valorizza il pluralismo. La comunità cristiana

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si trova in prima linea nella ridefinizione del volontariato socio-assistenziale 63. Esso costituisce un superamento dell’eccesso di burocratizzazione della vita quotidiana, una proposta di nuova qualità della vita, una riorganizzazione soggettiva del rapporto lavoro-tempo libero. Per la soluzione di alcuni problemi sociali acutissimi (si pensi ai drogati, agli handicappati, agli anziani, all’umanizzazione delle strutture ospedaliere...) il volontariato fornisce una risposta originale e insostituibile. L’attività volontaristica apporta inoltre un correttivo alla mentalità di Welfare State, che conduce alla progressiva deresponsabilizzazione della popolazione e al vertiginoso dilatarsi della spesa pubblica in servizi socio-sanitari gestiti dagli enti statali. Attraverso il proprio coinvolgimento, i cittadini vengono rieducati al senso di responsabilità. Anche la legge che ha introdotto in Italia la riforma sanitaria ha sancito il diritto del volontariato come uno dei soggetti abilitati a concorrere all’attuazione della riforma stessa.

Oggi, quindi, il dibattito si sposta dalla validità dell’esistenza del volontariato ai suoi aspetti e modalità; in particolare, all’articolazione dell’intervento volontaristico con il lavoro del personale delle istituzioni e alla formazione dei volontari. L’ingenuità e lo spontaneismo di chi fa un’opera di volontariato tanto per fare qualcosa non sono ammissibili nel campo della sanità, dove si interferisce continuamente con i più delicati problemi posti dalla sofferenza.

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III.

PROBLEMI DI ETICA DELLA VITA FISICA

1. La tutela della vita

1.1. Il valore della vita

Sin da quando l’uomo ha potuto riflettere sulla condizione del suo esistere, ha percepito che un mistero grande ed ineffabile avvolge la sua vita. Essa gli sfugge e lo affascina, lo incuriosisce e lo meraviglia. Per darsi risposte meno inadeguate sul nascere, il vivere e il morire, l’uomo si affaccia alla comprensione dei problemi della sua vita con un atteggiamento di rispetto per il mistero che essa contiene: colloca la vita nell’orizzonte di quelle realtà sacre che possono essere comprese, ma mai per intero.

La santità della vita è la prima categoria che introduce nella riflessione sull’esistere umano. Questa santità, però, viene percepita non solo come esigenza di fronte al mistero; essa viene rivelata e comunicata all’uomo, quando egli si apre alla luce con cui Dio gli illumina il cammino.

La santità della vita, la sua sacralità, è il cuore della rivelazione cristiana. In essa Dio è il Vivente. La vita è sua prerogativa. Egli ne è la fonte e l’origine. L’Antico Testamento esprime questa fede profonda quando attesta che «Jahweh vive» (Sal 18,47). Su questa fede, più che su speculazioni metafisiche, si fonda l’esperienza di Israele, che riconosce la «vitalità» del suo Dio nella creazione, nella storia della salvezza e nel governo personale con cui Dio circonda, accompagna e guida il suo popolo.

Se la vita è anzitutto prerogativa di Dio, se Egli è il «vivente in eterno» (Dt 32,40), Colui che ha la vita da se stesso (Gv 5,26), in contrasto con gli idoli (Abac 2,19), l’uomo attinge alla fonte della vita che è Dio e diventa anch’egli un vivente. Dio che fa morire e fa vivere (Dt 32,39), effonde il suo soffio e tutto prende vita. Tutte le creature debbono la loro esistenza all’alito di Dio (Gn 2,7). Esse piombano nel nulla se Dio ritira il suo sostentamento vitale, «diventano cadaveri, ritornano nella loro polvere» (Sal 104,29). A differenza di ogni altra creatura, l’uomo partecipa in modo del tutto singolare alla prerogativa di vita che è propria di Dio. Anche se è un essere creato, come tutte le altre cose, l’uomo porta in sé un’impronta maggiormente luminosa della vita che Dio come Signore gli dona. Egli è «immagine» (Gn 1,27) del Dio vivente, creato per diventare simile al suo Creatore. Perciò la vita che egli porta

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in sé non è comprensibile nella sua totalità, se non in stretto riferimento al Dio dal quale ha origine ogni vita (At 17,25).

Il Nuovo Testamento approfondisce l’idea di vita e la mette in relazione con la vita del Signore Gesù, morto e risorto. Qui troviamo la dimensione vera del valore della vita umana, intesa come vita destinata a non perire mai. In Paolo soprattutto riscontriamo una tensione salutare tra vita nel tempo e vita nell’eternità, non secondo una dialettica di contrapposizione, ma secondo una tensione escatologica. Gesù è il Signore della vita, Egli che ha vinto la morte, ha portato alla luce la vita senza tramonto (2 Tim 1,10); poiché in Lui è la vita (1 Gv 5,11), Egli è la guida della vita (At 3,15) e come uomo nuovo porta l’uomo alla piena comprensione della sua umanità.

La vita dell’uomo viene concepita, allora, come partecipazione alla vita del Risorto che, mediante lo Spirito, compie l’opera della «nuova creazione» (Rm 5,18). Per i credenti la vita è «nascosta con Cristo in Dio», secondo la parola dell’Apostolo (Col 3,4). Essa quindi va accolta con gratitudine, poiché è un dono, e con riverenza, poiché è un mistero che si va a svelare progressivamente e che può essere compreso pienamente solo nella parusìa.

L’etica cristiana è pervasa da questa dimensione di povertà del cuore di fronte alla vita da accogliere come dono. In questa povertà, che troviamo tematizzata nella prima beatitudine (Mt 5,3), si annida il criterio fondamentale della morale della vita fisica. L’umanità contemporanea si mostra particolarmente attenta e sensibile verso questo immenso ambito della vita etica e ricerca con impegno e passione la verità sui numerosi e gravosi problemi che la condizione dell’esistenza ai nostri giorni pone. La chiesa, da parte sua, in continuità e fedeltà con l’esperienza religiosa del popolo dell’antica alleanza e in ascolto dello Spirito del Signore risorto, ha sempre destinato molto interesse per il rispetto e l’inviolabilità della vita. L’istanza etica fondamentale a questo riguardo è riassunta nella parola lapidaria delle tavole della legge mosaica. «Non uccidere» (Es 20,13) ha rappresentato sin dai tempi remoti l’appello di Dio a garanzia della vita dell’uomo. Su questa parola di vita la chiesa ha orientato il suo magistero a difesa della vita umana, determinando una lunga tradizione etica che, con diverso dosaggio e modalità differenziate, si è lasciata occupare dalla determinazione concreta di questa istanza morale. Ne è nato così tutto il ricco patrimonio della tradizione morale cristiana.

Ma l’epoca contemporanea richiama l’attenzione dei credenti, e di quanti sentono la passione per la vita umana, con vivacità forse mai così intensa. Diversi fattori pongono sul tappeto i problemi morali connessi con la sfera della corporeità e talvolta li rendono carichi di speranze e di preoccupazioni.

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Non si può non considerare l’estrema tecnicizzazione con cui si esercita oggi la pratica medica. Trattamenti terapeutici di grande precisione, insieme ad attrezzature di rigore ed efficienza, hanno mutato il volto dell’esercizio della professione medica; mentre contribuiscono alla soluzione di problemi nel passato irrisolti, creano problemi nuovi 64. Anche sul piano politico la gestione della salute umana ha subito un vistoso mutamento. L’atmosfera di privatezza in cui nel passato avveniva, per lo più, il rapporto medico-paziente, ha ceduto il passo a una sempre più chiara presa di responsabilità della comunità, anche nel settore della salute del singolo. La socializzazione del servizio sanitario, estesa sempre più in tutti i paesi del mondo, non può non apportare un effetto salutare nella cura e l’interesse per la salute umana. La partecipazione ai servizi contribuisce ad acutizzare le comuni responsabilità di fronte al bene della vita e della salute umana, liberando le energie più nascoste di solidarietà e di condivisione della sofferenza, della malattia e della speranza di guarigione.

Un’altra dimensione che sembra caratterizzare l’accoglienza e il servizio della vita, oggi, è quella che tende a personalizzare la cura medica. Proporzionatamente alla crescita dei livelli tecnologici e strumentali, si può correre il rischio di mettere in ombra o finanche occultare lo spessore umano singolare e irripetibile della persona del paziente di cui si prende cura. La macchina della salute, con strutture ed impianti di efficienza talvolta superba, può inghiottire la persona del malato, traducendola in numero, in cartella clinica fatta di indici e di dati, senza volto né storia, senza legami né problemi. L’etica medica contemporanea si mostra particolarmente vigilante, per inculcare nel personale medico e infermieristico, e più in generale in chiunque partecipa alla vicenda sanitaria, uno spiccato senso dell’umanità. Il malato, prima ancora di essere un organismo guasto, è una persona ferita; uno spiazzato che ha perduto un equilibrio. La cura che di lui ci si assume non può trascurare questi elementi determinanti che sono in grado di incidere positivamente o negativamente sulla stessa riuscita del trattamento terapeutico 65.

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Infine il richiamo alla prevenzione fornisce nuove proporzioni al compito etico connesso con la vita fisica. Oggi si è più consapevoli che un gran numero di disturbi sono il risultato di un cattivo rapporto con l’ambiente o di un impiego sregolato di alimenti, farmaci, sostanze, energie. Occorre, perciò, ricostruire una misura di equilibrio ed operare sulle condizioni di vita che previamente possono risolvere problemi di patologie. La grande sfera della medicina preventiva costituisce la promessa per un futuro migliore per tutta l’umanità. Da sola la medicina curativa e quella riabilitativa non possono garantire una sufficiente sicurezza di vita, come invece può fare la medicina preventiva 66.

Nel vocabolario e nell’attenzione della cultura contemporanea questo nuovo ambito viene spesso individuato con l’espressione «qualità della vita». La ricerca di una vita secondo qualità sembra essere l’impegno che in strati multipli e differenziati tutti richiedono ed assumono. Forse nei decenni passati, uscendo dalle strettoie della grande congiuntura costituita dagli eventi bellici, l’umanità — soprattutto quella dell’emisfero occidentale — ricercava la possibilità di una sopravvivenza che, date le minacce incombenti, si limitava alla semplice condizione dell’esistere. Minore attenzione si poneva alla qualità di un tale esistere, anche perché le effettive possibilità di assicurare una buona qualità dell’esistenza erano scarse, remote o addirittura inesistenti. Quando però lo sforzo comune ha garantito la sopravvivenza ed ha assicurato l’esistere, e il progresso scientifico insieme a migliori condizioni di disponibilità economiche e di attrezzature sociali ha dato un impulso verso una migliorata modalità di vita, allora si è fatta più viva la preoccupazione per una qualità di vita sempre più pienamente umana. Il dibattito sulla qualità della vita contiene in sé elementi ambivalenti che non devono essere trascurati. Difatti spesso ci si trova di fronte a giudizi sulla qualità dell’esistenza di persone o popoli che sono raccapriccianti. Essi sorgono frequentemente da una cattiva comprensione delle reali dimensioni della qualità della vita. Chi

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vive immerso in una mentalità consumistica o in una cultura del profitto, non di rado finisce per giudicare la «qualità della vita» secondo criteri quantitativi. Tende a valutare il valore di un’esistenza personale con il metro dell’efficienza che questa persona può garantire. Diventa sommamente precaria, in tale scala di misura, la vita di chi è portatore di un handicap, o dell’anziano, poiché scarsamente utilizzabile per la produzione e per il profitto.

Non può mancare un richiamo, dal punto di vista della morale cristiana, a correggere l’asse distorto di una simile concezione della qualità della vita. La correzione è praticabile mediante la categoria complementare di «santità della vita». La ricerca della qualità della vita deve fondarsi sulla fede incrollabile nella santità dell’esistenza, che è comunque un dono di Dio da accogliere con gratitudine e ammirazione. Un richiamo del tutto pertinente a riproporre il senso cristiano della vita qualitativamente umana viene dall’episcopato francese, in una nota dottrinale della commissione episcopale per la famiglia (13 febbraio 1971). Esso dice: «Per la Bibbia la vita è benedizione di Dio. Questa benedizione si comprende in funzione dell’alleanza fra Dio e il suo popolo. La benedizione in senso pieno e assoluto è l’alleanza, ma la condizione normale per entrare nell’alleanza è di esistere sulla terra. Certo, la vita corporale non è un assoluto in sé... Ma essa è la condizione per ricevere il dono e assumere la responsabilità di un fine che noi chiamiamo la vita di figli di Dio nel regno del Padre e che altri chiamano, senza ben precisare il significato delle parole: ‘la vita gioiosa’. Sulla via che conduce a questo fine si possono incontrare, talvolta fin dall’inizio, difficoltà o mali che possono far dire e che hanno fatto dire: la vita, in queste condizioni, è piuttosto una maledizione che giustifica un intervento che la sopprima. Ma questo modo di parlare va contro la fede e la speranza in Dio nostro Creatore che ci salva con la croce del suo Figlio. Noi speriamo, nonostante e contro tutto, che i disegni del Creatore si compiano, e si compiranno. Noi speriamo, nonostante e contro tutto, che le speranze insite in una vita che comincia non siano mai vane. Noi speriamo che gli uomini possano migliorare la loro condizione di esistenza sulla terra e inventare comunità in cui tutti possono trovare il loro posto e in cui valga la pena che si porti fino alla fine il peso della vita: l’avventura umana richiede sempre coraggio».

1.2. La vita prenatale

I documenti anagrafici pongono l’inizio della storia di una persona nel giorno della sua nascita. Le vicende che lo toccano come protagonista

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o come spettatore non sono mai anteriori al giorno in cui, come si suol dire nel linguaggio corrente, l’uomo «vede la luce». In realtà esiste un tempo, anteriore a questo evento, nel quale l’essere umano si è già affacciato all’orizzonte della vita e le sue vicende hanno già rilevanza di storia.

La ricerca scientifica nel campo dell’embriologia umana continua a svelare risultati sorprendenti sulla vitalità del neo-concepito, mentre è ancora nel seno materno. Anzi, sempre più frequentemente si tenta di interpretare la qualità di alcuni comportamenti ed atteggiamenti umani proprio risalendo alle condizioni della vita prenatale, la quale come preistoria o protostoria del soggetto umano, non può non incidere sul futuro dell’esistenza personale 67.

La considerazione della vita prenatale è carica di implicazioni sul piano etico, relativamente a problemi antichi e nuovi. Ma esiste una questione previa che va affrontata ed impostata in maniera corretta, per avviare su una giusta pista i problemi morali connessi.

a) La qualità della vita prenatale

Soprattutto in questi ultimi anni, sotto l’influsso di movimenti di pensiero laicista e femminista, la vita prenatale è stata considerata in modo del tutto riduttivo. Il frutto del concepimento è stato ed è pensato come l’aggregato bio-fisico di cellule appartenenti a un processo nuovo di vita con rilevanza esclusivamente biologica. Talvolta si è ritenuto che l’embrione e il feto non fosse che un’appendice del corpo uterino e che, quindi, non dovesse essergli riconosciuta alcuna dignità individuale. Come oggetto di appartenenza all’utero ospitante, esso sarebbe sotto l’esercizio del diritto della donna a disporne. Si comprende facilmente quanto queste affermazioni possono pregiudicare la valutazione etica di ogni problema connesso con la manipolazione embrionale e fetale e, in definitiva, con l’aborto. Non a caso la bandiera di simili affermazioni è stata agitata proprio in sede di una pretesa rivendicazione del diritto della donna a disporre del frutto del concepimento, e quindi ad abortire.

Nella sua costante tradizione dottrinale e morale, e in sintonia con le più autorevoli scuole antropologiche, giuridiche e mediche, la chiesa

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ha affermato la dignità della vita umana, anche nella fase prenatale. Questo pur senza ignorare la varietà con cui, lungo la storia, si è affrontato il delicato problema dell’inizio della caratteristica umana della vita 68.

Padri della chiesa e i teologi medievali avevano dato al problema una soluzione di tipo filosofico, compenetrando però l’argomentazione filosofica con quella teologica. Per loro l’inizio della vita umana coincideva con l’infusione dell’anima da parte di Dio, sicché sin dal momento del concepimento si poteva parlare di soggetto umano, essendo il neo-concepito dotato di anima e di corpo. In questa direzione si poneva Tertulliano, quando scriveva nel De anima (27,1): «La sostanza del corpo e dell’anima è prodotta insieme, oppure l’una precede l’altra? Diciamo senz’altro che entrambe sono insieme accolte, elaborate, perfezionate».

Solo successivamente si è formulata l’opinione, comune a molti Padri e specialmente ai teologi medievali, della cosiddetta «animazione ritardata». Si riteneva, cioè, che fintanto che il corpo non avesse preso una sua certa consistenza, esso non era materia adatta a ricevere la «forma» che è appunto l’anima. L’infusione dell’anima veniva così differita in un tempo successivo al concepimento. Interprete autorevole di tale posizione è S. Agostino, nel commentare il testo di Es 21,22-23. Nelle Quaestiones in Heptateucum (PL 34, 626) egli introduce una distinzione tra feto perfettamente formato e feto non ancora perfettamente formato. Con tale distinzione si riteneva che il feto venisse perfettamente formato (cioè gli venisse infusa l’anima) solo in un secondo momento. Su questa linea troviamo anche le affermazioni dei teologi medievali. Di particolare peso l’opinione di S. Tommaso d’Aquino, il quale riteneva che l’anima venisse infusa per azione della virtus creativa di Dio successivamente al concepimento (De Potentia q. 3, art. 9, ad 9).

Non si può negare che, seppure importante sotto il profilo filosofico, la questione dell’animazione è di difficile approccio nella cultura contemporanea, sia per il linguaggio su cui essa riposa, sia per una precomprensione che la condiziona. Difatti, la questione dell’animazione marcava fortemente la visione dell’uomo come composto di anima e di corpo, in un regime facilmente esposto al dualismo. La maggiore attenzione a una visione unitotale dell’uomo come essere somatopsichico, oltre che ovviare alle insufficienze della questione dell’animazione, più facilmente conduce

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alla considerazione della qualità umana della vita sin dal suo concepimento. Infatti, «prima della fecondazione esistono due cellule, maschile e femminile, certamente, vive della vita dell’uomo e della donna, ma destinate a perire a breve termine, come tante altre, a meno appunto che non si congiungano. Dalla loro fusione risulta una cellula unica, dotata di dinamismo proprio, che da sé porterà l’individuo fino alla morte, anche se questa sopravviene in estrema vecchiaia. Dal suo inizio l’ovulo fecondato contiene tutto il programma originale del nuovo essere. I biologi, restando nei limiti della loro competenza, non sono chiamati a pronunziarsi sulla personalità; possono tuttavia e devono riconoscere che la persona adulta si ricollega senza soluzione di continuità a questa cellula primitiva che differisce nella sua struttura dalle cellule paterne e materne. Il solo momento determinabile per assegnare un inizio alla vita umana è dunque quello della fecondazione. Tale affermazione si impone sia dal punto di vista scientifico sia da quello filosofico» (Dichiarazione dell’episcopato belga, 6 aprile 1973).

Su questa linea la chiesa esprime la sua ferma convinzione sulla qualità umana della vita prenatale, sin dal momento della fecondazione. Essa tuttavia riconosce la legittimità di un dibattito teorico circa l’inizio della vita umana, dibattito che non può essere condotto se non in una modalità interdisciplinare, dove i dati della genetica e dell’embriologia umana vengano completati con quelli dell’antropologia filosofica e teologica. Il dibattito teorico su tale questione non tocca però le coordinate della decisione morale che attribuisce alla vita prenatale il rispetto dovuto a una vita pienamente umana. Un autorevole documento della sacra Congregazione per la dottrina della fede ha precisato i diversi ambiti del pensiero filosofico e della morale: «Non c’è su tale punto (= infusione dell’anima spirituale) tradizione unanime e gli autori sono ancora divisi. Per alcuni, essa ha inizio sin dal primo istante; per altri, essa non può precedere almeno l’annidamento. Non spetta alla scienza di prendere posizione, perché l’esistenza di un’anima immortale non appartiene al suo campo. È una discussione filosofica, da cui la nostra affermazione morale rimane indipendente per due ragioni: 1) pur supponendo un’animazione tardiva, esiste già una vita umana, che prepara e richiede quest’anima, nella quale si completa la natura ricevuta dai genitori; 2) d’altronde, basta che questa presenza dell’anima sia probabile (e non si proverà mai il contrario) perché toglierle la vita significhi accettare il rischio di uccidere un uomo, non soltanto in attesa, ma già provvisto della sua anima» (Dichiarazione sull’aborto procurato del 18 nov. 1974, nota n. 19).

b) Il problema dell’aborto

L’umanità ha conosciuto, sin dai tempi più remoti, una serie di pratiche e

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di interventi tesi a bloccare il processo vitale originatosi con il concepimento di una nuova vita umana. La storia dei costumi è attraversata da una costante che mostra quanto presente, operante e vivo sia da sempre il problema dell’aborto. Anche l’opinione pubblica e il controllo sociale sono stati da sempre interessati alla pratica abortiva e alla regolamentazione degli effetti morali e sociali derivanti da tale pratica 69.

Testi molto antichi ci informano della presenza del fenomeno abortivo e delle sanzioni con cui la collettività tendeva a valutare, arginare e punire l’aborto. A cominciare dalla legislazione babilonese (II millennio a.C.), giuntaci nel famoso codice di Hammurabi. Vi leggiamo: «Se qualcuno avrà percosso la figlia di un nobile, e l’avrà fatta abortire, pagherà 10 sicli d’argento per il suo feto perduto. Se questa donna morirà, venga uccisa la figlia del colpevole». La condanna che cade sull’aborto ha in questi tempi arcaici la connotazione di una lesione inflitta alla proprietà.

Il giuramento di Ippocrate fa promettere al medico di disporre la sua professione a servizio della vita, garantendo che l’esercizio della medicina sia sempre rivolto al mantenimento e miglioramento delle condizioni favorevoli alla vita, senza prestarsi a dare farmaci mortali o a fornire mezzi abortivi. La tradizione delle scuole mediche più rappresentative, che si sono ispirate all’ethos ippocratico, si è sostenuta sull’affermazione dell'illiceità dell’aborto e del dovere etico del medico di non collaborare, consigliare o operare in tal senso. Anche la chiesa nella sua storia ha sempre riconosciuto come suo compito quello di salvaguardare la vita sin dal suo primo istante. Ha fatto ciò mediante una ferma e costante condanna dell’aborto direttamente procurato.

Dobbiamo riconoscere, tuttavia, che oggi ci troviamo dinanzi a una nuova situazione. Da una parte sono fortemente migliorate le tecniche abortive, così da ridurre di molto il controllo sociale. Dall’altra, si è esteso il riconoscimento legislativo delle possibilità di sottoporsi a procedimento abortivo, senza incorrere in alcuna sanzione. Sempre più numerosi sono i paesi del mondo che consentono l’aborto legalizzato e che lo favoriscono mediante sistemi di assistenza sanitaria e sociale. Diventa, quindi, molto più urgente ribadire l’insegnamento morale della

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chiesa e promuovere un’autentica coscienza etica che sappia discernere e giudicare l’aborto come un disvalore, dal punto di vista non soltanto etico, ma anche sociale e umano.

Il cristianesimo si trovò a confrontarsi con la cultura greco-romana, il cui atteggiamento di fronte al fenomeno abortivo si caratterizzava per una larga permissività. Si riscontrava con frequenza il ricorso all’aborto procurato con l’aiuto di farmaci o di espedienti messi in opera da praticoni consenzienti. Ricorrevano alle pratiche abortive tanto le classi agiate quanto quelle meno abbienti; sia per scelte di egoismo pragmatico, sia per dissolutezza senza responsabilità. L’elemento più grave nella cultura con la quale il cristianesimo è venuto ad imbattersi era la pregiudiziale convinzione che «partus nondum editus homo non recte fuisse dicitur» («il bambino non ancora nato non è un uomo»), come si afferma nel diritto romano. L’aborto, quindi, non si configura tra i crimini contro la vita, poiché la vita fetale non assurge a dignità umana. È vero che non manca nel mondo greco-romano la sanzione punitiva nei riguardi di chi ricorre all’aborto o lo provoca. Ma, a ben considerare, la radice della sanzione consiste nel fatto che provocando l’aborto si lede il diritto di proprietà che il marito ha sulla moglie e sulla prole. Non è difficile percepire a questo punto quanto scadente ed avvilita fosse l’immagine della donna, oltre che quella della vita prenatale.

Su questa civiltà e cultura si è innestato il cristianesimo, che si è sentito provocato dai costumi lassisti a mettere a fuoco una predicazione morale quanto mai necessaria. La chiesa presenta subito la sua convinzione morale concernente l’aborto, come concezione di netto e radicale rifiuto di esso. Il primo testo cristiano extrabiblico, la Didaché, ammonisce: «Non farai perire il bambino con l’aborto, né l’ucciderai dopo che è nato» (II, 2). E dello stesso tono è il testo delle Costituzioni Apostoliche: «Non ucciderai tuo figlio con aborto né ammazzerai il nato: invero ogni essere formato, ricevendo l’anima da Dio, se ucciso andrà vendicato, in quanto ingiustamente fatto perire» (7,3,2).

La condanna dell’aborto trova la sua fondazione nella S. Scrittura. Nell’Antico Testamento troviamo il testo più esplicito in Es 21,22-23, dove si legge: «Quando gli uomini rissano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna e il colpevole pagherà per mezzo di arbitri. Ma se vi è una disgrazia, allora tu dovrai dare vita per vita». È facile rilevare una certa analogia tra questo testo biblico e quello del codice di Hammurabi sopra riportato. Anche qui è ancora sottesa l’idea di un danno grave da risarcire, nel caso di morte del feto; ma il danno ancor più grave è la morte della donna, e questa va compensata con la legge del taglione. Tuttavia l’importanza di questo testo

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si accresce a partire dalla traduzione che di esso è stata fatta nel III sec. a.C. in lingua greca. L’attenzione fu spostata dalla vita della donna a quella del feto e i due casi contemplati furono: morte di un feto perfettamente formato e morte di un feto non ancora perfettamente formato. Un simile spostamento è motivato dalla visione embriologica greco-alessandrina, nel cui ambiente fu effettuata la traduzione dei LXX. L’antropologia sottesa è di carattere dualistico, nella dialettica materia/forma, corpo/anima. Questa visione della vita fetale è sottesa a una distinzione che molto seguito ebbe nella tradizione cristiana, dai primi secoli sino al secolo scorso: si distinse, cioè, il «feto inanimato» dal «feto animato».

