La sessualità giovanile al tempo dell’aids

Sandro Spinsanti

La sessualità giovanile al tempo dell’aids: cambiamenti nei significati e nei valori

in Rivista di Sessuologia

vol. 24, n. 1, 2000, pp. 16-22

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LA SESSUALITÀ GIOVANILE AL TEMPO DELL’AIDS:

CAMBIAMENTI NEI SIGNIFICATI E NEI VALORI

Sommario

In un’analisi storica e socio-morale, l'A. sottolinea come a uguali comportamenti sessuali non corrispondano i medesimi sistemi di significati e valori. Vengono prese in considerazione le implicazioni, sociali ed etiche, cui l’evento AIDS ha dato luogo con i correlati che conseguono in termini di informazione, educazione e prevenzione.

Possiamo assumere come punto di partenza delle nostre considerazioni la constatazione, del tutto ovvia, che il comportamento sessuale ha dei significati.

Comunicazione. Scambio, impegno sono solo alcuni dei significati possibili: sono, più in particolare, quelli che maggiormente esprimono il fatto che per l’uomo la vita sessuale è legata alla persona. Tali significati hanno per lo più una connotazione positiva, ma non possiamo escludere che si sviluppino anche sotto il segno della negatività. Cercare di fare una cernita tra questi significati è un lavoro molto arduo. Dipende molto dalla comunità morale di appartenenza, che non è uguale per tutti. L’astinenza sessuale, ad esempio, non ha lo stesso valore per un monaco della Tebaide o per un ebreo ortodosso, per il quale procreare figli è uno dei più alti doveri morali. Per non parlare, poi, della divaricazione e frantumazione dei significati nella diaspora morale delle moderne città secolarizzate.

Inoltre questi significati sono ambigui. Prendiamo il significato «comunicazione». In un rapporto sessuale si può comunicare: «Tu vali per me, il tuo corpo è per me prezioso e desiderabile». Ma con un comportamento sessuale si può anche inviare il messaggio: «Di te non mi importa nulla». Il marito infettato da un’avventura extra coniugale che, pur consapevole di essere contagioso, impedisce al medico di informare la moglie, comportandosi in questo modo comunica appunto a quest’ultima: «Della tua vita non m’importa affatto».

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Osservazioni analoghe possiamo fare a proposito dello scambio. Anche lo scambio può avere tanti significati. Il rapporto sessuale di per sé significa scambio. Si dice che bisogna essere due per fare l’amore, tre per trasmettere il virus. L’AIDS ha come sfondo culturale il periodo di massima «deregulation» sessuale, in cui lo scambio, inteso come passaggio frequente da un partner all’altro, era considerato come un valore. Lo storico della medicina Mirko Grmek sostiene che per questa malattia siamo in grado di risalire al paziente numero uno, quello individuato nel 1984. Questi era un gay che aveva in media 250 partner sessuali l’anno (Grmek 1989). Anche questo comportamento sessuale era scambio. Fin dall’inizio si è compreso che il problema dell’AIDS si nutriva dello scambio. Se ciascuno avesse meno di 5 partner sessuali all’anno, l’epidemia di AIDS si estinguerebbe: lo ha affermato Luc Montagnier (Le Monde, 5 agosto 1987).

Lo scambio non ha soltanto questo aspetto di molteplicità di partner. Nel rapporto sessuale c’è uno scambio molto più profondo, anche di esistenza. Nel film francese Les nuits fauves, che mette in scena rapporti estremi che si intrecciano tra giovani deliberatamente collocatisi al di fuori di ogni regola di moderazione, una delle scene più inquietanti presenta una giovane donna, innamorata di un uomo con l’Aids, che si offre per avere un rapporto sessuale non protetto, perché vuole essa stessa la malattia: «Voglio condividere tutto con te», afferma con trasporto. Il protagonista, da parte sua, aspira a un’altra forma ideale di scambio, quando dice: «Con lei io sono puro». Anche questo è scambio.

