Come ti senti?

Sandro Spinsanti

COME TI SENTI?

in Rocca

anno 57, n. 16-17, 15 agosto - 1 settembre 1998, pp. 44-49

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Medicina tecnologica e medicina dei sensi

Un bambino di dieci anni contrae il tifo e finisce nel reparto malattie infettive di un ospedale. L’ambiente è quello dell’Irlanda povera e degradata ― appena sopra il limite della sopravvivenza degli anni ‘30. La sua è un'infanzia infelice («ma un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia infelice qualunque, e un’infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora», è il suo pungente commento...).

L’unico conforto in ospedale sono dei colloqui, attraverso la parete, con una bambina nella stanza accanto, colpita dalla difterite.

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Patricia insegna al suo amichetto, giorno dopo giorno, i versi di una ballata che parla di un bandito e delle labbra vermiglie della figlia del locandiere, dell’amore del bandito e della caccia che gli stanno dando i soldati. Il bambino deve imparare a memoria la poesia per recitargliela, sempre attraverso il muro, al mattino presto o la sera tardi, quando non circolano né suore né infermiere.

Quando Patricia sta per leggere le ultime strofe, una infermiera li sorprende: «Ve l’avevo detto che tra due stanze è proibito parlare. La difterite non può parlare con il tifo e viceversa. V’avevo avvertito». Scatta la punizione: il ragazzino è trasferito in un altro piano, in un enorme stanzone, da solo. Da un inserviente analfabeta ― ma molto comprensivo; disapprova la sanzione inflitta per la poesia recitata da una stanza all’altra: «L’unico malanno che ci si può prendere da una poesia nel caso è il mal d’amore e l’eventualità è abbastanza lontana quando uno c’ha dieci anni e va per gli undici»... ― il ragazzo viene a sapere che Patricia è morta. E lui non può sapere la fine della ballata. L'inserviente si offre allora a chiedere, nel proprio pub, se qualcuno conosce la poesia. L’impara a memoria, perché non sa scrivere, e la recita al piccolo malato. «Se vuoi sentire qualche altra poesia, Frankie, basta che me lo dici, io le raccolgo al pub e poi te le ripeto a memoria» (Frank Me Court, «Le ceneri di Angela», Adelphi, 1997, p. 205).

L’esilio della poesia

Questa immagine della poesia che circola, da clandestina, sospetta e perseguitata, tra le stanze di un ospedale, pensato in termini di isolamento e come ambiente sterile, ci induce a domandarci quale sia il posto che la medicina contemporanea riserva a quella comunicazione autenticamente umana che passa attraverso i sensi e che ha, appunto, la sua più alta espressione nelle realizzazioni estetiche. Il collegamento ha una solida giustificazione etimologica. L’«estetica», quale cura e sviluppo della sensibilità nelle sue potenzialità più alte, ha una parentela non rinnegabile con la percezione (aisthesis, in greco), che passa attraverso i sensi. Solo il suo contrario (la mancanza di sensibilità o «anestesia») ha conservato una vicinanza più sensibile con l’etimologia; la percezione della «struttura che connette» resta, tuttavia, essenziale sia nella cura del corpo che in quella dello spirito. Insensibilità e sterilità sono affini; e la sterilità in chiave igienica ci appare come una minaccia incombente, in procinto di tramutarsi in sterilità spirituale. Ciò vale non solo per le strutture dove ha luogo la cura, ma per tutto l’arsenale terapeutico in quanto tale. L’esilio della poesia descritto da Me Court richiama, per associazione, un’affermazione che fonti giornalistiche attribuivano di recente al prof. Daniel Weinberg, direttore della divisione clinica per i disordini mentali dell’istituto nazionale per la salute mentale di Bethesda (Washington). Illustrando i risultati scientifici della ricerca più recente sulle malattie mentali, Weinberg affermava: «Per ora della schizofrenia conosciamo veramente solo le cause genetiche, biologiche. E gli effetti positivi dei farmaci

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sui sintomi. Tutto il resto è poesia». Riflettere sui sensi in medicina implica, implicitamente, una considerazione parallela sulla poesia, svalutata, ironizzata, esiliata dallo scenario clinico perché considerata ospite indesiderata nella casa della scienza.

