Salute, malattia, morte

Sandro Spinsanti

SALUTE, MALATTIA, MORTE

in Nuovo Dizionario di Teologia Morale

Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990

pp. 1134-1144

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Sommario

I. La pratica sanitaria come luogo di riflessione antropologica:

1. Percorsi antropologici dell’etica;

2. La rimozione del soggetto in medicina;

3. Il ricorso alle ‘scienze umane’.

II. Malattia e significato:

1. ‘Spiegare’ e ‘comprendere’ la malattia;

2. Il silenzio del corpo;

3. Lo spessore antropologico della malattia;

4. L’intelligenza del senso.

III. Morte e autorealizzazione:

1. La malattia inguaribile come sfida alla medicina;

2. Il discernimento della volontà di morire;

3. Significato etico della medicina palliativa.

I ― LA PRATICA SANITARIA COME LUOGO DI RIFLESSIONE ANTROPOLOGICA

1. Percorsi antropologici dell’etica

Tra le vicende esistenziali del corpo ― nascere, crescere, ammalarsi, guarire, invecchiare, morire ― e l’etica si è creato un forte legame, che va sempre più rinsaldandosi, parallelamente alla medicalizzazione crescente della vita umana. Con la denominazione accademica di ‘bioetica’ la filosofia pratica ha iniziato negli ultimi anni una ricognizione sistematica del campo, con l’obiettivo di delimitare un ambito di legittimità entro il quale devono essere contenute le diverse modalità d’intervento sulla vita in tutta la lunghezza del segmento che si estende dal concepimento alla morte. Lo stesso intento normativo è ancor più evidente nella teologia morale, anch’essa evolutasi dalla ‘morale (o etica) medica’ dalla metà del nostro secolo alla più recente ‘bioetica’.

Senza contestare la funzione e l’utilità della bioetica così concepita, emerge tuttavia in modo crescente la necessità di un altro tipo di scambio tra l’etica, sia razionale che teologica, e la pratica sanitaria. Questa è infatti diventata il luogo in cui si va elaborando un’originale riflessione antropologica, a partire da categorie esistenziali fondamentali. Tra l’etica e l’antropologia si stabilisce una circolarità, in cui l’‘essere’ e il ‘dover essere’ si richiamano reciprocamente. Salute, malattia e morte sono, in quest’ottica, non argomenti di speculazione astratta, ma i punti di riferimento centrali di un disegno antropologico che prende forma a partire dal dibattito culturale provocato dall’esperienza della corporeità in regime di sanità moderna.

La rivendicazione di una ‘medicina a misura d’uomo’ è il contenitore più vasto entro cui vanno collocati questi percorsi antropologici. Il programma dell’‘umanizzazione’ della medicina è stato perseguito inizialmente come prescrizione di atteggiamenti filantropici ai professionisti ― medici, infermieri, personale ausiliario — che forniscono servizi terapeutici al malato. Il tratto ‘umano’ nei confronti del destinatario dell’azione sanitaria, sotto forma di rispetto della persona sofferente e di coinvolgimento emotivo con il dolore altrui, è uno degli elementi che definiscono essenzialmente la pratica della medicina. Ma né l’atteggiamento filantropico dell’operatore sanitario, né la superiore motivazione caritatevole di colui che esercitasse la professione con lo spirito del ‘buon samaritano’ sonò di per sé sufficienti a conferire alla pratica dell’arte terapeutica quello spessore che permette di definirla come ‘umana’. Il programma di una medicina umana si realizzerà solo con uni tipo d’intervento integrativo che, con la formula cara a Viktor von Weizsäcker, si può chiamare ‘introduzione del soggetto nella medicina’.

Il modello operativo che caratterizza la medicina corrente presuppone, infatti, una rimozione del soggetto che attraversa le crisi esistenziali connesse con gli eventi patologici.

2. La rimozione del soggetto in medicina è avvenuta contestualmente all’assunzione da parte della medicina stessa dello statuto epistemologico delle scienze naturali. La scienza moderna si è formata grazie a un processo che ha trasformato, tra il XVI e il XVIII sec., lo sguardo rivolto verso la natura: lo scienziato ha cominciato a non vedere più in essa un ‘organismo’, bensì una ‘macchina’. Alla ‘morte della natura’ (Carolyn Merchant) ha fatto sèguito l’estensione di

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questo sguardo al corpo umano. Questo processo si è completato nel XIX sec., quando la medicina ha adottato a sua volta il metodo delle scienze naturali. La medicina si è adeguata a quella forma particolare di conoscenza che è fondata sulla razionalità e si acquisisce con l’osservazione e l’esperimento, secondo una particolare metodologia critica.