Anche l’impegno implica dei valori ambivalenti. Vuol dire fedeltà; tuttavia, a volte, anche l’impegno può essere negativo, se non si coniuga con la giusta distanza. Basti pensare a quanti operatori sociali e professionisti sanitari, impegnandosi con estrema dedizione e coinvolgendosi totalmente nei casi umani più desolati di malati di AIDS, arrivano ben presto al termine delle loro forze e cadono nella sindrome del burn out.

I significati, inoltre, possono mutare nel tempo, benché i comportamenti siano gli stessi. A un approccio fenomenologico i fatti appaiono gli stessi, ma i significati cambiano da una generazione all’altra. Una ricerca del 1973 analizzava i comportamenti sessuali dei giovani dell’epoca e li raffrontava con quelli dei loro coetanei all’inizio del secolo (Sigusch, Schmidt, 1973). Quasi tutti gli studenti universitari avevano rapporti sessuali prima del matrimonio sia a inizio del secolo, sia nel periodo a ridosso di quella grande mutazione che è stato per il ’68. Tuttavia al tempo della Belle Epoque i rapporti gli uomini li avevano con le prostitute, con ragazze di servizio, con donne di altri ceti sociali, che non venivano prese in considerazione come mogli. La maggior parte degli studenti del ’68, invece, avevano avuto rapporti con quella che sarebbe diventata la propria moglie, o con un’amica fissa del proprio ambiente sociale. La prospettiva matrimoniale era per molti il presupposto per il rapporto sessuale. Possiamo dire, perciò, che nei due periodi intorno 1912 e al 1968 i comportamenti prematrimoniali erano, dal punto di vista quantitativo, gli stessi; ma dal punto di vista dei significati e dei valori connessi erano molto diversi.

Il cambiamento di significato incide sui comportamenti: è questo l’elemento

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che ci crea più attesa e più interesse per la riflessione sulla sessualità giovanile al tempo dell’AIDS. L’irruzione dell’AIDS è avvenuta in un momento particolare della nostra civiltà, che stava coniugando la sessualità con la leggerezza dell’essere e dell’eros. Il movimento a cui ci riferiamo ha avuto il suo culmine negli anni ’70: la sessualità si è liberata dalle servitù organiche che ne coartavano l’esercizio, si è emancipata dal controllo sociale e dai vincoli della morale religiosa. L’epidemia di AIDS è caduta come un meteorite in questo contesto di liberazione, costringendo i comportamenti sessuali a cambiare ancora di segno. La sessualità è diventata il luogo della gravità: tanto grave, che potenzialmente ogni rapporto sessuale può portare alla morte.

Dobbiamo registrare anche la speranza che il cambiamento di significato potesse portare a un cambiamento nei comportamenti. A questo proposito qualcuno si è rifatto a Novalis, il poeta romantico secondo il quale «Ogni novità comincia con una malattia», intendendo esprimere la speranza che questa malattia potesse portare una novità positiva: se non per l’individuo, almeno per la nostra civiltà sessuale, nel senso di salvare il comportamento sessuale dalla banalizzazione che lo affligge. Si è auspicato che la crisi dell’AIDS favorisse la riscoperta di una sessualità più diffusa, non confinata nella genitalità. Altri hanno previsto l’introduzione nell’ambito della sessualità di un senso di responsabilità, che nel momento culturale di comportamenti sessuali sviluppatisi sotto il segno della leggerezza non era affatto presente. Soprattutto si è intravista la possibilità che questo cambiamento fondamentale di significato nel comportamento sessuale introdotto dall’epidemia portasse a una possibilità di educazione sessuale.

L’educazione sessuale è stata identificata molto presto come il canale privilegiato per contenere l’epidemia di AIDS, per la quale sappiamo che non esiste a tutt’oggi ancora una terapia (e forse una terapia nel senso mitico della pallottola magica da sparare contro il virus — così come molti pensano ancora sia possibile per il cancro ― non esisterà mai). In questo senso ha agito anche l’indicazione fondamentale dell’OMS. Già nel 1988 Man e Kay, due autorevoli esponenti dell’OMS, dicevano che l’informazione e la prevenzione sono la chiave di volta della prevenzione da HIV, in quanto la trasmissione del virus può essere impedita da un comportamento responsabile adottato con conoscenza di causa (Man, Kay, 1988).