L’uso di questa discriminazione fu molto ampio e portò non pochi moralisti a valutare con diversità di peso la pratica abortiva su feto in stadio di prima vitalità e su feto di vitalità avanzata. Ma il magistero della chiesa mise in guardia contro un impiego indiscriminato di questa distinzione, quando condannò, sebbene solo «ut minimum tamquam scandalosae et in praxi perniciosae» (DS 2166), la tesi lassista secondo la quale si ammette la liceità di opinioni diverse circa il momento dell’animazione, purché posto prima del parto. Sulla base di questa premessa, l’opinione contenuta nella tesi si estendeva anche al giudizio che l’aborto non doveva essere considerato un omicidio (cfr. DS 2135).

Se la concezione di una distinzione tra feto animato e feto inanimato ha potuto indurre ad opinioni relativamente diversificate sulla liceità morale dell’aborto, essa oggi è praticamente superata. Le conoscenze embriologiche e la visione antropologica concordano nel far ritenere che col concepimento ha inizio un processo vitale autonomo e autogeno che percorre le tappe proprie di uno sviluppo che conduce fino all’essere con piena identità personale.

La condanna della chiesa per l’aborto si fonda formalmente sulla rivelazione, nella quale tra le opere della carne che si contrappongono alle opere dello Spirito viene menzionato anche il ricorso a sostanze che procurano l’aborto — pharmakeia di Gal 5,18-21 e di Ap 9,21 —. Tuttavia essa trova un riscontro e una convalida presso la moderna conoscenza antropologica. Con diversi interventi, sia del magistero centrale che di quello dei singoli episcopati, la chiesa non smette di riproporre il messaggio morale che oppone un fermo rifiuto all’aborto procurato, rifiuto fondato sul diritto inalienabile che l’essere umano ha alla vita. Nella Dichiarazione sull’aborto procurato della sacra Congregazione per la dottrina della fede (18 nov. 1974) si legge: «Il primo diritto di una persona umana è la sua vita. Essa ha altri beni, e alcuni sono più preziosi, ma quello è fondamentale, condizione di tutti gli altri. Perciò esso deve essere protetto più di ogni altro. Non spetta alla società, non spetta alla pubblica autorità, qualunque ne sia la forma, riconoscere questo diritto

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ad alcuni e non ad altri: ogni discriminazione è iniqua, sia che si fondi sulla razza o sul sesso, sia sul colore o sulla religione. Non è il riconoscimento da parte degli altri che costituisce questo diritto; esso esige di essere riconosciuto ed è strettamente ingiusto il rifiutarlo» (n. 11).

Oggi un mal compreso pluralismo e una imprecisa convinzione di laicità dello Stato potrebbero portare a credere che il rifiuto dell’aborto sia legato alla fede cristiana e che la norma morale tocchi i credenti soltanto. In realtà, invece, «il rispetto della vita umana non si impone soltanto ai cristiani: è sufficiente la ragione a esigerlo, basandosi sull’analisi di ciò che è e deve essere una persona. Dotato di natura ragionevole, l’uomo è un soggetto personale, capace di riflettere su se stesso, di decidere dei propri atti, e quindi del proprio destino; egli è libero. È, di conseguenza, padrone di sé, o piuttosto, poiché egli si realizza nel tempo, ha i mezzi per diventarlo: questo è il suo compito. Creata immediatamente da Dio, la sua anima è spirituale e, quindi, immortale. Ma egli vive nella comunità dei suoi simili, si nutre della comunicazione interpersonale con essi, nell’indispensabile ambiente sociale. Di fronte alla società e agli altri uomini, ogni persona umana possiede se stessa, possiede la propria vita, i suoi diversi beni, per diritto; la qual cosa esige da tutti, nei suoi riguardi, una stretta giustizia» (ivi, n. 8).

La norma morale con la quale la chiesa valuta e rifiuta l’aborto è chiara e inequivocabile. Essa è preoccupata soprattutto della dignità della vita del soggetto umano indifeso, mentre è ancora nell’utero materno. Ma al tempo stesso la chiesa si apre con preoccupazione pastorale verso quelle persone — oggi disgraziatamente sempre più numerose — che in modi diversi sono implicate nel dramma dell’aborto. La ferma condanna della condotta abortiva non si traduce in isolamento o abbandono di queste creature, spesso indotte da malcompresi stati di necessità a scelte traumatiche e drammatiche, oltre che eticamente negative.

Il campo pastorale che la chiesa ha davanti è grande e carico di responsabilità 70. Esso va dall’accoglienza delle persone singole alla promozione di iniziative atte alla educazione delle coscienze. Una via di somma importanza per la soluzione del problema dell’aborto è l’appoggio che la chiesa può dare e difatti dà a coloro che, scienziati, medici, operatori sociali e culturali, determinano l’atmosfera generale delle scelte etiche, mediante l’influsso esercitato sulla pubblica opinione. La passione con cui la chiesa

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si rivolge a queste persone traspare nelle parole di papa Giovanni Paolo n: «In questo contesto si colloca il vostro compito. Esso consiste in primo luogo in un’azione, intelligente ed assidua, di sensibilizzazione delle coscienze circa l’inviolabilità della vita umana in tutti i suoi stadi, in modo che il diritto ad essa sia efficacemente riconosciuto nel costume e nelle leggi, come valore fondante di ogni convivenza che voglia dirsi civile; esso si esprime, poi, nella coraggiosa presa di posizione contro ogni forma di attentato alla vita, da qualunque parte esso provenga; esso, infine, si traduce nell’offerta, disinteressata e rispettosa, di aiuti concreti alle persone che incontrano difficoltà nel conformare il proprio comportamento ai dettami della coscienza. Si tratta di un’opera di grande umanità e di generosa carità, che non può non raccogliere l’approvazione di ogni persona consapevole delle possibilità e dei rischi a cui va incontro questa nostra società. Non vi scoraggino le difficoltà, le opposizioni, gli insuccessi che potete incontrare sul vostro cammino. È in questione l’uomo, e quando è in gioco una simile posta, nessuno può chiudersi in un atteggiamento di rassegnata passività senza con ciò abdicare a se stesso» (Al congresso europeo dei movimenti per la vita, 26 febbraio 1979).

L’impegno dei cristiani a favore della vita prende consistenza in iniziative concrete, ispirate dalla stima di tutta la vita e di ogni vita. La dimensione politica di questo impegno deve essere vista come la naturale realizzazione e traduzione in opere delle convinzioni etiche profonde. Per questo la chiesa incoraggia e sostiene coloro che operano nei settori della vita pubblica e offrono la loro collaborazione per la soluzione dei grandi problemi da cui l’umanità è afflitta. I vescovi canadesi raccomandano: «Per imperiose che siano la sollecitudine e l’attività dei singoli in questi numerosi settori, esse non bastano. I cristiani d’oggi devono essere presenti con tutta la loro generosità ed abilità là dove gli uomini si incontrano per scambiarsi le idee e prendere decisioni che favoriscono o sminuiscono il rispetto per la vita umana: parlamenti, consigli municipali, direzioni d’imprese commerciali, agenzie d’assistenza, ospedali, scuole, strumenti della comunicazione sociale. In tutti questi campi, uomini e donne di ogni posizione sociale dovrebbero lasciarsi guidare da un senso profondo di amore e di servizio verso la vita umana» (Dichiarazione pastorale dell’episcopato canadese, 30 nov. 1971).

L'aborto e un male. Sotto il profilo etico esso è la privazione del diritto inalienabile di un essere umano alla propria sopravvivenza 71.

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Sotto il profilo psicologico esso è spesso vissuto come dramma lacerante e rottura dell’equilibrio personale, di coppia, di famiglia. Sotto il profilo sociale esso viene spesso invocato come diritto civile da parte delle donne di autogestire la propria maternità, senza nessun riferimento al rispetto dovuto a chi, mediante l’esercizio della sessualità, e stato suscitato alla vita. Comunque l’aborto è un disvalore. Esso va combattuto come condotta negativa e come fatto disumanizzante, oltre che come elemento di rifiuto della vita che è dono del Signore, fonte di ogni vita.

Combattere l’aborto significa qualcosa di più che il semplice impedire che la gente vada ad abortire. Significa, al positivo, ricomporre gli elementi di una vita umanamente scadente; correggere tendenze e ideologie che sottraggono la gestione della sessualità a un alto senso di responsabilità, sia verso il partner che verso chi potrebbe nascere dall’atto sessuale; imparare il rispetto della vita, senza discriminazione; sostenere chi nella vita affronta situazioni di particolare precarietà, come gli ammalati, i vecchi, gli indifesi, i poveri.

Combattere l’aborto è sviluppare un senso spiccato di gratitudine a Dio per il dono della vita e di solidarietà con l’umanità cui ogni vita e destinata. Solo chi coltiva la passione per il futuro dell’uomo e della famiglia umana può capire fino in fondo cosa significa, al di là della semplice espressione negativa e al di là della sia pur ferma condanna, operare per sradicare la piaga dell’aborto.

Combattere l’aborto non è compito di singoli cittadini soltanto o di gruppi di cittadini. Combattere l’aborto è un dovere etico di primaria grandezza cui la comunità intera e lo Stato in particolare devono sottostare. In talune nazioni si è operata una distinzione tra legge morale e legge civile, su questa delicata materia, così come su altre non meno impegnative. La chiesa ricorda che «è chiaro dovere dello Stato proteggere la vita umana. Esso ha una particolare responsabilità di fronte alla vita che, per un motivo o per un altro, è minacciata, come pure di fronte alla vita di quanti non sono in grado di sovvenire alle proprie necessità, come i vecchi, gli invalidi, i ritardati mentali, i malati e i deboli di mente. Ciò vale anche per l’essere umano che non è ancora nato. Ma non è competenza dello Stato misurare il valore delle diverse forme di

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esistenza umana, attribuendo, ad esempio, per legge, maggior diritto all'esistenza ai sani anziché ai malati, ai più dotati a svantaggio dei meno dotati, ai giovani piuttosto che ai vecchi. Solo quando lo Stato protegge il diritto dell’individuo più debole a un’esistenza umana integrale, esso può pretendere d’essere una comunità pienamente rispettosa dei diritti dell’uomo» (Conferenza episcopale della Scandinavia, Dichiarazione collettiva, luglio 1971).

La responsabilità dello Stato non consiste solo nell’impedire l’aborto o nell’evitare legislazioni abortiste. Mediante le sue strutture legislative e sociali, esso deve garantire la creazione e la promozione delle condizioni di vivibilità della vita a dimensione veramente umana. «Spetta alla legge il dovere di promuovere una riforma della società e delle condizioni di vita in tutti gli ambienti — a cominciare da quelli meno favoriti — affinché sia resa possibile, sempre e dappertutto, ad ogni bambino che viene in questo mondo, un’accoglienza degna dell’uomo. Sussidi alle famiglie e alle madri nubili, aiuti destinati ai bambini, statuto per i figli naturali e conveniente regolazione dell’adozione: è tutta una politica positiva, questa, da promuovere, perché si abbia sempre un’alternativa concretamente possibile ed onorevole all’aborto» (Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione sull’aborto procurato, 18 nov. 1974, n. 23).

Chiarificazione della norma etica, indicazione di valori in alternativa ed educazione delle coscienze dei singoli e dei popoli: è questo il compito della chiesa di fronte all’aborto. Ed è anche il servizio alla vita che essa, nella fedeltà al vangelo del Signore dei viventi, è chiamata a svolgere.

c) La diagnostica prenatale

Il grande progresso della genetica umana costituisce uno dei capitoli più interessanti e insieme preoccupanti della storia e del futuro umano. Nella genetica si condensa l’alto potenziale di quell'insieme di minacce che è stato chiamato «la bomba biologica». Le immense possibilità che questo progresso apre sono nelle mani dell’uomo e richiedono un senso più acuto di sensibilità morale e di responsabilità.

Un tempo, della vita prenatale non si era in grado di conoscere altro che l’esistenza. La gestante sentiva dentro di sé la presenza di un nuovo essere che stava formandosi e informava l’ambiente circostante di una tale presenza mediante il segno visibile dello stato gravidico. Oggi, invece, della vita prenatale non solo si conosce l’esistenza, ma si è in grado di individuarne anche caratteristiche, composizione, informazione genetica, eventuali malformazioni. La cartella clinica di un essere umano, allo stato

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attuale del progresso bio-medico, può essere iniziata già prima della sua nascita e può essere estesa alla fase prenatale del suo esistere. Non si può non vedere con meraviglia questo progresso ed esprimere gratitudine al Signore della vita, il quale mediante le conoscenze scientifiche dà luce sufficiente per esplorare l’insondabile mistero della vita. A ciò si aggiunge la riconoscenza per l’impegno di quegli scienziati che forniscono, talvolta con spiccato senso di altruismo e di abnegazione, i dati necessari per mettere a punto sistemi efficienti di analisi delle modalità intrauterine della vita umana.

L’apprezzamento per una simile conquista della scienza sale ancora di più quando si considera che molti disturbi e malattie hanno una loro ben precisa base nella qualità del corredo genetico, che trasmette le informazioni necessarie allo sviluppo dell’organismo. Nasce subito la possibilità di impiego delle conoscenze scientifiche al fine di migliorare la qualità di vita del soggetto umano.

Fino a non molti anni fa, la diagnostica genetica riguardava esclusivamente l’analisi della situazione genetica di una futura coppia, allo scopo di consigliare o sconsigliare un matrimonio e la conseguente trasmissione della vita. Ma gli odierni progressi nelle metodiche hanno aperto un nuovo passaggio nella consultazione prenatale, intervenendo direttamente sul nascituro e prendendo in esame la sua concreta situazione genetica. Ci riferiamo qui alla cosiddetta «amnioanalisi». Il prelievo e l’analisi del liquido amniotico, dal sacco amniotico di una donna incinta, tra la 12a e la 15a settimana di gravidanza, permette di individuare la presenza di eventuali disordini genetici.

A parte il tasso di rischio che l’operazione amnioanalitica può comportare, con l’eventualità di ledere il feto e di provocare danni talvolta irreparabili, o anche un aborto a seguito di un’infezione, non si può formulare un giudizio negativo, relativamente alla pratica in generale. Non esistono, cioè, elementi oggettivi ed intrinseci tali da dover far ritenere immorale l’intervento amnioanalitico. Il giudizio morale su di esso si specifica a seconda della destinazione e dell’intenzione con cui vi si ricorre.

Non si può negare il vantaggio enorme che la conoscenza di eventuali malformazioni genetiche può costituire, allo scopo di ricorrere precocemente a terapia. Inoltre una tale diagnosi può tranquillizzare coppie geneticamente esposte, affinché scartino l’ipotesi di interruzione di gravidanza e vivano nella serenità psicologica il processo gravidico. Non esiste, quindi, una pregiudiziale negativa al ricorso alla diagnostica prenatale, qualora essa sia finalizzata a terapia fetale o alla terapia precoce del neonato. Anzi, nei casi in cui sorgessero fondati sospetti sulla eventualità di una qualche malformazione, e con intenzioni positivamente rivolte alla soluzione

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terapeutica di tali disordini, il ricorso alla diagnostica prenatale potrebbe essere un’apprezzabile articolazione del dovere etico di trasmettere una vita sana al nascituro. Ma questo dovere etico va misurato con i livelli di rischio che il ricorso può comportare, cosicché non di rado può capitare che non ci sia una ragionevole proporzione tra la speranza di scoprire un disordine genetico o la probabilità della presenza di una seria malattia genetica da un lato, e i rischi della procedura amioanalitica, dall’altro.

Di ben altro segno morale è l’impiego della diagnostica prenatale con l’intento di far ricorso all’aborto, quando ci si venisse a trovare dinanzi a una malformazione genetica. Eppure pare che nel costume di molta parte dell’umanità contemporanea sia proprio questo l’intento con cui si mettono a fuoco tecniche avanzate ed efficienti di diagnostica prenatale 72.

L’aborto selettivo diventa sempre più frequentemente la risposta ad una gravidanza in cui il prodotto del concepimento non è quello desiderato dagli interessati, o per disturbata qualità genetica del nascituro o, talvolta, addirittura semplicemente per il suo sesso, non corrispondente alle attese o ai desideri della coppia generante.

Nella condanna dell’aborto la chiesa ha incluso sempre anche l’aborto cosiddetto «eugenetico». La previsione di una malformazione nel nascituro non sottrae a questi il diritto di vivere, né costituisce i genitori o la società come giudici della sua sopravvivenza.

Non si può negare che la previsione o la realtà di un figlio malformato impegna la responsabilità dei genitori, della famiglia e della società in modo del tutto particolare. Ma il peso che queste situazioni rappresentano non può eludere il diritto alla vita, comunque essa sia. La risposta adeguata a questo terribile problema umano e sociale non consiste nella soppressione di tali soggetti, bensì nell’impegno personale e collettivo a favore di strutture adatte di sostegno e di accoglienza di questi soggetti più bisognosi. «Una società che consiglia l’aborto in casi in cui si possono temere o prevedere serie anomalie, mostra di non essere capace di portare il peso delle sue debolezze. Un tale segno non presagisce niente di valido per la soluzione di tanti altri problemi sociali che ci assillano. Così speriamo

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che la questione che oggi viene portata davanti all’opinione pubblica sia per tutti l’occasione per un esame di coscienza» (Episcopato francese, Nota dottrinale della commissione per la famiglia, 13 febbraio 1971).

Una certa corsa alla diagnostica prenatale, in vista di aborto selettivo, è un segno inequivocabile della paura con cui una parte dell’umanità contemporanea affronta il futuro, la vita, la salute e la sofferenza. La difficoltà, e spesso l’incapacità, ad accogliere una vita che richiede particolari cure e la messa in discussione di criteri di valutazione del valore dell’esistenza, sono generate non di rado da un rifiuto della sofferenza e del suo valore. «Anche la visione cristiana di un senso possibile della sofferenza umana può e deve essere menzionata... Non si tratta, in questo, di una glorificazione disumana della sofferenza: il cristiano deve far di tutto per prevenirla, risanarla, mitigarla. Gesù ha guarito molti, anche contro i pregiudizi religiosi del suo tempo (cfr. Gv 9). Anzi la libertà con cui, in giorno di sabato, contro la legge guariva gli uomini, divenne per i suoi nemici l’occasione per tentare di toglierlo di mezzo (Mc 3,6). Però dobbiamo evitare la tendenza a ritenere una determinata concezione dell’integrità umana come così assoluta da propendere a far scomparire a tutti i costi ogni sofferenza, eventualmente facendo scomparire la vita umana stessa. In una tale mentalità il senso della vita umana viene a essere troppo equiparato con l’essere liberi dalla sofferenza» (Episcopato olandese, Dichiarazione dottrinale, 24.2.1971).

In alcune occasioni la diagnostica prenatale e la prospettiva di un aborto selettivo, al di là della qualità genetica del neo-concepito, sono legate alla individuazione del sesso del nascituro e alla decisione di accettarlo o di respingerlo. Chi vuole ad ogni coso un figlio maschio, selezionerà il neo-concepito, finché esso non sia del sesso atteso e desiderato. Una simile pratica diagnostica è da sé eloquente, e il giudizio morale non può essere che di condanna. La vita umana è un bene in sé, e non per quello che essa rappresenta per la coppia generante o per la società. Perciò non può essere approvata alcuna discriminazione arbitraria, meno che meno quella legata al sesso del nascituro.

Non si può negare il potere manipolatorio che l’informazione ha su scelte di questo genere. Come pure non si può non includere queste tendenze in un contesto di cultura e di costume più ampio, fondato sul profitto, sull’utilitarismo, sull’irresponsabilità nei confronti di beni che sono più grandi dell’uomo stesso, come appunto è il bene della vita. Come correttivo, si profila la necessità di un’educazione globale al senso dei valori di umanità, di gratuità, di solidarietà, quale antidoto a una cultura della manipolazione. Una tale educazione tocca anche la sfera della responsabilità nella trasmissione della vita, perché essa sia il più possibile sana. Ma l’insieme dei criteri che valutano la «sanità» di una

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vita umana deve essere rivisto sulla base di una gerarchia che metta ai primi posti i valori di umanità e non quelli dell’efficienza. Se una consulenza diagnostica genetica e prenatale deve essere invocata e adottata, essa deve ispirarsi al senso profondo del compito umano che consiste nel servizio accogliente e grato alla vita, nei suoi molteplici aspetti. Qui si comprende come coppie di coniugi con alta sensibilità e responsabilità umana ed etica, seppure geneticamente esposti o portatori di disturbi, riescono a servire la vita molto meglio di chi, pur essendo biologicamente sano e ricevendo figli senza difetti genetici, non è in grado di aprirli ad una vita umanamente carica di valori e di amore. Come pure, coniugi di vita semplice ed onesta rendono alla vita un servizio migliore rispetto ad altri che, avviluppati nella rete degli egoismi e dell’utilitarismo, sono solo gelidi calcolatori del loro benessere individuale.

d) La ricerca fetale

Un altro immenso campo di indagine e di intervento, reso possibile dai progressi della scienza, è la ricerca fetale. Il frutto del concepimento non è più una realtà che sfugge alla conoscenza, ma può essere raggiunto con buoni gradi di penetrazione, sia nell’individuazione della sua struttura che delle sue funzioni.

Sistemi avanzati di fetoscopia e di analisi del vissuto fetale fanno sì che anche questo mistero, prima graniticamente chiuso nel seno materno, oggi possa essere in buona parte svelato ed osservato con una precisione apprezzabile. Parallelamente alla conoscenza della vita fetale, delle sue strutture e delle sue funzioni, cresce da una parte la possibilità di intervento su di essa e, dall’altra la domanda morale sulla legittimità o meno di un simile intervento. Il fronteggiare questi nuovi problemi morali è il compito della scienza etica nel nostro tempo.

Una questione pregiudiziale consiste nella considerazione che si ha della qualità e della dignità della vita prenatale. Chi considera il feto nient’altro che un’appendice del corpo materno, privo di consistenza umana, tende a non porsi confini di natura etica nella ricerca e nella sperimentazione embrionale. Come «cosa» il feto è disponibile, si dice da parte di costoro, e nessuna barriera può essere posta all’indagine scientifica. Anche se la ricerca non può non essere finalizzata a migliorare le possibilità conoscitive e curative, la soglia di tale ricerca è flessibile ed è a discrezione dei ricercatori stessi.

Questa posizione, non così remota come potrebbe apparire, elude la domanda sulla qualità di vita del feto e perciò sembra rispondere insufficientemente alle istanze etiche. Chi crede nella qualità «umana» della vita prenatale non può non far derivare da una simile convinzione una

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norma etica fondamentale riguardante il rispetto indiscusso per la vita fetale. «La vita in gestazione necessita di protezione dal momento stesso del concepimento; è intoccabile come la vita di un bambino già nato. Dobbiamo attenerci a questo principio inviolabile, che corrisponde al costante insegnamento della chiesa. La vita umana è sotto il potere discrezionale di Dio. È, in parole povere, il fondamentale, il legale diritto e, per questo, di importanza prevalente. Essa merita altissima considerazione ed è affidata in particolar modo all’amore del prossimo, dei nostri simili. Questo vale non solo per una vita già venuta alla luce, ma anche per quella che sta per nascere. L’uomo non è libero di disporre a suo piacere della vita che ha ancora da nascere, così come non può disporre arbitrariamente di quella già nata» (Episcopato tedesco, Dichiarazione sulla protezione della vita in gestazione, 23 giugno 1971).

Questo criterio di «disponibilità/indisponibilità» della vita prenatale sembra poter essere assunto per una valutazione etica della ricerca fetale. Come vita già appartenente all’orizzonte umano, la vita fetale è indisponibile agli altri, a meno che l’intervento dell’esterno non sia destinato a un vantaggio direttamente orientato a questo stesso essere. Si apre qui, allora, una distinzione tra ricerca fetale benefica e non-benefica, o, come alcuni preferiscono dire, terapeutica e non-terapeutica.

La radice della distinzione è, come si diceva, nel riconoscimento della qualità umana della vita prenatale. Come ogni altra vita, essa può essere «manipolata» solo per produrre un reale vantaggio di carattere curativo, laddove ci si trovasse di fronte a minaccia della sua sopravvivenza o a rischio di una morbosità. Una valutazione etica della ricerca fetale a scopo terapeutico non può essere pregiudizialmente negativa. Essa deve, tuttavia, calcolare bene i tassi di rischio che la manipolazione stessa comporta, e commisurarli al bene che si intende procurare mediante la terapia. Non ogni speranza o previsione di miglioramento garantisce contro eventuali effetti, talvolta più deleteri dei disturbi che si vogliono eliminare. Anche in questo delicato settore della pratica scientifica ed embriologica può valere il cosiddetto «principio di totalità», in base al quale è legittimo un intervento manipolatorio, purché esso sia diretto al bene dell’intero organismo. Ma questo stesso principio di totalità richiede di essere applicato con estremo discernimento, quanto meno per due ordini di motivi. Il primo riguarda l’enorme delicatezza della materia sulla quale si interviene. Questa, come si è detto, non consiste in un grumo di cellule umane viventi, ma in un essere umano in sviluppo, con caratteristiche e qualità chiaramente umane. Ciò comporta un preciso senso di rispetto e somma cautela nel programmare ed attuare interventi di manipolazione, considerando anche che la ricerca fetale è in uno stadio non così avanzato da mettere al riparo da spiacevoli sorprese.

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L’altro ordine di considerazioni riguarda la finalità dell’intervento terapeutico. Come si è detto, esso si legittima se è in vista del bene di «tutto» l’organismo. Ora, talvolta è per l’appunto questo «tutto» che è messo in discussione. Se la totalità dell’essere è intesa in forma quantitativa e corrisponde a modalità di efficienza e di produttività, allora si giustificherà ogni intervento, seppure rischioso, purché sia risolutore di disturbi della sfera quantitativa. Ma è proprio questa la «totalità» dell’essere umano? O si deve, piuttosto, ritenere che essa consista nella capacità reale di un individuo di accettare la sua condizione umana, aperta alla trascendenza e alla solidarietà? Allora individui anche segnati da disturbi possono e debbono essere considerati pienamente «persone», in quanto dotati della capacità di amare e di donare.