In quanto scienza naturale, la medicina procede dunque empiricamente. La sua base è costituita da fisiologia e patologia. Disfunzione e malattia sono considerate come conseguenze di disturbi di processi materiali ↗organici. La malattia non è compresa come qualcosa che capita all’uomo nel suo insieme, ma come qualcosa che succede ai suoi organi. Lo studio delle cause della malattia si restringe alla ricerca di mutamenti locali nei tessuti. Il pensiero scientifico considera ‘spiegata’ la malattia quando, adottando il rapporto causa-effetto, può ricondurre la disfunzione alle sue cause: un’aggressione virale o una rottura dell’equilibrio omeostatico, un disordine a livello degli scambi biochimici o della struttura genetica. Adottata la razionalizzazione di tipo naturalistico, la malattia viene spogliata di ogni carattere storico e personale. Essa è significativa per la medicina solo in quanto è un caso ‘tipico’.

All’adozione del metodo già impiegato per le scienze naturali la medicina deve i successi stupefacenti che ha ottenuto in un secolo e mezzo di sviluppo. Non si può non riconoscere che questa medicina nata dal tronco delle scienze della natura costituisce una delle fasi più brillanti della storia dell’arte terapeutica. I progressi della chirurgia, della batteriologia, della farmacologia non sarebbero stati ottenuti, se la medicina non si fosse allineata tra le scienze della natura. La riduzione sul piano dell’antropologia sembra essenziale al successo della medicina scientifica. L’uomo ― il suo corpo, la sua malattia ― è stato ancorato alla ‘natura ↗meccanismo’ e viene trattato come un pezzo qualsiasi di natura, un oggetto tra gli oggetti. Buona parte della medicina moderna si muove entro questo paradigma: è soddisfatta dei suoi successi, senza inquietudini epistemologiche e nostalgie filosofiche o religiose.

Pur senza misconoscere i momenti positivi della conoscenza natural-scientifica (in particolare il principio della ricerca empirica esatta e il significato fondamentale del lavoro d’indagine di tipo fisiologico e bio-chimico), oggi si comincia anche a prendere coscienza che la mutilazione antropologica su cui riposa la medicina natural-scientifica è gravida di conseguenze negative. In breve: questa medicina, pur con tutti i suoi risultati brillanti,! non è umana.

3. Il ricorso alle ‘scienze umane’

Il percorso che seguono oggi i programmi più promettenti di ‘umanizzazione’ della medicina è quello che si propone di riportare nella pratica sanitaria quel sapere rappresentato dalle scienze umane (Humanwissenschaften, nella terminologia tedesca in usò già fin dal sec. scorso), in quanto specificamente diverse, per metodo e per contenuti, dalle scienze della natura (Naturwissenschaften). Le scienze dell’uomo alle quali ci si riferisce sono, in concreto, la storia, la linguistica, la sociologia, la psicologia, la psicoanalisi, l’antropologia culturale. Per:queste scienze l’oggetto di studio è l’essere biologico vivente, considerato nella sua inalienabile qualità umana.

Ciò che è specifico dell’uomo ― in quanto essere storico, o inserito in una rete di rapporti sociali, o dotato di facoltà psichiche, di emozioni, di dinamismi consci e inconsci, o in quanto prodotto di cultura e produttore di essa ― non viene dalle scienze umane messo metodologicamente tra parentesi, come fanno le scienze della natura; bensì studiato in quanto espressione specifica del ‘fenomeno umano’. È l’integrazione organica di queste scienze nel sapere sull’uomo malato-risanantesi-morente che ‘umanizza’ la medicina’, più che la semplice richiesta dji sentimenti umanitari da parte degli operatori sanitari.

La sintesi del sapere naturalistico e di quello umanistico è un processo

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operativo che si realizza concretamente al capezzale del malato. Tuttavia essa ha anche un aspetto di riflessione teoretica, condotta sotto il nome di ‘antropologia medica’ (Pedro Laín Entralgo). Questa riflessione filosofico-deduttiva discende dall’antropologia post-idealistica, in particolare dall’attenzione che al problema del l’uomo come vivente hanno rivolto soprattutto i filosofi di indirizzo fenomenologico-esistenziale (F.J.J. Buytendijk, L. Binswanger, M. Boss, H. Plessner, A. Gehlen, M. Merleau-Ponty, J.-P. Sartre). La loro antropologia si propone di comprendere l’uomo come l’essere che, nell’unità della sua corporeità animata, esiste nel mondo storicamente.

All’antropologia medica, intesa in questa accezione, interessa la questione dell’uomo nella sua condizione di essere segnato dall’esperienza del corpo sottoposto alle vicende della salute, sia positive (guarigione), sia negative (temporanea o definitiva perdita). Si distanzia così dalla medicina scientifica, la quale conosce la struttura e le funzioni del corpo, la loro modificazione ad opera delle malattie, la catena di cause ed effetti, l’azione dei farmaci, ma non conosce propriamente ‘l’uomo malato’. In questo tipo di antropologia medica si incontrano e si fecondano reciprocamente due generi di esperienza scientifica: da una parte l’esperienza discorsiva e induttiva, nel senso del suddividere, descrivere, spiegare e dominare, tipica delle scienze naturali; dall’altra l’esperienza fenomenologica, nel senso del vivere-sperimentare-agire insieme, proprio degli atti umani. È questa la comprensione dell’uomo cui fa riferimento l’etica nel suo progetto di riportare i valori entro la pratica del l’opera terapeutica.