Questo cambiamento di significato, dunque, può portare anche a un cambiamento di comportamenti, nel senso di indirizzare il comportamento sessuale verso una maggiore qualità (Ruffiot, 1992). Purché, però, l’educazione sessuale e la prevenzione facciano un ricorso corretto ai valori.

A questo proposito possiamo evocare tre scenari, che costituiscono altrettanti modi di coniugare etica e prevenzione. Il primo lo chiameremo prevenzione senza etica. Il secondo l’etica senza prevenzione. Il terzo scenario è quello di una prevenzione con etica, che faccia forza soprattutto sul cambiamento di significato del comportamento sessuale che abbiamo tracciato, dando rilievo ai valori etici positivi insiti in esso.

Prevenzione senza etica. Si può capire che sia stata e rimanga una tentazione forte, in quanto la prevenzione in questo ambito si è sviluppata sotto il

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segno dell’urgenza. Dobbiamo salvare il giovane dal rischio di contagio, e farlo in fretta: ne va della sua vita. Il senso di urgenza ha avuto delle ricadute pratiche sotto forma di promozione del preservativo, di programmi di sesso sicuro. Alcune di queste campagne di prevenzione hanno avuto la forma di crociata: «o preservativo o morte». Altre invece un tono leggero, quasi sorridente. Nelle strategie di marketing si chiama «soft ideology». Alcune campagne a favore del preservativo sono state fatte in Francia in modo scherzoso; per esempio: «L’inverno s’avvicina, non uscite senza coprirvi», oppure: «I preservativi vi augurano buone vacanze». Non sono mancati interventi di questo genere anche in Italia.

Il pericolo di queste campagne è di puntare tutto sulla prevenzione meccanica della diffusione dell’infezione, prescindendo dalle implicazioni dei significati, e quindi anche dalle correlazioni con l’etica. Le conseguenze di questa impostazione sono state quelle di portare a una sterilizzazione del sesso (Lacroix, 1993; Lodi, 1992). Se almeno il risultato fosse garantito... Invece dalle ricerche sociali condotte fin dall’inizio degli anni ’90 — ce ne sono molte relative all’incidenza dell’AIDS sul comportamento sessuale dei giovani; ci limitiamo a citare: Gray, Saracino, 1991; Russo 1991, Dercot, Spira, 1993; ― risulta che la conoscenza del pericolo di contagio non basta a modificare i comportamenti. Questi studi hanno riscoperto quello che già sapevamo benissimo da tempo, grazie all’abbondante letteratura psicosociologica rivolta ad analizzare altri ambiti dell’educazione sanitaria, come la prevenzione del tabagismo, delle malattie cardiovascolari o delle gravidanze non desiderate mediante la contraccezione.

È vero che si possono stabilire delle correlazioni tra conoscenze e credenze, da una parte, e atteggiamenti individuali collettivi verso la malattia, dall’altra; ma i legami sono ambigui, poco logici, o quanto meno sfuggono al rapporto di causa-effetto. È una concezione troppo ristretta della razionalità quella che presume che basti dare informazioni sul rischio per cambiare il comportamento. La persistenza dei comportamenti a rischio dimostra che per modificare i comportamenti presso gli individui non sono sufficienti le informazioni dei rischi che corrono.

Non è in discussione la necessità di proseguire l’opera di informazione, perché le inchieste dimostrano che ancora sussistono nella nostra società delle sacche di ignoranza abissali. Solo un esempio: una ricerca pubblicata sulla rivista Difesa sociale: «Conoscenza, atteggiamento e opinione nei confronti dell’infezione da HIV in un gruppo di giovani» (Russo, 1991). La ricerca è stata condotta su tre campioni, costituiti da studenti di liceo, studenti di scuola per infermieri e studenti di medicina del primo anno. Le conclusioni sono demoralizzanti, perché in questi giovani i rapporti sessuali non sono considerati a rischio, al contrario della tossicodipendenza, che invece viene vista come principale fattore di rischio.