Resta da considerare il discorso della ricerca fetale non-terapeutica. Lo scopo di tale pratica consiste nella volontà di conoscere la realtà della vita intrauterina, nella sua intima struttura e nelle sue funzioni principali. È chiaro che non si può ritenere privo di interesse un simile studio e la semplice sperimentazione di ricerca fetale. Essa certamente è carica di buone promesse di aiuto all’umanità, se non ancora al presente, quanto meno in futuro. Ma i livelli di manipolazione del singolo feto e le implicazioni che essa determina mettono in guardia contro un uso degli embrioni a scopo unicamente di ricerca. Questa valutazione negativa, dal punto di vista morale, non vuole essere dettata da avversione senza motivi contro la scienza in sé. Piuttosto è ispirata a un rispetto radicale della vita, sin dal suo concepimento 73.

In questa linea concordano anche le preoccupazioni di non poche associazioni mediche, nazionali ed internazionali, quando si danno dei codici etici non certamente permissivi al riguardo. Certo non bastano i codici deontologici. Occorre la convinzione di rispetto e di servizio alla vita di coloro che sono implicati in tali pratiche. È necessario chiarificare le intenzioni profonde e le aspirazioni sottese a un impegno così gravoso e delicato. Si richiede inoltre un preciso senso di attaccamento ai valori umani insiti nell’uomo e alla sua apertura all’esperienza religiosa e trascendente.

Come si può notare, in sintesi, occorre porre molta attenzione all’ethos del ricercatore: verificarne la verità, smascherarne gli inganni nascosti,

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i guadagni sospirati. Ma tutto questo da solo non basta. Ci vuole un limite derivante dalla situazione oggettiva, che si determina quando si assume che l’essere su cui si agisce e che si manipola è un essere umano. Questo si traduce nella comprensione concreta che non ogni buona intenzione o una corretta finalità rende automaticamente buoni tutti i mezzi di cui ci si serve. Nonostante le buone intenzioni, questi possono essere e rimanere irrispettosi dell’uomo che quel feto è destinato ad essere, della sua libertà e della sua dignità.

2. L’integrità naturale

Il valore della vita umana, come vita di un soggetto-persona, porta con sé numerose conseguenze. Tra queste, una è che la vita venga mantenuta in uno stato di soddisfacente «integrità» naturale. La verità di questa affermazione va compresa a fondo onde evitare delle distorsioni. Infatti, si potrebbe credere che l’impegno etico sia rivolto a garantire un’integrità naturale di carattere quantitativo, ispirata dalla volontà di un rispetto assoluto della quantità biologica su cui si innesta l’esistenza della persona umana.

Non è certamente questo lo scopo dell’etica cristiana, quando domanda la difesa e la promozione dell’integrità naturale. Piuttosto essa muove dalla convinzione di un rapporto profondo tra «essere biologico» ed «essere personale». Il corredo biologico che la persona possiede non è eterno, mentre il suo essere personale si sottrae alla limitazione del tempo. Il corpo, nella sua accezione biologica, tuttavia, è il supporto insostituibile che permette alla persona umana di vivere collocata in una dimensione spazio-temporale e di costruire umanità e storia, mediante la capacità, garantita dal corpo, di entrare in relazione interpersonale con gli altri e con l’ambiente.

Non si può non riconoscere, in questo rapporto tra essere biologico ed essere personale, un elemento fortemente implicativo, sotto il profilo antropologico e, per conseguenza, sotto il profilo morale. Dato questo stretto e inalienabile rapporto tra biologicità e personalità, la ricerca e la tutela dell’integrità naturale del corredo biologico entra nel cuore stesso dell’etica della vita, ponendosi come uno tra i doveri morali fondamentali. Relativamente a se stessi, questo dovere comporta il compito, eticamente rilevante, di non omettere nulla di quanto possa essere richiesto per mantenere la propria vita biologica in un buono stato di integrità e di fare, positivamente, tutto quanto è necessario per la promozione di una tale integrità. Relativamente agli altri, questo dovere determina il

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compito di concorrere alla tutela della integrità altrui: negativamente, non provocando lesioni parziali o totali; positivamente, collaborando per il miglioramento delle condizioni di vita del prossimo.

La coscienza cristiana è diventata più consapevole dei molteplici comportamenti che attentano e minacciano l’integrità della vita. Con gravi parole i vescovi europei hanno rivolto un richiamo alla coscienza civile ed etica dei loro fedeli: «L’uomo non può attentare arbitrariamente alla vita umana, perché essa è dono di Dio all’uomo e il rispetto della vita costituisce un diritto fondamentale della persona. Questo diritto è misconosciuto in molti paesi d’Europa: si pensi alla pratica dell’aborto, del terrore, della violenza. Di fronte a tale situazione, dobbiamo dichiarare solennemente che ogni uomo ha diritto alla vita, dal momento del concepimento fino alla sua morte naturale, e che ogni uomo e l’intera società umana hanno il dovere di proteggere questo diritto in tutta la sua estensione» (Vescovi d’Europa, Dichiarazione collettiva, 28 sett. 1980). La tutela e la promozione dell’integrità naturale diventa un problema concreto e preoccupante in molte pratiche, antiche e moderne, della medicina e della ricerca scientifica. Accenniamo alle più importanti.

2.1. Le mutilazioni

È l’intervento mediante il quale si provoca la privazione di una funzione esercitata da un organo. Essa può essere intesa in senso stretto, quando è l’organo stesso che viene asportato, e in senso largo, quando si provoca solo la sospensione funzionale dell’organo.

Poiché la biologicità, nella sua integrità, è il supporto storico e concreto per l’esistenza personale, la mutilazione è un attentato alla persona umana stessa, prima che uno squilibrio nel suo organismo biologico. La valutazione morale, di conseguenza, esige che la gravità morale della mutilazione non venga stabilita solo sulla base della gravità quantitativa della lesione provocata, ma anche in vista della menomazione — più o meno ampia — della capacità della persona di esprimere pienamente e liberamente se stessa. Quando è l’odio o la volontà di sopraffazione a dettare un simile intervento e a ledere a tal punto la dignità e l’integrità della persona, non è difficile capire il motivo della immoralità del gesto mutilante. Questo vale sia che si tratti di una mutilazione inferta al corpo di un altro, sia ancora che si tratti di una automutilazione per disprezzo verso la propria vita e per rifiuto della propria corporeità.

La dottrina morale della chiesa insegna che «gli uomini... non hanno altro dominio sulle membra del proprio corpo che quello che spetta al loro fine naturale, e che non possono distruggerle o mutilarle o per altro

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modo rendersi inetti alle funzioni naturali, se non nel caso in cui non si può provvedere per altra via al bene di tutto il corpo» (Pio XI, Casti connubii). Quanto qui è detto sull’indisponibilità relativamente al proprio corpo, vale a maggior ragione per l’indisponibilità del corpo altrui. Ma l’eccezione che il testo prevede apre una distinzione etica di non poco interesse circa la cosiddetta mutilazione terapeutica. Talvolta una parte dell’organismo minaccia il bene dell’intero, a causa di un cattivo funzionamento di una parte, che contagia il tutto. In questi casi un intervento mutilante si pone come la via irrinunciabile per mettere in salvo il bene totale dell’organismo, e perciò della persona. La moralità di un simile atto, sul proprio e sull’altrui corpo, si fonda sul principio di totalità che Papa Pio XII così ha formulato: «In virtù del principio della totalità, del diritto cioè di utilizzare i servizi dell'organismo come un tutto, l’uomo può disporre di parti individuali per distruggerle o mutilarle, quando e nella misura richiesta per il bene dell’essere nel suo insieme, per assicurare l’esistenza o per evitare e, naturalmente, per riparare gravi e durevoli danni che altrimenti non potrebbero essere allontanati né riparati» (Allocuzione del 13.9.52).

A prescindere dall’eccezione terapeutica — sulla quale la dottrina e la coscienza morale si orienta abbastanza agevolmente — il tema delle mutilazioni si presenta non privo di drammatiche conseguenze e preoccupazioni relativamente all’uso che in molte parti della terra si fa di esse, allo scopo di estorcere consensi, punire devianze politiche, ideologiche e sociali. Contro l’uso della tortura psicologica e fisica deve sapersi levare, sempre attenta e vigile, la coscienza di ogni uomo, a difesa del proprio simile, contro la prepotenza e l’odio. La voce dei cristiani deve distinguersi nel coro per il rifiuto di ogni compromesso, quando è in gioco la dignità dell’uomo.

Un caso particolare di mutilazione è quella che si rivolge contro l’integrità sessuale, ovvero la castrazione. Nel passato si è ritenuto in modo abbastanza comune che fosse lecito intervenire nei confronti di soggetti colpevoli di particolari crimini, comminando la pena dell’asportazione degli organi sessuali. La motivazione di tale pena aveva sia una funzione deterrente, per scoraggiare eventuali futuri rei, sia una funzione cautelativa, per evitare che il colpevole potesse continuare a nuocere.

Contro l’uso coattivo della castrazione come pena si erge la comprensione odierna dell’importanza antropologica della dimensione sessuale e la convinzione che l’intervento in tale sfera della persona non compromette solo l’integrità materiale del corpo, ma condiziona fortemente anche l’identità globale dell’essere umano. È questo il motivo per cui una norma morale, enucleata alla luce di tali convinzioni, riprova tale pratica come attentato grave alla dignità della persona. Per quanto possa essere

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grave la colpa della quale ci si carica mediante reati di natura sessuale, essa non giustifica una lesione così profonda e irreversibile dell’armonia della persona.

2.2. L’ingegneria genetica

La conoscenza della struttura di base della costituzione genetica umana e la capacità di decodificare il DNA hanno fornito la possibilità di inserirsi nel nucleo più intimo e un tempo misterioso della struttura umana, con la conseguenza di potervi addurre modificazioni. La serie di interventi possibili su questa linea viene indicata con la suggestiva espressione di «ingegneria genetica». Essa costituisce il campo delle nuove possibilità aperte dinanzi all’uomo contemporaneo, reso capace di immettere nel circuito cellulare informazioni recate da geni, con l’intento di modificare il comportamento cellulare e la conseguente realtà personale.

Vista nella sua luce affascinante e minacciante, l’ingegneria genetica ha impressionato l’umanità per le implicazioni sconvolgenti che il suo impiego può fornire. Nella visione cristiana, l’uomo è colui che, creato da Dio, è stato posto come amministratore attento, creativo e fedele dei beni che Dio gli ha affidato. Il suo compito nel mondo è quello di portare avanti l’opera di Dio. Egli partecipa alla prerogativa del Signore creatore, come con-creatore e come pro-creatore. Questo pone una premessa molto importante per le conseguenze etiche 74. L’antropologia cristiana propone un’immagine «dinamica» dell’uomo e del suo compito nella storia: «L’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo con il quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde alle intenzioni di Dio. L’uomo, infatti, creato ad immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il mondo nella giustizia e nella santità (cfr. Gn 1,26-27; 9,2-3; Sap 9,2-3), e così pure di riportare a Dio se stesso e l’universo intero, riconoscendo in Lui il Creatore di tutte le cose; in modo che nella subordinazione di tutta la realtà all’uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra (cfr. Sal 8,7.10)» (Gaudium et Spes, 34).

La signoria dell’uomo sulle realtà create è una conseguenza del suo essere immagine di Dio. Ma tale signoria non può essere esercitata in

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modo corretto se non resta aperta la subordinazione dell’uomo a Dio: la giustizia e la santità richiamate nel testo conciliare sono appunto espressioni della riverenza con cui la creatura umana si colloca di fronte al suo Signore e lo riconosce Creatore e fonte della vita, e insieme adora la sua divina volontà. Lavorare per migliorare le condizioni di vita sulla terra è, quindi, un compito squisitamente umano e cristiano. Un tempo, questo compito era limitato. Oggi esso è enormemente cresciuto, in rapporto alle nuove conoscenze che l’uomo ha di sé, dell'ambiente, del mondo. È esteso non più solo alle condizioni periferiche dell’esistenza umana, ma tocca il centro e il cuore di questa stessa esistenza, ed entra nel tessuto della sua composizione genetica. Se ne deduce che un giudizio etico sull’ingegneria genetica non deve essere aprioristicamente negativo. Anche l’ingegneria genetica può essere finalizzata al compito di «migliorare le condizioni di vita umana». Questa impostazione nasce dalla meraviglia, carica di gratitudine, con cui il credente è chiamato a valutare queste nuove frontiere dell’esistenza umana. Ma, affinché la meraviglia non generi un facile e superficiale ottimismo, occorre che essa sia temperata dal giusto riconoscimento della signoria di Dio. Non di rado, infatti, sorprende, in taluni uomini impegnati nelle ricerche di ingegneria genetica, un senso di sufficienza e di onnipotenza che li colloca al di fuori di un atteggiamento di lode di Dio, della sua grandezza e della sua assoluta signoria. Se è così diffuso il timore di disastrose conseguenze e complicazioni connesse alla ricerca nel campo della genetica, ciò va addebitato alla minaccia di manipolazioni da parte di gruppi che esercitano nuove e più preoccupanti forme di potere.

La valutazione morale della pratica di ingegneria genetica va perciò fondata sul discernimento, i cui criteri sono riconducibili a diversi fattori. Anzitutto è importante chiarificare l’immagine e la visione di uomo a cui si ispira. In quanto intervento di modificazione della qualità umana dell’esistere, l’ingegneria genetica deve basarsi su un’antropologia. Se la visione di uomo che si assume come modello è quella dell'homo faber ― dell’uomo, cioè, obbediente al sistema di produzione/profitto —, allora la sua modificazione sarà incanalata verso lo sviluppo dei contenuti genetici riguardanti la sua resa efficientistica. Nelle mani dei pochi ingegneri genetici l’uomo di domani potrebbe venire prefabbricato come servo del sistema produttivo, limitato nelle sue capacità autotrascendenti, intento solo a procurarsi beni di carattere materiale. Si capisce, a questo punto, come le riserve e i timori per una simile opera non siano infondati. Anzi essi sono dettati da una fede profonda nell’uomo, nella sua umanità, nella sua dignità. Se, invece, il riferimento antropologico che si ha presente è basato su un’immagine dell’uomo come homo sapiens, riconosciuto nella sua qualità di essere aperto alla trascendenza e alla solidarietà,

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allora la ricerca di un miglioramento del suo corredo genetico potrà essere investita nel senso di un reperimento di quelle risorse di umanità che favoriscono una crescita integrale dell’uomo e della famiglia umana. Una simile opera di ingegneria genetica si porrebbe nell’alveo di quel compito di con-creazione e di pro-creazione che l’uomo riceve da Dio e che è il segno dell’essere creato a immagine e somiglianza del Creatore.

Per giungere a una simile visione antropologica, i cultori della ricerca genetica non possono isolarsi nel chiuso dei loro laboratori. Il pericolo dell’isolamento sta proprio nella difficoltà più radicale a elaborare una reale e positiva immagine dell’uomo. Occorre, allora, che venga coltivato un proficuo dialogo interdisciplinare, onde costruire, assieme a filosofi, teologi, psicologi, educatori ed uomini di spiccata sensibilità umanistica, un’immagine di uomo dal volto umano.

Non sembri estraneo ai criteri etici che ispirano una valutazione dell’ingegneria genetica considerare il rischio di riduzionismo cui sono esposti gli operatori della ricerca genetica. La consuetudine prolungata con il microcosmo genetico può chiudere gli scienziati nella morsa di una valutazione appiattita e non differenziata della qualità tipicamente umana della genetica umana. Questi scienziati, cui vanno riconosciuti meriti indubbi, possono perdere di vista l’unità sostanziale dell’essere umano, che è fatto di determinazioni genetiche, sì, ma anche di inserimento in un ambiente socio-culturale e di capacità di autodecisione.

Non può essere occultata — cosa che purtroppo avviene non di rado ― l’interazione tra corredo genetico, ambiente e libertà. Questo è il costitutivo tipicamente umano della persona. Chi agisce per creare migliori condizioni di vita non può lavorare solo nel senso di una di queste vie, ma deve essere attento alla globalità e alla reciprocità di tutte e tre, per garantire una reale crescita umana. Un uomo, determinato geneticamente, anche se orientato verso scelte positive, indotte da elementi genetici di sostegno, non è ancora un essere cresciuto all’altezza della sua qualità umana di vita, se non ha sviluppato un maggior senso di rapporto con l’ambiente e, soprattutto, un più spiccato esercizio della sua libertà, della sua responsabilità e della sua autodeterminazione.

Il pessimismo sul deterioramento genetico, che fa accelerare la ricerca e i programmi di intervento di ingegneria genetica, è un segnale chiaro di una visione riduzionista della quale molti cultori della genetica sono affetti. Perché la loro opera possa essere positiva, costoro devono assumere la consapevolezza che il degrado dell’uomo non si spiega con il solo degrado genetico, ma va valutato in ordine a un ambiente umano sfavorevole e a una volontà di bene affievolita. Adoperiamo qui l’espressione «ingegneria genetica» in senso stretto. La riferiamo, cioè, solo alla ricerca per modificazione; non vi includiamo quindi la dimensione terapeutica,

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della quale diremo in seguito. Questa accezione ristretta del termine porta con sé anche una valutazione etica particolarmente stretta del fenomeno. Infatti, non essendo un intervento terapeutico, l’ingegneria genetica si configura come puro ambito di ricerca per un cambiamento migliorativo non immediatamente richiesto per la correzione di un disturbo. Come tale essa va considerata con particolare prudenza, commisurando non solo le intenzioni e le prospettive, ma anche i reali tassi di incidenza di disturbi che essa può indurre.

Se i cultori della genetica, in dialogo interdisciplinare con altri operatori, riusciranno a integrare la loro visione in una dimensione squisitamente umana dell’uomo, la loro opera non potrà non contenere germi positivi per un effettivo miglioramento del futuro dell’umanità. Ciò non svuota di senso le preoccupazioni e i giudizi morali cautelativi. Se, per principio, il bene della vita, come realtà creata, è affidato alla saggezza e alla fedeltà creativa dell’uomo, non si può condannare il desiderio dell’uomo di migliorare la base genetica della sua esistenza. Ma al tempo stesso è necessario aprire gli occhi di fronte ai molteplici pericoli che una prassi di ricerca genetica può comportare, se essa non è ispirata da un profondo senso dell’umano che sa anche sottostare, oltre che alla signoria del Creatore, anche a forme di autoregolazioni e autodefinizioni dei confini da non oltrepassare. In questo senso è da vedere positivamente lo sforzo che tante agenzie di pensiero e di controllo sociale vanno facendo per dare codici di comportamento sui quali si esprima il consenso e la fiducia collettiva.

L’etica cristiana può fornire gli elementi necessari per individuare i valori e per chiarificare i disvalori e i rischi insiti nella ricerca genetica; così come pure può indicare le soglie di vera umanità e di crescita integrale della persona a cui devono ispirarsi, successivamente, i codici deontologici della ricerca. Non esiste nessun nuovo compito che non implichi nuove forme di responsabilità, tanto più acuta e vincolante, quanto più alta e impegnativa è la posta in gioco. E qui la posta in gioco non è altro che l’uomo, il suo avvenire, la sua umanità.

2.3. La terapia genetica

Sopra abbiamo adoperato l’espressione «ingegneria genetica» in senso rigorosamente ristretto, come pratica di ricerca e di modificazione delle qualità genetiche dell’umanità. Alcuni impiegano la stessa espressione in senso lato e vi includono anche quelle pratiche di interventi genetici tesi a curare disturbi concreti, di pazienti singoli. È preferibile, al fine di evitare confusioni, designare questo secondo ambito con il nome di

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«terapia genetica», lasciando all’ingegneria genetica il suo senso stretto.

Le conoscenze mediche degli ultimi tempi hanno rivelato come una gran parte di patologie prima sconosciute siano da ricondurre a squilibri di carattere genetico. La lista delle malattie ereditarie è soggetta a crescere sempre più. Ciò indica non solo l’importanza che il corredo genetico ha per la salute umana, ma anche la fondatezza delle speranze poste nella terapia genetica, come risposta adeguata alla natura ereditaria di tante malattie.

L’ottimismo con cui molti guardano alla terapia genetica è, sì, motivato, ma deve essere corretto con un senso di realismo: la scienza biologica allo stato attuale è in grado di intervenire su alcuni disturbi, ma numerosi altri le restano ancora sottratti e ignoti. La terapia genetica, dal punto di vista morale, va giudicata con criteri analoghi a quelli che normano altre forme di terapia. Vale a dire, per il bene dell’intero organismo non solo è lecito, ma anche necessario sottoporsi a terapia. Questo principio va integrato, e se necessario corretto, con il criterio della proporzionalità tra rischio che si corre ed effetto benefico che si intende procurare. Nel campo della terapia genetica questa proporzione non sempre può essere stabilita con buona approssimazione, data la novità della procedura terapeutica e la conoscenza appena iniziale degli esiti a lunga scadenza. Tuttavia non si può formulare un giudizio di massima negativo, data la finalità terapeutica dell’intervento in questione. Ciò nonostante, però, non deve essere privo di discernimento l’operato in un settore così delicato 75. Non tutte le forme di terapia genetica, infatti, presa sia in senso lato che in senso stretto, sono rispondenti alla dignità dell’uomo. Una forma ante litteram di «terapia genetica» la si può riscontrare già nel costume dell’antichità classica di rifiutare i neonati deboli. Una pratica non lontana da questo costume può essere individuata nell’intento di chi vorrebbe attuare una specie di terapia genetica, mediante una selezione naturale di soggetti esposti a disturbi. Costoro, eliminati perché non assistiti da alcuna cura, non pregiudicherebbero il futuro della specie, la quale verrebbe così «purificata» da elementi sfavorevoli alla qualità del patrimonio genetico. Una simile pratica è contraria alla dignità dell’uomo, oltre che contraddire al compito etico di difendere la vita, curando le malattie. Lasciar morire senza cura bambini affetti da malattia curabile è disumano, e non rende credibile l’impegno di miglioramento della specie.

Anche la forzata sterilizzazione — permanente o temporanea — di

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soggetti geneticamente pericolosi non può essere giudicata che come una forma grave di violazione del diritto di autodecisione che caratterizza la persona umana. È evidente che occorre un’opera educativa al fianco di questi soggetti, perché vivano con responsabilità la loro funzione riproduttiva; ma nessuna coazione può risolvere moralmente il problema, qualora sia assente il rispetto della libertà personale.

Si è già detto sopra a proposito dell’aborto eugenetico. Per alcuni esso sarebbe nient’altro che la cura di un disturbo in atto. Ma la chiesa, nel suo magistero e nella valutazione dei teologi, ha sempre espresso un giudizio negativo nei confronti di questa pratica, che non sopprime solo il disturbo genetico, ma anche la stessa vita del soggetto. Sommamente pericoloso diventa l’uso «politico» di una simile pratica abortiva e la storia, nel passato a noi non troppo lontano, ci ha già mostrato la mostruosa manipolazione di chi ha annientato centinaia di migliaia di individui, perché «malati». Ma non si deve andare solo a questi infausti ricordi. Basta vedere con quanta superficialità il fenomeno si prolunga mediante i persuasori occulti della pubblica opinione che reclamizzano la facoltà dei genitori a selezionare i figli «sani», sbarazzandosi di quelli «tarati».

Queste forme di terapia genetica non sono accettabili, a causa del disprezzo della dignità umana che in esse è insito. Apprezzabile, invece, è l’impegno di coloro che, o mediante terapia genetica diretta, o mediante forme indirette, tentano la correzione di informazioni genetiche sbagliate, costituendo una buona speranza di salute per i singoli e la comunità.

La terapia dei geni è un campo non ancora del tutto esplorato; ma esso risponde a una precisa responsabilità che si ha verso persone singole, portatrici di handicap genetico, così come verso l’umanità futura. È proprio in nome di questa responsabilità che si deve considerare con attenzione la precisa modalità delle singole terapie genetiche, per valutarne, insieme alle speranze di guarigione, anche i rischi e le minacce per l’intero organismo. In questo contesto va collocata una precisa forma ' di terapia genetica che oggi si presenta carica di promesse. È la «transduction»: un gene non-patogeno viene immesso nel sistema genetico cellulare, unitamente a una cellula che fa da vettore. Il rischio di una simile procedura può essere quello di esercitare, da parte del gene immesso, un effetto su tutti gli altri geni. È evidente che un simile effetto non è indifferente, dal punto di vista etico. Occorre, perciò, agire con prudenza, onde evitare che l’effetto della modificazione terapeutica sia più letale del male stesso che si intende curare.

Nella visione globale del problema è preferibile, allo stato attuale della ricerca, dare maggiore importanza alla terapeutica genetica indiretta, laddove essa può affrontare la cura di squilibri. Questa, infatti, garantisce

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una non nocività che deve essere sempre ricercata, soprattutto in un settore così delicato. Diete, provvista di fattori mancanti, impegno immunologia), sono rimedi non disprezzabili e che devono sempre essere tentati, prima di affrontare, con i suoi rischi e i suoi problemi, la terapia genetica diretta. Occorre inoltre una corretta informazione genetica diffusa. La prevenzione può fare molto in questo, come in altri campi della salute umana. Un’informazione adeguata e costante è già un’opera di profilassi apprezzabile; se congiunta con altri interventi, può aiutare di molto la soluzione delle insufficienze e degli squilibri genetici.

2.4. La sperimentazione sull’uomo

La medicina, come scienza, si fonda sul metodo induttivo. Essa ha come suo statuto epistemologico il ricorso alla formulazione di un’ipotesi che deve essere sperimentata e verificata, per poter dare i suoi risultati. L’esperimento nella scienza medica è un insostituibile canale di conoscenza, di esplorazione e di acquisizione di dati che vengono poi estesi ed entrano a far parte del patrimonio medico comune. Ciò porta a comprendere la necessità della sperimentazione per il futuro della pratica medica. Dei progressi della medicina diventano direttamente ed immediatamente beneficiari gli uomini, come singoli e come umanità.

La storia delle sperimentazioni in medicina è antica e si coestende alla storia della medicina stessa 76. Da sempre, infatti, la pratica medica si è basata sull’esperienza accumulata nei diversi tentativi fatti e nella valutazione dei risultati acquisiti. Quello che caratterizza l’epoca contemporanea, sotto questo profilo, è non solo una maggiore diffusione della pratica sperimentale, ma anche un ricorso sistematico ad essa, anche laddove si avesse già a disposizione un metodo terapeutico. La sperimentazione, si può dire, oggi viene assunta a sistema, sicché ci troviamo di fronte ad una vera e propria scienza della sperimentazione.