II ― MALATTIA E SIGNIFICATO

1. ‘Spiegare’ e ‘comprendere’ la malattia

La fecondità del ricorso all’antropologia medica, in quanto momento riflessivo che connette le esigenze etiche dell’azione sanitaria con l’oggetto adeguato di tale agire ― vale a dire l’uomo nella sua qualità di persona vivente — si dimostra in particolare nel concetto di malattia, filone centrale di tutta l’antropologia medica.

Gli studi di antropologia applicati all’ambito sanitario hanno reso più esplicito il legame esistente tra malattia, medicina e cultura. Nel repertorio culturale di ogni gruppo umano esistono teorie della malattia, scientifiche o religiose, che includono l'eziologia, la diagnosi, la prognosi, la terapia. Esse variano quanto variano le culture; e nessuna teoria può essere pienamente capita al di fuori del contesto culturale cui appartiene e della struttura sociale dei gruppi che condividono determinate opinioni e strategie di adattamento e di sopravvivenza.

Questa prospettiva pluralista ci rende diffidenti nei confronti di discorsi sul significato della malattia ricavati, con procedimento filosofico deduttivo, dalla natura umana in generale. Dovrebbe anche risvegliare il nostro spirito critico nei confronti del sistema medico ― comprendente prassi e concezioni antropologiche sottese ― proprio della nostra civiltà tecnologica. Esso ha condotto nei confronti della malattia un’operazione di riduzionismo, che ha tolto alla malattia dell’uomo alcune caratteristiche peculiari.

Un tratto maggiore della fisionomia acquistata in tal modo dalla malattia è la perdita di ogni ambiguità. La scienza medica, in quanto crea concettualmente le malattie ― dando a una determinata costellazione di sintomi lo statuto di malattia, entro un rigido quadro tassonomico ― diventa socialmente una grande fabbrica di certezze, finalizzate a ‘spiegare’ scientificamente la malattia. L’apparato diagnostico è deputato a decodificare i sintomi, riconducendoli a una precisa nosologia.

Questo sapere certo è ancor più evidente nel caso in cui non esista la spia costituita dal sintomo di malessere: il soggetto può non sapere di essere portatore di malattia, ma il medico, utilizzando i mezzi diagnostici appropriati, è in grado di scoprire una malattia

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che non si è ancora rivelata. Su questa base funziona la medicina preventiva, che permette di scoprire la presenza di un carcinoma mammario o la positività al virus dell’AIDS. Procedendo oltre in questa stessa direzione, incontriamo la diagnosi genetica, la quale può addirittura indicare la presenza di una malattia solo in potenza, che si svilupperà quando il ‘programma’ entrerà in azione, magari molti anni dopo (come il morbo di Hungtinton, che spesso si manifesta solo dopo i quarant’anni).

Per quanto diverse tra loro, queste esperienze di rapporto terapeutico ten dono a rafforzare la convinzione di base: il medico, grazie alla sua scienza, sa che cos’è la malattia; egli la spiega, sottraendola alla soggettività del malato e riportandola alla fattualità degli eventi naturali. Questo sapere, proprio del medico, non è con divisibile con il malato se non in minima parte. Ciò è tanto più vero nella medicina scientifica contemporanea. Il gap tra le conoscenze specialistiche del sanitario e ciò che è accessibile all’uomo comune, anche se dotato di buona cultura, non è praticamente colmabile. È con questa argomentazione, del resto, che molti medici tendono a considerare come irrealistica la pretesa, fatta in nome dell’etica, che il paziente sia messo in grado di dare un ‘consenso informato’ agli interventi diagnostici, terapeutici o di ricerca ai quali è sottoposto.

Alla certezza del sapere medico fa riscontro la sicurezza del malato. Egli è indotto così ad affidarsi al medico, il quale conosce la sua malattia. La medicina, creando l’impressione che quello che essa conosce della malattia sia la malattia, e che quindi non ci sia altro da cercare, rafforza il senso di sicurezza del malato, che si appoggia alle certezze del sapere medico.

2. Il silenzio del corpo

Proprio questa certezza, tuttavia, suscita perplessità. La ‘cultura del sospetto’, cresciuta con la consapevolezza del l’Occidente, ha insegnato a diffidare soprattutto delle certezze che si presentano con il carattere dell’ovvietà.

Esse crescono, infatti, in modo particolare all’ombra di quel sapere tendenzioso che è l'ideologia. È proprio della conoscenza ideologica, oltre al suo carattere aprioristico e al nascondimento dei rapporti di potere che essa favorisce, anche il comunicare una falsa sicurezza. La riflessione antropologica contemporanea avanza il sospetto che il sapere certo sulla malattia sviluppato dalla medicina scientifica svolga una funzione ideologica. Esso, in altre parole, serve a mantenere immutata la realtà, invece che a cambiarla; maschera i rapporti di potere (in questo caso, l’impotenza che il paziente induce in se stesso, consegnandosi passivamente all’apparato sanitario, al quale attribuisce tutto il sapere e il potere); conferisce una sicurezza fallace, basata sull’eliminazione dal concetto di malattia di tutto ciò che costituisce il mondo della persona.