Rivalutazione dei sensi

L’attenzione ai sensi, come luogo privilegiato per riflettere sul corpo umano, si è fatta più acuta ai nostri giorni. Se prendiamo come indice le mostre ― che, quando hanno successo, si traducono in eventi che mobilitano intere folle ― due grandi mostre dedicate ai sensi hanno avuto luogo di recente: una di pittura («Immagini del sentire. I cinque sensi nell’arte», organizzata prima a Cremona e trasportata poi, con lo stesso titolo, al museo del Prado a Madrid), che ha raccolto quanto i grandi classici della pittura europea ― Caravaggio, Brueghel, Rubens, Carracci, Gentileschi, Murillo, Ribera, Tiziano ― hanno prodotto intorno all’unità tematica dei cinque sensi, e una mostra a carattere più scientifico-divulgativo, attualmente in corso a Parigi, al Palais de la Découverte: «Théâtres des Sens» (sezioni propedeutiche e «teatrini» dei sensi sono finalizzati a rendere i visitatori consapevoli delle particolari capacità sensoriali dell’uomo, riferite a quelle animali).

La riflessione sui sensi e sul loro significato per la qualità umana dell’esistenza non è certo un’esclusività del nostro tempo. L’intuizione che la sensazione sia la chiave dell’accesso dell’uomo all’universo sta alla base di diversi progetti filosofici. Non è un’esagerazione affermare che il pensiero occidentale è saldamente radicato nella riflessione sui sensi impostata da Aristotele. Nella sua filosofia sono state poste tutte le questioni cruciali relative al tema: definizione delle cinque diverse modalità di percepire le qualità della realtà esterna, organi incaricati, gerarchia dei sensi. Un’altra grande stagione filosofica è stata il «sensismo», nella Francia a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento: da Condillac agli «idéologues», passando per Diderot ― del quale merita ancora leggere la «Lettera sui ciechi a uso di quelli che vedono» (1749) e la «Lettera sui sordomuti a uso di quelli che sentono e parlano» (1751) — è stata elaborata una rigorosa gnoseologia basata sulla sensibilità. Anche a ridosso delle attuali conoscenze scientifiche maturate dalle neuroscienze ha luogo una riflessione filosofica di tutto rispetto (cfr. Alberto Oliverio: «I sensi umani nella prospettiva delle neuroscienze», in «L’Arco di Giano», n. 11, 1996).

Ciò che caratterizza l’attuale stagione di riflessione sui sensi è una impressione generale di urgenza e di minaccia. Sullo sfondo emerge la realtà «virtuale», che incombe come una espropriazione della realtà «reale». Nostro amico-nemico appare anche il computer, con le sue impressionanti prestazioni che umiliano le nostre capacità di memoria e di elaborazione intellettuale. È forse un moto di orgoglio che ci induce a riscoprire quanto ci è più proprio, cioè la corporeità e la sensibilità. Chinarci sui nostri sensi è la via regia per affrontare le questioni centrali del nostro tempo: quella della conoscenza (che cosa e come conosciamo?) e la questione del nostro rapporto con la tecnologia (come impedire che da strumento si trasformi in un fine?).

Rimpianto della medicina del passato

I sensi si collocano anche al centro delle domande che continuiamo a porci sulla pratica attuale della medicina. La riflessione sui sensi in medicina ha molte probabilità di presentarsi sotto il segno della nostalgia. C’è un diffuso rimpianto per una medicina del passato che ― almeno nella trasfigurazione che ne fa la memoria ― appare

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ricca di rapporti intensi. Una medicina sensibile, perché fatta con i sensi.