La via ordinaria della sperimentazione medica (farmacologica o chirurgica) passa attraverso l’impiego dell’animale. La specie animale è la prima sede di collaudo di una tecnica chirurgica nuova, o di un farmaco di

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nuova composizione. Ma l’originalità dell’essere umano e la novità qualitativa delle risposte del suo organismo richiedono che, dopo una certa procedura su animali, si passi a sperimentare direttamente sull’uomo. E qui sorgono i più rilevanti problemi etici.

Il rispetto della vita sub-umana non è di carattere finale, ma funzionale. Benché tutto ciò che esiste sia opera di Dio e come tale meriti rispetto e riverenza, tuttavia nessun imperativo etico rende, a priori, le opere del creato indisponibili all’uomo. Tutto, infatti, è stato creato per lui e per il proprio bene l’uomo può adoperare tutto, tranne la vita del proprio simile. Da qui, allora, l’origine della dimensione etica del problema della sperimentazione sull’essere umano.

Un’ulteriore premessa riguarda la nozione di «rischio». Ogni passaggio dalla sfera animale a quella umana comporta un rischio, non sempre prevedibile. Ma il rischio è una dimensione costante dell’agire umano. Nessun campo dell’attività dell’uomo è sottratto alla sorpresa di una non calcolata reazione, con l’imprevedibilità di conseguenze non ipotizzate.

Ci sono dei rischi «normali», cioè abitualmente connessi con l’agire. Da taluni questi rischi vengono chiamati anche «statistici», proprio perché è l'indice statistico che li rivela con la loro normalità. Altri rischi, invece, sono prodotti da elementi che all’occasione vengono immessi e che, per le loro implicazioni, accrescono il tasso di pericolosità di un determinato comportamento. Si è soliti chiamare i rischi di questo secondo tipo rischi «specifici». L’area di rischio nella vita umana non si limita al solo campo della medicina. Si parla di rischio in molteplici zone, da quella ecologica a quella industriale, da quella sportiva a quella medica.

Queste due premesse aiutano a collocare il problema etico della sperimentazione sull’uomo in un contesto più ampio, dove, attutita una precomprensione emotiva spesso operante, se ne veda la sua reale dimensione. Gli obiettivi della sperimentazione su soggetti umani sono molteplici. La loro diversità modifica anche la specie morale, per cui la distinzione tra i diversi tipi di sperimentazione è importante.

Si può finalizzare la sperimentazione di un nuovo farmaco o di una nuova tecnica chirurgica a uno scopo immediatamente curativo. Parliamo allora di sperimentazione terapeutica. Nella cura di un disturbo incombe, al medico da una parte e al paziente dall’altra, il dovere morale di esperire ogni mezzo per poter superare efficacemente lo stato morboso.

Dunque, in linea di principio, il ricorso a terapie è un dovere. Ma talune terapie non sono ancora così collaudate da garantire esiti favorevoli. Si impone allora la necessità di tentativi sperimentali. Alcuni di questi, però, rivelano una scarsa proporzione tra vantaggi che garantiscono

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e rischio che comportano. In questo caso si pone legittimamente la domanda se sia utile il ricorso a una simile procedura.

Nella sua dottrina morale la chiesa si è soffermata su una distinzione tra mezzi terapeutici ordinari e mezzi terapeutici straordinari, riconoscendo che il ricorso ai primi rientra in un dovere etico stretto, mentre il ricorso ai secondi va valutato con diversa cogenza, partendo da elementi aggiuntivi (come la pericolosità del mezzo, la sua costosità, le speranze implicate ecc.). Con riferimento a questi parametri, non si può negare che il ricorso alla sperimentazione terapeutica risulti spesso condizionato e scoraggiato. In verità però va detto anche che mezzi terapeutici ieri ritenuti straordinari, oggi possono considerarsi sempre più ordinariamente adoperati: anche strutture ospedaliere di piccola dimensione spesso posseggono strumenti e possibilità di alta specializzazione. Per cui il ricorso a terapie sperimentali sembra essere assunto, oggi, come prassi comune.

C’è da dire anche che la stima dei progressi della medicina e l’effettiva garanzia che medici ed attrezzature forniscono ispirano fiducia a molti pazienti e alle loro famiglie nel sottoporsi a procedure, anche eccezionali. Tutto questo costituisce l’ambiente concreto in cui situare il giudizio etico sulla sperimentazione terapeutica su soggetti umani.

Nell’insieme essa può essere ritenuta morale, poiché il bene dell’individuo malato la richiede. Ma due altre esigenze etiche devono essere tenute presenti. Per prima cosa la competenza professionale di chi conduce l’esperimento. Non tutti, infatti, sono in grado di avventurarsi in strade così rischiose, seppur animati da buona volontà. Il medico o l’équipe medica che conduce la sperimentazione deve attentamente valutare le sue capacità, le modalità più opportune per produrre il massimo vantaggio possibile al paziente e il rischio più contenibile. Questa istanza etica è iscritta nella deontologia professionale e non può essere dimenticata, soprattutto quando si tratta di interventi delicati e complicati.

C’è ancora un’altra esigenza. Il paziente non è un «oggetto» da amministrare. È una persona che deve, compatibilmente al suo stato di malattia, partecipare attivamente al cammino di guarigione, se questa è ancora possibile o, in caso contrario, deve essere messo in condizione di acquisire la consapevolezza, relativamente al suo stato di recettività, delle sue reali condizioni. Questo comporta nel medico il dovere di un’informazione adeguata da dare al paziente o a chi lo rappresenta. Non tutti i pazienti e non sempre i familiari sono in grado di comprendere bene le prospettive, il linguaggio e le metodiche implicate. Ciò non dispensa il medico da un dovere di informazione, vera, chiara ed onesta. Anzi, il rapporto fiduciale che si stabilisce tra medico e paziente e che ha una sua specifica valenza terapeutica, al di là dei mezzi impiegati, potrebbe

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risultare deluso da un intervento messo in opera senza il consenso informato da parte dell’interessato.

Parimenti non sembra indegna dell’uomo, anzi talvolta è da lodare, la condotta di taluni pazienti i quali, pur nutrendo solo remote speranze di guarigione, si sottopongono ugualmente a interventi di sperimentazione, al fine di lasciar accrescere le opportune conoscenze scientifiche nel campo specifico del loro disturbo. Qui siamo ancora nell’ambito della sperimentazione terapeutica, ma insieme al principio di totalità troviamo anche la presenza del principio di carità che giustifica degli interventi, oltre che per la speranza di un bene in sé, anche per la costruzione di un bene per l’intera umanità 77.

Accanto alla sperimentazione terapeuticamente finalizzata, si conosce anche la sperimentazione pura o, come si suol dire, di ricerca. Qui il destinatario non è un soggetto malato, ma un sano; lo scopo non è un tentativo terapeutico, ma l’accrescimento delle nozioni mediche. La qualità morale di tale caso è molto differente e richiede un apparato di criteri ben identificato.

Anzitutto chi conduce la ricerca deve essere molto competente nel suo campo, e anche costantemente aperto a verifica delle sue procedure. Per questo i codici deontologici prevedono un sistema formale di controllo professionale e sociale sulle équipes dei ricercatori. Questo controllo serve a misurare il rapporto proporzionale tra danni operati attraverso la pericolosità degli esperimenti e obiettivi vantaggiosi in programma. Ma il controllo aiuta anche i ricercatori a chiarificare sempre meglio a se stessi le intenzioni, le prospettive e il reale servizio che essi rendono o intendono rendere all’umanità.

Un ulteriore criterio morale consiste nel rispetto della persona su cui si compie l’esperimento. Il termine che correntemente designa i soggetti di un esperimento è quello di «cavie». Un simile appellativo, non casualmente, fa capire quanta poca stima della dignità umana vi sia in talune procedure sperimentali. L’uomo non è mai cavia di un altro uomo, fosse anche allo scopo di contribuire a un eventuale bene per l’umanità futura. Da qui il dovere, a cui tutti i codici etici richiamano, di procedere nella sperimentazione di ricerca su soggetti umani solo in presenza di un consenso libero e informato da parte di chi vi si sottopone. Gli abusi che spesso si sono verificati, specialmente con soggetti socialmente

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impediti ad un consenso libero e informato (si pensi ai carcerati, ai prigionieri politici, ai ritardati mentali, ecc.), hanno giustamente scosso la sensibilità dell’opinione pubblica. Di qui la richiesta di una rigidità deontologica ed etica tutta particolare per tali sperimentazioni su soggetti umani.

Se questi criteri regolano la qualità morale sul versante del ricercatore, anche dalla parte di chi si sottopone alla sperimentazione devono esserci dei requisiti che diano valenza etica positiva al suo gesto. L’uomo non è il padrone assoluto del suo corredo biologico. Come creatura egli non si appartiene; scopre la sua signoria sul creato, ma non su se stesso. Purtuttavia l’essere umano non è completamente realizzato, ma è piuttosto un potenziale di inestimabile ricchezza per il suo e l’altrui bene. È questo bene, in definitiva, la sua vera mèta; a questo traguardo si rivolge il progetto della sua piena umanizzazione. In quanto potenziale, egli può investire questa sua ricchezza per il bene umano, presente e futuro. Per questo egli può sottoporsi a sperimentazione di ricerca, qualora questa non comprometta in maniera duratura e grave la sua integrità naturale.

Ma non basta solo il dosaggio del danno che, eventualmente, si può riportare. Molto contribuisce la disposizione interiore del soggetto che si sottopone alla pratica sperimentale. Questa dà significato moralmente positivo all’azione se è mossa da uno slancio altruistico, interessato al bene dell’umanità. Solo il principio di carità, già menzionato, rende legittimo il ricorso a procedure che implicano la spendibilità, da parte dell’uomo, del suo corredo biologico. Interessi di lucro, in chi sperimenta come in chi si sottopone all’esperimento; volontà di autoaffermazione, nell’uno come nell’altro; cinismo; mancanza di rispetto (o disprezzo) per la propria umanità: sono tutti elementi da considerare attentamente, quando ci si accinge a un giudizio morale su questa delicata materia. È del tutto opportuna la severità con cui i codici deontologici (vedi il codice di Helsinki, 1964), convergenti con il magistero della chiesa (cfr. l’allocuzione del 14.9.52 di Pio XII), richiedono responsabilità e impegno da parte dei ricercatori e di tutta la società.

2.5. I trapianti di organo

Il problema dei trapianti si è posto con singolare urgenza negli ultimi decenni e ha richiesto una puntualizzazione etica, per i numerosi aspetti connessi 78.

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Per trapianto si intende il prelievo di una parte di tessuto o di un intero organo da un organismo donatore e il successivo impianto su un organismo ricevente. Si può dare il caso anche di cosiddetto «autotrapianto» (quando coincidono donatore e ricevente); tuttavia la discussione morale a tale riguardo non è così delicata come nel caso di un omotrapianto (trapianto tra donatore e ricevente della stessa specie). L’autotrapianto è regolato, nella sua valutazione etica, in base al principio di totalità, per il quale il bene dell’intero organismo può richiedere anche lo spostamento di una sua parte.

Nel caso dell’omotrapianto, il problema morale va posto sotto molteplici profili. Anzitutto, relativamente al donatore: c’è da distinguere se il prelievo d’organo è fatto da un vivente, o da un morto. La cura dell’integrità della propria vita fisica impone che non si disponga del proprio corredo biologico provocando un danno grave o una deformazione indelebile al proprio corpo. Per questo è contro la morale privarsi di organi vitali, insostituibili, seppure a scopo altruistico. Il dono, per es., del proprio cuore, mentre si è ancora in vita, è una illecita privazione che ha come conseguenza la morte. Altre privazioni, invece, comportano sì una limitazione, ma che non implica una deformazione grave, e quindi possono essere effettuate, laddove il vantaggio che ne può derivare è di vitale importanza per un proprio simile. In questo caso rientra la problematica relativa al dono di organo pari (rene, ad es.). La moralità del gesto del donatore si comprende alla luce del principio di carità, che nobilmente suggerisce un gesto di così acuto altruismo.

Diversi sono gli interrogativi morali quando si tratta di prelievo di organo da cadavere. Se gli organi interessati sono quelli che hanno una brevissima sopravvivenza alla morte clinica del soggetto, diventa importante la definizione del momento di morte del donatore. Proprio sotto la spinta della pratica dei trapianti, oltre che a seguito di una comprensione più chiara del ruolo che svolge il cervello nella vita dell’uomo, oggi si è portati a valutare la morte clinica non come arresto cardiaco, ma come irreversibile inattività della corteccia cerebrale. L’arresto della funzione elettrica del cervello (riscontrabile mediante il segnale piatto dell’EEG), insieme ad altri elementi congiunti (assoluta assenza del riflesso alla luce; assenza totale di riflessi muscolari e tendinei; assenza di respirazione spontanea), fanno ritenere clinicamente morto il soggetto e, perciò, eseguibile l’operazione di prelievo di un suo organo a scopo di trapianto.

Ci si potrebbe, a questo punto, chiedere quale disponibilità si abbia

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sul cadavere. Ciò è indubbiamente importante ai fini della valutazione morale dell’atto di prelievo. Questa domanda va risolta ricorrendo alle intenzioni e alla volontà, talvolta esplicita, del defunto stesso, il quale prima di morire avrà potuto dichiarare disponibile il suo cadavere. In assenza di tali elementi, si può sostituire l’esplicita disposizione del soggetto ricorrendo alla volontà e alla dichiarazione di disponibilità dei suoi familiari o rappresentanti legali.

Un compito preciso della classe medica è quello di avere la certezza (relativamente agli elementi che nella professione medica vengono richiesti) della morte clinica del soggetto. Non è rispettoso della natura umana del morente considerare superficialmente il momento della sua morte, per disporre di organi da trapiantare. La possibilità di salvare una vita in pericolo, mediante trapianto, non deve comportare un pericolo alla vita del donatore, della cui morte bisogna essere del tutto certi.

Il trapianto pone anche dei problemi relativamente al danno che l’immissione di un organo «estraneo» può arrecare in un soggetto. L’organismo non è disposto a ricevere un qualsiasi organo dal di fuori, e si difende dall’intrusione mediante il rigetto. Occorre, anche qui, misurare proporzionatamente danni e vantaggi, per intervenire in modo opportuno.

Questa preoccupazione diventa ancor più incombente laddove si ipotizzi il trapianto di organi che condizionano sostanzialmente l’identità personale del ricevente. Siamo ancora lontani dalle possibilità tecniche di eseguire trapianti del cervello; tuttavia la minaccia di una simile pratica non può lasciare indifferenti. La persona è strutturalmente condizionata dalla materia cerebrale, organo base delle funzioni superiori dell’essere umano. Un trapianto relativo a questa regione dell’organismo comporterebbe un’alterazione sostanziale dell’identità personale. Anche se il trapianto del cervello non sarà mai tecnicamente realizzato, la morale lo prende in considerazione ipoteticamente per indicarlo come una frontiera non valicabile.

Nelle legislazioni civili e nei codici deontologici vengono formulate delle precise normative in tema di trapianti. Esse tendono a evitare forme di violenza sia sul donatore che sul ricevente, e a salvaguardare l’integrità, non tanto quantitativa, ma qualitativa e personale tanto di chi intende donare una parte del proprio organismo, quanto di chi la riceve. È compito dell’etica illuminare anche le intenzionalità profonde che guidano la decisione di lasciar disporre del proprio corpo. Solo per una sensibilità morale matura, tutta pervasa da uno stile di disponibilità e di carità verso il prossimo, si può comprendere il significato positivo del dono di sé, mediante il dono del proprio corpo.

Va aggiunto, infine, che è compito dello Stato intervenire con opportune normative, affinché non si addivenga a una indegna compra-vendita

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degli organi da trapiantare. Un simile commercio contrasta con la qualità altruistica del dono di organi del proprio corpo, che può essere dettato solo da senso di solidarietà e di carità.

3. La sterilizzazione

La sterilizzazione, in quanto intervento sugli organi riproduttivi al fine di privarli della loro funzione generativa, è talvolta un esito inevitabile di alcuni procedimenti medici. In questo caso non ha alcuna rilevanza etica o giuridica. Altre volte l’aspetto terapeutico dell’intervento è meno immediato; oppure la facoltà procreativa è soppressa al fine di un radicale controllo delle nascite; ovvero si fa ricorso alla sterilizzazione per scopi eugenetici, o addirittura per punire dei colpevoli. Le diverse categorie di sterilizzazione cadono sotto giudizi morali diversi, per cui è più opportuno considerarle separatamente. Alcuni aspetti della sterilizzazione, pur non avendo interesse dal punto di vista strettamente medico, sono importanti per una valutazione globale. Il primo è quello della volontarietà o obbligatorietà dell’intervento. Le misure coercitive hanno contribuito a creare la definitiva connotazione disumana alle misure di sterilizzazione eugenetica prese dal regime nazista, e sono responsabili dei fallimenti pratici nei paesi del Terzo mondo, dove è stata imposta per controllare l’esplosione demografica.

Un secondo aspetto non trascurabile è quello della reversibilità o irreversibilità dell’operazione. L’interesse è soprattutto giuridico, dal momento che una sterilizzazione reversibile sfugge ai rigori penali che cadono su chi cagiona una diminuzione permanente dell’integrità fisica. Per riflesso, la chirurgia è stata stimolata a mettere a punto metodiche meno demolitrici, in vista di una sterilizzazione efficace ma reversibile.

3.1. La sterilizzazione eugenetica

La prima forma di sterilizzazione che storicamente ha provocato il magistero della chiesa a una netta presa di posizione è stata quella imposta dal regime nazista al fine di garantire la «sanità della razza». La enciclica di Pio XII Casti connubii (1930) ha condannato le misure di politica sanitaria volte a impedire che per trasmissione ereditaria sia generata una prole difettosa. Dopo aver contestato il diritto dello Stato di disporre delle membra dei cittadini in modo di privarli delle facoltà naturali, l’enciclica estende la stessa proibizione morale all’individuo rispetto al proprio corpo. Veniva così gettato il primo fondamento stabile della

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dottrina cattolica relativa alla sterilizzazione. «Le pubbliche autorità non hanno alcuna potestà diretta sulle membra dei sudditi» quindi è che, se non sia intervenuta colpa alcuna, né vi sia motivo alcuno di infliggere una pena cruenta, non possono mai in alcun modo ledere direttamente o toccare l’integrità del corpo, né per ragioni «eugeniche», né per qualsiasi altra cagione. Questo insegna pure S. Tommaso d’Aquino mentre, proponendo la questione se i giudici umani per prevenire mali futuri possono recar danno al suddito, lo concede quanto a certi altri mali, ma a ragione lo nega per quanto riguarda la lesione corporale. ‘Mai, secondo il giudizio umano, alcuno deve essere punito, senza colpa con pena di battiture, per essere ucciso, o per essere mutilato o flagellato’ (S. Th. II-II, 108,4 ad 2). Del resto la dottrina cristiana insegna, e la cosa è certissima anche al lume naturale della ragione, che gli stessi uomini privati non hanno altro dominio sulle membra del proprio corpo che quello che spetta al loro fine naturale, e che non possono distruggerle o mutilarle o per altro modo rendersi inetti alle funzioni naturali, se non nel caso in cui non si può provvedere per altra via al bene di tutto il corpo» 79.

Successivamente la condanna è stata ripetuta, con analoghi accenti, da Pio XII nel discorso ai partecipanti al Primo simposio internaz. di genetica medica (7.IX.1953): «Il nostro predecessore Pio XI e Noi stessi siamo stati indotti a dichiarare contraria alla legge naturale non soltanto la sterilizzazione eugenica, bensì qualsiasi sterilizzazione diretta di un innocente, definitiva o temporanea, dell’uomo o della donna. La nostra opposizione alla sterilizzazione era e rimane ferma, perché, malgrado il tramonto del ‘razzismo’, non si è smesso di desiderare e di tentare di sopprimere mediante la sterilizzazione una discendenza carica di malattie ereditarie».

Attualmente la sterilizzazione forzata continua essere proposta nei casi di malattia mentale che impedisca l’autocontrollo del comportamento, soprattutto se rischia di essere perpetuata mediante la trasmissione ereditaria.

Per sfuggire ai fantasmi delle misure naziste, si invoca almeno il consenso di coloro che ne hanno la tutela. La condanni della chiesa cattolica resta inflessibile. È da considerare un’eccezione, non sostenuta dalla dottrina ufficiale, la posizione di alcuni moralisti cattolici che giustificano la sterilizzazione — qualificata come «indiretta» — nel caso di una ragazza ritardata mentale che potrebbe rimanere incinta qualora qualcuno abusasse di lei. La condanna della sterilizzazione si estende anche a quei casi in cui la richiesta di sterilizzazione per prevede la trasmissione di

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malattie ereditarie provenga dal soggetto stesso. La volontarietà del procedimento non lo riscatta dell’illiceità morale, agli occhi della morale cattolica.

3.2. Sterilizzazione terapeutica

Una distinzione che per lungo tempo ha validamente orientato i moralisti cattolici nei casi in cui gli interventi sterilizzanti sono rivolti alla salute dell’individuo è quella tra sterilizzazione «diretta» e «indiretta». Il senso della distinzione è quello di indicare un criterio oggettivo per discernere tra i diversi atti di sterilizzazione medicalmente possibili. Si intende per sterilizzazione diretta quella che, per sua natura, ha come effetto immediato quello di rendere impossibile la procreazione; è sterilizzazione indiretta quella rivolta a sopprimere la funzione endocrina, in quanto attualmente nociva all’organismo per processi patologici in corso o seriamente prevedibili. In concreto, se l’intervento è unicamente motivato dalla volontà di evitare future gravidanze, si ha sterilizzazione diretta.

La sterilizzazione terapeutica è, in sé, una forma di sterilizzazione indiretta. La finalità intesa dall’intervento medico è quella di curare l’organismo, sacrificando un organo o una funzione. La morale cattolica non solleva obiezioni alla moralità di simili interventi perché in essi trova applicazione il «principio di totalità». Secondo le parole di Pio XII (discorso ai partecipanti al I Congresso del sistema nervoso, 13.IX.1952): «In virtù del principio della totalità, del diritto cioè di utilizzare i servizi dell’organismo come un tutto, l’uomo può disporre di parti individuali per distruggerle o mutilarle, quando e nella misura richiesta per il bene dell’essere nel suo insieme, per assicurare l’esistenza stessa e per evitare, e naturalmente per riparare, gravi e durevoli danni che altrimenti non potrebbero essere allontanati né riparati».

Per la moralità della sterilizzazione terapeutica sono richieste alcune condizioni particolari (oltre a quelle connesse con qualsiasi mutilazione, come il libero e informato consenso dell’interessato e le serie probabilità cliniche di successo). Le condizioni sono state così esplicitate da Pio XII, rispondendo al quesito se sia moralmente lecita l’amputazione di un organo sano per sopprimere il male che attacca un altro organo (ai partecipanti al XXVI congresso della Soc. Ital. di Urologia, 8.X. 1953): «Tre cose concorrono per la legalità morale di un intervento chirurgico che comporti una mutilazione anatomica o funzionale: prima di tutto che la conservazione o funzionalità di un organo particolare nell’insieme dell’organismo provochi in questo un danno serio o costituisca una minaccia; in

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secondo luogo, che questo danno non possa essere evitato, o almeno diminuito notevolmente, che con la mutilazione in proposito e che l’efficacia di questa sia ben sicura; finalmente (in terzo luogo) che si possa ragionevolmente assicurare che l’effetto cattivo, cioè la mutilazione e le sue conseguenze, sarà compensato dall’effetto positivo: soppressione del pericolo per l’intero organismo, attenuazione dei dolori, ecc.».

Secondo tali princìpi, per la liceità morale della sterilizzazione si richiede che sia ordinata al bene di tutto il corpo; che l’intervento sia necessario e sia l’unico rimedio efficace; che sia necessaria nel momento attuale. Ogni elemento va attentamente vagliato, per le false conseguenze che se ne potrebbero trarre. Per quanto riguarda il benessere del corpo inteso come totalità, alcuni moralisti cattolici hanno proposto di estendere il concetto oltre il significato della salute corporea, includendo anche gli aspetti psichici e relazionali che costituiscono la persona nella sua interezza. Se si adotta una visione distica della persona umana, della salute e della terapia, la sterilizzazione potrebbe essere considerata necessaria quando il principale responsabile del malessere della persona non è il suo apparato riproduttore, bensì la sua psiche. Ci si può riferire, a esemplificazione, alle psicosi gravidiche, in cui l’ansia per l’eventualità di una gravidanza corrode l’equilibrio mentale della donna e si ripercuote sulle relazioni di coppia. Perché la sterilizzazione, in questi casi, possa essere qualificata come terapeutica, bisogna presupporre una lettura del significato antropologico della sessualità umana che è estranea alla tradizione cattolica. I moralisti cattolici che la sostengono non possono perciò appoggiarsi sull’autorità del magistero; la loro proposta ha il valore di una personale rilettura della dottrina tradizionale.

Per quanto riguarda la necessità dell’intervento, questa occorre sia quando gli organi della riproduzione sono direttamente malati, sia quando la loro funzione si ripercuote negativamente sull’organismo nel suo insieme. A tal proposito, Pio XII nel discorso dell’8.X.1953, citato: «Il punto cruciale qui non è che l’organo amputato o reso incapace di funzionare sia malato; ma che la sua conservazione o la sua funzionalità apportino direttamente o indirettamente una seria minaccia per tutto il corpo. È certamente possibile che un organo sano, con la sua funzionalità normale, eserciti su di un organo malato un’azione nociva tale da aggravare il male con le sue ripercussioni su tutto il corpo».

Una terza precisazione: perché l’intervento sterilizzante abbia la liceità di un’azione terapeutica, deve essere necessario nel momento attuale. Ciò non si verifica quando si procede alla sterilizzazione solo per prevenire un’eventuale gravidanza, che magari potrebbe avere di fatto conseguenze negative per l’organismo. La sterilizzazione non è più allora terapeutica, bensì contraccettiva, e come tale va moralmente considerata. Pio XII,

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nello stesso discorso, ha apportato delle precisazioni per dissipare possibili false applicazioni del principio di totalità: «Non raramente, quando delle complicazioni ginecologiche comportano un intervento chirurgico, o anche indirettamente da questo, si estirpano le ovaie e si rendono incapaci di funzionare per prevenire una nuova gravidanza e i gravi pericoli che potrebbero forse derivare per la salute o anche per la vita della madre, pericoli dei quali la causa dipende da altri organi ammalati, come i reni, il cuore, i polmoni, ma che si aggravano in caso di gravidanza. Per giustificare l’asportazione delle ovaie si allega il principio citato prima, e si dice che è normalmente permesso di intervenire su degli organi sani, quando il bene del tutto lo esige. Ma qui ci si richiama erratamente a questo principio. Perché, in questo caso, il pericolo che corre la madre non proviene, direttamente o indirettamente, dalla presenza o dalla funzionalità normale delle ovaie, né dalla loro influenza sugli organi ammalati, reni, polmoni, cuore. Il pericolo appare solo se l’attività sessuale libera causa una gravidanza che potrebbe minacciare gli organi suddetti troppo deboli o malati. Le condizioni che permettono di disporre di una parte in favore del tutto in virtù del principio di totalità mancano. Non è dunque permesso moralmente di intervenire sulle ovaie sane».