La pratica della medicina corrente si basa su un esproprio della malattia. Il malato non ha un rapporto personale, né con la malattia, né con la riacquisizione della salute. L’ammalarsi è equiparato al diventar ‘vittima’ di un capriccio della natura, di un germe patogeno o di un virus, oppure di un programma genetico sbagliato. Anche la guarigione, in questa prospettiva, è qualcosa che avviene al di fuori della persona del malato. Essa viene attribuita al medico che ha fatto la diagnosi, giusta, o ha prescritto l’antibiotico efficace, o al chirurgo che ha eseguito l’intervento appropriato. Il solo contributo del malato è di at tenersi bile prescrizioni del medico e di non intralciare la sua opera.

Anche il linguaggio che il malato usa per designare la malattia illustra questo processo di allontanamento del fatto morboso dalla sfera personale. Nelle lingue che hanno anche il neutro, il pronome di questo genere viene usato per distanziarsi dal fenomeno. Ma anche le altre lingue conoscono dei modi in cui il parlante sottolinea l’estraneità della malattia da se stesso. Il linguaggio impersonale rapporta la malattia a un agente che si intrude nel corpo umano, inteso come luogo di un succedere che riduce l’uomo al ruolo di ‘patiens’. L’uomo e la

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sua malattia rimangono, insomma, due realtà radicalmente separate, unite solo ‘per accidens’.

In forza di questa rappresentazione sottesa all’uso linguistico quotidiano della malattia, il rapporto tra il paziente e il medico si struttura come una delega di responsabilità al medico. Chi si scopre un disturbo che intralcia il proprio benessere si aspetta dal medico che, dopo aver individuato la malattia, attribuendole il giusto nome, la elimini; e il medico rivendica a se stesso la capacità e la volontà di eliminarla.

Secondo l’espressione coniata dal medico-filosofo Viktor von Weizsäker, questo atteggiamento nei confronti della malattia può essere designato come Es-Stellung, ovvero ‘posizione dell’Es’: la malattia è un non Io, estranea ad esso come il pronome neutro; è qualcosa che capita, che aggredisce l’organismo dall’esterno; è sprovvista di un senso personale ed è comprensibile solo nei termini ‘scientifici’.

L’impoverimento dello spessore antropologico della malattia si traduce nel suo mutismo: essa non ha più il carattere di un linguaggio articolato, dietro al quale possiamo indovinare un parlante. Questa riduzione non deve essere considerata come una conseguenza inevitabile della scientificità del sapere medico. Nella tradizione culturale dell’Occidente, infatti, sono esistite realizzazioni di una medicina allo stesso tempo scientifica e antropologica. Tale è stata ad es. la medicina greca.

3. Lo spessore antropologico della malattia

La medicina dell’antichità classica non ha accantonato come insensato l’interrogativo relativo al perché della malattia. Si è di stanziata dai tentativi di natura teologica di spiegare il senso della malattia in riferimento a una volontà divina, in particolare ricorrendo all’archetipo della malattia come punizione di una colpa. La medicina scientifica dell’Occidente è iniziata precisamente con una decisa presa di posizione circa l’orizzonte entro il quale va iscritta la malattia: il male non va riferito a Dio, ma alla natura.

Cercare le cause della malattia entro l’orizzonte della natura non equivaleva però per i Greci a una scelta di positivismo materialista. Alla natura dell’uomo, proprio perché ‘umana’, vanno attribuite altre dimensioni, oltre a quella organica: è psichica, sociale, spirituale, nonché etica (con riferimento, quindi, a una certa misura di responsabilità nella strutturazione del proprio destino). Entro l’ambito della medicina fisiologica greca la malattia non va considerata solo col registro della passività ― ciò che l’uomo subisce dalla natura ― ma anche con quello dell’attività: della propria malattia l’uomo è artefice.

La stessa medicina ‘laica’, che faceva rifiutare a Ippocrate di attribuire una malattia all’azione degli dèi, rivendicava però al soggetto la responsabilità per il proprio male. Pitagora, cinque secoli prima di Cristo, seguendo l’opinione di Giamblico, affermava: «Gli dèi non sono colpevoli delle nostre sofferenze: tutte le malattie e i dolori del corpo sono il prodotto del le dissolutezze».

Le ‘dissolutezze’ incriminate non vanno intese restrittivamente, come trasgressioni di regole morali. Per la medicina greca si incorre nel disordine che è all’origine delle malattie quando non si vive secondo le esigenze della natura. Oltre i comportamenti sessuali, vanno prese in considerazione le abitudini alimentari, il rispetto dell’habitat, il giusto ritmo di lavoro e riposo, la fuga dagli eccessi e dalle passioni che turbano l’equilibrio emotivo.