Bisogna sicuramente continuare a informare; ma non ci possiamo attendere ingenuamente che l’informazione funzioni in modo automatico, in maniera lineare: più informazione = maggiore diminuzione di comportamenti a rischio.

Nello scenario della prevenzione senza etica dobbiamo inserire anche

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degli atteggiamenti che si presentano, invece, sotto forma di un pieno di etica. Mi riferisco a chi propone la castità o la fedeltà coniugale come rimedi contro la diffusione dell’infezione. Malgrado le apparenze, siamo anche qui dalle parti della prevenzione senza etica, in quanto delle importanti virtù morali — come la fedeltà e la castità — sono viste non come virtù, ma semplicemente come mezzi per un fine. Conservarsi fedele al proprio coniuge al fine di non contrarre l’AIDS ha lo stesso profilo morale, fatte salve tutte le differenze, dell’uso del preservativo.

Il secondo scenario che è quello dell’etica senza prevenzione. Abbiamo vissuto una brutta stagione di discorsi sviluppati in nome della morale, che sembravano non prendere in considerazione l’aspetto prevenzione. Il pericolo di riaffermare i principi di un’etica ritenuta indipendente dai tempi e dalle culture, e quindi anche da quel particolare condizionamento dei comportamenti sessuali costituito dalla epidemia di AIDS, costituisce una minaccia per la salute stessa.

Il diffondersi dell’epidemia dell’AIDS è stata una manna per i nemici del sesso. Anche chi aderisce a una concezione spiritualista dell’uomo si trova in un enorme imbarazzo quando sente i moralisti presentare la monogamia come uno strumento a servizio della prevenzione, come l’unica ricetta sicura per fermare il contagio. Anche se ciò fosse vero, una proposta di questo genere equivale a uno svendere la fedeltà, la quale non è la strategia da adottare per non prendersi l’AIDS, ma decisamente un’altra cosa.

La scelta monogama del partner è un costrutto sociale. Le culture tradizionali hanno messo in atto varie forme di condizionamento per canalizzare la spinta spontanea a ricercare una pluralità di partner in una scelta monogamica. Questa pressione non esiste più nella nostra società. È per questo che oggi si può essere fedeli per scelta e per virtù, e non per costrizione. Essere fedeli è un punto di arrivo. Non possiamo certamente presentare la fedeltà come la via sicura che tutti possono percorrere per evitare l’AIDS, anche se lo consideriamo un obiettivo morale di alto profilo. Questa variante dell’etica senza prevenzione mostra un’impressionante affinità con la prevenzione senza etica.

Veniamo quindi allo scenario che potrebbe conciliare prevenzione ed etica: prevenzione con l’etica. Ci limitiamo ancora una volta a evocare le prospettive che ci vengono incontro da una inchiesta: quella fatta tra i giovani dell’università di Amburgo, in Germania (Schmidt, 1992). L’interesse di questa ricerca è che si rivolge ai giovani di quella università confrontando una inchiesta del 1970 e una del 1990. L’interrogativo di fondo è se, a vent’anni di distanza, l’epidemia di AIDS abbia cambiato il comportamento sessuale dei giovani. Come tutte le inchieste sociologiche, è condotta con un linguaggio freddo, ma i risultati che ci presenta sono molto caldi, potremmo dire confortanti.

Dalla ricerca risulta che i comportamenti dei giovani di 16-17 anni di Amburgo, in fondo, verificati a vent’anni di distanza, prima e dopo lo scoppio dell’epidemia non differiscono molto: il petting e il coito sono ugualmente diffusi come lo erano due decenni fa. Ma alcuni parametri sono cambiati profondamente. È cambiato l’elemento dell’iniziativa sessuale: rispetto

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a vent’anni fa, le ragazze non attribuiscono più l’iniziativa sessuale esclusivamente all’uomo. Nel 1970 l’85% delle ragazze dicevano che erano arrivate al rapporto sessuale perché era il ragazzo che lo aveva voluto; vent’anni dopo quelle che fanno l’amore perché è il ragazzo che lo vuole sono soltanto il 28%: l’iniziativa sessuale parte anche da loro.