Quando il fine perseguito è semplicemente la regolazione delle nascite, parametri si trasformano, in quanto subentrano i princìpi che reggono la concezione cattolica della paternità responsabile.

3.3. Sterilizzazione contraccettiva

Alla sterilizzazione si può far ricorso tanto per controllare la propria fecondità individuale (o di coppia), quanto come una misura per portare efficacemente a termine un programma di contenimento della crescita demografica. In questo secondo caso, i governi che vi hanno fatto ricorso hanno per lo più preso misure repressive, che rendevano la sterilizzazione obbligatoria dopo un certo numero di nascite. A simile politica demografica coercitiva è possibile estendere la condanna della sterilizzazione obbligatoria da parte delle autorità pubbliche già formulata da Pio XI nella Casti connubii contro le pratiche del regime nazista. Lo hanno fatto i vescovi dell’India, prendendo posizione contro le misure sterilizzanti imposte dal governo di Indirà Gandhi. Un messaggio del comitato permanente della Conferenza episcopale indiana (maggio 1976) afferma: «La chiesa cattolica disapprova tutte queste misure e in particolare quella della sterilizzazione obbligatoria, come è stata proposta dal governo del Maharashatra, poiché ciò implica l’arresto del dinamismo procreativo dell’amore coniugale. Se la sterilizzazione obbligatoria dovesse

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diventare una procedura normale, la dignità umana e la libertà sarebbero poste in grave pericolo a detrimento del senso morale e del bene generale della nazione». Anche il sinodo generale dei vescovi cattolici, nell’ottobre 1980, ha ripetuto la condanna, come una grave offesa alla dignità umana e alla giustizia, verso le attività dei governi che tentano in qualsiasi modo di limitare la libertà dei coniugi nel decidere del numero dei figli; esplicitamente viene respinta la violenza esercitata mediante la sterilizzazione.

La sterilizzazione è però anche una pratica a cui numerosi individui si sottopongono volontariamente per risolvere radicalmente il problema del controllo della propria fecondità. In questa forma è particolarmente diffusa nei paesi dell’emisfero nord-occidentale a grande sviluppo economico. La congiuntura culturale sembra favorevole alla sterilizzazione, sia maschile che femminile, come metodo contraccettivo. È ampliamente reclamizzata come il metodo più sicuro e più innocuo; è raccomandata per la sua praticità; è «nobilitata» in vari modi, soprattutto elogiando il senso di responsabilità che dimostrano coloro che vi si sottopongono. Alla crescente accettazione sociale della pratica non fa riscontro la benché minima modifica del giudizio morale della chiesa cattolica. Le dichiarazioni magisteriali di condanna vanno dalla condanna del S. Uffizio del 1940 (al dubbio se sia lecita la sterilizzazione diretta, sia perpetua che soltanto temporanea, dell’uomo o della donna, il S. Uffizio risponde: «No: ed è proibita dalla legge naturale»), alle numerose prese di posizione di Pio XII, fino all’enciclica Humanae vitae («È parimenti da escludere, come il magistero della chiesa ha più volte dichiarato, la sterilizzazione diretta, sia perpetua che temporanea, tanto dell’uomo che della donna»).

Singoli moralisti hanno proposto una parziale accettazione della sterilizzazione, a determinate condizioni: quando esiste un’indicazione medica, per curare non solo l’organismo (sterilizzazione terapeutica), ma la persona nella sua totalità; quando la sterilizzazione è, di fatto, l’unico mezzo concretamente possibile per attuare la paternità responsabile, ovvero costituisce il minor male (rispetto all’aborto, per esempio); c’è anche chi, infine, attenua la condanna nei confronti della contraccezione quando questa si presenta come reversibile: in questo caso, più che di una grave mutilazione, si dovrebbe parlare di una sospensione della facoltà procreativa.

Queste isolate proposte innovative non hanno intaccato la lineare posizione della dottrina cattolica ufficiale. Il costante «no» alla via della sterilizzazione come mezzo per controllare la fecondità va ricondotto ai principi personalistici che sottendono la morale cattolica relativa alla vita fisica. Come afferma esplicitamente la Humanae vitae, la considerazione della persona è il motivo che guida la chiesa nel difendere la morale

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coniugale e della riproduzione nella sua integrità; lo scopo è quello di contribuire all’instaurazione di una civiltà veramente umana, dove l’uomo non abdichi alla propria responsabilità per consegnarsi a dei mezzi tecnici che impoveriscono il patrimonio delle sue forze psichiche e morali. La norma etica, con la sua intransigenza, viene a svolgere, in definitiva, una funzione di argine protettivo a vantaggio dell’uomo, contro quanto di fatto lo mutila e lo coarta, anche se si presenta sotto l’aspetto seducente della permissività. La sterilizzazione come mezzo contraccettivo è contraria alla dignità dell’uomo, e perciò non può essere per il suo bene, malgrado gli aspetti di praticità e di efficienza che presenta.

Da un punto di vista pratico, va segnalato il documento emanato dalla Congregazione per la dottrina della fede (13.III.1975), relativo alla sterilizzazione negli ospedali cattolici. Ricordati i punti qualificanti della dottrina tradizionale, che proibisce la sterilizzazione diretta, il documento impartisce le seguenti direttive a chi gestisce gli ospedali cattolici: «Qualunque loro cooperazione istituzionale approvata o ammessa ad azioni per se stesse (ossia per loro natura e condizione) ordinate a un fine contraccettivo, e cioè affinché siano impediti gli effetti connaturali degli atti sessuali deliberatamente compiuti da un soggetto sterilizzato, è assolutamente interdetta. Infatti, l’approvazione ufficiale della sterilizzazione diretta e ancor più la sua regolazione ed esecuzione recepita negli statuti degli ospedali è cosa oggettivamente, per sua natura, ossia intrinsecamente, cattiva alla quale un ospedale cattolico per nessuna ragione può cooperare. Qualunque cooperazione così prestata sarebbe del tutto sconveniente alla missione affidata a siffatte istituzioni e sarebbe contraria alla necessaria proclamazione e difesa dell’ordine morale».

3.4. Sterilizzazione punitiva

È una forma di castrazione con cui vengono colpiti talvolta i colpevoli di reati sessuali che costituiscono un pericolo permanente per la società. Unisce, dunque, una punizione privata alla difesa del bene pubblico. Il magistero della chiesa cattolica non ha mai condannato questo tipo di sterilizzazione. La Casti connubii ha escluso esplicitamente dalla condanna morale della sterilizzazione la castrazione del reo. Il documento non può però essere citato come approvazione della castrazione penale: semplicemente, l’enciclica non l’ha voluta includere nel principio generale che nega allo Stato il potere diretto sull’integrità delle membra dei cittadini. I moralisti che accettano la sterilizzazione penale la giustificano in quanto considerano l’effetto sterilizzante come «indiretto», dal momento che ciò che è direttamente inteso è la punizione.

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Oggi il clima culturale è generalmente ostile a queste misure repressive. Alcuni medici vi si oppongono per motivi deontologici, perché vi vedono una perversione del ruolo proprio del medico: in questo caso, infatti, diventano agenti dello Stato nell’esercitare le sue funzioni penali. Anche alcuni moralisti cattolici tendono a sottrarre il loro sostegno alla sterilizzazione penale 80. Auspicano, anzi, che la chiesa si faccia in questo campo coraggiosa tutrice dei diritti della persona, nello spirito della Gaudium et spes, la quale, condannando ciò che viola l’integrità della persona umana, menziona esplicitamente le mutilazioni (n. 27).

4. Tecnologie riproduttive

Il processo della riproduzione umana — nelle sue fasi decisive: fecondazione mediante l’incontro di un gamete maschile con uno femminile, gestazione nell’utero materno e parto — si è avvalso ampiamente dei progressi tecnologici della biologia e della medicina, tanto da poter modificare vistosamente il decorso «naturale». Non prendiamo qui in considerazione gli interventi di tipo manipolativo del substrato biologico, sia a finalità propriamente scientifico-conoscitiva, sia con intendimento eugenetico. Ci occupiamo delle tecnologie messe a servizio della riproduzione al fine di ovviare a diversi tipi di patologie, che impediscono il processo naturale della fecondazione e della gestazione; tecnologie, quindi, con finalità terapeutica. La valutazione da parte della morale cattolica degli altri tipi di intervento sul materiale biologico riproduttivo è riportata nel capitolo relativo alla sperimentazione sull’uomo e alla manipolazione biologica (ingegneria genetica). Concentriamo qui la nostra attenzione sugli interrogativi antropologici ed etici che sollevano i due procedimenti più diffusi: l’inseminazione artificiale e la fecondazione «in vitro».

4.1. I dati biologico-medici

Ai fini di una valutazione etica va stabilita una distinzione fondamentale tra l’inseminazione artificiale che si avvale del contributo di un donatore (eterologa, o A.I.D., secondo la terminologia inglese entrata

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in uso) e quella che avviene con il liquido seminale del marito (omologa, ovvero A.I.H.). Tanto l’accettazione sociale e le implicazioni antropologiche, quanto il giudizio morale sui due diversi tipi di inseminazione artificiale differiscono sostanzialmente. Le indicazioni mediche per l’inseminazione omologa comprendono: difficoltà fisiche o psicologiche che impediscono l’inseminazione mediante rapporto sessuale e casi di oligospermia. All’inseminazione eterologa si fa medicalmente ricorso nei casi di sterilità del marito, di malattie ereditarie o di oligospermia non ovviabile mediante la concentrazione di più eiaculati.

Per rendere possibile l’A.I.D. sono stati costituiti centri di prelievo, conservazione e utilizzazione dello sperma umano, correntemente noti con il nome di «banche dello sperma». Ad esse si rivolgono donne potenzialmente feconde per avere le dosi di sperma necessario per l’inseminazione. Ciò che varia, spesso sostanzialmente, da una banca di sperma all’altra sono le condizioni poste dalle équipes responsabili. Mentre alcune accettano indiscriminatamente qualsiasi indicazione — specialmente le organizzazioni a dichiarato fine di lucro, che praticamente effettuano la inseminazione su semplice richiesta, qualunque sia la motivazione della donna che vi fa ricorso —, altre si riservano di discriminare tra le richieste, e procedono all’inseminazione solo a certe condizioni. Dal momento che quasi in nessun paese l’inseminazione artificiale è regolata da una legislazione apposita, queste norme deontologiche, a cui i vari operatori si impegnano per decisione autonoma, hanno una funzione primaria di tutela professionale. Esse costituiscono una carta di garanzia fornita dai diversi centri operativi. Elevando lo standard delle condizioni poste, si qualificano dal punto di vista medico-professionale e si distanziano dagli operatori a scopo di speculazione economica. Varia di conseguenza anche la prassi di un compenso pecuniario per i donatori nel caso dell’A.I.D.: mentre alcuni centri lo prevedono, altri lo escludono categoricamente. Anche questa misura ha più una rilevanza deontologica che etica: la moralità del procedimento inseminativo non ne viene per questo modificata sostanzialmente.

Un aspetto del procedimento, praticamente insignificante per la medicina, ma non per la morale, è la modalità di raccolta dello sperma. Si fa abitualmente ricorso all’autostimolazione o masturbazione. Solo in casi sporadici, per sfuggire alle esplicite riserve della morale cattolica, è stato proposto il ripiego su procedimenti indiretti (come la raccolta di sperma mediante un condom parzialmente perforato, nel corso di un normale rapporto sessuale). Da un punto di vista medico, però, tali procedimenti risultano non funzionali e ingiustificati 81.

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Per quanto riguarda la fertilizzazione «in vitro», se si prescinde dagli esperimenti biologici in cui degli ovuli vengono fertilizzati, tenuti in coltura per qualche tempo a fini investigativi e poi distrutti, l’unica indicazione medica di questa tecnologia rimangono i casi in cui è impossibile la fecondazione naturale nelle tube falloppiane. Quando le tube sono assenti o danneggiate, è tecnicamente possibile prelevare un ovulo dall’ovaio, fertilizzarlo «in vitro» e reimpiantarlo in utero, dopo adeguata preparazione dell’endometrio mediante trattamento ormonale. L’incidenza statistica di danni alle tube sembra essersi elevata di recente: in tutti questi casi la fecondazione «in vitro» è l’unica via praticabile per una maternità. Anche nel caso della fertilizzazione «in vitro» è possibile che intervenga una terza persona, oltre i coniugi, analogamente alla inseminazione artificiale. Il ruolo di «donatore» in questo caso è svolto da una donna che si offre per il prelievo dei propri ovuli. Tecnicamente e praticamente è possibile che l’ovulo fecondato sia reimpiantato non sulla donatrice, ma su un’altra donna. In tal caso il procedimento è più prossimo alla manipolazione arbitraria del processo naturale che all’intervento terapeutico.

Un tratto psicologico-clinico che i medici hanno spesso rilevato è la disponibilità dei pazienti che fanno ricorso alle diverse tecnologie riproduttive per rimediare alla propria sterilità. Il desiderio acutissimo di paternità/maternità li rende in qualche modo vulnerabili, pronti a sottoporsi a qualsiasi procedimento. È una situazione che deve essere seriamente considerata per il suo impatto sulla capacità di giudizio morale, il quale può subire un offuscamento od ottundimento.

4.2. Implicazioni antropologiche

Per valutare eticamente il gesto di chi fa ricorso alle tecnologie riproduttive per superare l’handicap di un’incapacità naturale alla procreazione è necessario tener conto della situazione umana nella sua globalità. La motivazione entra a far parte dell’azione e la qualifica. I medici stessi, se non vogliono essere ridotti al rango di tecnici disponibili a qualsiasi intervento loro richiesto, non possono ignorare la diversa fisionomia che assume un’inseminazione artificiale come ultimo approdo per una coppia che ha lungamente desiderato e ricercato un figlio, rispetto a un analogo intervento richiesto solo per futili motivi estetici o addirittura sulla base di una motivazione psicopatologica.

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La coppia che chiede l’inseminazione ha già fatto probabilmente un lungo cammino; un altro tratto ne deve ancora fare. Perché l’inseminazione abbia qualche chance di inserirsi organicamente nel progetto di vita della coppia, questa deve aver già «fatto il lutto» della propria infecondità. Ciò implica il superamento dei sensi di colpa (l’infecondità come punizione è legata a fantasmi ancestrali; se ne trovano tracce anche nel mondo biblico), del complesso di inferiorità del coniuge infecondo e dei risentimenti di quello fecondo. Positivamente, alla coppia che si accinge a far ricorso a una tecnologia riproduttiva — inseminazione artificiale o fecondazione «in vitro» — è richiesta una solida unione e una vita sessuale soddisfacente. Se la fecondazione artificiale, infatti, supplisce alle carenze biologiche, non può surrogare quell’intesa sessuale che garantisce il legame di coppia.

Si può affermare, con una certa dose di paradosso, che, dal punto di vista rappresentato dalla psicologia e dall’etica, è pronta ad affrontare la fecondazione artificiale solo quella coppia che ha accettato la sterilità, colmando il suo vuoto con un supplemento di generosità e d’amore, e facendone un luogo di creatività umana. Quell’uomo e quella donna sono pronti, a questo punto, all’avventura di una maternità e paternità reali, sfidando le difficoltà frapposte dall’ordine biologico naturale 82.

Per le coppie che abbiano una maturità sufficiente, suffragata da una lunga esperienza di vita in comune e da un impegno autentico nel desiderio di procreare insieme, l’inseminazione artificiale offre delle opportunità che non sono paragonabili a quelle dell’adozione. Il bambino è inserito in modo più stretto nella problematica della coppia. L’inseminazione fa partecipare i genitori, con tutte le loro risorse affettive, al progetto, alla gestazione, alla nascita, ai primi mesi di vita, in quei momenti cruciali in cui si tessono i legami più profondi e sicuri. In questi casi siamo lontani dalla fredda ingegneria genetica del «bambino in provetta»: la presenza di questi valori umani non può essere ignorata quando si procede a una valutazione etica. Quando la finalità dell'inseminazione è quella di mettere le risorse tecnologiche a servizio di un atto specificamente umano, quale è il desiderio della prole, compensando le carenze naturali, il giudizio del moralista cattolico non può non essere condizionato dai valori sottesi. Tuttavia qualsiasi valutazione benevola dello spessore umano dell’atto non può offuscare il parametro obiettivo con cui la morale cattolica valuta questo tipo di intervento.

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4.3. Valutazione della morale cattolica

Il giudizio morale sull’impiego di tecnologie medico-biologiche per conseguire la fecondazione è condizionato dalla visione antropologica adottata. Là dove la paternità/maternità è considerata esclusivamente o prevalentemente come una relazione che si instaura in seguito allo svolgimento effettivo di un ruolo paterno/materno, piuttosto che sulla base della trasmissione del proprio patrimonio cromosomico, il giudizio portato sull’inseminazione artificiale (anche eterologa) sarà benevolo. Così pure, chi considera l’essere umano come trascendente a ogni «legge di natura» e da essa slegato, non sarà turbato dalla scissione che inseminazione artificiale e fecondazione «in vitro» creano tra sessualità e generazione di una nuova vita. Non è questo però il punto di vista della morale cattolica rappresentata dal magistero ufficiale della chiesa.

I parametri fondamentali sono stati stabiliti da Pio XII nel discorso tenuto al IV Congresso Intern. dei Medici Cattolici (30.IX.1949). Affermata la necessità di sottoporre la pratica della fecondazione artificiale a un giudizio morale e giuridico, oltre che biologico-medico, Pio XII articola la dottrina cattolica nei seguenti punti:

1) «La fecondazione artificiale, fuori del matrimonio, deve essere condannata puramente e semplicemente come immorale». La ragione addotta dal Pontefice è che la procreazione di una nuova vita non può essere, per la legge naturale attuata attraverso la fecondazione artificiale fuori dall’unione coniugale. Nessuna divergenza di opinione è possibile tra i cattolici.

2) «La fecondazione artificiale nel matrimonio, ma prodotta mercè l’elemento attivo di un terzo, è del pari immorale e come tale va condannata senza appello». La valutazione morale non cambia, anche se lo sposo è consenziente: «solo gli sposi, infatti, hanno un diritto reciproco sul loro corpo per generare una nuova vita, diritto esclusivo, non cedibile, inalienabile».

3) Quanto alla liceità della fecondazione artificiale nel matrimonio, il pontefice ricorda alcuni principi di diritto naturale: «Il semplice fatto che il risultato a cui si mira è raggiunto per tale via, non giustifica l’uso del mezzo stesso; né il desiderio, in sé pienamente legittimo negli sposi, di avere un bambino, può bastare a provare la legittimità del ricorso alla fecondazione artificiale, che appagherebbe tale desiderio». Sulla base degli stessi principi, stabilisce che il liquido seminale non può essere procurato lecitamente mediante atti contro natura. «Benché non si possano escludere a priori metodi nuovi, per la sola ragione della loro novità, tuttavia per quanto concerne la fecondazione artificiale non soltanto si deve essere estremamente riservati ma bisogna assolutamente escluderla.

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Dicendo ciò non si prescrive necessariamente l’uso di taluni mezzi artificiali destinati unicamente sia a facilitare l’atto naturale, sia a procurare il raggiungimento del proprio fine all’atto naturale normalmente compiuto».

Esplicitando, in un ulteriore discorso (All’Unione Cattolica Italiana Ostetriche, 29.X.1951), i motivi antropologici-etici per cui è da ritenersi esclusa dal matrimonio la fecondazione artificiale, Pio XII afferma: «Ridurre la coabitazione dei coniugi e l’atto coniugale a una pura funzione organica per la trasmissione dei germi sarebbe come convertire il focolare domestico, santuario della famiglia, in un semplice laboratorio biologico. L’atto coniugale, nella sua struttura naturale, è un’azione personale, una cooperazione simultanea e immediata dei coniugi, la quale, per la stessa natura degli agenti e la proprietà dell’atto, è l’espressione del dono reciproco, che, secondo la parola della Scrittura, effettua l’unione «in una carne sola». Ciò è molto più della unione di due germi, la quale si può effettuare anche artificialmente, vale a dire senza l’azione naturale dei coniugi. L’atto coniugale, ordinato e voluto dalla natura, è una cooperazione personale, alla quale gli sposi, nel contrarre il matrimonio, si scambiano il diritto». L’accento dell’argomentazione cade sulla naturalità dell’atto — «ordinato e voluto dalla natura» —. Il rispetto delle modalità naturali è una caratteristica distintiva della morale medica cattolica, caratteristica che non soffre eccezioni.

La cautela con cui Pio XII nel discorso del 1949 non escludeva alcuni tipi di intervento artificiale — precisamente, quelli «destinati unicamente sia a facilitare l’atto naturale, sia a procurare il raggiungimento del proprio fine all’atto naturale normalmente conseguito» — indusse alcuni moralisti cattolici a ipotizzare forme di inseminazione omologhe in cui l’artificialità si ridurrebbe a «pilotare» l’atto naturale. Affinché non si deducesse abusivamente uno smussamento della dottrina cattolica, Pio XII è ritornato formalmente sull’argomento nel discorso ai partecipanti al II Congresso mondiale della fertilità e della sterilità (19.V.1956), riaffermando il rifiuto per principio della fecondazione artificiale: «La fecondazione artificiale sorpassa i limiti del diritto acquisito dagli sposi in virtù del contratto matrimoniale, vale a dire, quello di esercitare pienamente la loro capacità sessuale naturale nel compimento naturale dell’atto matrimoniale. Tale contratto non conferisce ad essi il diritto alla fecondazione artificiale, perché un tale diritto non è in alcun modo espresso nel diritto all’atto coniugale naturale e non potrebbe esserne dedotto... Ne segue che la fecondazione artificiale viola la legge naturale ed è contraria al diritto e alla morale». Nello stesso discorso estende la condanna ai tentativi di fecondazione artificiale umana» «in vitro», come immorali e assolutamente illeciti.

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Il senso positivo del rifiuto cattolico del ricorso indiscriminato alle tecnologie riproduttive artificiali va individuato nella difesa di alcuni valori umano-cristiani fondamentali. Tra questi: il significato della sessualità umana, inseparabilmente costituita dall’elemento unitivo e da quello procreativo; il significato del matrimonio e della paternità/maternità, che esclude la forzata divaricazione tra generazione biologica e funzione parentale; il valore da attribuire alla percezione spontanea di ciò che è giusto o sbagliato, al di là delle argomentazioni fornite da un adeguato processo di riflessione. Ora, quanto a quest’ultimo punto, il giudizio morale «istintivo» continua a rifiutare l’impiego di tecnologie in funzione della riproduzione, nonostante la loro effettiva diffusione. La morale cattolica rispetta e valorizza tali giudizi morali atematici e preriflessi, in forza della capacità della coscienza di cogliere la legge naturale 83.

5. Regolazione delle nascite

5.1. Il rifiuto della contraccezione

La morale cattolica non è disponibile a inversioni di rotta, semplicemente per essere al passo con i tempi o per amore di consensi: lo dimostra, tra l’altro, il costante rifiuto ad avallare pratiche contraccettive. La valutazione etico-sociale di tali pratiche nella cultura dell’Occidente ha conosciuto diverse vicissitudini.

Nel mondo antico la filosofia e la medicina greco-romana non hanno dimostrato praticamente interesse per la moralità della contraccezione.

Il cristianesimo invece ha proposto una rigida etica sessuale, di cui faceva parte la condanna della contraccezione. In realtà la condanna cadeva globalmente su un insieme di pratiche che avevano finalità abortive-contraccettive-magiche, difficilmente isolabili e riconducibili alle nostre classificazioni. La comunità delle origini ha considerato peccaminoso tale ricorso ai pharmakeia (cfr. Gal 5,20; Apol 9,21; 21,8; 22,15), opponendosi alle tendenze culturali dell’epoca.

La disputa dottrinale contro lo gnosticismo indusse i custodi dell’ortodossia

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cristiana a cercare un alleato nella filosofia stoica. Da questa il cristianesimo mutuò la norma etica della conformità alla «legge di natura». Nel caso della sessualità, gli stoici consideravano secondo natura solo il rapporto mirante alla procreazione, non al piacere; le pratiche contraccettive erano perciò condannate per principio come un’offesa alla natura. Il pensiero cristiano si perfezionò ulteriormente in occasione della polemica antimanichea, condotta in prima persona da S. Agostino. L’ideologia manichea, che vedeva nella procreazione il sommo male, favoriva la contraccezione. Ad essa Agostino contrappose un’etica matrimoniale che giustificava il rapporto sessuale proprio in considerazione del bene della prole. In tal modo alla fine dell’antichità aveva preso forma completa il pensiero cristiano che condannava ogni forma di contraccezione. Vi confluivano l'ethos ebraico — che riconosceva nella prole una benedizione divina —; l’alta spiritualità neotestamentaria, culminante nella concezione sacramentale del matrimonio; il rifiuto del dualismo manicheo; la dottrina stoica della legge naturale. La cristianità medievale non apportò modifiche a tale concezione. Anzi, l’ostilità della chiesa alle pratiche contraccettive fu rafforzata dalle norme del diritto canonico, dall’insegnamento dei teologi (cfr. Tommaso d’Aquino, De malo 15,2), e dall’azione educativa dei confessori. La rottura intervenuta con la riforma protestante non infranse tale unanimità: anche i Riformatori condannavano la contraccezione.

L’opinione etica tradizionale ha cambiato di segno solo in epoca relativamente recente. Per lungo tempo, nonostante il vivace dibattito provocato da Th. Maltus sul problema demografico, la mentalità medica e l’opinione pubblica rimasero ostili alla contraccezione. Ma anche quando questa ottenne l’appoggio dell’etica umanista dell’Occidente, l’atteggiamento della chiesa cattolica non mutò. Una trasformazione vistosa si verificò invece nelle chiese protestanti. A cominciare dalla confessione anglicana (conferenza di Lambeth del 1930), i pastori e i teologi delle diverse chiese accettarono il principio del controllo della natalità da parte dei cristiani mediante il ricorso a metodi contraccettivi. Nella chiesa cattolica il magistero ha continuato a riproporre invariabilmente la condanna tradizionale. Nei termini dell’enciclica Casti connubii essa suona: «Ogni uso del matrimonio nell’esercizio del quale l’atto è privato da un’azione dell’uomo del suo naturale potere di procreare la vita, viola la legge di Dio e della natura».