Alla domanda primordiale: «Perché ci ammaliamo?», la medicina antropologica greca rispondeva chiamando in causa non la divinità, ma l’uomo. La medicina scientifica moderna svuota di significato la domanda, in quanto fa responsabile della malattia una natura de-umanizzata (e quindi de-moralizzata). L’etica viene così privata del fondamento vitale, e si trova costantemente esposta al rischio di decadere in moralismo.

Il procedimento metodologico e pratico che consiste nel cercare la causa della malattia nei disordini funzionali

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e strutturali dell’organismo non è irrilevante. Tuttavia è solo una parte di quell’approccio totale e integrato che permette di cogliere il ‘soggetto malato’.

4. L’intelligenza del senso

Oggi la considerazione del soggetto, in quanto artefice strutturante della malattia, è molto più complessa che al tempo di Pitagora. Province sempre più vaste sono state acquisite alla conoscenza antropologica. La chiave per penetrare nella comprensione dell’uomo malato è passata dal mito alle scienze umane. A titolo di esempio: non possiamo più prescindere dalla scoperta della motivazione inconscia fatta dalla psicoanalisi: l’inconscio è un continente sommerso enormemente più ampio, complesso e influenzante il comportamento di quanto non lo sia quella esigua regione che emerge alla coscienza e che possiamo raccogliere nel ristretto abbraccio dell’‘Io’. Anche quella vastissima zona del ‘Non-Io’, che Freud chiama ‘Es’, in cui però la persona affonda le radici, influisce sulla salute e sulla malattia, sulla guarigione e probabilmente sulla morte. E le ‘dissolutezze’ dell’inconscio sono molto più temibili di quelle della psiche conscia. La psicoanalisi lo ha dimostrato per quel ristrettissimo settore di malattie che chiamiamo, più o meno appropriatamente, psichiche (nevrosi e psicosi). Ma c’è motivo di credere che tutte le malattie, anche quelle etichettate come organiche, siano soggette alla stessa influenza della nostra psiche, conscia e inconscia.

Le ‘dissolutezze’ che ci fanno ammalare perdono, se analizzate con le categorie delle scienze dell’uomo, ogni connotazione moralistica, per diventare ai nostri occhi quello che sono: una articolazione dell’umano. La sociologia, ad es., ci aiuta a capire quanto l’essere malato dipenda da un’organizzazione della vita sociale, che è di per se stessa patogena. L’antropologia culturale può a sua volta istruirci sull’incidenza che sul sorgere di determinate patologie hanno i comporta menti condivisi nell’ambito di una data cultura. Pensiamo ― per fare un esempio ― a quanto incida sulle depressioni la soppressione del lutto nella nostra società, la quale ha eliminato le risposte socialmente organizzate alla morte dall’universo simbolico e dalla pratica sociale.

L’etica stessa può cambiare il nostro rapporto con la malattia, purché si prefigga il compito non di incrementare gli oscuri sensi di colpa, sempre connessi con gli eventi morbosi, bensì di far crescere la libertà essenziale dell’uomo, che assume dialetticamente anche le necessità della natura nella strutturazione del proprio destino. Ciò vuol dire che possiamo fare qualcosa di meglio con la nostra malattia che eliminarla come un sintomo insensato, caduto come un meteorite pel nostro universo personale, ma fondamentalmente estraneo ad esso.

L’azione efficace per combattere il sintomo rimane fuori discussione: nessuna collusione con un dolorismo di natura psicopatologica può essere contrabbandato in nome di un amore cristiano per la sofferenza. Ma solo l’azione che sappia combinare il capire con l’eliminare risponde alle esigenze antropologiche ed etiche di un atteggiamento umano verso la malattia. Assumendo pienamente lo statuto di un messaggio da decifrare, questa diventa allora per il malato il punto di partenza di un cambiamento.

Una medicina umanizzata si costruisce solo sull’assunto-base opposto a quello corrente, il quale implicitamente presume che la malattia abbia un carattere di ‘in-sensatezza’. Le aspettative istituzionalizzate — vale a dire ciò che la società attualmente si aspetta dal malato e a cui questi deve uniformarsi, se non vuole che il suo comportamento sia etichettato come anomalo — mirano esclusivamente all’abolizione del sintomo, non all’interrogazione appassionata di esso, affinché lasci nelle mani del malato qualche faccia del messaggio esistenziale che ha per lui.

La conquista del senso della malattia partecipa del carattere notturno e misterioso della lotta di Giacobbe con l’angelo (cf Gn 32,23-33). La benedizione

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che rimane nelle mani del lottatore può avere un carattere doloroso, che lo costringerà a zoppicare tutta la vita; ma solo attraverso un confronto di questo genere la malattia può rivelare il suo volto benefico nascosto.

Nel quadro dell’antropologia teologico-biblica, ove la guarigione è iscritta dentro l’opera divina della salvezza, l’emergere del senso della malattia ci appare come un momento costitutivo del processo della ‘soterìa’ (una realtà più vasta della guarigione in senso clinico, in quanto partecipa del carattere trascendente della salvezza). L’acquisizione di senso fa sì che dalla passività distruttiva della malattia e della morte scaturisca una possibilità di crescita spirituale.