Secondo elemento interessante: la congiunzione tra sessualità, amore e fedeltà, ovvero la romantizzazione del rapporto sessuale. Rispetto a vent’anni fa, si rafforza la sessualità abbinata all’amore. Per il primo rapporto sessuale la maggior parte dei giovani di oggi esige l’amore; spesso rifiutano rapporti sessuali al di fuori di una relazione stabile. Per passare alle percentuali: per quanto riguarda i maschi, nel 1970 alla domanda: «Voglio un rapporto sessuale solo con il ragazzo che amo», il 46% rispondeva in senso affermativo; ora sono l’80%. Per quanto riguarda le donne, erano il 71% nel 1970 e sono l’81% nel 1990. Quindi l’80% dei giovani, maschi e femmine, nella stessa percentuale, si orienta verso un rapporto sessuale a condizione che ci sia l’amore.

Un altro elemento interessante è la «familiarizzazione» della sessualità giovanile. Non possiamo nascondere l’impressione che si tratti di un valore un po’ ambiguo, nel senso che i ragazzi parlano liberamente con i loro genitori dei propri rapporti sessuali, anzi ottengono il permesso dai genitori di ricevere il proprio amico/a nella propria camera; ma questo rischia anche di addomesticare molto la sessualità e soprattutto di togliere quel ruolo positivo che ha nello sviluppo dell’autonomia il fatto di avere una vita sessuale non controllata, all’insaputa dei genitori, in quanto elemento importante di crescita. La sessualità viene invece socializzata, familiarizzata.

Per quanto riguarda il momento cruciale, la minaccia dell’AIDS, l’elemento sorpresa della ricerca svolta ad Amburgo è questo: pochi hanno paura del contagio. La qual cosa sembrerebbe preoccupante: secondo l’inchiesta solo l’8% dei maschi e il 5% delle femmine ha rinunciato a un rapporto sessuale per paura dell’infezione. Per contro, cresce l’uso del preservativo: non però in vista della prevenzione dell’infezione, ma perché c’è una maggiore consapevolezza di comportamenti contraccettivi, cioè si ha paura di una gravidanza indesiderata. Lo sviluppo, in altre parole, del comportamento sessuale femminile all'interno di rapporti di parità, di responsabilità, di amore e di impegno cambia i comportamenti molto più che una semplice paura di contagio.

Etica e prevenzione si possono abbinare, ci dice l’inchiesta. Non ci sono, però, scorciatoie: bisogna passare per una vera maturazione, anche culturale. E il ruolo che svolgono le donne in questo sviluppo è decisivo. Tutto questo suona come una buona notizia, anche se non autorizza nessun trionfalismo: la crescita di una cultura che sappia coniugare il rapporto sessuale con la comunicazione, lo scambio e l’impegno ha tempi lunghi, forse lunghissimi.

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Riferimenti bibliografici

Ducot B., Spira A. (1993): «Les comportements de prévention du SIDA. Prévalence et facteurs favorisants», Population, 5, 1479-1504.

Grmek M. (1989): Aids. Storia di una epidemia attuale, Laterza, Bari.

Gray L.A., Saracino M. (1991): «College students’ attitudes, beliefs, and behaviors about AIDS: Implication for family life educators», Family Relations, 40, 258-263.

Lacroix X. (1993) «Une parole sur la sexualité au temps du SIDA», Etudes, 483-493.

Lodi M. (1992): «Antropologia dei costumi sessuali: promiscuità e malattia; AIDS e sesso sicuro, verso una sterilizzazione della sessualità?», Rivista di Sessuologia 16, n. 4, 361-370.

Mann J. - Kay K. (1988): «SIDA, discrimination et santé publique». Comunicazione dalla IV Conferenza internazionale sull’AIDS, 13-16 giugno, Stoccolma.

Ruffiot A. (1992): «L’éducation sexuelle en tant que prevéntion». In AA.VV., L'éducation sexuelle au temps du SIDA, Privat, Paris.