5.2. La problematica più recente

L’ultima occasione, in ordine di tempo, in cui il supremo magistero della chiesa cattolica è intervenuto sulla regolamentazione delle nascite

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è l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (1968). La rilevanza di questo documento è in relazione con gli sviluppi nel frattempo avvenuti nel pensiero teologico relativamente al matrimonio e alla fecondità 84. La lunga diffidenza nei confronti della sessualità coniugale — praticamente riscattata solo dal fine procreativo nella visione agostiniana — ha ceduto il posto a una considerazione positiva del rapporto in sé, a prescindere dalla sua finalità procreativa. Questa prospettiva, implicita già nella concezione canonistica del «debito coniugale», è stata assunta ed ha avuto la più autorevole consacrazione dal concilio Vaticano II. «Il matrimonio non è stato istituito soltanto per la procreazione, ma il carattere stesso di patto indissolubile tra persone e il bene dei figli esigono che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità» (Gaudium et spes, 50). Il rapporto sessuale nel matrimonio, dunque, non mira solo al concepimento di una nuova vita, ma anche a manifestare e a promuovere l’amore coniugale.

Un secondo principio entrato nella teologia cattolica è quello noto come «paternità responsabile». Anch’esso ha un antecedente nella dottrina tradizionale, che indicava come fine del matrimonio la procreazione e l’educazione dei figli. L’educazione religiosa della prole introduceva un principio qualitativo come prioritario rispetto a quello semplicemente quantitativo. In termini più attuali, il senso di «responsabilità» nel mettere al mondo dei figli è stato acutizzato dal diffondersi delle preoccupazioni per l’esplosione demografica e dalle restrizioni che la vita urbanizzata provoca alle dimensioni della famiglia nei paesi ad alto sviluppo industriale. Anche il principio della paternità responsabile è stato ufficialmente consacrato dal Vaticano II: «I coniugi (nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla) adempiranno il loro dovere con umana e cristiana responsabilità, e con docile riverenza verso Dio, con riflessione e impegno comune si formeranno un retto giudizio, tenendo conto sia del proprio bene personale che di quello dei figli, tanto di quelli nati che di quelli che si prevede nasceranno, valutando le condizioni di vita del proprio stato di vita, tanto nel loro aspetto materiale che spirituale... Questo giudizio in ultima analisi lo devono formulare, davanti a Dio, gli sposi stessi» (Gaudium et spes, 50).

La posizione della chiesa cattolica in merito alla generazione non può essere identificata con il cliché che la vuole promotrice a ogni costo di una famiglia numerosa, o «natalista» a oltranza, proclamando la «provvidenzialità» di ogni nascita. Pur difendendo la fecondità come valore, tanto

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su un piano umano che in una ottica religiosa, la chiesa ha progressivamente fatto emergere la legittimità, anzi la necessità, di una regolazione delle nascite. Nel linguaggio dei documenti ecclesiastici si parla di «paternità responsabile». Il senso di responsabilità può domandare sia una promozione della natalità, sia una contrazione della natalità stessa, a seconda del contesto sociale in cui la coppia si trova inserita. La regolazione delle nascite non è contro l’ordine morale, bensì è richiesta dall’ordine morale stesso.

Sulla base di queste acquisizioni dottrinali, diversi teologi cattolici ritennero che si potesse procedere a una parziale accettazione della contraccezione, quando questa fosse a servizio di un progetto di paternità responsabile e servisse a rafforzare l’unione dei coniugi. Il dibattito fu alimentato dall'apparire della «pillola», ovvero della contraccezione ormonale, che induceva una infecondità nella donna inibendone il processo ovulatorio. Per un decennio nell’ambito della teologia cattolica si dibattè vivacemente sull’accettabilità o no della contraccezione ormonale. Nella commissione pontificia creata per approfondire tutti gli aspetti della questione si delineò una maggioranza, guidata dall’eminente moralista J. Fuchs, a favore dell’accettabilità morale di questo metodo di regolazione della fecondità. Tuttavia l’enciclica Humanae Vitae (25.7.1968) di Paolo vi ripeté la condanna di ogni pratica contraccettiva nei termini usuali. Venne affermato il principio tradizionale della non interferenza con finalità contraccettiva nel decorso del normale atto coniugale — «La chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto per sé alla trasmissione della vita» —, in forza dell’unione naturale tra il significato procreativo ed unitivo dell’atto stesso. L’enciclica ribadì che sono vie non lecite di regolazione delle nascite: l’interruzione del processo generativo; la sterilizzazione diretta, sia perpetua che temporanea, tanto nell’uomo che nella donna; la contraccezione: ovvero, «ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale o nel suo compimento o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga come scopo o come mezzo di rendere impossibile la procreazione» (nn. 12-15).

5.3. I «metodi naturali» di regolazione delle nascite

Una vistosa deroga al rifiuto di ogni forma di contraccezione è costituita dall’accettazione di metodi che si fondano sul ricorso ai periodi naturalmente infecondi.

Il principio era già stato posto da Pio XI nella Casti connubii, in cui stabiliva che non si dovesse ritenere che agivano «contro l’ordine naturale delle cose i coniugi che usano del loro diritto, benché per cause

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naturali o di tempo o di qualsiasi difetto non ne possa scaturire una nuova vita». Pio XII nei discorsi vertenti sull’etica medica prese esplicitamente posizione a favore del metodo Ogino-Knaus, che negli anni ’50 era il solo metodo naturale noto. «L’avvantaggiarsi della sterilità temporanea naturale, nel metodo di Ogino-Knaus, non viola l’ordine di natura, poiché le relazioni naturali rispondono alla volontà del Creatore. Quando questo metodo è usato per motivi seri proporzionati esso si giustifica moralmente» (Al VII Congresso Intern. di Ematologia, 12.9.1958; vedi anche il discorso all'Unione Cattolica Italiana Ostetriche, 29.10.1959). La formulazione più completa della dottrina cattolica è quella che si trova nella enciclica Humanae Vitae di Paolo VI: «Se per distanziare le nascite esistono seri motivi, derivanti o dalle condizioni fisiche o psicologiche dei coniugi, o da circostanze esteriori, la chiesa insegna essere allora lecito tener conto dei ritmi naturali immanenti alle funzioni generative per l’uso del matrimonio nei soli periodi infecondi... La chiesa è coerente con se stessa sia quando ritiene lecito il ricorso ai periodi infecondi, sia quando condanna come sempre illecito l’uso dei mezzi direttamente contrari alla fecondazione, anche se ispirati da ragioni che possono apparire oneste e gravi. In realtà, i due casi differiscono completamente tra di loro: nel primo caso i coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione naturale; nell’altro caso essi impediscono lo svolgimento dei processi naturali» (n. 16).

La chiesa cattolica non è isolata nel promuovere e raccomandare i metodi naturali di regolazione della fertilità. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità dedica un interesse crescente ai metodi che si propongono di determinare il periodo fertile, in vista di una regolazione della famiglia con metodi naturali 85. Ciò che qualifica la posizione della chiesa non sono preoccupazioni di ordine sanitario ed ecologico, bensì una coerente visione teologica, con la sua implicita antropologia. Questa è costruita attorno alla categoria di «persona», come soggetto chiamato al dialogo della salvezza con Dio, fonte di dignità inviolabile e di responsabilità.

Una seconda nota dominante della dottrina cattolica sulla paternità responsabile, organicamente articolata nel rifiuto della contraccezione e nell’accettazione dei «metodi naturali» per il controllo della fecondità, è il richiamo costante alla «legge naturale». Le diverse concezioni etiche che postulano la nozione di legge naturale presuppongono che certe cose siano giuste o sbagliate, buone o cattive, per loro propria natura; e che,

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di conseguenza, quelle buone siano obbliganti, mentre quelle cattive siano proibite. La moralità insita nella natura delle cose non è conosciuta per via rivelativa, bensì mediante il lume della ragione, da parte di ogni adulto normale. Da un punto di vista teologico, la teoria della legge naturale riconosce nella ragione e nella natura umana una fonte di saggezza etica, in armonia con quella fornita dalla rivelazione biblica e accessibile alla fede. Secondo la formulazione scolastica, particolarmente in S. Tommaso, la legge eterna ha il fondamento nella natura di Dio e costituisce il piano secondo cui la sapienza divina conduce tutte le cose verso un fine, in conformità con la propria natura. In base alle strutture ontologiche della natura umana, dotata di razionalità, la ragione è capace di giungere a princìpi universalmente validi e alle prescrizioni della legge naturale.

Malgrado una certa disaffezione — o addirittura un’aperta ostilità — da parte di alcuni teologi cattolici verso la dottrina della legge naturale (vi influiscono: il declino della sintesi scolastica; il favore per un’etica ad indirizzo personalistico o situazionista; la prospettiva biblico-evangelica, che sottovaluta il potere della ragione nello stabilire ciò che è bene o male, e privilegia la S. Scrittura come fonte di conoscenza della volontà di Dio), il magistero della chiesa cattolica ha continuato ininterrottamente a riferirvisi, specialmente nelle questioni di bioetica. La Humanae Vitae, in particolare, riposa sul presupposto di un ordinamento intrinseco dell’atto coniugale alla procreazione, che non può essere frustrato senza contraddire alla volontà del Creatore: «Paternità responsabile comporta un più profondo rapporto all’ordine morale chiamato oggettivo, stabilito da Dio e di cui la retta coscienza è la vera interprete. L’esercizio responsabile della paternità implica dunque che i coniugi riconoscano i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia di valori. Nel compito di trasmettere la vita, essi non sono quindi liberi di procedere a proprio arbitrio, come se potessero determinare in modo del tutto autonomo le vie oneste da seguire, ma, al contrario, devono conformare il loro agire all’intenzione creatrice di Dio, espressa nella stessa natura del matrimonio e dei suoi atti, e manifestata dall’insegnamento costante della chiesa» (H.V., 10). L’ordine morale oggettivo si radica, nella prospettiva cattolica, nel rispetto della natura biologica e dei dinamismi interni della sessualità umana: «In rapporto ai processi biologici, paternità responsabile significa conoscenza e rispetto delle loro funzioni: l’intelligenza scopre, nel potere di dare la vita, leggi biologiche che riguardano la persona» (ibi).

Sono così tracciati i confini entro cui si muove la morale cattolica in tema di regolazione delle nascite: rifiuto della contraccezione intesa come possibilità arbitraria di frustrare l’atto coniugale, intervenendo nel suo

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dinamismo o nelle sue conseguenze; rispetto della natura dell’atto stesso, lasciando però all’intelligenza umana la capacità di riconoscere e di utilizzare il naturale ritmo di fecondità e infecondità, in vista di una procreazione responsabile; opzione per i «metodi naturali» di regolazione delle nascite, senza che ne risulti privilegiato nessuno in particolare, purché non violentino la naturalità biologica e siano conformi alle esigenze della dignità umana. Un motivo antropologico che rinforza tale scelta può essere individuato nel fatto che i metodi naturali favoriscono il dialogo tra i coniugi, domandano la responsabilizzazione di ambedue i partners, non presentano controindicazioni dal punto di vista igienico ed ecologico, e incrementano la conoscenza del proprio corpo da parte della donna.

6. La morte inflitta

Due modalità particolari della fine della vita meritano una considerazione a sé: la morte inflitta dall’autorità giudiziaria e la morte che il suicida infligge a se stesso. La loro rilevanza per la professione medica è solo indiretta, tuttavia portano un sostanziale completamento al quadro dei diritti dell’uomo concernenti la vita fisica e alla dottrina morale cattolica relativa alla tutela della vita. Esaminiamo i due problemi separatamente.

6.1. La pena di morte

A livello di insegnamento ufficiale della chiesa, non è mai stata messa in discussione la legittimità della pena di morte inferta dall’autorità pubblica. Benché la dottrina non possa beneficiare di una positiva validazione fondata sull’autorità della Bibbia (i testi dell’Antico Testamento che prevedono la pena di morte per alcuni tipi di reato dipendono in queste normative del comportamento sociale dalla cultura del tempo; nel Nuovo Testamento, poi, non abbiamo nessun riferimento specifico alla pena di morte), la tradizione cristiana ha costantemente accettato il principio della pena di morte, nel caso in cui sia considerata necessaria per il bene comune. L’argomento del «bene comune» è presente già nelle summe teologiche medievali. Tommaso d’Aquino, ad esempio, sostiene: «Si aliquis homo sit periculosus communitati et corruptivus ipsius propter aliquod peccatum, laudabiliter et salubriter occiditur, ut bonum commune conservetur... hominem peccatorem occidere potest esse bonum, sicut occidere bestiam: peior enim est malus homo bestia, et plus nocet» (S. Th., II-II, 64, 2). Il «potere della spada» teorizzato dalla concezione teologico-giuridica

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della cristianità medievale prevedeva esplicitamente la pena di morte, che doveva però essere inflitta dal «braccio secolare». Esiste una prescrizione risalente all’anno 1210, motivata dalla contestazione di questo punto della dottrina cattolica da parte dei Valdesi, che obbliga i Valdesi che vogliono convertirsi ad ammettere il diritto del potere secolare di comminare la pena di morte.

Il pensiero cristiano ha fatto lungamente resistenza al movimento di opinione illuministico che avrebbe portato, in breve volger di tempo, a sopprimere la tortura e a limitare l’applicazione della pena di morte. Lo prova, tra l’altro, la condanna all’indice del libro di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, nel 1776, due anni dopo la pubblicazione. Là dove Beccaria confutava la pretesa di considerare la pena di morte un «diritto», cioè qualcosa che potesse aver a che fare con la legge, la chiesa vedeva una minaccia al potere dello Stato.

A livello di magistero ufficiale, nessuna diretta revisione di tale insegnamento è avvenuta negli ultimi tempi. Allusioni ad esso, in obliquo, si ritrovano nei documenti pontifici che condannano l’aborto. Specificano sempre che la sua malizia dipende dal fatto che con l’aborto viene ucciso «un innocente». Nell’enciclica Casti connubii si afferma che il diritto di uccidere un feto non può spettare neppure all’autorità pubblica; il diritto all’esecuzione capitale (jus gladii), infatti, può essere esercitato solo contro i colpevoli (in solos reos).

La teologia morale cattolica ha fatto per lo più eco alle posizioni della dottrina ufficiale. I moralisti accettano, in astratto, il principio della liceità della pena di morte; in concreto, considerano di buon grado il fatto che la pena capitale sia praticamente scomparsa in quasi tutti i paesi, come un addolcimento dei costumi sotto il segno dell’umanitarismo.

Per completezza vanno però registrate alcune voci isolate tra i teologi, che auspicano che la dottrina ufficiale della chiesa si evolva, fino a prendere esplicitamente posizione contro la pena di morte 86. Come tutti gli oppositori della pena di morte, questi esponenti del pensiero cattolico considerano non probanti gli argomenti con cui se ne prospetta l’utilità sociale. A loro avviso, alla pena capitale non può essere riconosciuto né un valore esemplare, né retributivo (nel senso della vindicatio, cioè del ripristino dell’ordine violato), né difensivo per l’ordine sociale, né tanto meno correttivo o «medicinale» nei confronti del reo. Ma soprattutto l’avversano perché la considerano contraria allo spirito dell’insegnamento di Gesù. Nello spirito del Regno di Dio, quando l’ordine è violato non si restaura facendo cadere il rigore del giudizio sul reo, ma moltiplicando D bene. L’atteggiamento di Gesù nei confronti dell’adultera (cfr. Gv 8,1-11),

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condannata alla lapidazione dalla legge, ma salvata dal messia affinché impari a vivere secondo l’amore, è la fonte del «diritto evangelico» per le creature nuove del Regno. Annunciando questa possibilità la chiesa si distanzia dalla logica degli ordinamenti giuridici con cui viene regolata la convivenza civile. La sua prospettiva è quella della profezia, in dipendenza da quella vita nuova di cui Gesù è il profeta.

La possibilità di un’evoluzione della dottrina della chiesa, nel senso di riconoscere l’inconciliabilità tra l’accettazione della pena di morte e lo spirito del Vangelo, deriva dal principio teologico stabilito dal Vaticano II, secondo cui la comprensione della rivelazione cresce con «l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali» (Dei Verbum, 8). La comprensione che i cristiani hanno oggi della persona e dell’insegnamento di Gesù — soprattutto del suo messaggio di non violenza —, nonché la testimonianza vissuta di molti suoi discepoli, potrebbero portare a rinnovare una dottrina ecclesiastica tradizionale, nel senso di un’evoluzione nella continuità. Nel frattempo ambedue le opinioni — tanto quella di coloro che considerano la pena di morte armonizzabile con lo spirito cristiano, tanto quella di coloro che la escludono ― rimangono moralmente probabili.

6.2. Il suicidio

Anche il suicidio è una morte inflitta: non è il potere giudiziario che la decide e l’eseguisce, ma il vivente stesso che la commina a se stesso. Alcuni fattori hanno contribuito a dargli un rilievo di attualità, tanto agli occhi degli studiosi del comportamento umano, quanto a quelli dei moralisti cristiani. L’analisi del comportamento suicidiario con gli strumenti analitici offerti dalla psicologia e dalla sociologia ha sconvolto gli approcci esclusivamente filosofico-etici, facendo emergere dimensioni di questo comportamento che sfuggivano alle valutazioni aprioristiche 87. In particolare, la possibilità di prendere una decisione «razionale» di commettere il suicidio è tutt’ora oggetto di animato dibattito. Un altro importante motivo di attualità va ricercato nelle trasformazioni culturali

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relative al morire, a seguito delle quali il porre fine deliberatamente alla propria vita, come mezzo estremo per sottrarsi a trattamenti medici disumanizzanti, ha acquisito una nuova legittimazione nell’opinione pubblica. Rinviando al capitolo sull’eutanasia la trattazione dei limiti da riconoscere al diritto del paziente di rifiutare il trattamento, ci limitiamo qui a considerare unicamente i casi in cui positivamente e deliberatamente il paziente terminale ricorre al suicidio per affrettare la conclusione del suo processo vitale.

Il pensiero dell’etica cristiana sul suicidio va differenziato, a seconda che si consideri il principio astratto o l’aspetto esistenziale-concreto delle persone che prendono tale decisione. Dal punto di vista formale, il suicidio è sempre proibito. Questo è il messaggio che la costante lettura esegetica ha tratto dalle fonti che trasmettono la rivelazione ebraico-cristiana. La Bibbia contiene il racconto di alcuni suicidi, commessi da personaggi della storia santa, talvolta senza una particolare enfasi di condanna morale (Saul e il suo scudiero si trafiggono con la propria spada per non cadere in mano ai nemici: 1 Sam 31,3-5; Ahitofel si impicca dopo il fallimento del suo intrigo politico; 2 Sam 17,23; Sansone fa crollare il tempio addosso a sé e ai Filistei: Giud 16,23-31; il sacerdote Razis viene addirittura lodato, perché «scelse generosamente di morire piuttosto che cadere in mani criminali e subire oltraggi indegni della sua nascita»; 2 Macc 15,42). Tuttavia la tradizione ebraico-cristiana è unanime nel ritenere che il suicidio è contro la volontà di Dio. Ci si riferisce, sia alla volontà positiva espressa dal comandamento «non uccidere» (Es 20,23) o dalla punizione per chi versa il sangue umano (cfr. Gen 9,5-6: nell’uno come nell’altro caso, la proibizione di attentare alla propria vita è vista come inclusa nella proibizione generale, che non è accompagnata da specificazioni), sia alla volontà di Dio implicita nel fatto stesso della vita. La vita è concepita teologicamente come un dono; il «comandamento» di vivere — cioè, di volere la vita — è contenuto nel fatto stesso di essere stato posto in vita. La sovranità di Dio sulla vita del singolo fonda in tutta la tradizione religiosa monoteistica la proibizione del suicidio. Nei termini della morale dell’alleanza, caratteristica della rivelazione ebraico-cristiana, il suicidio sottrae unilateralmente, per iniziativa umana, un partner al dialogo della salvezza.

A queste argomentazioni di natura religiosa, accessibili solo a chi si muove nell’universo della fede, vanno aggiunte quelle di tipo tradizionale, elaborate sia dai teologi che dai filosofi dell’Occidente. In tale prospettiva il suicidio è proibito dagli obblighi che l’individuo ha verso gli altri e la comunità: è l’argomentazione che Tommaso d’Aquino mutua da Aristotele: ogni essere umano è parte di un gruppo sociale; uccidendo se stesso, l’individuo priva la communitas delle proprie risorse e offende gli altri

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membri del gruppo (cfr. S. Th. II-II, 64, 5). Il suicidio è dunque ingiusto in quanto viene ad essere una «iniura communitati».

Un altro argomento che si ritrova nelle discussioni sulla moralità del suicidio è la sua condanna in nome degli obblighi verso se stesso. Nella medesima trattazione S. Tommaso si appella anche al fatto che la vita è un bene naturale, che la persona ha un istinto naturale per la vita, e che perciò abbiamo l’obbligo di preservare la nostra vita. La proibizione del suicidio viene così radicata nella «legge naturale».

Nelle formulazioni dottrinali più recenti il suicidio è condannato in quanto azione «contro la vita». Così nella Gaudium et spes del Vaticano II il suicidio volontario è elencato insieme agli altri comportamenti contro la vita; nel loro insieme sono valutati come «vergognosi»; di essi il documento conciliare afferma che «mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano sia coloro che così si comportano, che quelli che li subiscono; e ledono grandemente l’onore del Creatore» (n. 27). Gli obblighi verso se stessi, verso gli altri membri della comunità e verso la sovranità di Dio, che rendono immorale il suicidio, vengono così fusi in una visione unitaria.

Quando dal livello astratto o dei principi si passa alla considerazione del suicidio nella sua fattualità concreta, ci si imbatte nella valutazione del carattere morale delle persone che commettono il suicidio. Mettere fine alla propria vita può essere — nelle circostanze in cui può venirsi a trovare una persona — un atto umano, o addirittura lodevole? La tradizione occidentale, sia quella religiosa che quella filosofica, ha condannato i suicidi, valutando il loro atto come non riscattabile da alcun motivo nobile. Anche il suicidio per la tutela di valori superiori — come quello di alcune donne che, secondo i racconti agiografici, si sono date volontariamente la morte per evitare un’offesa alla loro virtù — non ha riscosso l’approvazione di tutti gli autorevoli scrittori cristiani dell’antichità. Alcuni hanno inneggiato alla loro virtù eroica; altri, come S. Agostino, le hanno presentate come modelli da non imitare. Le disposizioni ecclesiastiche che privavano i suicidi di riti e onori funebri normalmente attribuiti ai defunti avevano un intento pedagogico, volendo inculcare la riprovazione morale del suicidio.

Oggi la conoscenza delle radici socio-psicologiche del suicidio ha attutito la durezza del comportamento verso i suicidi; anche la valutazione morale di fondo in alcuni casi è soggetta a ripensamento. La sensibilità contemporanea è particolarmente provocata da alcune forme di suicidio che rappresentano una rinuncia alla vita per motivi idealisti — altruistici, fino quasi a configurare una specie di «suicidio d’amore». Particolarmente apprezzato è il comportamento di chi fa del proprio sacrificio della vita un’arma di lotta politica, nel senso della liberazione degli

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oppressi. In tale chiave vanno letti gesti dimostrativi clamorosi, come il suicidio di Jan Palach in Cecoslovacchia, dei bonzi in Vietnam o dei prigionieri politici in Irlanda, mediante lo sciopero della fame a oltranza. I criteri morali con cui valutare questi suicidi sono quelli che trovano applicazione nella lotta violenta: perché di questa si tratta; anche se la violenza è rivolta verso se stessi, piuttosto che verso altri.

Un capitolo aperto di particolare attualità è quello relativo all’obbligo di prevenire il suicidio. Si dibatte se esista il dovere morale di salvare la vita di un altro essere umano contro la sua volontà. In questi casi entrano in conflitto due specie di obblighi: quello di difendere la vita e quello di rispettare la libertà; mentre il primo giustifica l’intervento, il secondo richiede la non interferenza (nel caso che sia moralmente certo che la decisione suicidiaria sia presa in effettiva libertà, e non sotto costrizione). Solo poche voci isolate propongono la libertà di commettere il suicidio come condizione per salvaguardare la dignità umana. In genere l’Occidente ha dato la preferenza al primo obbligo; in passato mediante le argomentazioni religiose che abbiamo prima passato in rassegna, oggi prevalentemente con motivazioni secolari, ivi compreso il principio giuridico secondo cui il diritto alla vita va inteso come un diritto «assolutamente indisponibile», tutelato dallo Stato anche contro la volontà dell’individuo.

Con particolare mitezza si tende oggi a valutare i tentativi di suicidio di persone che intendono sfuggire ai dolori intollerabili e a trattamenti disumani in certe condizioni di malattie terminali. In tutti questi casi non sussiste, dal punto di vista della morale cristiana, alcun valido motivo per riformulare il giudizio da portare sull’illeceità di ogni attentato contro la propria vita. La funzione che può avere nel contesto attuale tale riaffermazione cristiana è quella di portare a riflettere, in termini positivi, sul significato profondo dei gesti suicidiari. Essi possono essere letti come una disperata invocazione perché si presti attenzione alle persone in stato di sofferenza estrema, si offra aiuto, si condivida solidarmente.

La prevenzione del suicidio in termini cristiani non si riduce a misure costrittive (come l’alimentazione forzata o il controllo istituzionale). Si estende piuttosto alla modifica di quelle forme più generali di malessere, le cui radici vanno fatte risalire all’organizzazione della convivenza sociale, che possono condurre a giudicare la propria vita come invivibile.