Il senso non può essere donato a nessuno: va trovato all'interno dell’esperienza vissuta, grazie a un vero e proprio ‘lavoro semantico’. La creazione del senso della propria malattia è come una porta che si apre solo dal di dentro: nulla vale forzarla. Ma la ricerca può essere facilitata o impedita. Il senso ultimo della terapia ― operata dal medico congiuntamente a numerosi altri operatori della salute: psicologi, assistenti sociali, pastori, membri di associazioni di ↗ volontariato ― consiste nel rendere possibile la ‘guarigione’ in questo senso antropologico pregnante.

III ― MORTE E AUTOREALIZZAZIONE

1. La malattia inguaribile come sfida alla medicina

La pratica della medicina moderna ha provocato delle modifiche strutturali nel processo del morire e nella concezione antropologica della morte, obbligando l’etica a ridisegnare le frontiere dell’umano nella fase terminale della vita. Determinante per la trasformazione del morire è stata l’estensione dell’intervento medico anche a quell’aspetto della malattia che sfocia non sulla guarigione, ma sulla morte. Già nell’antichità si era registrato un distacco dalla concezione della medicina classica, che riservava l’opera del medico solo al malato che poteva guarire. Nell’etica platonica, infatti, la medicina era subordinata al bene della polis; di conseguenza, se il me dico avesse sottratto alla comunità delle risorse per canalizzarle alla cura di chi, in quanto destinato a una morte certa, non sarebbe mai stato in grado di restituire dei benefici alla comunità stessa, avrebbe infranto un suo preciso dovere professionale (cfr Convito 186 b-c). Anche Aristotele impartisce al medico il consiglio di abbandonare il malato affetto da una malattia inguaribile (cf Ethica a Nicomaco 1165 b 23-25).

Per il medico ippocratico ― ma possiamo dire che ciò vale per il medico dell’antichità classica tout court ― il principio sovrano cui doveva ispirarsi la sua azione era quello del la ‘necessità della natura’ (anankè physeos), con l’obbligo di astenersi in caso di malattie ritenute incurabili ‘per necessità’. L’astensione terapeutica in tali malattie non aveva solo un carattere etico, ma addirittura religioso: procedendo in questo modo, il medico rispettava con riverenza un decreto inappellabile della physis, alla quale veniva attribuito un carattere divino; accettando di porre dei limiti alla propria arte, evitava di commettere la trasgressione tipica del peccato di hybris. Questo orientamento conferisce una connotazione particolare alla philanthropia, che pur costituiva un ideale etico del medico greco. L’amore all’uomo era subordinato all’amore della ‘natura’ (‘physiophilia’); il medico era ‘amico dell’uomo’ in quanto era devoto della physis.

Il cristianesimo in particolare ha contribuito a scuotere questa costruzione. L’universalismo della salvezza ― che propriamente è un assunto teologico — ha trasformato anche la prassi sanitaria. I Padri sottolineano con compiacenza che i discepoli di Cristo non solo rifiutano di fare discriminazioni, ma offrono preferibilmente le loro cure proprio a coloro che sono abbandonati dalla medicina ufficiale. La cura degli inguaribili e l’attenzione agli emarginati è diventata ben presto un segno caratteristico della medicina messianica e della carità cristiana [ ↗ Medico].

La stessa tradizione giudaico-cristiana ha anche trasformato il rapporto

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con la natura. Al cristianesimo è stata attribuita un’azione di de-mitizzazione e dissacrazione della natura. Max Weber ha parlato per primo della liberazione della natura dai suoi accenti sacrali ad opera della religione biblica come di un ‘disincanto’. Tale disincanto, inteso non come disillusione ma come approccio della natura con intento operativo, avrebbe fornito la condizione preliminare assoluta per lo sviluppo della mentalità scientifica e tecnica. In epoca moderna gli uomini, pienamente svincolati dal mysterium fascinosum et tremendum che emanava ancora dalla ‘physis’ della medicina ippocratica, si sentiranno, secondo la formula di Cartesio, «maîtres et possesseurs de la nature».

Le conseguenze in ambito sanitario di questo atteggiamento si sono rivelate con il tempo. La medicina è andata sempre più configurandosi come un’impresa professionale rivolta a sconfiggere la natura, nel suo fluire verso la morte. Dare scacco alla morte, conquistando sempre nuovi ambiti ,di intervento, non è percepito come un peccato di hybris, ma come il supremo vanto della nostra medicina: una grandezza che è allo stesso tempo efficientistica e dell’ordine dei valori, e quindi etica. Occuparsi del malato che la ‘natura’ destina alla morte non è più; funzione della carità cristiana, ma compito istituzionale della medicina. Questa si allea volentieri con il desiderio soggettivo di immortalità, presentandosi come lo strumento desti nato a far recedere l’incombere della morte.