Una evocazione letteraria del tipo di medicina che è nei rimpianti di molti è fornita da un ritratto di medico tracciato da Claudio Magris, in una piega recondita dei suoi «Microcosmi»:

«Ongaro fa il medico; la sua pacatezza rassicurante e la sua mite e ferma precisione danno subito un senso di sollievo ai pazienti che vanno da lui con le loro ansie, i fantasmi deirinsonnia e del panico, le ossessioni coatte, il vuoto di una vita che sembra risucchiata nel buio. Lui ascolta, disponibile, senza fretta; qualcosa, nel suo viso e nel suo tratto, ricorda la linda dirittura e la malinconica bontà di Freud, corrette da una sorniona ironia. Si addentra nelle spirali dell’angoscia con la paziente leggerezza di un gatto; saggia il terreno con domande discrete, suggerisce un farmaco senza promettere miracoli, ma la zampa felina non si lascia scappare la serpe dell’ansia, l’afferra senza parere e la tira fuori, e spesso, dopo qualche tempo, le persone braccate dai demoni ritornano capaci di vivere» (Claudio Magris, «Microcosmi», Garzanti, 1996, p. 51).

Gli invasori

La trasformazione della pratica medica non riguarda solo le nostre latitudini, ma è un fenomeno generale che coinvolge tutta la medicina occidentale. Parallelamente alla sua crescita in dimensione, capacità e capitali investiti nell’impresa terapeutica, è andato emergendo un progressivo estraneamento dei medici dai pazienti. La figura dell’«estraneo al capezzale» è stata efficacemente evocata dallo storico. David Rothman per descrivere la nascita della bioetica, accompagnata dalla presenza invadente della legge. Ma la descrizione non è completa, se non si parte dalla consapevolezza che l’ingresso di estranei nello scenario della decisione clinica è stato preceduto dal progressivo estraneamento dei medici stessi rispetto ai pazienti. «Il medico è diventato un estraneo... Il livello della fiducia è diminuito... La tecnologia porta i medici a mettere le loro mani sulle tastiere, piuttosto che sui pazienti»: sono alcuni dei flash con cui Rothman descrive il cambiamento dei rapporti ― tra medici e pazienti, nonché tra medicina e società ― ai quali il movimento delle medical humanities prima e la bioetica poi hanno inteso porre rimedio (David Rothman, «Strangers at the bedside», Basic Books, New York, 1991, p. 257). Gli outsider alla medicina sono venuti a definire le questioni sociali ed etiche che la professione deve affrontare e a definire le norme che la devono governare,

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dopo che l’attenzione medica è stata assorbita in misura crescente prima dalla tecnologia e poi dai problemi manageriali. Da ultimo sono venuti gli economisti, a ricordarci che le risorse sono limitate e che dobbiamo fare una medicina compatibile con il denaro che decidiamo di spendere per la sanità.

L’evoluzione della bioetica ― almeno per quanto riguarda l’America ― non ha posto rimedio ai mali, ma ha scavato un più profondo fossato tra curanti e curati. La medicina è diventata in misura prevalente un rapporto tra estranei. Il modello della bioetica dei principi, con la promozione dell’autonomia decisionale del paziente a principale valore da promuovere, è stata teorizzata come «lingua franca» per permettere un’intesa nella babele dei linguaggi morali e come «isola per stranieri morali» (questa, in particolare, la visione della bioetica promossa da Tristam Engelhardt, noto anche in Italia per il suo «Manuale di bioetica», Il Saggiatore, Milano, 1991, dove propone una forma radicale di contrattualismo). Numerosi studiosi hanno denunciato questa deriva della bioetica come una minaccia alla qualità del rapporto necessario per una buona relazione terapeutica.

Curare e prendersi cura

Una verifica indiretta della domanda di vicinanza, quale struttura portante di una medicina di buona qualità, così come è percepita dalla popolazione, viene dal bilancio documentato che John Lantos ha fatto dei tentativi di riforma del sistema sanitario americano, avviato ― e non concluso ― dall’amministrazione Clinton. A suo avviso, i cittadini «scelgono il medico basandosi

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sulla sensazione che il medico è disposto a prendersi cura di loro nel modo in cui essi desiderano. La scelta verte sulla lealtà, la fedeltà e la fiducia. Il vero messaggio che viene quindi dal popolo americano ― un messaggio ampiamente disatteso da Clinton e dalla maggior parte dei responsabili delle organizzazioni che forniscono assistenza sanitaria ― è che alla gente sta a cuore la guarigione che dipende dal rapporto con il proprio medico molto più di quanto si preoccupi della tecnologia, delle innovazioni mediche e delle teorie sulla giustizia (...). Ci preoccupiamo più della fiducia che dei trapianti, più del prendersi cura che della clonazione» (John Lantos, «Riformare la società americana: le lezioni di un’esperienza», in «L’Arco di Giano», n. 15, 1997).