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7. L’eutanasia

7.1. La chiesa e il diritto a morire umanamente

Tra le numerose singolarità che ha assunto il morire oggi, acquista un particolare rilievo l’impegno della chiesa per assicurare il diritto a una morte «umana». Per la sua propria natura e funzione, infatti, la chiesa sembra chiamata a un altro compito: quello di adoperarsi per rendere possibile una morte «religiosa» ai credenti. Di fatto, per lungo tempo, è stato così. L’azione dei ministri della chiesa e dei religiosi aveva come principale connotazione la funzione pastorale, in armonia con una visione antropologica soprannaturale, che vede l’uomo come destinato alla vita eterna e attribuisce al momento della morte un valore incomparabile. La morte fissa infatti per sempre la sorte spirituale dell’uomo: questo il motivo del particolare interesse, tanto dottrinale che pratico, che la chiesa ha sempre avuto per la morte. La preparazione alla morte ha costituito, fino a un’epoca molto recente, un cardine della predicazione e della devozione privata. Il cristiano viveva per morire, e moriva per la vita eterna. Il sacerdote era lo specialista della morte, in quanto cerniera tra la vita terrena nel corpo e «l’altra vita». L'ars moriendi, come genere letterario, ha goduto un’estrema diffusione e popolarità dalla fine del medioevo fino all’epoca moderna inoltrata. La «buona morte» che il credente si augurava e che i ministri della chiesa intendevano facilitare, era la morte «cristiana». In armonia con la morte di Gesù, essa era vissuta nella prospettiva del Regno di Dio (del paradiso), come momento di suprema unione con Dio, in un atteggiamento penitenziale, nonché nell’abbandono filiale alla volontà del Padre (cfr. Mt 26,42; Lc 23,46).

Senza rinnegare questa prospettiva, oggi vediamo però piuttosto la presenza della chiesa su un fronte nuovo: quello della difesa e della promozione della qualità «umana» della morte. Ciò presuppone un giudizio antropologico-etico che qualifica le modalità culturali che ha assunto oggi la morte come «disumane». Il giudizio di valore non è riferito solo alle distorsioni che subisce l’essere umano, nella sua natura e nel suo destino, quando è amputato di ogni riferimento alla trascendenza e allo spirito. Anche in un orizzonte laico e immanentistico il morire è diventato disumano, cioè violento e deformato; risulta «innaturale» anche se lo si valuta col metro di un’antropologia non religiosa. L’ampliamento delle possibilità terapeutiche, grazie all’uso sistematico della tecnologia da parte della medicina moderna, non è senza ambivalenza. In regime di medicalizzazione intensiva, si è modificata la durata della morte. I progressi della medicina continuano ad allungare il processo del morire. Al limite, esso tende a dipendere dalla volontà del medico, che deve decidere

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se mettere in atto, tenere in funzione o arrestare le complesse apparecchiature della rianimazione artificiale. Il morente non è più che un povero oggetto privo di volontà, e spesso di coscienza. Il personale ospedaliero può prevedere l’ora della morte, ma la regola a cui si attiene è quella della dissimulazione. La conoscenza completa e condivisa della propria sorte da parte del malato grave è un caso eccezionale. I segni della morte sfuggono al malato; i medici e le infermiere, che sono in grado di interpretarli, preferiscono nasconderglieli. Il morente non ha più uno «status» sociale. L’assistenza tecnologica prolunga l’esistenza dei malati, ma non li aiuta a morire.

Gli interrogativi etici e antropologici che si affastellano sulla fase terminale della vita sono stati così riassunti in una dichiarazione della conferenza episcopale tedesca: «Quando deve essere combattuta ed evitata la morte, anche a un prezzo elevato? Quando è nostro compito di familiarizzarci con essa, di confrontarci con essa e di accettarla? Quali conseguenze ha tale discussione per una morte degna dell’uomo e per l’assistenza ai morenti? Tali domande si modificano alla luce della fede cristiana? Che senso conserva ai nostri giorni «l’arte del morire» della tradizione cristiana, quella che chiamavano l'ars moriendi?» 88.

Le questioni tradizionalmente considerate dalla morale medica relativamente alla fine della vita sono acuite dalla situazione medico-culturale attuale. Il compito della chiesa è quello di riaffermare i princìpi acquisiti, destinati a guidare l’azione in momenti comprensibilmente carichi di pathos e quindi facilmente esposti alle prevaricazioni dell’emotività. Il «no» inequivocabile all’eutanasia è il pilone portante della tradizionale difesa della vita terminale da parte della morale cattolica. La condizione attuale del morente domanda di procedere oltre, estendendo l’attenzione alle nuove articolazioni che assume la minaccia alla qualità umana della morte. In questo senso va intesa la presenza della chiesa sul fronte umanistico di un «diritto alla morte».

7.2. Il rifiuto dell’eutanasia attiva

Per eutanasia attiva — o positiva — si intende l’azione con cui, di propria iniziativa o su richiesta dell’interessato, si pone fine a una vita umana. Storicamente il termine godette di una sinistra popolarità quando fu formulato come punto programmatico del progetto sanitario nazista di eliminare le «vite senza valore» (lebensunwerte Leben). Oggi ricorre

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nel contesto delle modificazioni che ha assunto il morire per i progressi della medicina 89. Le deformazioni del processo naturale hanno portato alcuni a parlare di «distanasia», per contrapporvi l’«eutanasia» come programma correttivo. Secondo la recente Dichiarazione della s. Congregazione per la dottrina della fede in merito all’eutanasia (5.10.1980), «nella società moderna, nella quale non di rado sono posti in causa gli stessi valori fondamentali della vita umana, la modificazione della cultura influisce sul modo di considerare la sofferenza e la morte; la medicina ha accresciuto la sua capacità di guarire e di prolungare la vita in determinate condizioni, che talvolta sollevano alcuni problemi di carattere morale. Di conseguenza, gli uomini che vivono in un tale clima si interrogano con angoscia sul significato dell’estrema vecchiaia e della morte, chiedendosi conseguentemente se abbiano il diritto di procurare a se stessi o ai loro simili ‘la morte dolce’, che abbrevierebbe il dolore e sarebbe, ai loro occhi, più conforme alla dignità umana».

Dopo aver specificato che per eutanasia si intende, in senso stretto, «un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore», l’autorevole documento ripete la condanna, in linea con la costante tradizione della morale cattolica, di interventi di tale natura. «Niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di un’offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità. Il documento prosegue precisando che ragioni di ordine affettivo — come il dolore prolungato e insopportabile — possono indurre qualcuno a ritenere di poter legittimamente chiedere la morte o procurarla ad altri. In tali casi la responsabilità personale può essere diminuita o perfino non sussistere; tuttavia l’errore di giudizio della coscienza — fosse pure in buona fede — non modifica la natura dell’atto omicida, che in sé rimane inammissibile per la morale cattolica. Anche se ci si deve astenere dal giudicare coloro che, in casi limite, siano stati indotti dalla compassione a porre fine a una vita ritenuta intollerabilmente penosa, l’annuncio della chiesa rimane immutato.

Per questo motivo la chiesa è ostile a ogni tentativo di legittimare l’eutanasia mediante un testo di legge o dichiarazioni etiche provenienti

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da alte personalità. In un documento dei vescovi francesi viene messo in evidenza che dietro la domanda di eutanasia proveniente dal malato c’è sempre una richiesta angosciata di aiuto e di affetto, un bisogno di calore umano e soprannaturale. Il documento prosegue: «L’‘alleviate il mio dolore e ascoltatemi’ del malato è una domanda difficile da soddisfare. È più facile lasciare il malato alla sua solitudine e lasciarlo soffrire finché le sue sofferenze diventino intollerabili, intollerabili a lui e a quelli che lo circondano, e allora mettere fine alla sua vita. Una società che legittimasse l’eutanasia sarebbe senza dubbio una società che cerca di sfuggire a uno dei suoi doveri più elementari: quello della fraternità umana, con i più poveri tra i suoi membri. Per dei credenti l’accettazione dell’eutanasia significherebbe senza dubbio la paura di vivere questo mistero della presenza umana al morente, simbolo della Presenza stessa di Dio».

7.3. La lotta contro il dolore

La compassione, che induce alcuni a spingersi fino ad acconsentire alla morte di un altro essere umano, è provocata per lo più dalla visione delle sofferenze che accompagnano certe malattie allo stadio terminale. Quando la morale cattolica ha stabilito come punto invalicabile l’intangibilità della vita umana, non ha esaurito il suo compito. Per rendere possibile una morte «umana», bisogna che il dolore sia contenuto entro limiti sopportabili. La resistenza al dolore è una variabile culturale, oltre che individuale. Dipende dal livello di motivazione, dal significato che si attribuisce al dolore, nonché dall’atteggiamento sociale. Ora, è difficilmente contestabile che la civilizzazione tecnologica occidentale ha creato un clima in cui l’attribuzione di un senso al dolore è resa più ardua. Di conseguenza, la soglia psicologica di tolleranza del dolore si è abbassata.

Se guardiamo la situazione come si presenta dal punto di vista medico-sanitario, non notiamo un interesse a lenire le sofferenze del malato equiparabile a quello rivolto al prolungamento della vita. Mentre il rifiuto dell’eutanasia è un punto qualificante della deontologia medica fin dal giuramento di Ippocrate, l’impegno medico sul piano della lotta alla sofferenza è rimasto in qualche modo marginale nei progressi della medicina. Come osserva il documento dei vescovi francesi, «il problema dell’attenuazione delle sofferenze del malato, in realtà, è molto complesso e non basta, per risolverlo, una larga somministrazione di analgesici. La sofferenza umana non è, infatti, un puro fenomeno fisiologico: essa è nutrita dall’apprensione di vedere crescere il dolore e dall’angoscia di colui che si sente gravemente minacciato nel suo corpo. È per questo che per alleviare la sofferenza è richiesto di saper maneggiare i trattamenti

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(medicazioni che vanno dall’aspirina alla morfina, interventi chirurgici, irradiazioni...), ma anche di colmare l’ansietà o l’angoscia del malato. Ciò implica una relazione personale con lui. Ora, la relazione col malato grave è angosciante per il personale curante, tanto più se la morte è prossima o la sofferenza ribelle ai trattamenti».

Per quanto riguarda il trattamento del dolore, i punti essenziali della dottrina morale cattolica comprendono: liceità ma non obbligatorietà del ricorso ai mezzi atti a lenire il dolore; liceità del ricorso ad analgesici che portano anche alla perdita della coscienza, purché questo mezzo sia giustificato da un intento terapeutico; accettazione di trattamenti antalgici che hanno come effetto secondario quello di abbreviare la vita, purché motivi veramente gravi lo giustifichino. Quanto al primo punto, la dottrina cristiana valorizza il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti della vita, attribuendogli un denso significato antropologico e salvifico. Senza tuttavia farne un idolo, perché non è il dolore in sé che purifica e salva, ma solo la grazia che produce l’amore. Spesso è stato indebitamente attribuita al cristianesimo la coltivazione malsana del dolore. Il «dolorismo» può essersi appoggiato al cristianesimo, ma non ne è un suo figlio legittimo. Sarebbe soprattutto illegittimo motivare con argomentazioni religiose l’eventuale dimissione del personale sanitario di fronte al compito di contenere il dolore e addolcire la fine dei pazienti. La posizione cristiana è quella di un giusto equilibrio tra il feticismo del dolore, che lo fa considerare come il valore supremo, e la fobia di esso, che lo identifica con il non-valore assoluto 90. Se è vero che il dolore costringe l’uomo a porsi nuovamente le questioni fondamentali del proprio destino, della propria posizione nei confronti di Dio e degli altri uomini, della propria responsabilità individuale e collettiva, del senso del proprio pellegrinaggio terreno (cfr. Pio XII, Ai partecipanti al Symposium sulle malattie delle coronarie, 9.5.56), d’altra parte è anche possibile costatare che il dolore aggrava lo stato di debolezza e di esaurimento fisico, ostacola lo slancio dell’anima, logora le forze morali e può fornire l’occasione di nuove colpe (cfr. Pio XII, Ai partecipanti al IX Congresso della Società Italiana di Anestesiologia, 24.2.1957). Il principio a cui si ispira la morale cattolica suona, nella formulazione di Pio XII: «Il paziente desideroso di evitare o di calmare il dolore può, senza inquietudine di coscienza, avvalersi dei mezzi trovati dalla scienza». Dal punto di vista pratico, vanno tenute presenti le indicazioni del documento della s. Congregazione per la dottrina della fede: «Non deve meravigliare se alcuni cristiani desiderano moderare l’uso degli analgesici, per accettare volontariamente

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almeno una parte delle loro sofferenze e associarsi così in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo crocifisso (cfr. Mt 27,34). Non sarebbe tuttavia prudente imporre come norma generale un determinato comportamento eroico. Al contrario, la prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggior parte degli ammalati l’uso dei medicinali che siano atti a lenire o a sopprimere il dolore, anche se ne possono derivare come effetti secondari torpore o minore lucidità. Quanto a coloro che non sono in grado di esprimersi, si potrà ragionevolmente presumere che desiderino prendere tali calmanti e somministrarli loro secondo i consigli del medico». (Dichiarazione della s. Congregazione per la dottrina della fede: Eutanasia, 5.5.1980).

L’uso intensivo degli analgesici pone dei problemi morali che sono già stati affrontati da Pio XII nel discorso del 24.2.1957, che costituisce una esaustiva trattazione dei quesiti religiosi e morali concernenti l’analgesia. Un primo problema è la liceità, dal punto di vista della morale cristiana, dei trattamenti che conducono alla privazione totale o parziale della coscienza di sé. Per quanto riguarda la soppressione o diminuzione della coscienza e dell’uso delle facoltà superiori, Pio XII applica gli stessi princìpi che regolano la soppressione del dolore. La narcosi risulta così «permessa dalla morale naturale e compatibile con lo spirito del Vangelo», quando è volta a un fine terapeutico: «preservare l’equilibrio psichico e organico; evitare il suo violento sconquasso, costituisce per il chirurgo e per il paziente un importante obiettivo, che la narcosi soltanto permette di ottenere».

Un caso particolare è costituito dall’uso degli analgesici presso coloro che sono afflitti da malattie incurabili, quando l’attenuazione dell’intollerabile dolore probabilmente si effettuerà a spese della durata della vita, che ne viene raccorciata. Nell’insegnamento morale di Pio XII, «se tra la narcosi e l’abbreviamento della vita non esiste alcun nesso causale diretto, posto per volontà degli interessati o per la natura delle cose (il caso sarebbe, se la soppressione del dolore non potesse essere ottenuta che con l’abbreviazione della vita); e se al contrario la somministrazione dei narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l’alleviamento dei dolori, dall’altro l’abbreviamento della vita, è lecita; bisogna ancora vedere se vi è tra i due effetti proporzione ragionevole, e se i vantaggi dell’uno compensano gli inconvenienti dell’altro». Entro questi limiti, e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali, la soppressione della coscienza per mezzo dei narcotici è permessa dalla morale cristiana al medico e al paziente: «l’ideale dell’eroismo cristiano non impone, almeno in modo generale, il rifiuto di una narcosi d’altronde giustificata, sia pure all’avvicinarsi della morte: tutto dipende dalle circostanze concrete. La risoluzione più perfetta

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e più eroica può trovarsi tanto nell’accettazione che nel rifiuto» (Pio XII, ibi). L’intera questione è ripresa ed esposta più incisivamente dallo stesso pontefice in un’allocuzione del 9.9.1958: «Se il moribondo acconsente, è permesso utilizzare con moderazione narcotici che ne allevieranno le sofferenze, ma porteranno anche a una morte più rapida; in tal caso, però, la morte non è direttamente voluta, ma è inevitabile, e motivi proporzionati autorizzano misure che ne affrettano la venuta».

Il documento dei vescovi francesi aggiunge, dopo il richiamo della posizione morale tradizionale, delle considerazioni relative alla pratica cosiddetta di «deconnessione», vale a dire l’uso di droghe che precipitano totalmente nell’incoscienza. Tali interventi sono qualcosa di intermedio tra il trattamento analgesico del dolore e l’eutanasia: viene provocata non la morte fisica, in quanto arresto delle funzioni organiche, ma una parte di essa, cioè lo spegnimento della coscienza. «Tali pratiche sono, in realtà, la confessione di un fallimento: significano che il personale curante non è riuscito ad alleviare il malato da sofferenze e angosce intollerabili per lui. Parlare di tali pratiche richiede molta prudenza: da una parte, perché la questione è delicata; dall’altra per non aumentare senza valida ragione il malessere e il senso di colpevolezza dei sanitari che le usano: è molto angosciante per essi rinnovare giorno dopo giorno fino alla morte le perfusioni che mantengono il malato nell’incoscienza. A parer nostro, oggi queste pratiche non dovrebbero essere né legittimate, né condannate. Non legittimate, perché le ricerche intraprese in alcuni centri mostrano che dovrebbe essere possibile alleviare la sofferenza del malato senza giungere a tali decisioni. E neppure condannate, perché oggi, considerata la mancanza di formazione del personale curante e l’organizzazione attuale dei centri ospedalieri, la deconnessione resta senza dubbio in certi casi la soluzione meno disumana».

7.4. La verità al morente

Gli atteggiamenti nei confronti del malato terminale si agglutinano intorno a due modelli prevalenti: quello che tende a nascondergli la prognosi e la realtà della fine imminente, e quello invece che favorisce la esplicita informazione del paziente. Mentre il primo modello è diventato caratteristico del personale sanitario, il secondo è promosso da quanti considerano il bene del malato in una prospettiva più ampia del solo prolungamento della vita fisica. Tradizionalmente l’opzione per la franca comunicazione della verità è stata rappresentata dai ministri della religione. Oggi anche dal campo delle scienze dell’uomo si alzano vive perorazioni a favore di un rapporto comunicativo col morente. Numerose ricerche

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empiriche, condotte da sociologi, antropologi culturali e psichiatrici, hanno dimostrato infatti gli effetti psicologici negativi del silenzio e dissimulazione sistematici nei confronti dei malati terminali. Per promuovere una migliore igiene mentale le scienze del comportamento si sono accinte a elaborare programmi di formazione del personale sanitario, sulla base delle conoscenze che si vanno acquisendo del processo psicologico del morire, al fine di provvedere un’assistenza totale al malato, anche quando non sussistono più speranze di vita.

Quest’opera può essere vista, dal punto di vista cristiano, come un indispensabile complemento dell'assistenza spirituale, che è compito della pastorale. La morale cristiana opta per la consapevolezza, e quindi per la comunicazione interpersonale che la rende possibile. Coerentemente alla sua visione antropologica, il cristianesimo considera la morte come il momento di massima realizzazione della libertà e della responsabilità umana; riconosce perciò al morente il diritto di conoscere la verità sul proprio stato, nella misura in cui voglia effettivamente conoscerla 91. Il problema della «verità» al malato grave non equivale però a quello di un partito preso aprioristico per una brutale comunicazione che «non c'è più niente da fare». La veracità non esaurisce le esigenze della verità, in senso cristiano. Queste comprendono in primo luogo l’amore, e quindi anche il rispetto dell’altro. La verità «umana» può domandare la gradualità, ed emerge solo all’interno di un dialogo. «Il problema fondamentale, quando la malattia prende fatalmente la via della morte, sta nella verità da dire al morente. Al riguardo, dire la verità non vuol dire fare delle dichiarazioni senza tatto e intempestive sullo stato del malato. Non consiste neppure nella diagnosi o nella prognosi circa il momento preciso della morte. Si tratta qui della capacità di colui che assiste di stabilire col paziente una relazione tale che questi sia in grado di chiedere informazioni sulle sue condizioni e di trarre le opportune conseguenze» (Conferenza episcopale tedesca: Morte degna dell’uomo e morte cristiana).

Il servizio ai morenti che svolge chi si ispira alla fede cristiana si radica in un clima di speranza: una speranza che va oltre la conclusione della vita terrena, nel legame di solidarietà reso possibile dall’amore fraterno.

NOTE

1 W.H.S. JonesHippocrates, London 1923, I, 291-297.

2 L. EdelsteinThe Hippocratic Oath: Test, Translation and Interpretation, in The Bull, of the History of Medicine, Suppl. 1, Baltimore 1948; Id., The Professional Ethics of the Greek Physician, in O. Temkin (ed.), Ancient Medicine, Selected Papers of Ludwig Edelstein, Baltimore 1967, 319-348. Sigerist, il fondatore della moderna storia della medicina, si è occupato a più riprese del giuramento e dell’ethos ippocratico. Segnaliamo i riferimenti principali: H.E. Sigerist, Grosse Aerzte, Eine Geschichte der Heilkunde in Lebensbildern, München 1923; Id.. «On Hippocrates», in Bulletin of the Hist. of Medicine 2 (1934) 190-214, ripreso nella raccolta On the History of Medicine, N. York 1960, 97-119; Id., Die Heilkunst im Dienste der Menschheit, Stuttgart 1954. La trattazione più completa è quella che Sigerist riserva a Ippocrate nella monumentale storia della medicina, progettata in otto volumi, ma che la morte gli impedì di portare a termine: A History of Medicine, vol. II: Early Greek, Hindu and Persian Medicine, N.Y. 1961.

3 Tradizionalmente l'ethos medico espresso dal giuramento è individuato nella difesa della vita o della salute. «Come lo sportivo di Maratona aveva il dovere di portare e difendere la fiamma olimpica, così il medico ippocratico ha il dovere di difendere la fiamma della vita. Se anche nella casistica terapeutica Ippocrate non è aggiornato, sui princìpi necessari, oggi come allora, egli è di un’attualità morale sorprendente e imprescindibile: medico vuol dire sacerdote della vita; ad altri, se occorre, il compito, a volte il dovere di limitare la vita. A noi quello di facilitarla, di difenderla e di salvarla»: L. Gedda, Il giuramento di Ippocrate oggi, Roma 1954, p. 19.

4 W.H.S. JonesThe Doctor’s Oath: an essay in the history of medicine, Cambridge 1924. Vedi anche l’introduzione alle opere di Ippocrate, cit. n. 1.

5 H.E. Sigerist, A History of Medicine, cit., p. 303.

6 Cfr. L. EdelsteinThe Hippocratic Oath, cit.

7 Cfr. Gregorio di Naz., PG XXXV, col. 767 A: Girolamo, Epist. 52, 15 PL XII, col. 539.

8 Vedi specialmente H.E. Sigerist, On Hippocrates, cit.

9 Per il medico che arrivava come straniero il modo migliore per guadagnare la fiducia era di fare una prognosi corretta. Ciò rende ragione, secondo Edelstein, della posizione centrale che ha la prognosi nella medicina ippocratica.

10 Seguiamo soprattutto il saggio di L. Edelstein, The Professional Ethics of Greek Physician, cit.

11 Cfr. i risultati del colloquio di Strasburgo, tenuto nell’ottobre 1972: La collection hippocratique et son rôle dans l’histoire de la médecine, Leiden 1975. La stessa attenzione è presente in W.D. Smith, The Hippocratic Tradition, Ithaca-London 1979.

12 Una visione d’insieme, basata sull’analisi di un certo numero di trattati composti dal V al XII sec., nel saggio di L.C. Mac Kinney, Medical Ethics and etiquette in the early Middle Ages: The persistance of hippocratic ideals, in C.R. Burns (ed.), Legacies in ethics and medicine, New York 1977, 173-203.

13 Il giuramento modificato in senso cristiano è riprodotto in tre codici. Due di essi — l’Urbinate 64 della Bibl. Vaticana e l’Ambrosiano B113 — dispongono il testo in modo che ne risulti una croce. La cristianizzazione del giuramento di Ippocrate risulta così anche graficamente. Queste versioni del giuramento sono state pubblicate per la prima volta da W.H.S. Jones, The Doctor's Oath: an essay in the history of medicine, Cambridge 1924.

14 Per riferimenti più dettagliati, cfr. D. Konold, Codes of medical ethics, in Encyclopedia of medical Ethics, N.Y. 1978, I, 162-171. Per riferimenti più dettagliati, cfr. D. Konold, Codes of medical ethics, in Encyclopedia of medical Ethics, N.Y. 1978, I, 162-171.

15 Gravitz (ed.), Hippokrates, Gedanken ärztlicher Ethik aus dem Corpus Hippocraticum, Prag. 1942.

16 La discussione sul ruolo giocato dalle organizzazioni professionali dei medici nel realizzare la politica sanitaria del Terzo Reich comincia solo oggi, dopo un silenzio di parecchi decenni. Il «Gesundheitstag» tenutosi a Berlino nel maggio 1980 ha scelto, per la prima volta, come tema di discussione il rapporto tra medicina e nazionalsocialismo. Un’attenzione particolare è andata all’etica professionale come ideologia vincolante che ha messo i medici a servizio del regime. Cfr. gli atti dell’assemblea: G. Baader e V. Shultz (ed.), Medizin und Nationalsozialismus. Tabuisierte Vergangenheit-Ungebrochene Tradition? Berlin 1980.

17 E. Luther e B. Thaler (ed.), Das hippokratische Ethos. Untersuchungen an Ethos und Praxis in deutschen Aerztenschaft, Halle (Saale) 1967.

18 L. EdelsteinThe Professional Ethics, cit. Nella nota 43 adduce abbondante materiale a sostegno della sua tesi.

19 E. Luther e B. Thaler, cit., p. 156.

20 H.E. SigeristDie Heilkunst im Dienste der Menschheit, Stuttgart 1954.

21 Th. PercivalMedical Ethics, or a Code of Institutes and Precepts Adapted to the Professional Conduct of Physicians and Surgeons, London 1803. L’opera è stata ristampata nel 1975 con un’introduzione storica di C.R. Burns dedicata a Percival come prodotto dell’illuminismo.

22 Jeffrey L. BerlantProfession and Monopoly: study of Medicine in the United States and Great Britain, Berkeley 1975.

23 R. SavatierDéontologie, in Encyclopaedia Universalis, Paris 1971, vol. V, pp. 436-439.

24 Sul «Popular Health Movement» cfr. R.H. ShyockMedicine in America: Historical Essays, J. Hopkins Press 1966; J. Kett, The Formation of the American Medical Profession: The Role of Institutions, 1780-1860, Yale University Press 1968; più brevemente, e da un’ottica femminista: B. Ehrenreich - D. EnglishWitches, Midwives and Nurses. A History of Women Healers, The Feminist Press, New York 1974.

25 Cfr. D. KonoldCodes of Medical Ethics, in Encycl. of Bioethics, New York 1978, I, 162-171.

26 G. Caro, La médicine en question, Paris 1974, p. 58.

27 Cfr. H. Cleempoel, «De la déontologie médicale à une étique de la santé», in Aa.Vv., Pour une politique de la santé, Bruxelles 1968, pp. 101-105.

28 Cfr. V.W. Sidel e R. SidelServe the People, New York 1973.

29 Cfr. C.P. SporkenDarf die Medizin, was sie kann? Probleme der medizinischen Ethik, Düsseldorf 1971.

30 Per una panoramica degli aspetti fenomenologici socio-culturali che hanno fatto crescere l’esigenza di un riferimento più articolato con i valori e le norme morali, cfr. A. Autiero - G. Mattai, Medicina e società, in L. Lorenzetti (ed.), Trattato di etica teologica, vol. 3, Bologna 1980, pp. 279-309.