Tuttavia questa evoluzione della pratica terapeutica presenta anche un lato oscuro e sfocia in problemi di difficile soluzione. Il prolungamento della vita ha creato i problemi connessi con l’invecchiamento della popolazione, con i costi crescenti della cura dei malati cronici e anziani e con l’impossibilità di curare tutti nella misura del desiderio soggettivo. In particolare, la gestione medica del morire conduce all’estremo quella distorsione antropologica che abbiamo già visto presente nelle altre forme quotidiane della pratica terapeutica: l’eliminazione del soggetto; L’istituzione medica si frappone tra il malato e la sua morte, presupponendo una delega implicita a una gestione del processo della fase finale della vita che punti sul prolungamento di questa ad ogni costo e risparmi al malato il confronto cosciente con la propria fine.

L’assunzione tacita nella pratica corrente della sanità è che il malato chieda alla medicina di impiegare tutti i ricorsi terapeutici atti a scongiurare la morte. Si attribuisce, in altri termini, al malato che non guarisce la volontà assoluta di combattere per la vita; e questa volontà istintiva di sopravvivenza riceve una connotazione positiva anche dal punto di vista etico. Qualora si manifestasse invece una deliberata volontà di morte ― quale si; esprime nel modo più esplicito nella, richiesta di eutanasia ― il desiderio del soggetto riceve o una qualifica morale (peccato di disperazione) o una etichettatura psichiatrica (depressione).

2. Il discernimento della volontà di morire

Lasciando ad altra ‘voce’ la trattazione tematica dell’ ↗ eutanasia, evidenziamo qui la dimensione antropologica del problema con nesso con la volontà di morire. Consideriamo anzitutto ‘più umana’ una medicina che permetta che il desiderio di morte possa affiorare ed esprimersi, rispetto a una organizzazione sanitaria che rimuova talmente la dimensione soggettiva del malato che la sua ambivalenza nei confronti della vita non sia neppure sospettata.

Se il malato è accettato come persona, bisognerà confrontarsi con un possibile desiderio di morte. Il confronto non significa accettazione passiva e ratifica compiacente. Il compito umanitario primario di chi assiste un malato inguaribile che esprima un desiderio di morte è di sottoporre tale desiderio a un’opera di discernimento. Non sempre, infatti, la volontà in tende veramente ciò che le parole esprimono. Sollecitare la morte può significare un rimprovero rivolto dal malato a familiari e sanitari, dai quali si sente abbandonato, o un disperato richiamo ad aspetti della propria situazione —

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― come dolore fisico persi stente o senso di inutilità — che vengono disattesi. In questi casi, quando la richiesta implicita nella domanda di morte viene soddisfatta (per es. il ma lato riceve la terapia del dolore adeguata o l’attenzione che richiede), il morente recede dal suo desiderio di affrettare la morte. Il desiderio di morte può quindi essere la copertura di un giudizio sulla propria vita, ritenuta come invivibile. Si può allora tradurlo interamente in un appello, affinché la propria esistenza ritrovi la qualità umana.

Non è escluso, tuttavia, che quest’opera di discernimento della volontà di morire faccia emergere anche un desiderio di morte che non si lascia ricondurre né a una protesta, né a un appello mascherato. Un secondo processo di discernimento sarà, a questo punto, necessario. Si tratta di stabili re una distinzione tra una volontà sana e una patologica di morte.

Non tutti ammettono l’esistenza di una volontà sana di morire come categoria antropologica. Per lungo tempo qualsiasi progetto esistenziale che prevedesse la ricerca della fine della propria vita è stato etichettato come moralmente perverso. I comportamenti sociali nei confronti dei ↗ suicidi, comprendenti perfino il rifiuto delle esequie religiose, avevano una funzione prevalente di deterrente, affinché non si innescasse il fenomeno dell’imitazione; la valutazione mora le era, in ogni caso, di condanna. A questo atteggiamento ha fatto sèguito l’epoca dell’indulgenza, ma solo perché al gesto di chi si toglie la vita è stato attribuito un carattere patologico. La conoscenza delle radici socio psicologiche del comportamento suicida ha aperto la strada a un atteggiamento di maggiore comprensione; tuttavia la volontà di morire continua a non essere mai coniugata con la salute, sia morale che mentale.

L’istinto naturale per la vita e l’obbligo morale di preservarla sono indubbiamente il punto di partenza dell’etica della vita fisica. Ma la volontà di morire non può essere esclusa in assoluto dal progetto di vita umana. Essa può esprimere la positiva accettazione della propria umanità, come essenzialmente limitata nel tempo. Dal punto di vista teologico, possiamo ricorrere alla categoria della creaturalità, come orizzonte che iscrive l’esistenza individuale entro una nascita e una morte. La fantasia dell’immortalità è legata all’io; talvolta ne esprime l’ipertrofia: allora è piuttosto la fantasia di immortalità, non la volontà di morire, ad avere carattere patologico. Quando l’individuo lascia che si sviluppi anche la dimensione trans-personale che trascende l’orizzonte dell’io, l'abbarbicamento esasperato alla vita corporea viene superato. A un certo livello di autorealizzazione, alla persona si apre a un’aspirazione mistico-unitiva con il Tutto, anche al di fuori dell’esperienza formalmente religiosa.