È diventato un luogo comune contrapporre la medicina altamente tecnologica (high teck) a quella con contenuti umani molto caldi e coinvolgenti (high touch). Il tema è presente, da più di un decennio, soprattutto nelle pubblicazioni infermieristiche. L’analisi prende per lo più le mosse dalla transizione in atto dalla società industriale a quella dominata dall’informazione. La risposta alle nuove tecnologie, con il loro pericolo intrinseco di freddo distacco, è individuata in una vicinanza compensatoria. La funzione di «contatto» è affidata per lo più alla professione infermieristica, con il risultato globale di una maggiore concentrazione del medico sulla funzione tecnica. La pratica medica, tutta rivolta all’efficacia della prestazione, si sente autorizzata in tal modo a essere sempre più fredda, in quanto la calda presenza dell’infermiere compensa le sue carenze. Tra curare e prendersi cura si instaura una dicotomia, che giunge a immaginare un curare (come impresa eroica, hard) dispensato dal prendersi cura (attività lasciata a professioni più soft, dedite alla dimensione relazionale).

Tecnologia amica

Non mancano, tuttavia, felici esempi di un rapporto diverso con la tecnologia. Piuttosto che vedere in essa l’avversario designato di una medicina umanistica, si può immaginare un uso aggressivamente disinvolto della tecnologia stessa, con i risultati molto soddisfacenti per la qualità della cura e con alto gradimento da parte dei malati. Quale esempio emblematico, vorrei citare l’esperienza di assistenza domiciliare, realizzata all’interno di un programma rivolto a malati di cancro in fase terminale, con l’uso di reti informatiche. In un centro di ascolto computerizzato convergono importanti informazioni relative ai sintomi e problemi clinici dei pazienti, 24 ore su 24, inviate da casa del paziente attraverso un apposito trasmettitore, consentendo così un monitoraggio continuo della situazione del malato, una programmazione tempestiva e mirata delle visite domiciliari, nonché un «senso di presenza» continuo presso il paziente. Si dimostrano così infondati i dubbi di chi vede le reti tecnologiche nei servizi di assistenza sul territorio come sostitutive dell’elemento umano. La moderna tecnologia può offrire sicurezza e indipendenza, e permettere una maggiore socializzazione delle persone sole. Può essere abbinata al lavoro di gruppi sociali che offrono servizi ― come pasti e compagnia ― e assistenza sanitaria. «In futuro la nostra principale motivazione non dovrebbe mirare solo a risparmiare denaro, ma a offrire alternative migliori a chi ha bisogno di aiuto. In teoria nessuno dovrebbe vivere la propria malattia da solo, ma sicuramente nessuno dovrebbe morire da solo» (Creton G. et al., «Un’esperienza di ospedale virtuale: Assistenza domiciliare e reti informatiche», in «Quaderni di cure palliative», 5, 1997, pp. 181-184).

La divaricazione tra curare e prendersi cura è considerata come inevitabile in certe condizioni particolari, come la rianimazione. Gli sforzi eroici per strappare alla morte gli organismi minacciati spesso vengono esercitati senza «tatto» (nella duplice accezione del contatto che passa per i sensi e della sensibilità per i sentimenti dei familiari, nonché per le possibili percezioni del paziente in rianimazione). Di recente le norme che prevedono l’isolamento dei pazienti sottoposti a pratiche rianimative hanno cominciato a essere rimesse in discussione. In alcuni ospedali a familiari e amici è offerta la possibilità di partecipare allo sforzo rianimativo, ampliando così il concetto stesso di rianimazione: non si tratta solo di salvare una vita umana, ma anche di prendersi cura dei familiari. All’inizio, come alla fine della vita, e nelle tante situazioni di fragilità che si addensano sulla malattia, tecnologia e coinvolgimento umano non sono nemici designati, ma alleati possibili.