31 W.T. ReichEncyclopedia of Bioethics, vol. 1, New York 1978, p. XIX.

32 Su questa definizione di salute U. Eibach, Salute e malattia, in Aa. Vv., Chiamati alla libertà, Roma 1980, pp. 205-234, sviluppa riflessioni antropologiche ed etiche sul concetto e sul senso di salute e di malattia.

33 Tra le numerose pubblicazioni dedicate alla situazione americana, cfr. soprattutto R.M. Veatch (ed.), The Teaching of Medical Ethics, New York 1973; una rassegna della situazione che comprende anche l’Europa in S. Spinsanti, La formazione etica del medico: nuovi orientamenti, in Laboratorio di scienze dell’uomo 1 (1981) 81-86; 2 (1981) 197-200.

34 Cfr. R.M. VeatchMedical ethics education, in Encycl. of Bioethics, vol. II, 873.

35 La teoria più elaborata sul processo decisionale in medicina (medical decision making) è quella di E.A. Murphy, The logic of Medicine, Baltimore 1976; cfr. anche D.V. Lindley, Making decision, New York 1971. Mentre in passato l’etica medica si è espressa in termini sillogistici, ora si preferisce ripensarla nel quadro di una teoria più generale della decisione probabilistica. Sia i benefici (sollievo da un’infermità, bellezza, fecondità, accresciuto senso del benessere), sia le penalità (perdita della vita, dolore, infermità, vergogna, perdita di denaro ecc.) possono essere condensate in una formazione matematica delle variabili sulle quali la decisione deve basarsi. Alla formula matematica che ne deriva si dà il nome teorico di cost function. Se il costo eccede il beneficio, il trattamento non sembra autorizzato.

36 I principali interventi sono raccolti nel volume Pio XII: Discorsi ai medici, Roma 1963. Praticamente tutti i punti nevralgici della morale medica sono stati trattati da Pio XII: il valore e l’inviolabilità della vita umana in riferimento all’aborto, alla contraccezione e alla sessualità coniugale; la fecondazione artificiale; la sterilizzazione; i limiti nella ricerca e nella sperimentazione sull’uomo; la chirurgia in rapporto alle mutilazioni anatomiche e funzionali; la rianimazione e i problemi dell’analgesia; il parto indolore; problemi etici della neuropsicofarmacologia; princìpi di morale applicati alla psicoterapia.

37 «Queste direttive proibiscono quei procedimenti che, allo stato attuale di conoscenze, sono riconosciuti come chiaramente erronei. I valori morali assoluti di fondo che queste direttive sottolineano non sono soggetti a cambiamento, benché possano essere modificate delle particolari applicazioni, nella misura in cui la ricerca scientifica e lo sviluppo teologico schiudono nuovi problemi o gettano una nuova luce su quelli vecchi»: il preambolo delle direttive statunitensi riflette un approccio della problematica medico-morale secondo cui le decisioni mediche sono una diretta applicazione delle norme ecclesiastiche, ed escludono il pluralismo. Per un esame critico, con un utile raffronto con l’approccio diverso che anima la Guida Medico-Morale dei vescovi canadesi del 1970, cfr. B. Häring, Religious Directives in Medical Ethics, Roman Catholic Directives, in Enc. of Bioethics, cit., IV, 1431-1435.

38 Per un abbozzo sistematico della morale medica di Häring, con particolare attenzione al metodo e ai princìpi a cui si ispira, vedi B. Soane, The literature of medical ethics: B. Häring, in Journ. of med. ethics, 1973/3, pp. 85-92. Nella miscellanea in onore di P. Häring, Chiamati alla libertà, Roma 1980, si può consultare con utilità il saggio di P. Beretta, Sintesi e sviluppo della teologia di B. Häring, pp. 379-391.

39 B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo, vol. III, Roma 1981, p. 13.

40 I due documenti sono riprodotti, con un commento, in S. Spinsanti, Umanizzare la malattia e la morte, Roma 19822.

41 J. PiagetLe jugement moral chez l’enfant, Paris 1932. [Tr. it., Il giudizio morale nel fanciullo, Firenze].

42 C. Hampden TurnerThe Radical Man, Cambridge (Mass.) 1970.

43 M. RokeachThe Open and the Closed Mind, New York 1960. Il dogmatismo per Rokeach compare sotto forma di «totalità cognitiva di idee e rappresentazioni, che sono organizzati in sistemi relativamente chiusi».

44 G. Davanzo, Obiezione di coscienza, in Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma 1973, pp. 676-681.

45 A.H. Maslow, Verso una psicologia dell’essere, Roma 1971. Tutto il libro, costruito sulle esperienze e i momenti più sani nella vita della gente comune, vuol dimostrare che gli esseri umani possono essere nobili e creativi, che sono capaci di seguire i valori e le aspirazioni più elevate.

46 I.T. Ramsey, Il linguaggio religioso, Bologna 1970; specialmente pp. 17-76.

47 Ampia documentazione in G.P. Cabanel, Médecine libérale ou nationalisée?, Paris 1979. L’autore presenta un dossier in cui vengono passate in rassegna le soluzioni che hanno dato ai problemi della salute alcune delle grandi nazioni del mondo, adottando differenti sistemi sanitari. La Svizzera è presente come prototipo del liberalismo europeo; la Repubblica federale tedesca ha organizzato anche la salute secondo i princìpi dell’economia sociale di mercato; la Gran Bretagna e la Svezia hanno spinto l’intervento dello Stato quanto più potevano, senza violare i limiti posti dai principi della vita democratica; gli Stati Uniti hanno scandito il sistema sanitario sui princìpi fondamentalmente liberali che governano il paese; Russia e Cina rappresentano due esempi eminenti della scelta socio-politica antitetica a quella del liberalismo, affidando allo Stato la gestione del sistema sanitario. Il confronto tra le diverse risposte date da differenti sistemi economico-politici fa emergere quanto sia necessario che gli interventi tecnici, di competenza dell’economia politica, siano pensati nel contesto di un approccio umanistico del problema della salute. Anche dietro la politica sanitaria indoviniamo il profilo dell’etica, che ci invita a cercare risposte che tengono presente tutto l’uomo.

48 Uno dei segni dei tempi più promettenti in questo senso è la formazione di un vasto movimento di opinione che investe l’ospedale, così come nel più recente passato è avvenuto per la fabbrica e per la condizione della donna. I malati, che molto spessa sono afflitti più dalla rabbia per il trattamento umiliante che ricevono che dai loro mali fisici, non vogliono più essere dei «pazienti». Chiedono in primo luogo che cessi la violazione dei diritti umani nei luoghi adibiti alla cura. In questo spirito è sorto, per impulso del Movimento Federativo Democratico, un «Tribunale per i diritti del malato»: cfr. G. Quaranta, L’uomo negato, Roma 19823.

49 Cfr G. Crespy, «Maladie et guérison dans le N.T.», in Lum. et Vie, 86 (1968) 45-69.

50 Cfr. J. L’Hour, La morale dell’Alliance, Paris 1966.

51 Una buona sintesi degli studi storico-esegetici dei racconti di guarigione nei Vangeli in G. Crespy, La guérison par la foi, Neuchâtel 1952; Sulle implicazioni etiche del rapporto di Gesù col male fisico, cfr. S. Spinsanti, Etica cristiana della malattia, Roma 1971.

52 Il concetto latino di patientia esprime, secondo il suo valore etimologico, l’atteggiamento di disponibilità al dolore, che si estrinseca nell’accettazione e nella sopportazione del dolore. Invece l’equivalente greco — «hypomoné» —, usato nella traduzione greca dei Settanta e nel N.T., ha un significato prevalentemente attivo: cfr. G. Bornkamm, Geduld, in R.G.G,3, II, col. 1242; vedi anche C. Spicq, Patientia, in R.S.Ph.Th. 19 (1930) 95-106.

53 Gli aspetti apologetici e teologici del miracolo sono studiati correlativamente da L. Monden, Miracle, signe de salut, Paris 1963.

54 Un bilancio storico delle esperienze di guarigione carismatiche negli ambienti di lingua inglese della Riforma è offerto da L.D. Weatherhead, PsychologyReligion and Healing, New York 1951. Nella sua rassegna sul fattore terapeutico nelle religioni indugia soprattutto sulla Christian Science. Di contro a tanti abusi, tende a elaborare norme equilibrate per l’esercizio della funzione terapeutica nel cristianesimo.

55 Per il dono delle guarigioni, cfr. F. Mac Nutt, Il carisma delle guarigioni, Alba 1947; M. Scanlan, Inner Healing, N. York 1974; per una valutazione del movimento carismatico nel suo insieme, cfr. R. Laurentin, Il movimento carismatico nella chiesa cattolica. Rischi e avvenire, Brescia 1976.

56 La riflessione teologica più approfondita sul rapporto tra «salvezza» e «guarigione» è quella di P. Tillich, Systematic Theology III, Chicago 1963, pp. 277-282. Tratta dell’esistenza di una guarigione spirituale, della correlazione con altre vie di guarigione, e in particolare con quel genere di guarigione che nel linguaggio religioso è chiamata «salvezza». Si può ricondurre la trattazione molto articolata di Tillich a due princìpi: 1) L’impatto terapeutico della Presenza Spirituale non sostituisce le vie di guarigione valevoli nelle differenti dimensioni della vita. Nel campo della salute, della malattia e della guarigione si rende evidente l’unità multidimensionale della vita umana. Le differenti dimensioni che costituiscono l’essere umano non sono solo unite; sono anche distinte, e capaci di reagire con relativa indipendenza. Non c’è assoluta dipendenza nella dinamica delle differenti dimensioni, ma non c’è neppure un’assoluta indipendenza. Il grado in cui prevale l’unità o l’indipendenza decide il modo più adeguato di guarigione. Un approccio unilaterale alla guarigione deve essere risolutamente respinto; ma anche un approccio da più o da tutti i lati è inadeguato in alcuni casi. Anche quando vi fosse una linea di causa-effetto tra un comportamento peccaminoso e la malattia, la guarigione non è una questione di solo perdono, ma anche una questione di cure mediche e psicologiche. 2) Le altre vie di guarigione non possono sostituire il potere terapeutico dello Spirito. Ciò va tenuto presente soprattutto nei confronti della psicoterapia, che si è venuta a costituire come via di guarigione indipendente tanto dalla medicina quanto dalla religione. La pretesa psicoterapeutica di superare la negatività nella situazione esistenziale dell’uomo — ansia, colpa, disperazione, vuoto — può giungere fino a negare la linea verticale dell’incontro dell’uomo con la realtà.

57 Cfr. H.Y. VanderpoolMiracle and faith healing, in Encycl. of Bioethics, vol. III, pp. 1120-1125.

58 Il mito di Filottete è stato utilizzato da V.E. von Gebsattel, Der Bogen des Philiktet, per la sua riflessione antropologica centrata sulla persona.

59 Esauriente documentazione in J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento: I. La predicazione di Gesù, Brescia 1972, pp. 199-205.

60 «Nell’atmosfera del tempo, il fatto che Gesù guarisse tutti i malati doveva passare per una specie di empietà: anche se non li guariva tutti in senso quantitativo e statistico, ne guariva di ogni sorta, di tutti gli ambienti, ed è questo che era scandaloso per i suoi avversari»: P. Bonnard, L’évangile selon St. Mathieu, Neuchâtel 1963, p. 52. Lo stesso Bonnard fa notare che questa e simili pericopi, in cui Gesù è rappresentato come guarente tutti in massa, indistintamente, hanno la funzione di ricordarci che Gesù aveva ricevuto la missione di esercitare il suo ministero presso il popolo intero, e non a beneficio di alcuni privilegiati o specialisti della vita religiosa. Questa prassi era in stridente contrasto con la teologia dei farisei e degli esseni (ibi, p. 224).

61 R.A. LambourneCommunityChurch and Healing, London 1965.

62 Cfr. Aa. Vv., Il sacramento dei malati. Aspetti antropologici e teologici della malattia, Torino 1975.

63 Cfr. Aa. Vv., Riforma sanitaria e comunità cristiana, Varese 1979. Sul volontariato segnaliamo: Volontariato d’ispirazione cristiana (a cura della Caritas italiana), Bologna 1979; A. Oberti, Il volontariato segno di liberazione, Roma 1978. Sulle forme di volontariato specificamente rivolte al settore socio-sanitario, R. Ziglioli, Volontariato socio-sanitario. Una proposta, Varese 1980.

64 La rimessa in discussione più radicale della medicina moderna è quella di I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano 1976. Con verve polemica l’accusa di operare un decurtamento antropologico, a seguito del quale gli stessi progressi tecnologici della medicina si rivoltano contro l’uomo stesso. I medici sono così accusati di costituire, in definitiva, una «professione mutilante», dal punto di vista della promozione della vita. In un’ottica analoga segnaliamo M. Wilson, La salute è di tutti, Roma 1980. Rileva che la medicina moderna, moltiplicando le specializzazioni e tecnicizzando la pratica terapeutica, tende a dimenticare il lato umano della cura della salute.

65 Cfr. H. van der Bruggen, Il malato protagonista sconosciuto, Roma 1980. Rivendica la necessità nella professione sanitaria di una visione sapienziale della malattia e della morte, che si instaura quando si considera la condizione di malattia come un evento specificamente umano, che domanda una risposta personalizzata. Utili considerazioni antropologiche ed etiche anche in G. Colombero, La malattia. Una stagione per il coraggio, Roma 1981. L’A. presenta la malattia in tutta la sua poliedrica complessità, come una modalità esistenziale della vita umana. Per il malato la malattia è una minaccia alla propria libertà; una sfida a riscoprire il corpo, che assume altre dimensioni; una provocazione rivolta all’identità psicologica; una minaccia di emarginazione sociale, che comincia con il trauma di trovarsi smarrito nei labirinti dell’ospedale; una crisi esistenziale, in cui bisogna spesso dare un nuovo contenuto alla speranza che animava il proprio progetto di vita; un sovvertimento di valori, che ha il suo riflesso anche nella vita religiosa. Mentre nel modello medico dominante la guarigione consiste nel «togliere il male» — vale a dire, nell’eliminare il sintomo —, in un modello antropologico allargato guarisce non colui a cui è tolta l’infermità, ma chi vive positivamente tutte le opportunità per la propria autorealizzazione umana e spirituale che la malattia gli offre.

66 Le istanze della medicina preventiva confluiscono oggi nel movimento che propone una concezione «distica» della vita e della salute umana: cfr. K.R. Pelletier, Holistic medecine, New York 1980.

67 Sulle percezioni sensoriali fetali e neonatali, vedi E. Herbinet e M.C. Busnel, L’aube des sens, Paris 1981. Una dettagliata rassegna delle ricerche recenti per conoscere la realtà fisiologica e psicologica della vita prenatale e della nascita si può trovare in A. Macfarlane, Psicologia della nascita, Torino 1980. Vengono prese in considerazione successivamente le varie tappe del processo della nascita: vita intrauterina, parto, i primi minuti del bambino, le sue conoscenze sensoriali, le prime fasi del processo di socializzazione. Il significato antropologico-spirituale di questi studi va individuato nel fatto che offrono un sostegno scientifico alla norma etica che esige un rispetto della vita umana fin dal suo primo formarsi.

68 Una documentata panoramica storica delle varie posizioni sull’aborto, seguendo la traccia della letteratura biblica, patristica e teologica, fino alle attuali discussioni intorno alla definizione di «essere umano», in P. Sardi, L’aborto ieri e oggi, Brescia 1975. Per quanto riguarda più specificamente il giudizio etico sull’aborto nell’area della teologia cattolica, vedi Aa. Vv., L’aborto nella discussione teologica cattolica, Brescia 1977. Un’utile antologia di documenti del magistero ecclesiastico, sia papale che episcopale, esposti in maniera sistematica, in G. Concetti, Il diritto alla vita, Roma 1981. Da tale volume attingiamo le citazioni di documenti magisteriali riportate nel testo.

69 Cfr. Aa. Vv., L’aborto nel mondo, Milano 1970. Sulla legislazione civile ed ecclesiastica relativa al procurato aborto, vedi Aa. Vv., Sul problema dell’abortoAspetti medico-giuridici, Milano 1975. Benché l’interruzione volontaria della gravidanza come comportamento sia antichissima, la letteratura scientifica sull’aborto ha carattere recente: alla conoscenza del profilo socio-psicologico dell’aborto si sovrappongono le prese di posizione morale. Una rassegna ragionata di bibliografia e metodologia in J. Kellerhals e W. Pasini, Perché l'aborto?, Milano 1977, pp. 78-95. Questo volume va segnalato come una delle poche ricerche che intendono mettere in luce i moventi che inducono la donna alla richiesta, talvolta ripetuta, di aborto.

70 Vedi D. Tettamanzi, La comunità cristiana e l’aborto, Bari 1975 e Aa. Vv., Obiezione di coscienza e aborto, Milano 1978. L’obiezione di coscienza regola il rapporto del sanitario cristiano con le leggi dello Stato che prevedono l’interruzione volontaria della gravidanza, ma non esaurisce il compito pedagogico che compete alla comunità cristiana. Il nucleo centrale di quest’ultimo va ravvisato nella creazione di una mentalità di accoglienza responsabile della vita.

71 Un giudizio morale più sfumato va portato sul cosiddetto «aborto terapeutico». La dottrina morale della chiesa ha sempre negato la liceità di un’interruzione della gravidanza per salvare la vita della madre. La Casti connubii a questo proposito si richiama esplicitamente al principio che non si può fare del male perché ne segua il bene. Quindi l’interruzione della gravidanza di un feto non vitale non può essere considerata una terapia lecita per la madre, anche quando sia l’unica che ne possa impedire la morte. Molti teologi protestanti, invece, giustificano l’interruzione della gravidanza, quando la salute della madre ne uscirebbe gravemente danneggiata. Va menzionata, tuttavia, la prudente posizione di P. Häring: «Non dovremmo opporci alla legislazione dello Stato pluralistico, che in questi casi lascia liberi i medici e le madri di decidere secondo la loro coscienza [...]. Per quanto le nostre convinzioni possano essere ben fondate, non dovremmo essere intolleranti al punto da provocare una reazione generale contro le posizioni cattoliche»: B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo, vol. III, Roma 1981, p. 80.

72 La decisione procreativa, influenzata dalle conoscenze e dalle tecniche avanzate della genetica umana, è spesso accompagnata da una forte carica di ansia. Lo illustra lo studio sperimentale di J. FletcherThe Brink: The Parent-Child Bond in the Genetic Revolution, in Theological Studies 33 (1972) pp. 457-485. L’A. si riferisce al processo decisionale delle coppie attraverso i momenti cruciali; ricerca della consulenza genetica e decisione di amniocentesi; decisione successiva al risultato della diagnosi; decisioni dopo l'aborto, la sterilizzazione o la nascita del bambino. La diagnosi positiva di una devianza genetica scatena un sofferenza personale acutissima, congiunta per lo più con la decisione di aborto e di sterilizzazione.

73 Un fenomeno interessante è la reazione contraddittoria di molti che accettano il diritto della donna ad abortire, ma si oppongono a una sperimentazione che usi i feti espulsi. P. Häring vi vede una conferma del fatto che i sentimenti più profondi non accettano realmente la teoria che il feto è «nient’altro» che una cosa da manipolare: «La gente è particolarmente colpita se il medico considera un feto, ancora dotato di sensibilità dopo l’aborto, come un materiale da esperimento invece che come un paziente»: B. Häring, Medicina e manipolazione, Roma 1976, p. 152.

74 Fondamentali considerazioni antropologico-teologiche sono state sviluppate da K. Rahner, Il problema della manipolazione genetica, in Nuovi saggi, III, Roma 1969, pp. 337-385. Anche se Rahner intende la manipolazione genetica come riferita alla tecnologie riproduttive, l’impostazione teologica del problema è pertinente anche all’accezione attuale di manipolazione.

75 Per una valutazione delle nuove frontiere terapeutiche aperte della genetica alla luce della «sapienza» evangelica, vedi J.-M. Moretti e O. de Dinechin, Le défi génétique, Paris 1982, specialmente pp. 72-86.

76 La sperimentazione clinica, che qui prendiamo in considerazione, è di specie morale diversa rispetto alla sperimentazione cinica e selvaggia su esseri umani ad opera di medici e ricercatori del Terzo Reich. Alla fine della guerra tali orrori nazisti sono venuti alla luce e hanno provocato un forte shock nella coscienza di molti medici, che hanno visto tradito l'ethos tradizionale della loro arte. A seguito dell’emozione e della presa di coscienza della necessità di una severa regolazione in questo campo sono stati elaborati il Codice di Norimberga «sulle sperimentazioni mediche permesse» (1949) e la dichiarazione di Helsinky sulle ricerche cliniche (1964). Il testo completo di quest’ultima in B. Häring, Etica medica, cit., pp. 342-345.

77 L’ampliamento e l’integrazione del principio di totalità mediante il principio di carità ha avuto luogo nel campo della bioetica dapprima relativamente al problema dei trapianti e delle mutilazioni: cfr. G. Kelly, The morality of Mutilation: towards a revision of the Treatise, in Theological Studies, 1956, pp. 334 ss. L’applicazione del principio di carità si è rivelato risolutivo per numerose problematiche della morale medica. Vedi l’utilizzazione che ne fa E. Chiavacci, Morale della vita fisica, Bologna 1976, p. 70 e passim.

78 Per un approfondimento del problema dei trapianti vedi G. Perico, Trapianti (umani), in Dizionario encicl. di teol. morale, Roma 19743, 1162-1171 e A.L. Jameton, Organ Donation, in Enc. of Bioethics, 1152-1160. I princìpi della morale cattolica sui trapianti di organo sono stati posti dall’insegnamento di Pio XII: AAS 44 (1952) 779-789; AAS 48 (1956) 461-462.

79 Pio xi, Casti connubii, in AAS 22 (1930) 550 ss.

80 «Riteniamo che sia pienamente confermata l’opinione che la dottrina tradizionale sia ormai da respingere, e che ogni sterilizzazione a scopo penale o di difesa sociale debba essere combattuta come immorale: una legge del genere sarebbe «inhonesta» e perciò da disobbedirsi — come grave dovere di coscienza — da parte del suddito (giudice, poliziotto, esecutore) cattolico»: E. Chiavacci, Morale della vita fisica, cit., p. 76.

81 Secondo Häring, il massaggio finalizzato a ottenere dello specimen seminale a fini medici non dovrebbe essere etichettato come masturbazione. Cita, a conforto della sua tesi, l’autorevole opinione del Lexikon für Theologie und Kirche, pubblicato sotto gli auspici dei vescovi tedeschi: B. Häring, Religious Directives in Medical Ethics, in Encycl. of Bioethics, cit., p. 1433.

82 Per il profilo psicologico delle coppie sterili che desiderano figli mediante inseminazione artificiale o adozione si veda il numero monografico di Échanges 115 (1974): «Adoption? Insémination artificielle?» (specialmente l’articolo di G. Semenov-Ségur, Approche psychologique de la demande).

83 Il ricorso alle categorie classiche di natura e legge naturale per elaborare giudizi etici relativamente alla pratica dell’inseminazione artificiale non è condiviso da tutti i moralisti cattolici. Per R. Simon, Expérimentations et déplacements éthiques. A propos de l'insèmination artificielle, in Rech. Sc. Rel. 62 (1974) 515-539, la fecondazione artificiale e un luogo tipico per vedere in azione la «creazione morale» susseguente allo spostamento della problematica mediante tecniche innovative. La posizione di R. Troisfontaines, L’insémination artificielle. Problèmes éthiques, in Nouv. Revue Théol. 95 (1973) 764-778 è più in linea con la morale tradizionale, pur ispirandosi a criteri personalisti: accetta l’inseminazione omologa, ma rifiuta, come incompatibile con tale criterio, l’A.I.D.

84 Una documentazione del processo di crescita e chiarificazione teologica relativamente a questi temi è offerta da A. Valsecchi, Regolazione delle nascite. Un decennio di riflessioni teologiche, Brescia 19683.

85 Cfr. T. Spieler, Interesse dell’OMS per i metodi naturali di regolazione della fertilità. Valutazione clinica dell’efficienza del metodo dell’ovulazione, in A. Cappella (ed.), Liberi e responsabili collaboratori di Dio Creatore, Roma 1981, pp. 75-93. Cfr. T. Spieler, Interesse dell’OMS per i metodi naturali di regolazione della fertilità. Valutazione clinica dell’efficienza del metodo dell’ovulazione, in A. Cappella (ed.), Liberi e responsabili collaboratori di Dio Creatore, Roma 1981, pp. 75-93.

86 E. Chiavacci, Morale della vita fisica, cit., pp. 177 ss.

87 Il tentativo più riuscito di integrare gli aspetti empirici e fenomenologici del suicidio con quelli teologici è quello di A. Holderegger, Il suicidio. Risultati delle scienze umane e problematica etica, Assisi 1979. Ascoltando le conclusioni cui giungono le ricerche statistico-sociologiche, clinico-psichiatriche e psicodinamiche, il suicidio va considerato nella maggior parte dei casi la conclusione di un’evoluzione psichica che con buone ragioni può essere considerata morbosa. Per Holderegger, se un discorso filosofico leale sfocia nell’incapacità a prendere posizione, il punto di vista etico-teologico è chiaro: il disporre di sé appare giustificato come dono e sacrificio per la vita di un altro, mentre è ingiustificata la causazione diretta della morte per una situazione di carenza.

88 Il documento, insieme a quello analogo della conferenza episcopale francese, citato più sotto, è raccolto nel volume Umanizzare la malattia e la morte, Roma 1980, a cura di S. Spinsanti.

89 Una presentazione storica, giuridica ed etica dell’eutanasia in Aa. Vv., Morire sì, ma quando?, Roma 1977.

90 Tutta la questione del rapporto del cristiano con la malattia e il dolore è trattata per esteso in S. Spinsanti, Etica cristiana della malattia, Roma 1971.

91 Il morire come tema di prassi ecclesiale è affrontato da numerose pubblicazioni recenti. In rapporto al morire tipico dell’uomo contemporaneo la chiesa è chiamata a una funzione critica e a una proposta alternativa. Vedi Aa. Vv., La pastorale dell’uomo nell’ora della morte, Varese 1979; A. Mauder, L’arte di morire, Brescia 1976.