La volontà di morire può avere anche un risvolto di ribellione all’idolatria della vita, caratteristica della cultura immanentista nella quale siamo immersi. Quando la vita fisica è considerata il bene sommo e assoluto, al di sopra della libertà e della dignità, l’amore naturale per la vita si tramuta appunto in idolatria. La medicina implicitamente promuove tale culto idolatrico, organizzando la fase terminale della malattia come una lotta a oltranza contro la morte. Ribellarsi a tale organizzazione ― che per lo più espropria il malato da ogni autonomia, sottoponendolo ai rituali chirurgici e rianimatori che si svolgono all’insegna dell’ostinazione terapeutica ― può essere anche un gesto di ‘disobbedienza’ mentalmente e moralmente sano. È un atteggiamento che ci si può aspettare soprattutto dal credente, che la fede ha reso libero dai miti (l’immortalità) e dagli idoli (la vita corporea come valore supremo, cui sacrificare ogni altra cosa). La speranza della vita eterna può mitigare l’angoscia naturale connessa con il transito, fino a prevalere completamente su di essa.

3. Significato della medicina palliativa

L’evoluzione della pratica sanitaria, cambiando il vissuto e l’immaginario della morte, ha aperto nuovi

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percorsi antropologici all’etica e alla spiritualità. L’azione, sia terapeutica che umanitaria, che si rivolge al morente è obbligata a tenerne conto.

Le trasformazioni che il morire ha subito nella nostra cultura forniscono stimoli e provocazioni per far emergere dal patrimonio sapienziale cristiano stimoli nuovi e creativi, per rispondere ai bisogni. Questo processo di ampliamento degli orizzonti corrisponde esattamente agli obiettivi che il Vat. II attribuisce alla teologia morale, in quanto destinata a «illustrare l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di portare frutto nella carità per la vita del mondo» (ot 16).

I problemi etici non si concentrano solo sul momento della morte, ma su tutto il periodo che la precede. Se questo non acquista il senso di ‘vita da .vivere’ fino all’ultimo istante, conservando in tutte le fasi una qualità umana, l’etica si rivela impotente a frenare la spinta verso soluzioni di tipo eutanasico. Anzi, senza un progresso significativo nella gestione della vita terminale, l’eutanasia rischia di apparire a molti come la sola soluzione umana a una situazione intollerabile.

La percezione della nuova fisionomia che ha la morte nella nostra cultura induce l’etica a farsi vettore trainante per le trasformazioni che riguardano la medicina. Questa è chiamata a riscoprire una funzione che ha svolto nel passato, quando le sue capacità terapeutiche erano molto ridotte: la funzione di alleviare i sintomi e accompagnare verso la morte il malato che non può guarire. Per designare questo aspetto dell’azione sanitaria si parla oggi di ‘medicina palliativa’. Non si tratta di una medicina parallela rispetto a quella curativa: è l’unica e identica medicina, in quanto commisura le cure che dispensa alla situazione clinica e umana di un malato che sta andando inevitabilmente verso la fine della vita. La medicina per «chi muore sposta l’accento dal curare al prendersi cura, dall’aggredire la malattia al rendere umanamente accettabile,l’ultimo segmento della vita.

Tra i compiti specifici dell’etica emerge prioritariamente il discernimento sapienziale della volontà di morire. La saggezza consiste nel trovare il giusto punto di flessione, che corrisponda alla dinamica intrinseca al flusso stesso della vita. Ciò dovrà avvenire né troppo presto, né troppo tardi. Quando la volontà di vivere fosse debilitata da cause contingenti rimovibili, il fratello in pericolo va sostenuto, come s’è detto. Ma quando, al contrario, il naturale movimento verso la morte, che può diventare anche un’esplicita ‘volontà di morire’ ― almeno nel senso dell’accettazione dell’inevitabilità della propria fine ― fosse ostacolato artificialmente dall’impiego sproporzionato di mezzi terapeutici, il fratello morente va aiutato ad appropriarsi del suo destino, fino a vedere in esso una chiamata personale da parte del Signore della vita. In questo compito chi assiste i morenti può rischiare di scontrarsi con l’organizzazione medico-ospedaliera del morire, centrata sulla negazione della morte e sul prolungamento forzato della vita biologica.

L’‘ethos’ dell’uomo contemporaneo nei confronti della morte è costruito intorno a due punti: il controlli di essa e la soppressione del dolore, compreso il dolore morale di rendersi conto di star morendo. Questa antropologia ha eliminato due dimensioni molto valorizzate in passato in ambito cristiano: la morte come ‘pathos’ (una passività di valore positivo, come occasione della crescita umana suprema); il dolore come prova, che acquista significato attraverso la simbolizzazione (croce) e l’etica (accettazione). Gli eccessi di queste posizioni, identificabili nel provvidenzialismo e nel dolorismo, andavano corretti, senza tuttavia evacuare i valori sottesi. Riproporre tali valori appare come il compito profetico dell’etica cristiana del morire adatta al nostro tempo.

[↗ Eutanasia; ↗ Medico; ↗ Suicidio; ↗ Unzione degli infermi]

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